Archivio del Tag ‘antimafia’
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Franceschetti: ecco perché tollerano la controinformazione
Nel libro-confessione “Mara, Renato e io”, Alberto Franceschini (fondatore delle Brigate Rosse insieme a Curcio) rivela un episodio illuminante: pedinò per giorni nientemeno che Giulio Andreotti, studiandone le abitudini, per valutare se e come eventualmente rapire l’uomo-simbolo del potere italiano. Quando poi le Br sequestrarono davvero un big della Dc, Aldo Moro (assai più conciliante, verso i lavoratori oppressi e tutelati dalla sinistra, anche estrema), Franceschini e Curcio erano già fuori causa, rinchiusi al supercarcere dell’Asinara. E per giunta, terrorizzati dalle possibili conseguenze di quell’atto, di cui erano all’oscuro, attribuito alla nuova gestione brigatista di Mario Moretti. Pedine di un gioco più grande? Fu questo il pensiero di Franceschini, mentre seguiva a pochi passi il potentissimo Andreotti, senza che nessuno si premurasse di intercettarlo, e controllare che non avesse in tasca una pistola. Fuor di metafora, quarant’anni dopo e da tutt’altro punto di vista, l’avvocato Paolo Franceschetti si sofferma, anche lui, nel punto esatto in cui si bloccò il brigatista Franceschini: possibile che a chi racconta verità scomode non succeda niente di sgradevole? Chiudere un blog fastidioso richiederebbe pochi minuti: perché invece si lascia che il blog continui a rivelare molte verità che giornali e televisioni trascurano?
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Pino Aprile: truccati gli archivi, nascosto il genocidio del Sud
Come nasce la storiografia italiana? Nasce con un atto del 1830 da un piccolo, ristrettissimo gruppetto – parliamo di 2-3 famiglie: nessuno di loro aveva mai scritto o insegnato storia. Persone di buona cultura, normalmente di ambiente cattolico molto tradizionalista, alla De Maistre; individui nobili, possidenti terrieri, di strettissima osservanza sabauda. Le regole sono: vanno distrutti tutti i documenti che gettano ombre sulla dinastia. Quelli che non vengono distrutti devono essere classificati e collocati in un archivio segreto, inviolabile. Un’altra parte deve finire in archivi controllati da loro. Quella mostrata dev’essere una piccola parte. Saranno gli archivisti a scegliere a chi far vedere i documenti, controllando (in corso d’opera) come li usano. E chi poi scriverà di quei documenti dovrà prima sottoporre ai controllori l’elaborato, in modo che si decida se potrà essere pubblicato oppure no. Tutto questo è documentato dall’Istituto Studi Storici del Risorgimento (la massima autorità, il professor Umberto Levra, già docente all’università di Torino e presidente dell’associazione dei docenti di storia risorgimentale). Viene documentato come il Re in persona, per “aggiustare” la storia, strappasse documenti e lettere dei suoi familiari.
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Niccolai, il fascista “eretico” che fece votare le idee del Pci
«Ricordo una sera a Pisa, in una scalcagnata 500 guidata da un militante di Cecina, Altero Matteoli, divenuto poi ministro. Nel sedile posteriore, in condizioni disumane, sedevano attorcigliati Niccolai e Tatarella; benché ragazzo, mi avevano lasciato il posto davanti, come si usa per cavalleria con le donne, i disabili e gli intellettuali». Così lo scrittore, filosofo e politologo Marcello Veneziani ricorda Giuseppe Niccolai, esponente “eretico” del Msi, di cui a Pisa – sua città natale – la sinistra e l’Anpi ha appena contestato la memoria, dopo che il Comune, a trent’anni dalla sua morte, gli ha intitolato un piazzale. Chi era Niccolai? «Un politico galantuomo, un missino eretico che sognava di ricucire la ferita storica tra fascisti e comunisti e combattere insieme contro la mafia e il potere, i potentati economici e la servitù americana». “Beppe”, lo ricorda Veneziani, «fu un limpido marziano che visse nell’era ideologica integrale, il Novecento, assorbendo le sue passioni ma non i suoi livori». Quella volta a Pisa, Veneziani lo incontrò perché era in possesso di appunti inediti di Berto Ricci, altro «fascista eretico dalla mente lucida e il cuore puro», che poi furono pubblicati con la prefazione di Indro Montanelli. Sceso da quella Cinquecento, «Niccolai maneggiava i quaderni di Ricci con religiosa devozione».In principio, riassume Veneziani su “La Verità”, Niccolai fu tra i fondatori del Msi nel segno di “legge e ordine”. Poi si andò spostando verso una sinistra nazionale e “spirituale”, auspicando di ricucire la frattura del ’14 coi socialisti, spingendosi persino a quella del ’21 coi comunisti. «Non condivise però la linea di Pino Rauti di sfondare a sinistra; sognava altre sintesi». Niccolai morì il 31 ottobre dell’89, «nove giorni prima che cambiasse il mondo, col Muro crollato e la caduta del comunismo, e da noi la fine della Prima Repubblica». L’anno prossimo sarà il centenario della sua nascita. «Quando morì, Niccolai lasciò un vuoto», scrive Veneziani, «ma era lo stesso vuoto che lo circondava quando era in vita». “Beppe” dissentiva da Almirante, e spesso era all’opposizione nell’opposizione, distante pure da Rauti. «L’avevano sistemato in una teca, con l’etichetta di coscienza critica, per venerarlo e accantonarlo». Conoscendolo, «era amabile e inquieto, tutt’altro che un fascistone prepotente con le certezze granitiche, in bianco e nero». Fascista, Niccolai lo era stato davvero, «ma sulla sua pelle: volontario in Africa, e poi – per fedeltà al suo fascismo, prigioniero degli americani nel “fascist criminal camp” ad Hereford, come l’artista Alberto Burri, lo scrittore Giuseppe Berto e Roberto Mieville, futuro capo dei giovani missini della prima ora».A Pisa, continua Veneziani, Niccolai fu l’antagonista storico di Adriano Sofri, che mobilitò Lotta Continua per impedire un suo comizio il 5 maggio del ’72. «Negli scontri con la polizia morì un anarchico, Serantini, e anche per vendicare lui pochi giorni dopo fu ucciso Calabresi. Ma Niccolai difese il “nemico” Sofri quando fu accusato d’omicidio», aggiunge Veneziani. Da parlamentare, l’amico “Beppe” «fece memorabili interventi in commissione antimafia contro le collusioni politiche, soprattutto democristiane, e fu elogiato anche da Leonardo Sciascia, allora parlamentare di sinistra». Non solo: «Denunciò le stragi e le responsabilità dei servizi segreti; e riuscì a scucire la verità ai magistrati veneziani sull’aereo Argo 16 della nostra aeronautica abbattuto dagli israeliani nel novembre del ’73 a Venezia uccidendo i militari italiani a bordo, accusati di aver salvato alcuni terroristi arabi che preparavano un attentato a un aereo di linea israeliano». Un’operazione filo-araba, condotta dall’allora ministro degli esteri Aldo Moro (cinque anni più tardi “sistemato” con l’opaca operazione terroristica affidata alle Brigate Rosse).A Niccolai, Veneziani era accomunato «dal gusto ardito dell’eresia e dalla rivoluzione conservatrice, da amici comuni come Giano Accame e il pisano Gino Benvenuti». Si scoprirono entrambi «figli di presidi di liceo, cresciuti con una buona biblioteca in casa». Quando Veneziani fu silurato dall’editoria di destra per le sue simpatie verso il socialismo tricolore di Craxi, Niccolai scrisse un pezzo solidale sul suo foglio, “L’Eco della Versilia”, e ribadì la sua protesta al congresso missino di Sorrento nel 1987, «dove fu la voce stonata nel congedo di Almirante dalla guida del Msi». Non era un vecchio arnese, Niccolai: «Nell’Msi fu con l’ala modernizzatrice di Mimmo Mennitti: voleva aprire il ghetto missino, dialogare col Craxi patriota e sognava di ricucire con la sinistra». Raccontava che l’ultimo Mussolini aveva raccomandato ai suoi fedelissimi: «Se crolla il fascismo, seguite Pietro Nenni». Veneziani lo ricorda come «uno spirito critico e appassionato, pensante e romantico, magari impolitico». Nel 1988 fu espulso dal Msi: aveva fatto votare alla direzione del partito un ordine del giorno contro i potentati economici. Solo più tardi si seppe che quel documento l’aveva ripreso, pari pari, da una relazione del comitato centrale del Pci. «Niccolai raccontò al “Corriere della Sera” la beffarda verità, e Fini lo cacciò perché all’epoca aveva orrore delle contaminazioni con la sinistra». Ma il suo scopo non era goliardico, assicura Veneziani: non voleva prendere in giro il suo partito, ma dimostrare che i pregiudizi ideologici impediscono convergenze su temi condivisi. «Era un marziano allora, figuratevi ora. Ad avercene…».«Ricordo una sera a Pisa, in una scalcagnata 500 guidata da un militante di Cecina, Altero Matteoli, divenuto poi ministro. Nel sedile posteriore, in condizioni disumane, sedevano attorcigliati Niccolai e Tatarella; benché ragazzo, mi avevano lasciato il posto davanti, come si usa per cavalleria con le donne, i disabili e gli intellettuali». Così lo scrittore, filosofo e politologo Marcello Veneziani ricorda Giuseppe Niccolai, esponente “eretico” del Msi, di cui a Pisa – sua città natale – la sinistra e l’Anpi ha appena contestato la memoria, dopo che il Comune, a trent’anni dalla sua morte, gli ha intitolato un piazzale. Chi era Niccolai? «Un politico galantuomo, un missino eretico che sognava di ricucire la ferita storica tra fascisti e comunisti e combattere insieme contro la mafia e il potere, i potentati economici e la servitù americana». “Beppe”, lo ricorda Veneziani, «fu un limpido marziano che visse nell’era ideologica integrale, il Novecento, assorbendo le sue passioni ma non i suoi livori». Quella volta a Pisa, Veneziani lo incontrò perché era in possesso di appunti inediti di Berto Ricci, altro «fascista eretico dalla mente lucida e il cuore puro», che poi furono pubblicati con la prefazione di Indro Montanelli. Sceso da quella Cinquecento, «Niccolai maneggiava i quaderni di Ricci con religiosa devozione».
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Ashkenaz, il super-sapiens, ci schiavizza col debito eterno
Menti raffinatissime, le chiamava Giovanni Falcone. Nel suo caso, avevano piazzato una bomba davanti alla sua villetta sul mare, tre anni prima del fatale attentato di Capaci. Sono speciali, quelle menti – e altrettanto criminali – anche per Giovanni Angelo Cianti, che non è un giudice antimafia ma a suo modo si occupa lui pure di criminologia, per così dire, se si volesse leggere come un’epocale, sterminata stagione criminogena quella aperta dalla stessa misteriosa comparsa sulla Terra dell’homo sapiens, tuttora non spiegata (men che meno dall’evoluzionismo darwininano). L’ultima fatica letteraria di Cianti – che esordì addirittura come autore del fumetto-cult “Ken Parker”, creato nel ‘74 da Giancarlo Berardi e Ivo Milazzo – si intitola “Benvenuti all’inferno”, in questo richiamando l’ombra del manicheismo, tra risonanze gnostiche e poi catare. Una “creazione dannata”, la nostra, opera di divinità infere esiliate nel mondo della materia? Premessa pragmatica: siamo quasi 8 miliardi e stiamo devastando il pianeta, come cavallette inarrestabili. Un formicaio di insetti onnivori e famelici, e al tempo stesso docili e malleabili, senza più coscienza né memoria della propria origine. Solo colpa nostra? No, risponde Cianti: la grande attenuante è incarnata da chi lo dirige più o meno segretamente, il “formicaio”.La solita, bieca massoneria mondiale? Gli uomini invisibili del famigerato “complotto giudaico-massonico” caro ai cospirazionisti? Nemmeno, scrive Cianti, mettendo a fuoco un altro gruppo, che definisce “super-sapiens”. «Si chiamano Ashkenazi, e si sono mimetizzati tra gli ebrei, a insaputa degli ebrei stessi. Ma attenzione: gli “Ahskenazim” non sono ebrei, e nemmeno semiti. Sono i veri manipolatori dell’umanità, fin dai primordi, attraverso il denaro e il credito usuraio». Sarebbero stati loro a danneggiare in primo luogo gli ebrei, provocando la catastrofe dell’antisemitismo. Da dove spuntano? Ne parla la Bibbia, probabilmente, quando – nella Genesi – racconta la “fabbricazione” degli adamiti: strani ibridi, praticamente degli Ogm ante litteram, clonati mescolando i geni del sapiens con quelli dei Figli delle Stelle, che l’Antico Testamento chiama Elohim (come Yahvè e colleghi) mentre per i Sumeri si chiamavano Anunna o Anunnaki. Stessa schiatta di dominatori – venuti dal cielo, secondo il sumerologo Zecharia Sitchin, affascinante e controverso teorico della paleo-astronautica. La missione: trasformare la Terra, fino a quel momento popolata solo da tribù nomadi, in un immenso campo di lavoro.Per produrre cibo, energia e poi anche tecnologia occorrevano “servi” intelligenti e obbedienti, i sapiens, che ancora non c’erano. E per dirigere i sapiens ci voleva una super-razza, in grado di dominarli per conto terzi. Impressionante la consonanza con le rivelazioni che l’avvocato Paolo Rumor affida al saggio “L’altra europa”, edito da Panda, con prefazione dell’eminente politologo Giorgio Galli. La tesi: un’élite immutabile, sempre la stessa, reggerebbe il mondo da quasi 12.000 anni. Origine: Golfo Persico, poi Mesopotamia, Egitto, Mediterraneo fenicio e poi minoico e greco-romano. Pietra miliare: l’antico insediamento nella città caldea di Ur, alla foce del Tigri. E’ la stessa geografia che ripercorre Cianti, inseguendo il fantasma dei progenitori di quelli che (erroneamente, sostiene) verranno poi chiamati “ebrei askhenaziti”, diffusisi nell’Est europeo. La comparsa dell’Adàm biblico, «non ancora ebraico, verosimilmente sumero», risalirebbe a un’epoca collocabile tra il 15.000 e il 20.000 avanti Cristo. Seguono 9 discendenti quasi millenari, i patriarchi pre-diluviani, fino ad arrivare a Noè, cioè intorno all’anno 5.600.Stando alla Bibbia, Noè generò Sem, Cam e Jafet. Da Sem si arriva a Giacobbe-Israele per linea retta attraverso Ever, Terach, Abramo e Isacco: in altre parole, ecco gli ebrei (quelli veri), poi suddivisi nelle famose 12 tribù, inclusa quella israelitica di Giuda e Davide. «Quindi – conclude Cianti – solo i discendenti di Abramo possono essere considerati semiti». Gli altri, cioè la super-razza di cui si occupa “Benvenuti all’inferno”, sarebbero la discendenza di Jafet: il fratello di Sem e Cam «generò tra gli altri Gomer, capostipite dei Cimmeri», il cui figlio si chiamerà Ashkenaz, «dall’assiro Askuza»: nome col quale, secondo la Tavola nelle Nazioni, «si indicavano i popoli nomadi della regione sciita del Caucaso». Insieme ai Minniti e al Regno di Ararat, continua Cianti, i nomadi caucasici Ashkenaz si opposero ai Babilonesi, almeno secondo la Bibbia (Geremia 51-27), e in seguito diedero origine ai popoli slavi. «Gli Ashkenaziti – conclude Cianti, citando sempre l’Antico Testamento – sono dunque “jafeti”, cimmeri o sciiti – ma non semiti, quindi non ebrei».Per l’autore si tratta di un “cluster genetico” autonomo, «una popolazione nomade di origini turcomanne che si reinventa continuamente». Prima sciiti (da “sak”, nomade), poi Kazari (dal turco “qaz”: nomade, ancora). Per Cianti erano di religione tengrista, un mix di sciamanesio, animismo e totemismo diffuso nell’Asia Centrale. «Si convertirono all’ebraismo per convenienza», e molto tardi: solo fra il 740 e il 920 dopo Cristo. «Alla dissoluzione del Canato di Kazaria, conquistato dal russo Sviatoslav I, si dispersero in tutta Europa, attribuendosi l’appellativo di “ebrei erranti”», evidentemente abusivo. Nell’alto medioevo, continua Cianti, li ritroviamo nella valle del Reno e nel Nord della Francia: «Ed è da questo momento che iniziano a usare l’yiddish, lingua germanica con elementi di ebraico e aramaico». Poi si spostano verso Est: Lituania e Polonia, Moldavia, Russia. Il ritorno in Germania comincerà nel 1200 e terminerà solo nell’Ottocento. In tutti quei secoli, scrive l’autore, gli Askuza-Ashkenaz sciameranno di terra in terra perché «perseguitati per l’attività usuraia». Sono loro gli “inventori” del sistema creditizio?Il prestito a interesse, dice Cianti, compare contemporaneamente in Mesopotamia, India e Cina. «L’invenzione stessa della scrittura nasce lì, da quella nuova necessità». A Uruk (oggi Warka, Iraq) a raccontare quella storia sono 5.000 tavolette d’argilla risalenti al quarto millennio avanti Cristo: «Si iniziò allora a parlare di prestiti, tassi d’interesse, garanzie, usura, derivati e pignoramenti». La banca dell’epoca era il Tempio; non prestava solo denaro ma anche cereali, vino e birra, metalli pregiati: «Si cominciò a prestare argento a tassi fino al 60%». Attraverso il mondo mesopotamico, poi fenicio e persiano, ellenico e romano, il network nomade del denaro si trasferisce dove gli conviene, tendenzialmente da Est a Ovest, col progredire dei nuovi fiorenti imperi. Proto-scienziati della finanza? Cianti li chiama “i nostri mandriani”. Il loro metodo non cambia: usura, per conquistare il potere. Obiettivo: «Mantenere nella sottomissione non solo le masse ma anche gli stessi governanti, che in pratica diventano i loro burattini. E se qualcuno di loro si oppone, viene destituito o ucciso, come i Kennedy».Per Cianti, gli Ahskenaz restano un gruppo ristretto e rigorosamente chiuso al suo interno, per via matrilineare, attraverso i secoli. Sono i “ruler”, gli attuali “padroni dell’universo”. Veri fenomeni: si tratta di «individui di eccezionale intelligenza». Oltre a mercanti e banchieri, nei millenni, «hanno espresso anche filosofi, scienziati, pensatori che hanno determinato le sorti dell’umanità». L’élite dell’élite: «Nomadi e apolidi, seguono lo sviluppo dei più importanti centri di potere, in una traiettoria sempre diretta verso ovest che oggi, dalla West Coast degli Stati Uniti, ha spiccato il balzo verso la Cina». Sono loro i teorici e i registi del globalismo finanziario, secondo Cianti: religioni e massonerie, Ur-Lodges e centri di potere paramassonici sarebbero solo cinghie di trasmissione del super-sapiens Ashkenaz, protagonista del club più inaccessibile del vero potere.Lungo le sue 400 pagine, “Benvenuti all’inferno” esamina con estrema cura le più recenti asserzioni scientifiche, dall’astrofisica alla paleontologia fino alla climatologia, demolendo Darwin: «La Terra è passata attraverso eventi catastrofici che hanno provocato ripetute estinzioni di massa. E ogni volta il pianeta è stato ripopolato con specie nuove, che non avevano niente a che fare con le precedenti». Fino al sapiens, ultimissimo prodotto di queste “introduzioni”: «Una specie bio-ingegnerizzata, nel cui corredo è stato introdotto Stamina, il gene della paura che ci rende così docili di fronte al potere». Nel saggio “Resi umani” scritto con Mauro Biglino, il prestigioso biologo molecolare Pietro Buffa (già attivo al King’s College di Londra) spiega che il “missing link” tra uomo e scimmia non è mai esistito: a quanto pare siamo stati “fabbricati” diversi, dalla nascita, ben distinti dai primati e dagli stessi ominidi – persino dal Neandearthal, a noi vicinissimo nel tempo, probabilmente sterminato dai nostri antenati.A lungo traduttore ufficiale della Bibbia per le Edizioni San Paolo, Biglino sostiene che l’Antico Testamento – alla lettera – racconti l’avvento sulla Terra dei Figli delle Stelle. Proprio loro avrebbero “costruito” il sapiens, riservandosi poi la “fabbricazione”, sempre per via genetica, di una super-specie di lavoratori particolarmente intelligenti: gli adamiti, collocati nel Gan-Eden (da cui poi furono cacciati, dopo che ebbero scoperto la possibilità di riprodursi in modo autonomo, sessualmente). Tuttora, nessun sumerologo sa spiegare esattamente l’origine della civiltà sumera, sorta improvvisamente appena a Sud del Gan-Eden (situato nel Caucaso) e immediatamente dotata di favolose competenze tecniche: scrittura e architettura, matematica, astronomia. E soprattutto: agricoltura. «Proprio la rivoluzione agricola – sostiene Cianti – ha cambiato in modo irrimediabile il pianeta, devastando i suoli e sottraendo acqua, impoverendo la nostra dieta e determinando una vera e propria mutazione antropologica: i primi sapiens erano liberi di muoversi e cacciare, noi invece siamo schiavi inurbati, costretti a lavorare e a nutrirci di cibo ormai avvelenato».La stanzialità come sciagura è il tema del saggio “Dominio”, nel quale Francesco Saba Sardi collega all’introduzione dell’agricoltura la nascita del nuovo potere, prima sconosciuto, che “inventa” la religione per trasformare gli esseri umani in servi, lavoratori della terra e soldati. Figure sociali che non esistevano, prima del neolitico: nacquero con l’agricoltura insieme alla religione e alla sua sorella gemella, la guerra, grazie alla comparsa di quell’inedito potere, configurato in forma di dominio. A questo, Giovanni Cianti aggiunge un’altra disgrazia: l’alimentazione. Giornalista e già pubblicitario, appassionato studioso di biologia, Cianti è anche e soprattutto un nutrizionista, disciplina attraverso cui ha rivoluzionato la pratica del body-building partendo proprio dalla dieta. La minaccia più grande? L’abuso di cereali. Il pane – che ha nutrito milioni di individui – viene dal grano, che è comparso sulla Terra di colpo. Discende dal farro selvatico, che però non è commestibile. Chi l’ha trasformato geneticamente in cereale dolce, da farina? I medesimi, misteriosi individui – si suppone – che allo stesso modo, all’epoca di Adamo ed Eva, “fabbricarono” la patata, insieme con la pecora.Cibo pronto uso e a basso costo, per schiere di futuri lavoratori? L’ipotesi è ora vagliata da scienziati di tutto il mondo, ormai convinti che convenga rivalutare e rileggere con occhi nuovi i testi antichi, poi trasformati arbitrariamente in “libri sacri” dalle religioni che, più tardi, se ne impossessarono, travisandoli: e se in quelle pagine ci fossero gli indizi di una storia attendibile? Se cioè il racconto – incluso quello biblico, con la comparsa degli Elohim (Figli delle Stelle) – spiegasse davvero la nostra origine genetica, altrimenti non ricostruibile solo per via evolutiva? Nel qual caso, dice Cianti, sarà meglio aggiungere una riflessione piuttosto decisiva: se qualcuno – venuto dal cielo? – impiantò sulla Terra la sua “mandria” da mungere, di sicuro non scordò di assicurarla alla custodia di servitori speciali e fidatissimi, a loro volta “bio-ingegnerizzati” alla bisogna: i nostri “mandriani”.Non manca nessuno, nella “hall of fame” dei dominatori che Cianti esibisce, dai secoli passati fino ai giorni nostri: spicca il visionario oligarca Jacques Attali, lo sconcertante mentore di Emmanuel Macron, oscuro profeta del transumanesimo post-democratico. C’è l’eterno Zbigniew Brzezinski, lo storico stratega della Casa Bianca (sodale di Kissinger) che reclutò in Afghanistan un certo Osama Bin Laden, poi protagonista della strategia della tensione globale sotto l’egida dei Bush. Riflettori su Al Gore, l’ex vice di Clinton, ormai «frontman mondiale della bufala del global warming di origine antropica», il nuovo catechismo recitato dalla piccola Greta, la ragazzina svedese spuntata (in apparenza) dal nulla. Gore ha appena vinto due Oscar con il documentario “Una scomoda verità”, «diretto dal regista “ashkenazi” Davis Guggenheim». Manipolazione? «Se è per questo, erano “ashkenazi” anche Walt Disney e Edward Bernays, l’inventore della propaganda pubblicitaria», dice Cianti, «come pure i fratelli Andy e Larry Whachowski», gli sceneggiatori di “Matrix”, film nato per metterci in guardia «sul destino della “mandria umana”, costretta a vivere come nella caverna di Platone, cioè in un mondo virtuale completamente avulso dalla realtà».Tra i protagonisti negativi, invece, dominano politici e finanzieri: si va da Madeleine Albright, che difese la necessità inevitabile del bagno di sangue nei Balcani negli anni ‘90, alla quasi-popstar George Soros, «ashkenazi di elevata esposizione mediatica, quindi verosimilmente di rango inferiore». Nulla, in confronto ai veri “dominus”, più appartati, come ad esempio i campioni delle celeberrime dinastie Rothschild, Warburg e Rockefeller, sinistramente implicati nell’ascesa di Hitler (e nel nascente sionismo), ben sapendo che il dittatore nazista avrebbe sterminato milioni di ebrei: era il mostruoso prezzo necessario per ottenere poi lo Stato di Israele? Incubi e interrogativi storici a parte, dell’immenso potere di quelle famiglie parla anche il professor Pietro Ratto nei suoi recenti saggi, che rivelano l’incredibile pervasività (purtroppo attualissima) della loro influenza, persino nell’odierna editoria scolatica validata dai ministeri attraverso commissioni, strutture e aziende di cui non parla mai nessuno. Ma quei nomi così famosi – i vituperati Rothschild, tanto per cambiare – potrebbero essere solo la vetta dell’iceberg, la parte visibile.Chi sono e cosa vogliono, quelli che Cianti chiama “i nostri mandriani”? Lo spiega lo stesso Attali, nella sua “Breve storia del futuro”, «libro che anticipa le mosse dei “mandriani” fino al 2100», fornendo «una descrizione terrificante delle loro intenzioni nonché l’evidenza di una straordinaria assenza di empatia, mista a follia e delirio di onnipotenza». L’umanità ridotta a formicaio pilotabile, prevedibile? Il genere umano eventualmente anche sterminabile, all’occorrenza, con le pratiche più insospettabili? Cianti menziona il cibo cancerogeno, i medicinali-killer e l’imposizione di vaccini pieni di alluminio e altri metalli pesanti, come quelli che scendono dal cielo, da una ventina d’anni, diffusi nella bassa atmosfera dalle strane scie bianche rilasciate dagli aerei di linea. Di fronte a questo, il mainstream grida immancabilmente al complottismo, fingendo di non sapere che le teorie più eretiche (incluse quelle bislacche e ridicole) nascono proprio dal silenzio ufficiale, dalla ostinata reticenza di chi dovrebbe fornire spiegazioni convincenti dei fenomeni che allarmano la popolazione. Peccato che sia lo stesso sistema dei media a essere strettamente detenuto da pochissime mani.Oltre a controllare Intesa SanPaolo e Unicredit, scrive Cianti, la filiera Rothschild («connessa agli Agnelli-Elkann e ai Caracciolo») è presente in Facebook, in Telecom Italia, nell’agenzia “Reuters”, nel francese “Libération”, nei britannici “Daily Telegraph” e “The Economist”. Sempre secondo Cianti, il gruppo Rcs (Rizzoli e “Corriere della Sera”) è invece appannaggio della scuderia Rockefeller, mentre il gruppo Sassoon controllerebbe “Sunday Times” e “The Observer”. Stessa musica per i grandi network televisivi internazionali. In Italia, aggiunge Cianti, «appartiene al “cluster” anche Carlo De Benedetti», fondatore del gruppo “Espresso-Repubblica”, che «ha alle spalle Lazard e Lehman Brothers». Un’unica discendenza, addirittura, collegherebbe gli attuali Master of the Universe? «La risposta definitiva – ipotizza Cianti – potrebbe venire dall’Us Trust Corporation, istituita a suo tempo da Walter Rothschild», che però è inaccessibile alla consultazione pubblica. «Secondo alcuni “insider” – aggiunge l’autore del saggio – si tratterebbe di otto-dieci linee di sangue millenarie». I nomi? Goldman Sachs, Rockefeller, Lehman e Kuhn-Loeb di New York. Poi i Rothschild di Parigi e Londra. Poi gli inglesi Windsor, già Sassonia-Coburgo-Gotha, insieme ai Warburg di Amburgo, ai Lazard di Parigi, alla dinastia Israel Moes Seif di Roma.Si tratta di «famiglie che da sole posseggono tutte le banche e le corporation del mondo, attraverso un sistema di scatole cinesi: il vertice della piramide, totalmente “ashkenazi”, resta estremamente ristretto e al di fuori di ogni forma di controllo». Gioielli della collezione, dagli Usa all’Europa fino alla Cina, le superpotenze bancarie: Hsbc Holding, Bnp Paribas, Jp Morgan, Icbc Bank of China e Agricoltural Bank of China, Wells Fargo, Bank od America, China Construction Bank. In generale, scrive Cianti, il meccanismo del big business «riguarda tutti i settori industriali strategici: cibo ed energia, farmaci, armi, informazione e intrattenimento, ma anche droga e traffico di esseri umani e di organi». Il volume mastodontico dell’attuale sistema iper-capitalista e neoliberale, interconnesso dalla globalizzazione, lo fornisce ad esempio il database Orbis 2007, che (come documenta uno studio svizzero pubblicato nel 2011 da “Plos One”) ha passato al setaccio qualcosa come 37 milioni di aziende e investitori globali. Le strutture che detengono il 97% della ricchezza del pianeta, riassume Cianti, sono soltanto 147: in cima alla classifica Barclays, Capital Group Companies, Frm Corporation, Axa Assicurazioni, State Street Corporation, Jp Morgan, Legal General Group, Vanguard Group, Ubs e Merrill Lynch.«Una rete capillare ed estesa, di soggetti che si posseggono a vicenda». Blackrock, «il più grande fondo d’investimento del pianeta, fondato da Lawrence Fink (ashkenazi) ha tra i maggiori azionisti Pnc Financial Service, Norges Bank, Vanguard, Bank of America, Wellington Management Group». A sua volta, Jp Morgan è gestita da Vanguard e Blackrock, insieme a State Street, Bank of New York e altri soci. Sempre le stesse aziende possiedono anche il colosso farmaceutico Merk. La notizia? Secondo Cianti, il vertice è costituito da consanguinei, tutti discendenti dell’ipotetica, originaria super-razza, quella che già agli albori della civiltà inventò il “debito inestinguibile”. Dalla Mesopotamia si arriverebbe tranquillamente fino ai veri campionissimi del terzo millennio, come il sudafricano Elon Musk, fondatore della Tesla, e il fenomenale Mark Zuckerberg, l’enfant prodige di Facebook. A proposito, chi c’è nell’azionariato del social network che “scheda” oltre due miliardi di esseri umani? «Sempre gli stessi: Vanguard e Blackrock, Frm-Lcc, State Street Corporation, Prince T Rowe, Capital World Investors».Globalizzazione? Termine in uso dagli anni ‘80, quando si pianificò l’abolizione dei dazi per merci e capitali. Ma, stando a Cianti, non sarebbe che l’ultimo passaggio tecnico del mondialismo ante litteram perseguito dal misterioso “cluster” del super-sapiens, fin dagli albori della nostra storia. Possibile? L’autore invita a riflettere sul vero significato dell’agenda dell’Onu, organismo – pochi lo sanno – poderosamente finanziato da donatori privati (sempre loro, i mattatori del superclan). Mondialismo mercantilista, che dichiara guerra alle identità – di genere, nazione, religione – per omologare la “mandria” che popolerà l’Iper-Impero dopo l’imminente declino della potenza Usa. Un “impero totale” esteso in ogni continente «con la sola eccezione della Russia, che per ora resiste ma finirà accerchiata da America, Europa, Cina e India». Viaggia sempre verso ovest, dunque, il super-sapiens di cui parla Cianti? Lo conferma, secondo l’autore, il matrimonio di Zuckerberg: «Sua moglie, Priscilla Chan, è nata negli Usa da genitori rifugiati Hou, un gruppo minoritario di usurai cinesi del Vietnam». Gli Hou, scrive Cianti, discendono dagli “ashkenazi d’Oriente” come la famiglia Li (o Lee), che duemila anni fa, al tempo della dinastia Zhou – introdussero la moneta cartacea.Oggi, come dire, si sono portati avanti col lavoro: «Già legati a Mao Tse-Tung, hanno espresso presidenti cinesi come Li-Peng e Li-Xinnian. Oggi, Lee Kwan Yew è il presidente di Singapore». Un altro esponente della dinastia, Li Ka-Shing, secondo “Forbes” ha un patrimonio di 4 miliardi di dollari, mentre Li Kwok-Po gestisce la Bea (Banca dell’Est Asiatico) agendo «in collegamento coi Warburg e restando in ottimi rapporti coi Rothschild, i Rockefeller e i Bush». La nuova corsa all’Ovest, assicura Cianti, vede una strana migrazione: i boss dell’impero digitale della Silicon Valley ormai puntano verso la Nuova Zelanda, che sta diventando «il santuario dei super-sapiens ashkenazi». Il passaggio dalla California all’Oceania «sarà seguito dallo spostamento degli iper-nomadi dell’Ordine Mercantile Usuraio in una sede geograficamente più vicina ai loro nuovi affari, cioè il subcontinente indocinese».La Nuova Zelanda? Un’area scarsamente abitata e pressoché intatta, dal punto di vista naturalistico. Il resto del mondo, invece – prevede Cianti, in modo apocalittico – sarà «costretto a condizioni invivibili, catastrofi climatiche, epidemie indotte, crollo dell’ordine pubblico, terrore nucleare e collasso della civiltà». Le isole dell’Oceania «saranno l’ultimo rifugio: il nuovo santuario dell’élite, sicuro e intoccabile». Scrive Cianti: «Centinaia di tecno-plutocrati e finanzieri stanno acquistando terreni in queste isole per costruire lussuose ville-bunker. Il Deep State, cioè il vero potere dell’impero americano, ha già creato il governo del “santuario”: si tratta di una oligarchia socialista, che li accoglierà garantendo loro sicurezza, anonimato e impunità». L’attuale primo ministro neozelandese, la trentanovenne Jacinda Ardern, già leader dell’Unione internazionale della gioventù socialista, «è una creatura di Hillary Clinton, che le ha fatto da mentore nella carriera politica», guidandone l’ascesa.Il recente attentato di Christchurch contro le moschee musulmane, lo scorso marzo – aggiunge Cianti – era una classica “false flag” (con morti reali) escogitata «per testare la rapidità con la quale si riesce a far sparire da Internet ogni testimonianza diretta di una strage», e ha fornito «il pretesto per disarmare immediatamente tutti i civili del paese». E’ già una specie di bunker, la Nuova Zelanda: «Per risiedervi sono necessari beni per milioni di dollari, oppure bisogna essere cooptati in quelle ristrettissime liste di personale di servizio necessario al sistema. Ogni altra forma di immigrazione è proibita e immediatamente repressa», alla faccia della politica di accoglienza (quella che oggi, per dire, viene imposta all’Italia). Allucinazioni fantapolitiche? Non proprio: nel suo ponderoso volume, ad ogni pagina, l’autore acclude note, link, riferimenti, citazioni. “Benvenuti all’inferno” si inserisce nella recente letteratura divulgativa che tenta di dare risposte ai pesanti interrogativi del presente, rileggendo la storia antica e provando a sincronizzarla con l’attualità.E’ l’ennesimo catastrofista, Angelo Cianti? In realtà si mostra ottimista rispetto alle possibilità del libero arbitrio. Non smette di credere nel sapiens, in fondo. E infatti sogna di rinaturalizzare l’Appennino con il suo Evo Village Project, presentato nel 2018 al ministro dell’agricoltura Gian Marco Centinaio. Obiettivo: ricolonizzare i versanti con una rete di ecovillaggi, verso un’economia sostenibile e slegata dalle catene del sistema-debito. La sua tesi sul ruolo dell’ipotetico super-sapiens rischia di apparire fin troppo facilmente demonizzante, col risultato di introdurre discriminazioni “etniche” e scoraggiare i lettori, posti di fronte a un avversario super-umano e quindi invincibile? Intanto, è notevolissimo lo sforzo compiuto dall’autore nel collegare realtà in apparenza lontane fra loro, nel tempo e nella geografia planetaria. Uno stimolo per farsi domande, allargare la mente e verificare connessioni, scovando strane coincidenze nel ricorrere, invariabile, delle medesime “famiglie” che – come si può vedere – in molti casi detengono da secoli (da millenni, secondo Cianti) le redini del globo. Dinastie che mostrano la straordinaria capacità di rendersi invisibili, mimetizzandosi nella società – magari anche a spese dei veri israeliti, di cui si parla spessissimo a sproposito.(Il libro: Giovanni Angelo Cianti, “Pianeta Terra, benveuti all’inferno! Passato, presente e probabile futuro della mandria umana”, Evo Editorial, 401 pagine, euro 27,78 su Amazon).Menti raffinatissime, le chiamava Giovanni Falcone. Nel suo caso, avevano piazzato una bomba davanti alla sua villetta sul mare, tre anni prima del fatale attentato di Capaci. Sono speciali, quelle menti – e altrettanto criminali – anche per Giovanni Angelo Cianti, che non è un giudice antimafia ma a suo modo si occupa lui pure di criminologia, per così dire, se si volesse leggere come un’epocale, sterminata stagione criminogena quella aperta dalla stessa misteriosa comparsa sulla Terra dell’homo sapiens, tuttora non spiegata (men che meno dall’evoluzionismo darwininano). L’ultima fatica letteraria di Cianti – che esordì addirittura come autore del fumetto-cult “Ken Parker”, creato nel ‘74 da Giancarlo Berardi e Ivo Milazzo – si intitola “Benvenuti all’inferno”, in questo richiamando l’ombra del manicheismo, tra risonanze gnostiche e poi catare. Una “creazione dannata”, la nostra, opera di divinità infere esiliate nel mondo della materia? Premessa pragmatica: siamo quasi 8 miliardi e stiamo devastando il pianeta, come cavallette inarrestabili. Un formicaio di insetti onnivori e famelici, e al tempo stesso docili e malleabili, senza più coscienza né memoria della propria origine. Solo colpa nostra? No, risponde Cianti: la grande attenuante è incarnata da chi lo dirige più o meno segretamente, il “formicaio”.
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Perché Falcone e Borsellino saltarono in aria in quel modo
Saltarono in aria, quei giudici, perché avrebbero fatto saltare per aria il sistema. «Con Falcone arriva il segnale della pace tra Stato e mafia, mentre con la strage di via D’Amelio in cui muore Borsellino si dà il via alle leggi che azzerano i poteri della magistratura». Sul blog “Petali di Loto”, il 19 luglio 2019 – anniversario della strage di via D’Amelio – Stefania Nicoletti richiama le analisi offerte nel corso degli anni dall’avvocato Paolo Franceschetti, con l’aiuto dell’allora collega Solange Manfredi. Già legale delle “Bestie di Satana”, Franceschetti ha dedicato studi coraggiosi al fenomeno dei delitti rituali (dal Mostro di Firenze in poi), tutti “firmati” in realtà da killer dediti a forme di esoterismo degenerate in occultismo criminale. Uomini protetti da forti coperture a livello istituzionale, a volte funzionale alla strategia della tensione o comunque alla manipolazione psicologica delle masse. «Esempio: l’individuo che viene arrestato non è mai un giudice, un politico, un notaio, un medico, un ufficiale, un docente universitario. E’ sempre un contadino semi-analfabeta, una povera madre presentata come pazza, un giovane drogato e sbandato. E’ il capro espiatorio perfetto, attraverso cui far sapere alla gente che è in buone mani e non corre pericoli, visto che il potere è pulito. Invece è vero esattamente il contrario».Lo si è intuito, in modo atrocemente sanguinoso, osservando i retroscena inquinatissimi delle morti ravvicinate di Falcone e Borsellino. Dopo la seconda, in particolare, si cominciò a parlare di “trattativa Stato-mafia”. Affrontò il tema Vincenzo Calcara, uno dei pochi collaboratori di giustizia che possono veramente essere chiamati “pentiti”. «Il dottor Borsellino – scrisse, nel suo memoriale – era in possesso di verità scomode», di fronte alle quali «in tanti si devono vergognare per averlo lasciato solo al suo destino». Calcara era stato segnato dall’incontro col magistrato, che gli aveva cambiato la vita: una vera e propria redenzione morale. C’erano due piani alternativi per uccidere Borsellino, ricorda Franceschetti: il primo prevedeva l’uso di un fucile di precisione ed era affidato proprio a Calcara, mentre nel secondo caso – un’autobomba – il futuro pentito avrebbe svolto soltanto un lavoro di copertura. «Poi però da Palermo arrivò l’ordine, direttamente da Totò Riina: prima, avrebbe dovuto essere ucciso Giovanni Falcone». Così, Calcara riuscì a non uccidere l’uomo che, anni dopo, gli avrebbe salvato la vita, facendolo rinascere come essere umano. Ma Riina era veramente “il capo dei capi”, o invece era solo il “prestanome” di qualcuno molto più potente, protagonista occulto dell’infinita finita strategia delle tensione italiana?Lo stesso Riina affermò che Borsellino non sarebbe stato “condannato” dalla mafia, ma probabilmente da uomini dello Stato. E nel caso, perché mai? «Forse perché aveva capito che la cosiddetta “trattativa” non era altro che un accordo per realizzare un piano eversivo di destabilizzazione dello Stato, condotta da un “sistema criminale” composto da mafia, massoneria deviata e servizi segreti deviati?». Riguardo alla possibile manovalanza, alternativa o contigua a quella strettamente mafiosa, Solange Manfredi cita le dichiarazioni rese da un ex paracadutista della Folgore, Fabio Piselli, coinvolto nelle indagini sul rogo della nave “Moby Prince”. Una ricostruzione scioccante, che mette insieme la strage di Capaci e quella di via D’Amelio, l’autobomba fiorentina di via dei Georgofili e la bomba romana di via Fauro. Italia fragilissima, all’epoca: Tangentopoli e passaggio cruciale dalla Prima alla Seconda Repubblica, sotto le forche caudine di Bruxelles, dopo aver spazzato via – a colpi di inchieste – l’intera classe politica. Decisivo, secondo Solange Manfredi, il ruolo nefasto di una sigla-fantasma ma onnipresente, in quegli anni: la Falange Armata.Esisteva dal 1985, sembra, ma compare per la prima volta soltanto il 4 gennaio 1991, quando a Bologna vengono uccisi tre carabinieri nel quartiere del Pilastro. L’ultima apparizione mediatica è del 27 novembre 1994, con il seguente comunicato: “Di Pietro è un uomo morto”. Di mezzo ci sono Falcone e Borsellino, le minacce a Di Pietro per le indagini su Craxi, un’autobomba scoperta a Roma in via dei Sabini a cento metri da Palazzo Chigi, il palagiustizia di Padova dato alle fiamme. Il 19 luglio ‘92, la Falange Armata rivendica l’attentato costato la vita a Borsellino. Un anno dopo, il 16 settembre del ‘93, la Procura di Roma individua in 16 ufficiali del Sismi i telefonisti che rivendicarono le azioni della fantomatica sigla terroristica. Cos’era, la Falange Armata? Secondo l’ex parà Fabio Piselli, «è stata una operazione modello, continuata e mai inquinata, compartimentata e soprattutto posta in sonno e mai disattivata da parte di un organo inquirente o ispettivo». In questo modo «ha raggiunto i propri obiettivi». Dopodiché “l’operazione” «è stata semplicemente conclusa», e i suoi “operativi”, di fatto, «hanno continuato a fare il proprio lavoro», dedicandosi ad altre mansioni e lasciando gli inquirenti impegnati a inseguire una falsa pista, cioè «una “organizzazione”, e non una semplice “operazione”».Risultato scontato: indagini finite in un nulla di fatto, «o con l’arresto di mere, ignare pedine, o di qualche povero innocente sacrificato per confondere gli inquirenti, il quale si è fatto qualche mese di galera ingiustamente e la cui vita è stata rovinata». Omicidi, rapine, attentati, sequestri. E poi: infiltrazioni in attività militari e politiche, trafugamento di armi dello Stato, addestramento di civili in attività militari. Ancora: spionaggio politico e militare, intercettazioni illegali, violazione e utilizzo del segreto d’ufficio, peculato, attentato alla democrazia. «E’ ciò che l’operazione Falange Armata ha posto in essere fra il 1985 ed il 1994 attraverso gli operatori, attivati singolarmente o in piccole squadre», dice Piselli. E’ tutto? No, certo. Sulla “trattativa”, la prima indagine fu archiviata nel 2000 per decorrenza dei termini, ricorda Franceschetti, prima che Antonio Ingroia riaprisse il caso, su cui ormai si sono scritti fiumi di inchiostro. Quello di cui invece Franceschetti è rimasto l’unico a parlare, invece, è un dettaglio sfuggente: il ricorrere – veramente impressionante – delle stesse modalità simboliche che costellano i fatti di sangue “mediatici”, sia gli attentati terroristici che molti delitti in apparenza comuni, destinati alla semplice cronaca nera.Dopo anni di ricerche, Franceschetti ha individuato una “firma” ancora più elusiva di quella della Falange Armata: è la Rosa Rossa, specializzata in delitti rituali anche eccellenti, come quelli del cantante Rino Gaetano e del ciclista Marco Pantani. Personaggi da “punire” secondo lo schema – dantesco – della “legge del contrappasso”, attraverso modalità maniacalmente simboliche, a partire dai nomi dei luoghi (mai casuali) e delle date in cui i delitti si consumano. La morte come tragico cerimoniale, in cui si mette in scena – capovolgendolo – ciò che il malcapitato aveva rappresentato, in vita. Gaetano? Vittima di uno stranissimo incidente stradale, soccorso da una strana ambulanza e morto dissanguato dopo esser stato rifiutato da quattro diversi ospedali – esattamente come nella “Canzone di Renzo”, uscita postuma, in cui saranno gli stessi assassini a portare a spalle la bara. Pantani? Ucciso al residence “Le Rose” di Rimini. Accanto al corpo, un biglietto: “Oggi le rose sono contente, e la rosa rossa è la più contata”. A chi dava fastidio, Pantani? Al business del doping, che coinvolge potenti ambienti massonici: droghe prodotte nei laboratori di Big Pharma, testate sui ciclisti e poi immesse sul mercato (anche quello della guerra, destinate ai soldati).E Rino Gaetano? Nel brano “Nuntereggae più” cita Vincenzo Cazzaniga, storico percettore dei fondi neri Usa indirizzati alla Dc, mentre nella canzone “Mio fratello è figlio unico” menziona “il rapido Taranto-Ancona”, che poi le indagini sugli anni di piombo avrebbero rivelato essere “il treno delle spie”, usato dai servizi deviati per trasportare gli esplosivi destinati alle stragi nelle piazze. Secondo Franceschetti, neppure Falcone e Borsellino sono sfuggiti al lugubre copione simbolico del “contrappasso”: riferendosi all’inferno della Divina Commedia, «la persona da eliminare morirà secondo la logica di far patire alla vittima il “peccato” che questa avrebbe commesso». Un classico: «Molti dei testimoni del disastro di Ustica, il Dc-9 dell’Itavia abbattuto, moriranno in un incidente aereo». Lo stesso Fabio Piselli, testimone dell’incendio della “Moby Prince”, è caricato su un’auto che poi viene incendiata: doveva quindi morire in un rogo, anche lui. Oppure il caso del perito Luciano Petrini: stava facendo una perizia sulla strana fine del colonnello Mario Ferraro, del Sismi, trovato impiccato all’asciugamani del bagno. Ebbene, Petrini morirà a colpi di portasciugamani».La casistica esaminata da Franceschetti è davvero vasta. L’antropologa Cecilia Gatto Trocchi, che smascherava crimini di matrice esoterica, volò dal balcone: «Chi sale troppo in alto, viene gettato dall’alto». Le vie dei killer sono pressoché infinite: «Qualcuno può morire fulminato dalla corrente elettrica come il giovane contestatore siciliano Giuseppe Gatì, perché il fulmine simboleggia la folgore di Zeus che punisce la persona che ha osato troppo». E la chiave simbolica della spaventosa morte di Falcone e Borsellino, entrambi dilaniati dall’esplosivo? Tragicamente semplice: «Li hanno fatti letteralmente saltare in aria, perché quei due stavano per far saltare in aria il sistema parallelo che collega la mafia alla parte oscura del potere ufficiale». Falcone, innanzitutto, «doveva morire in Sicilia – e non a Roma, dove sarebbe stato più facile assassinarlo – perché proprio sull’isola si erano svolte le sue indagini: la regola del contrappasso esigeva quindi che morisse nella stessa terra ove aveva “peccato”». Inoltre, aggiunge Franceschetti, «doveva saltare in aria in modo eclatante, proprio perché voleva far saltare il sistema». Attenzione: «Falcone aveva capito che il fulcro del sistema criminale in Italia non è la mafia. E’ lo Stato. E sono le banche. Quindi doveva saltare in aria perché l’esplosione con cui muore fa da contrappasso all’esplosione che lui voleva assestare al “sistema”».Non è casuale neppure la scelta del luogo dell’agguato: «Falcone è morto a Capaci, a simboleggiare che chiunque sia “capace”, deve morire». La cosa può suonare ridicola, ammette Franceschetti, ma suggerisce di riflettere sul fatto che «stiamo parlando di un’associazione che non lascia nulla al caso, neanche i nomi delle persone che vengono messe in determinate posizioni di vertice politico, finanziario, o amministrativo». C’è anche dell’altro, dietro al nome Capaci: la cittadina prese il nome dalla parola “pace” (Capaci, “cca-paci”) per siglare la fine di una leggendaria punizione, la reclusione sulla vicina Isola delle Femmine di 13 fanciulle. Scoppierà una “pace”, dopo “l’attentatone” costato la vita a Falcone e alla sua scorta? «Esatto: non a caso, come risulta dalla sentenza sulla strage di via dei Georgofili (che riuniva in un solo processo ben sette stragi, commesse a Firenze, Milano e Roma) e dalla sentenza sul Capitano Ultimo, dopo la strage di Capaci venne avviata la famosa trattativa tra Stato e mafia, di cui si fece portavoce il generale Mario Mori, per raggiungere, appunto, la pace». Probabilmente, aggiunge Franceschetti, la morte così eclatante di Falcone «segna anche, simbolicamente, uno spartiacque tra il vecchio metodo di eliminazione dei magistrati (ucciderli) e quello nuovo (delegittimarli). Non più attentati, quindi, ma le cosiddette “armi silenziose per una guerra tranquilla”».La morte di Falcone simboleggia quindi una storica tregua? Fateci caso: dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, la mafia siciliana sembra quasi non esistere più: finiscono in carcere Riina e Provenzano, imprendibili per decenni, dopodiché cala il silenzio. «Addirittura, l’allora procuratore antimafia Pietro Grasso è andato al “Maurizio Costanzo Show” a declamare gli immensi successi dello Stato sulla mafia», ormai ridotta – secondo lui – al lumicino. Ricapitolando, il simbolismo della strage di Capaci è: auto, esplosione, Isola delle Femmine, Capaci. «Il probabile significato: Falcone voleva far saltare il sistema (esplosione), quindi dal cielo (auto) arriva la punizione che lo fa saltare in aria; dopodiché dovrà scendere la pace, tra lo Stato e la mafia (Capaci). Così muoiono le persone capaci di arrivare al cuore del sistema». Non è tutto: «A firmare la strage, ci sono due elementi: il gruppo di mafiosi si era posizionato sulla collina vicino Capaci; e la collina si chiama “Raffo Rosso“, ove raffo in ebraico significa “Dio che guarisce”. RR, firma della Rosa Rossa». L’organizzazione di cui parla Franceschetti si ispirerebbe – in modo deformato e deviato – alla confraternita sapienziale inziatica dei Rosa+Croce? Eccola: «La moglie di uno degli agenti di scorta, la donna straziata che fece il famoso discorso ai funerali, si chiama Rosaria Costa: le iniziali, RC).E Borsellino? «Fu ucciso nello stesso modo, anzitutto perché aveva seguito le orme dell’amico. Poi perché anche lui, col Memoriale Calcara, aveva avuto notizie che erano in grado di far saltare il sistema». Non mancano ulteriori indizi simbolici: «Credo che un aspetto della simbologia della sua morte vada trovata anche nella via dove avvenne l’esplosione, via Mariano D’Amelio: un politico che fece leggi sulla magistratura. Chiaro il messaggio: la magistratura deve essere azzerata». Dopo quelle orrende mattanze, «inizialmente sembrò che la magistratura acquistasse più poteri, e che lo Stato volesse realmente fare la guerra alla mafia». Nacque infatti lo strumento del 41 bis, il carcere duro per i mafiosi, e ci furono alcuni ritocchi al codice di procedura penale. «Ma poco dopo – aggiunge Franceschetti – arrivarono leggi che, di fatto, azzerarono il potere della magistratura riducendolo ad un formalismo vuoto, cosicché oggi l’80% dei reati cade in prescrizione, e per reati gravissimi vengono comminate pene ridicole». Sparì di fatto il reato di falso in bilancio, scomparve l’ergastolo per il reato di “attentato agli organi costituzionali”, si cercò di limitare le intercettazioni. Di fatto, dopo la morte di Borsellino, scattò «un’opera sistematica di demolizione dei poteri dei magistrati». Fantasie? Non esattamente, purtroppo.Saltarono in aria, quei giudici, perché avrebbero fatto saltare per aria il sistema. «Con Falcone arriva il segnale della pace tra Stato e mafia, mentre con la strage di via D’Amelio in cui muore Borsellino si dà il via alle leggi che azzerano i poteri della magistratura». Sul blog “Petali di Loto”, il 19 luglio 2019 – anniversario della strage di via D’Amelio – Stefania Nicoletti richiama le analisi offerte nel corso degli anni dall’avvocato Paolo Franceschetti, con l’aiuto dell’allora collega Solange Manfredi. Già legale delle “Bestie di Satana”, Franceschetti ha dedicato studi coraggiosi al fenomeno dei delitti rituali (dal Mostro di Firenze in poi), tutti “firmati” in realtà da killer dediti a forme di esoterismo degenerate in occultismo criminale. Uomini protetti da forti coperture a livello istituzionale, a volte funzionale alla strategia della tensione o comunque alla manipolazione psicologica delle masse. «Esempio: l’individuo che viene arrestato non è mai un giudice, un politico, un notaio, un medico, un ufficiale, un docente universitario. E’ sempre un contadino semi-analfabeta, una povera madre presentata come pazza, un giovane drogato e sbandato. E’ il capro espiatorio perfetto, attraverso cui far sapere alla gente che è in buone mani e non corre pericoli, visto che il potere è pulito. Invece è vero esattamente il contrario».
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Giornali muti sulla crisi italiana, ma pronti a sbranare Feltri
Basso impero, l’avrebbe definito Giorgio Bocca. Il giornalismo italiano? Scomparso, ridotto a recitare veline di palazzo. Eppure a quanto pare esiste ancora, se è vero che due cronisti – Sandro Ruotolo e Paolo Borrometi – si appellano addirittura all’Ordine dei giornalisti, letteralmente indignati. Contro il silenzio del mainstream? Contro le bugie quotidiane del sistema radiotelevisivo? Contro l’omertosa reticenza delle redazioni di fronte a qualsiasi evento di rilievo, italiano e internazionale? Macché. Ce l’hanno con Vittorio Feltri, che si è permesso di insolentire nientemeno che il commissario Montalbano, cioè un personaggio letterario, proprio mentre il suo autore – Andrea Camilleri – lotta in ospedale tra la vita e la morte. Borrometi è un giornalista coraggioso, messo in pericolo dalla mafia. Ruotolo, popolare in Tv, è lo storico inviato di Michele Santoro. «Le parole di Vittorio Feltri su Andrea Camilleri e le sue opere – scrivono, in una lettera al presidente dei giornalisti italiani, Carlo Verna – hanno rappresentato per noi la goccia che ha fatto traboccare il vaso». E cos’avrebbe mai detto, Feltri, di così inaccettabile? «Mi dispiace, perché un uomo anche vecchio che muore suscita in te un certo dolore. Però – ecco il passaggio sotto accusa – mi consolerò pensando al fatto che Montalbano non mi romperà più i coglioni».Le parole di Feltri sono andate in onda sulla Rai nella trasmissione radiofonica “I lunatici”, di Radio Due, condotta da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio. «Quel terrone mi ha stancato», dice Feltri, riferendosi al commissario siciliano interpretato in televisione da Luca Zingaretti. Tutte le volte che gli capita di vedere Montalbano in Tv, aggiunge il direttore di “Libero”, gli torna subito alla mente il fratello dell’attore, cioè il neosegretario Pd Nicola Zingaretti, che «non è proprio il massimo della simpatia». Aggiunge Feltri: «Questa però è una mia opinione un po’ così, scherzosa». Quanto all’anziano autore di Montalbano, invece, Feltri si esprime in questi termini: «Camilleri, che ha avuto successo dopo i 70 anni, in me suscita ammirazione perché è stato un grande narratore, che peraltro si inserisce nella tradizione siciliana della letteratura insieme a scrittori come Pirandello e Sciascia». Ma niente da fare, a Borrometi e Ruotolo non basta: «Abbiamo deciso di autosospenderci dall’Ordine Nazionale dei Giornalisti perché ci consideriamo incompatibili con l’iscrizione di Vittorio Feltri all’albo professionale», scrivono, anche se poi è il presidente stesso, Scarpa, a precisare: è solidale con loro, però dall’Ordine non ci si può “autosospendere”, ma solo cancellare.«Riteniamo gli scritti e il pensiero del direttore Feltri veri e propri crimini contro la dignità del giornalista», scrivono i due. «Ne va della credibilità di ognuno di noi e della nostra categoria. Adesso basta. O noi o lui». E aggiungono: «Quel “terrone che ci ha rotto i coglioni” per noi figli del Sud è inaccettabile. Non è in gioco la libertà di pensiero. Sono in gioco i valori della nostra Costituzione». Accusano: «Ogni suo scritto trasuda di razzismo, omofobia, xenofobia. “Dopo la miseria portano le malattie” (rivolto ovviamente ai migranti), l’ormai tristemente celebre “Bastardi islamici” o, uscendo dal seminato delle migrazioni, robaccia come “Più patate, meno mimose” in occasione dell’8 marzo (e le diverse varianti dedicate anche a Virginia Raggi, con il “patata bollente”) o “Renzi e Boschi non scopano”. Poi gli insulti a noi del sud con il celebre “Comandano i terroni” e infine il penultimo, di qualche mese fa, “vieni avanti Gretina” (dedicato alla visita a Roma di Greta Thunberg)». L’idea che il direttore di “Libero” offre, concludono Borrometi e Ruotolo, «è che si possa, impunemente, permettersi questo avvelenamento chirurgico». A Feltri imputano mancanza di senso del limite, deontologia, misura, buon senso e addirittura dignità. «Continuiamo a batterci contro la censura e gli editti, ma non possiamo accettare tra noi chi istiga all’odio. Ne va della nostra credibilità».Nato a Modica (Ragusa), Borrometi vive sotto scorta da quando è stato aggredito, in Sicilia, per le sue scomode inchieste sul business mafioso. Cronista dell’Agi, è stato trasferito a Roma per metterlo al riparo dalle continue minacce. Il potere lo conosce da vicino: Borrometi è stato ricevuto a Palazzo Chigi da Gentiloni, a Palazzo Madama da Pietro Grasso e in Vaticano da Papa Francesco, mentre Mattarella l’ha fatto “Cavaliere dell’Ordine al merito della Repubblica italiana”. Anche Ruotolo vive sotto scorta, dopo le minacce ricevute nel 2015 dal Clan dei Casalesi. Napoletano, è stato a fianco di Santoro dai tempi di “Samarcanda”, fine anni Ottanta. Nel 2013 si è candidato con Antonio Ingroia nella lista “Rivoluzione civile”, rimasta fuori dal Parlamento. Nel corso della campagna elettorale, al termine di un dibattito televisivo si è rifiutato di stringere la mano a Simone Di Stefano (CasaPound) dichiarandosi «orgogliosamente antifascista». E adesso, insieme a Borrometi, tuona contro Feltri: «O lui, o noi». Suona quasi come un appello perché il reprobo sia espulso dall’Ordine dei giornalisti, organismo che peraltro esiste solo in Italia, retaggio dell’occhiuta sorveglianza di Mussolini sulla stampa nazionale. A proposito: perché non abolirlo, l’inglorioso ordine professionale, visto che bastano e avanzano le leggi vigenti per tutelare sia i giornalisti che le vittime del propagandismo squadristico truccato da giornalismo?Ma il tema – libertà dell’informazione, senza recinti polverosamente post-fascisti – non sfiora Rutolo e Borrometi (non oggi, almeno). Il nemico si chiama Vittorio Feltri, monumento nazionale del giornalismo-contro (contro i giornalisti conformisti, in primis). Fieramente ostico, scontroso, sulfureo – spesso urticante, volutamente sgradevole – Feltri affonda i suoi strali quotidiani nella melassa inguardabile del mainstream gracidante, dei colleghi appiattiti sull’imbarazzante galateo del pensiero unico (politicamente corretto, ma per nulla giornalistico). Spariti Bocca, Biagi e Montanelli, è proprio la mediocrità desolante dei replicanti – i vari Giannini, Floris, Berlinguer, Formigli, Annunziata – a fare di Feltri il gigante che probabilmente non è. Amico personale della Fallaci, Feltri ha seguito la grandissima giornalista nella cecità assoluta dimostrata dall’Oriana nazionale di fronte all’11 Settembre, senza vedere che lo “scontro di civiltà” era una montatura terroristica interamente occidentale. Già berlusconiano e sempre controcorrente, pronto alla solitudine delle polemiche più aspre, a Feltri non difetta certo il coraggio: semmai, come quasi tutti gli altri, non ha compreso per tempo la reale natura del “golpe” neoliberale del 2011, dietro la maschera di Mario Monti. E ancora oggi, purtroppo, fatica a discernere tra debito pubblico e debito reale del sistema-paese, anche lui criminalizzando il deficit dello Stato, in un paese da decenni in avanzo primario: lo sa, Feltri, che lo Stato incassa con le tasse più di quanto non spenda per i cittadini?Quanto ai suoi detrattori – tantissimi, quasi tutti i suoi colleghi – va detto che, in questi anni, hanno brillato per renitenza professionale e alto tradimento dei lettori e dei telespettatori: se il famoso Ordine avesse un senso, quanti di loro avrebbero diritto di farne parte? Che c’azzeccano, con la categoria giornalistica, la Monica Maggioni reclutata dalla Trilaterale nonostante fosse dirigente Rai? E che dire di Lilli Gruber, ospite fissa del Bilderberg? Non hanno niente da dire, su questo, gli illustri Sandro Ruotolo e Paolo Borrometi? Pensano davvero che siano gli eccessi polemici e le cadute di stile a compromettere la dignità professionale dei “cani da guardia della democrazia”? Dicono ancora qualcosa i nomi di Bob Woodward e Carl Bernstein (“Washington Post”) che nel remoto 1972 – ben prima dell’odierna era glaciale – fecero crollare la presidenza Nixon con lo scandalo Watergate? Vinsero il Pulitzer, ovviamente, ma non erano al guinzaglio di alcuna corporazione post-mussoliniana. Un altro Pulitzer, il connazionale Seymour Hersh, è stato franco quanto l’insopportabile Feltri: se i giornalisti non avessero abdicato al loro compito fondamentale, in questi anni avremmo avuto meno guerre e meno stragi, perché – di fronte a una stampa con la schiena diritta – il potere non avrebbe osato spingersi oltre certi limiti.Bassa macelleria fondata sulla menzogna sistematica, praticabile solo a patto di non avere noie, dalla stampa. Un caso mondiale, emblematico? Le inesistenti “armi di distruzioni di massa”, pretesto per invadere l’Iraq di Saddam ponendo le premesse per una destabilizzazione geopolitica di tipo stragistico, cominciata con l’abbattimento delle Twin Towers e culminata coi tagliagole dell’Isis a seminare il terrore sia in Medio Oriente che nel cuore dell’Europa, con attentati sinistramente massonici (non islamici) nella loro spietata simbologia. Chi lo dice? Gioele Magaldi, per esempio: un autore che per l’italico mainstream resta oscuro quanto il suo besteller, “Massoni”, letteralmente ignorato da tutti i talkshow nonostante facesse nomi e cognomi, da Napolitano in giù, come inutilmente ricordato persino in Parlamento dai 5 Stelle. Dove sono, i giornalisti italiani, quando qualcuno si espone per svelare i retroscena della crisi che sta sventrando il paese? Oggi sono tutti a fischiare comodamente il puzzone di turno, Matteo Salvini, mettendo nel mazzo – per buon peso – lo stesso Feltri, notorio estimatore del capo leghista. Tutto fa brodo, pur di non avvistare il pericolo: va benissimo anche lo scalpo di Armando Siri (solo indagato, tuttora) per colpire la Flat Tax e il governo gialloverde, che ha avuto l’improntitudine di pensare che l’Italia si potesse governare anche senza sottomettersi alle mafie politiche locali, succursali delle mafie politiche europee.Per il mainstream che odia Salvini e detesta Feltri, il supermassone occulto Mario Draghi, quasi onnipotente signore d’Europa dopo l’esordio sul Britannia da cui collaborò alla svendita del paese, resta essenzialmente Super-Mario, ipotetico futuro premier quando finalmente il vero potere si sarà scrollato di dosso gli intrusi dell’ultima ora, i pasticcioni gialloverdi. Il governo non è libero di decidere nulla – ha ammesso Pino Cabras, parlamentare pentastellato, in un convegno del Movimento Roosevelt a Londra – perché nei ministeri e nei palazzi-chiave, cominciando dal Quirinale, domina il Deep State. Qualcuno, della libera stampa italiana pronta ad azzannare Feltri per gli sberleffi a Montalbano, si è peritato di rilanciare la notizia? Gli specialisti dell’antimafia sono coraggiosamente impegnati sul fronte della micro-mafia nazionale. Ma i loro colleghi come si regolano, con la vera macro-mafia, quella eurocratica, che da trent’anni ha dichiarato guerra all’Italia sbaraccando la Prima Repubblica? Divorzio fra Tesoro e Bankitalia, Sme, Trattato di Maastricht, Fiscal Compact, pareggio di bilancio. L’ex potenza industriale mediterranea ha perso il 25% del suo potenziale in una manciata di anni. Crisi, recessione, esasperazione. Dov’erano, i giornalisti, mentre tutto questo accadeva? E dove sono oggi? Nel solito posto: comodi, in platea, a distrarre il pubblico. Che screanzato, quel Feltri. Sia messo al bando, perché sciupa la foto di gruppo del glorioso giornalismo italiano.(Giorgio Cattaneo, “Con che coraggio attacca Feltri – per le battute su Montalbano – il giornalismo italiano che da trent’anni non dice la verità sulla crisi del paese?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 21 giugno 2019).Basso impero, l’avrebbe definito Giorgio Bocca. Il giornalismo italiano? Scomparso, ridotto a recitare veline di palazzo. Eppure a quanto pare esiste ancora, se è vero che due cronisti – Sandro Ruotolo e Paolo Borrometi – si appellano addirittura all’Ordine dei giornalisti, letteralmente indignati. Contro il silenzio del mainstream? Contro le bugie quotidiane del sistema radiotelevisivo? Contro l’omertosa reticenza delle redazioni di fronte a qualsiasi evento di rilievo, italiano e internazionale? Macché. Ce l’hanno con Vittorio Feltri, che si è permesso di insolentire nientemeno che il commissario Montalbano, cioè un personaggio letterario, proprio mentre il suo autore – Andrea Camilleri – lotta in ospedale tra la vita e la morte. Borrometi è un giornalista coraggioso, messo in pericolo dalla mafia. Ruotolo, popolare in Tv, è lo storico inviato di Michele Santoro. «Le parole di Vittorio Feltri su Andrea Camilleri e le sue opere – scrivono, in una lettera al presidente dei giornalisti italiani, Carlo Verna – hanno rappresentato per noi la goccia che ha fatto traboccare il vaso». E cos’avrebbe mai detto, Feltri, di così inaccettabile? «Mi dispiace, perché un uomo anche vecchio che muore suscita in te un certo dolore. Però – ecco il passaggio sotto accusa – mi consolerò pensando al fatto che Montalbano non mi romperà più i coglioni».
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Fake-Tav, Airola: tutto inventato, dai fondi Ue alle penali
Eccoci a parlare di Tav: finalmente una discussione, visto che quando abbiamo votato la verifica degli accordi con la Francia nel 2017 i tempi degli interventi erano stati contingentati incostituzionalmente – giusto per chiarirlo a chi si lamentava che si parlasse poco di quest’opera, nell’aula. Parliamone. Questa storia del Tav è intrisa di anomalie gravissime e regole calpestate, a cominciare dalla repressione violenta attuata dai governi precedenti a danno dei cittadini della val Susa. C’è da domandarsi come mai un popolo si compatti in questo modo, trasversalmente – giovani e anziani, dal vigile al sindaco – contro un’opera che voi definite fondamentale; un popolo che da vent’anni non si arrende, ma continua a lottare. Avete mai ascoltato le loro ragioni? No, non l’avete mai fatto: forse per paura della loro competenza, o perché sapete bene che le argomentazioni pro-Tav, SìTav, come minimo sono spesso delle “fake news”, sono delle menzogne: primo, perché l’accordo di base tra Italia e Francia nel 2001 prevedeva (all’articolo 1) che i lavori partissero a saturazione della linea esistente, che attualmente è utilizzata per meno del 15% della sua capacità di trasporto.Quindi dove stanno questi enormi flussi di merci tra noi e Lione? Le proiezioni di aumento del traffico (fatte vent’anni fa) sono miseramente crollate, come confermato recentemente dallo stesso Osservatorio della Torino-Lione. Inutile, quindi, far andare un treno merci – non passeggeri – in una galleria da 57 chilometri alla velocità di 160 all’ora, guadagnando una manciata di minuti, rispetto all’attuale linea. Secondo: perché non è mai partita, l’opera? Non c’è un centimetro – dico, un centimetro – di tunnel di base realizzato. Quest’opera non ha un centimetro di “buco”: sono state realizzate solo attività di riconoscimento geologico, comprese quelle in Francia. Perché più volte anche la Francia ha fatto un passo indietro: la Corte dei Conti francese, molto chiaramente, ha detto che l’opera è troppo cara, e quindi consiglia di ammodernare la linea esistente. In più ha ricordato che anche altri paesi, come Slovenia e Ungheria, hanno preferito migliorare l’esistente, piuttosto che imbarcarsi in opere costosissime e inutili. Più volte la stessa Europa ha scartato progetti, modificando la destinazione dei fondi. Inoltre, il Portogallo ha rinunciato all’opera senza pagare un centesimo di penale, pur avendo già ricevuto parte dei finanziamenti.Quindi, per favore, non parlateci più della grande linea Kiev-Lisbona, perché vi fareste ridere dietro: quella è roba da Ottocento, da Michele Strogoff. Oggi il traffico di merci viaggia prevalentemente sulla direttrice nord-sud, non su quella est-ovest. Assodato che non ci sono flussi di merci che giustifichino quest’opera, sappiate che la linea attuale può tranquillamente trasportare Tir e container: ma pochissimi la usano. Anche la storia dell’inquinamento si può risolvere con una tassa sul trasporto su gomma, come fanno gli svizzeri. E allora parliamo dello spauracchio sventolato continuamente: le penali. Vi voglio svelare un segreto: non ci sono penali da pagare. In riferimento agli appalti attribuiti, non sussiste alcun diritto a richiedere penali, come recita l’articolo 2, comma 2 e 3, lettera C, della legge 191 del 2009 (era la finanziaria 2010). La norma stabilisce che il contraente o l’affidatario dei lavori deve assumere l’impegno di rinunciare a qualsiasi pretesa risarcitoria in relazione alle opere individuate: deve rinunciare a qualunque pretesa, anche futura, connessa al mancato o ritardato finanziamento dell’intera opera e di lotti successivi.Viene ribadito, questo, anche all’articolo 3 della legge di ratifica del 5 gennaio 2017, quella precedentemente citata; identica previsione è contenuta nella delibera Cipe numero 67 del 2017, nel combinato disposto degli articoli 1 e 6 del deliberato. Io parlo di cose vere, scritte nero su bianco. Penali nei rapporti internazionali? Si tratta di decisioni rimesse agli Stati sovrani, come ricorda anche l’avvocatura dello Stato nella sua relazione giuridica, che deve essere solidamente ancorata alla sostenibilità socio-economica e finanziaria dell’intera opera secondo le stesse norme europee. Non si vede come possano imputarsi responsabilità gravi in capo agli Stati, quando questi presupposti mancano (cioè quando mancano i soldi). Esiste infine un precedente: quello del Portogallo, che nel 2012 cancellò la propria tratta ad alta velocità da Lisbona a Madrid. E non ci fu alcuna richiesta di indennizzo, o altra compensazione, da parte della Commissione Europea e della Spagna. Quindi nessuna penale, tranne le inutili minacce di Telt e il diktat dell’Unione Europea.Parliamo dei costi. La Torino-Lione è una linea che dovrebbe costare 9,6 miliardi di euro (attualizzati al 31 dicembre 2017) più 1,4 miliardi già spesi tra studi preliminari, indagini e gallerie geognostiche. Arriviamo a oltre 11 miliardi, considerato che per adesso – da parte dell’Unione Europea – c’è un solo impegno verbale per l’incremento del suo contributo dal 40 al 50%. Quindi potremmo anche non riceverlo. Il finanziamento del tunnel è di fatto rinviato all’approvazione del bilancio pluriennale dell’Unione Europea del 2021. I fondi già stanziati nel Grant Agreement non potranno essere utilizzati a causa dei ritardi, ma soprattutto perché l’articolo 16 dell’accordo del 2012 impone a Italia e Francia la disponibilità certa del finanziamento di tutta l’opera, compreso l’importo del 40%: quindi quei soldi non arriveranno. Contributo solo promesso, dunque, ma non ancora approvato dall’Unione Europea, quale requisito indispensabile per avviare la costruzione del tunnel di base: quindi il tunnel non può partire. Questa disponibilità di fondi non esiste: la Francia non ha stanziato un solo euro, per il tunnel di base.Ricapitolando: arriviamo a un costo superiore ai 13 miliardi, di cui più di 11 ancora da spendere. Inoltre, la tratta francese (che costava 7,7 miliardi nel 2011) oggi costerebbe circa 9 miliardi. Voilà: superati i 20 miliardi. Tutto ciò non servirebbe, ripeterlo, perché c’è scritto nero su bianco nell’analisi costi-benefici che l’opera non conviene: non è una fake news, la commissione ha impiegato tanto tempo, proprio per approfondire adeguatamente la materia. Non dimentichiamo che, per di più, c’è una ripartizione asimmetrica dei costi: oggi è indispensabile che la ripartizione sia riiscussa, tra Italia e Francia, alla luce del fatto che i due paesi non vogliono più fare le linee di accesso al tunnel: decisione che modifica questa partizione asimmetrica. Cioè: un chilometro italiano costerebbe 280 milioni, un chilometro francese 60. Quindi, chi insiste su quest’opera non ha a cuore l’interesse del popolo, ma quello di multinazionali ed euro-mafie che non aspettano altro che aggiudicarsi ricchi appalti. Peraltro, essendo giuridicamente territorio francese (anche il cantiere italiano sarebbe in territorio francese) gli appalti se li aggiudicherebbero senza leggi antimafia. Dovranno però aspettare un po’, perché sull’intera fattibilità la Francia deciderà soltanto nel 2038. Capito?Ma come potete pensare di spendere miliardi per un’opera inutile che, se tutto procede come desiderato dei promotori, potrebbe essere terminata fra trent’anni? E oggi mi dovete spiegare come andrete a Matera, “città della cultura” 2019. Questo paese è stanco di veder sprecare i soldi. Questo paese vuole strutture adeguate a muoversi, a viaggiare su strade locali e non andare a lavorare stipati come sardine in carri bestiame; vorrebbe poter farsi una gita senza dover prendere due bus e un taxi. Telt non ha alcun titolo o via libera, ancorché silenzio-assenso, al lancio delle gare Tav. Qualora Telt procedesse in tal senso, questo comporterebbe una grave e diretta violazione degli accordi Italia-Francia, che sono legge vigente dello Stato italiano. Il governo è direttamente responsabile dell’operato di Telt. E i residui fondi dell’Unione Europea attualmente a disposizione sono già persi, anche in presenza di proroga del Grant Agreement al 2020. Le attività finanziate sono in grave ritardo danni a causa di comprovate inefficienze di Telt. La Commissione Europea e l’Inea sono perfettamente a conoscenza di ciò. A prescindere dal lancio delle gare Telt, la Commissione Europea vorrebbe decurtare oltre 300 milioni di sovvenzioni assegnate (ma la stessa Commissione non può imporre un calendario).Tale situazione è l’esatta replica di quanto già visto il 2013 col governo Monti. Il grave ritardo a cui assistiamo è diretta responsabilità chi doveva agire per tempo e non ha agito, a cominciare dai commissari dei governi passati. Ma qui non ci sono in gioco solo miliardi sottratti a scuola, ospedali e ferrovie utili. C’è una questione di ordine etico e morale. Lo Stato ha spianato la volontà popolare con la violenza. Lo Stato non ha ascoltato i cittadini. Lo Stato si è comportato da dittatore, calpestando tutto e tutti per il Tav. Ed è scoccata l’ora di dare giustizia al popolo valsusino, e di riconoscere – dopo quasi 30 anni – che avevano ragione loro, i valsusini. Non solo vogliamo mantenere una promessa fatta tanto tempo fa da Beppe Grillo e da tutti noi, ma li ringrazieremo per quello che hanno fatto per il paese, e soprattutto per l’esempio che ci hanno dato. La sovranità appartiene al popolo. E quando il popolo è unito, nessuno può batterlo.(Alberto Airola, intervento al Senato il 7 marzo 2019. Senatore piemontese del Movimento 5 Stelle, Airola è un severo oppositore del progetto Tav Torino-Lione, fondato essenzialmente su dati gonfiati e proiezioni illusorie).Eccoci a parlare di Tav: finalmente una discussione, visto che quando abbiamo votato la verifica degli accordi con la Francia nel 2017 i tempi degli interventi erano stati contingentati incostituzionalmente – giusto per chiarirlo a chi si lamentava che si parlasse poco di quest’opera, nell’aula. Parliamone. Questa storia del Tav è intrisa di anomalie gravissime e regole calpestate, a cominciare dalla repressione violenta attuata dai governi precedenti a danno dei cittadini della val Susa. C’è da domandarsi come mai un popolo si compatti in questo modo, trasversalmente – giovani e anziani, dal vigile al sindaco – contro un’opera che voi definite fondamentale; un popolo che da vent’anni non si arrende, ma continua a lottare. Avete mai ascoltato le loro ragioni? No, non l’avete mai fatto: forse per paura della loro competenza, o perché sapete bene che le argomentazioni pro-Tav, SìTav, come minimo sono spesso delle “fake news”, sono delle menzogne: primo, perché l’accordo di base tra Italia e Francia nel 2001 prevedeva (all’articolo 1) che i lavori partissero a saturazione della linea esistente, che attualmente è utilizzata per meno del 15% della sua capacità di trasporto.
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Arlacchi: Venezuela nella trappola Usa, sui media solo bugie
Ho appena terminato uno studio della crisi del Venezuela basato su documenti Onu e di centri di ricerca indipendenti. Mi è stato difficile mantenere la calma mentre davanti ai miei occhi si componeva una narrativa opposta a quella corrente. Il caso del Venezuela si configura nei termini di una gigantesca truffa informativa che ci oltraggia ogni giorno con notizie false, omissive e distorte su ciò che accade in quel paese. Sono le barbare sanzioni americane inflitte dal 2015 in poi approfittando del crollo del prezzo del petrolio, e cioè della maggiore fonte di entrate pubbliche del Venezuela, e non le politiche sbagliate dei governi Chavez-Maduro a detenere la massima colpa del dramma odierno sofferto da 32 milioni di persone. L’economia del Venezuela è crollata a causa del blocco delle importazioni dovuto all’impossibilità di usare il dollaro per pagarle dopo l’imposizione delle sanzioni da parte prima di Obama e poi di Trump. Gli ospedali del Venezuela sono rimasti senza medicine perché le banche internazionali si rifiutano di accettare i relativi pagamenti in dollari da parte del governo Maduro. E così sta accadendo per il cibo e per le risorse necessarie a far funzionare la macchina produttiva.L’opera viene completata dall’accaparramento di beni e dal mercato nero dominati dai gruppi mafiosi locali protetti e incoraggiati dall’ opposizione e dalla longa manus del governo Usa. C’è poi una mafia valutaria che ha distrutto la moneta locale, il bolivar, alimentando un’iperinflazione senza riscontro nei fondamentali dell’economia. Mafia protetta anch’essa da chi vuole far crollare il governo legittimo e consegnare uno dei paesi più ricchi di risorse naturali del mondo nelle mani degli Stati Uniti. Come? Tramite la solita ricetta neoliberista di privatizzazioni, liberalizzazioni e tagli della spesa sociale promessa da Guaidò ed altri pupazzi manovrati dal governo Usa e dalle sue estensioni internazionali. Questa è una prima sintesi dei risultati della mia ricerca. In un post successivo approfondirò ancora e vi indicherò le fonti cui ricorrere per contrastare questa industria della menzogna globale.(Pino Arlacchi, “Il grande imbroglio sul Venezuela”, dalla pagina Facebook di Arlacchi del 23 febbraio 2019; post ripreso da “Megachip” il 26 febbraio 2019. Sociologo e criminologo, docente anche alla Columbia University di New York, Arlacchi è stato tra gli ideatori della strategia antimafia, insieme a Falcone e Borsellino, firmando il progetto della Dia, Direzione Investigativa Antimafia. Attivo anche a livello internazionale contro la criminalità organizzata, dal 1997 al 2002 ha ricoperto l’incarico di sottosegretario generale delle Nazioni Unite, direttore dell’Undccp (antidroga e prevenzione del crimine), dirigendo anche l’ufficio delle Nazioni Unite a Vienna. Nel 2000 ha promosso a Palermo la Convenzione Onu contro la criminalità internazionale, firmata da 124 paesi. Nel campo della lotta al riciclaggio del denaro sporco, Arlacchi ha promosso la firma nel 2001 da parte di 34 paradisi fiscali di un accordo che li ha impegnati a lavorare con l’Onu per adeguare le loro legislazioni agli standard internazionali di trasparenza finanziaria. E’ stato impegnato con successo in Tagikistan, Kosovo, Cina. Analista geopolitico, è considerato un esperto internazionale in materia di sicurezza).Ho appena terminato uno studio della crisi del Venezuela basato su documenti Onu e di centri di ricerca indipendenti. Mi è stato difficile mantenere la calma mentre davanti ai miei occhi si componeva una narrativa opposta a quella corrente. Il caso del Venezuela si configura nei termini di una gigantesca truffa informativa che ci oltraggia ogni giorno con notizie false, omissive e distorte su ciò che accade in quel paese. Sono le barbare sanzioni americane inflitte dal 2015 in poi approfittando del crollo del prezzo del petrolio, e cioè della maggiore fonte di entrate pubbliche del Venezuela, e non le politiche sbagliate dei governi Chavez-Maduro a detenere la massima colpa del dramma odierno sofferto da 32 milioni di persone. L’economia del Venezuela è crollata a causa del blocco delle importazioni dovuto all’impossibilità di usare il dollaro per pagarle dopo l’imposizione delle sanzioni da parte prima di Obama e poi di Trump. Gli ospedali del Venezuela sono rimasti senza medicine perché le banche internazionali si rifiutano di accettare i relativi pagamenti in dollari da parte del governo Maduro. E così sta accadendo per il cibo e per le risorse necessarie a far funzionare la macchina produttiva.
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I cent’anni di Andreotti, super-democristiano avanti Cristo
Oggi Giulio Andreotti avrebbe compiuto cent’anni, ma lui fu democristiano avanti Cristo. Aveva quattro giorni quando nacque il Partito Popolare che era il nome da signorina della Democrazia Cristiana. Ma non è escluso che quel 18 gennaio del 1919, alla destra del padre, don Luigi Sturzo, ci fosse già il piccolo Giulio con la gobbina e il doppiopetto in fasce, a suggerire cosa fare e soprattutto come. De Gasperi fu statista prima di essere democristiano, e austriaco prima di essere italiano, Moro o Fanfani furono professori, teorici catto-fascisti prima di diventare democristiani. Andreotti no, fu la Dc. Andreotti non fu mai presidente della Repubblica né segretario della Dc, non fu mai presidente del Senato o della Camera, non fu mai sindaco o vescovo di Roma, semplicemente perché lui fu l’anima, la ragnatela e l’icona della Repubblica italiana, della Dc, dei governi, della Curia, delle due Camere riunite in un solo emiciclo, volgarmente denominato gobba; fu il simbolo vivente della Roma di potere e sacrestia, figlio di Santa Romanesca Chiesa, come diceva il cardinal Ottaviani.Andreotti fece la comunione senza mai passare per la confessione. Ebbe sette vite, come i gatti e i sette colli di Roma, e guidò sette governi brevi; rappresentò l’immortalità al potere, inquietante ma rassicurante. Disse che il potere logora chi non ce l’ha, e fu di parola. Quando non ebbe più potere, si logorò, volse la gobba a levante e si costituì dopo lunga contumacia al Titolare. Non fu statista ma statico, inamovibile. Andreotti ebbe più senso del potere che dello Stato, della curia più che della nazione, della sacrestia più che del pulpito. Fu minimalista, antieroico e antidecisionista, rappresentò l’italianissima trinità Dio, pasta e famiglia, sostituendo la patria con la pajata e sognando un dio che patteggia col diavolo. Il suo ideologo fu Alberto Sordi, il precursore Aldo Fabrizi. Guidò l’Italia con passo felpato nelle vacanze dalla storia. Fu vicino ai suoi elettori, attento alle loro richieste, alle cresime e alle nozze. E’ mitico l’armadio nel suo studio di piazza Dan Lorenzo in Lucina, gestito dalla segretaria Enea, coi vassoi d’argento da mandare ai matrimoni, pare divisi in tre fasce.Per secoli fu ritenuto l’Incarnazione del Male, la Medusa che pietrifica e a volte cementifica. Ai tempi di Mani Pulite, nella sua Ciociaria, il fascista galantuomo Romano Misserville organizzò un processo-spettacolo ad Andreotti; calò il gelo nei suoi confronti di tanti suoi galoppini del passato che pure gli dovevano molto. Andreotti non lasciò riforme dello Stato e grandi opere, ma un metodo, uno stile, un modo di vedere, intravisto dalle fessure dei suoi occhi, anche per non lasciare prove compromettenti sulla retina. Primato assoluto della sopravvivenza, personale e popolare, alle intemperie della storia. Fu moderato fino all’estremo e devoto ma remoto da paradisi e santità. In politica estera fece arabeschi, fu filo-mediterraneo, non filo-atlantico e filo-israeliano, come del resto anche Moro e Craxi. Accusato d’essere il Capo della Cupola non fu poi condannato perché l’accusa inverosimile rimosse anche ogni colpa verosimile. Volevano infliggergli l’ergastolo ma alla fine fu lui a infliggere l’ergastolo all’Italia, diventando senatore a vita. Ma tra tanti imbucati, lui meritava il laticlavio.Sopravvisse alla Dc e ai suoi capi storici, ai suoi stessi bracci destri (aveva infatti molte chele), sopravvisse ai suoi nemici e perfino a Oreste Lionello che fece di lui una caricatura complice. Arguto quand’era in vena, come si usa dire degli spiritosi e dei vampiri (e lui fu ambedue), Andreotti non fu solo l’anima della Dc e della Prima Repubblica ma anche il top model dello Stivale. Somatizzò l’Italia. Le mani giunte e intrecciate per l’indole cattolica, il corpo rispecchiava un paese invertebrato, disossato e militesente, esonerato dalla ginnastica e incapace di mostrare muscoli (neanche nel sorriso Andreotti ha mai mostrato i denti, ma solo un fil di labbra; a tavola beveva brodini per non addentare). Tutti lo immaginavano bassino, ma lo era per tattica e umiltà; in realtà era alto, e sarebbe stato più alto se avessero srotolato il nastro della sua curva pericolosa. L’assenza del collo fugava ogni indizio di mobilità e superbia, la voce sibilante e romanesca, confidenziale e domestica era emessa da una fessura; sussurrava come dietro le grate di un confessionale. E le spalle curve per custodire la sua compromettente scatola nera nella gobba (lo scrissi nel ’93 e fu poi ripreso da tanti, tra cui Beppe Grillo).Figurò l’italiano-tipo piegato su se stesso a tutelare il suo particulare. Il suo volto di sfinge, l’assenza di colorito, impenetrabile al sole per non modificare la cera, la testa piantata direttamente sulle spalle come l’aracnide cefalotoracica e le orecchie estroverse per captare ogni minimo fruscìo; gli occhi pechinesi, salvo illusioni ottiche che a volte li ingrandivano, grazie alle lenti bifocali; il passo circospetto e l’obliqua figura, il fideismo ironico e la ferocia minuziosa, la devozione curiale e la visione nichilista sulle sorti dell’umanità. Non fu arcitaliano ma casto e asessuato, non rappresentò l’indole pomiciona e fanfarona degli italiani. Ma la sua figura, metà bigotta e metà malandrina, ironica e pregante, rappresentava l’ambiguità d’un paese devoto e peccatore, che adora Gesù ma tresca con Belzebù. Brillante nelle conversazioni, reticente nei diari; sapeva fior di retroscena, ma preferì l’omertà. Nei libri raccontava come non erano andati i fatti. Visse a lungo, per godersi pure la nostalgia di quando c’era lui al potere. Andreotti restò un punto interrogativo, come la sua sagoma curva. Non fece la storia ma la consuetudine; nutrì l’aneddotica, il thriller e la leggenda. Come sua madre, cucì all’Italia un abito su misura per i suoi difetti.(Marcello Veneziani, “Andreotti democristiano avanti Cristo”, da “La Verità” del 13 gennaio 2019; articolo ripreso dal blog di Veneziani).Oggi Giulio Andreotti avrebbe compiuto cent’anni, ma lui fu democristiano avanti Cristo. Aveva quattro giorni quando nacque il Partito Popolare che era il nome da signorina della Democrazia Cristiana. Ma non è escluso che quel 18 gennaio del 1919, alla destra del padre, don Luigi Sturzo, ci fosse già il piccolo Giulio con la gobbina e il doppiopetto in fasce, a suggerire cosa fare e soprattutto come. De Gasperi fu statista prima di essere democristiano, e austriaco prima di essere italiano, Moro o Fanfani furono professori, teorici catto-fascisti prima di diventare democristiani. Andreotti no, fu la Dc. Andreotti non fu mai presidente della Repubblica né segretario della Dc, non fu mai presidente del Senato o della Camera, non fu mai sindaco o vescovo di Roma, semplicemente perché lui fu l’anima, la ragnatela e l’icona della Repubblica italiana, della Dc, dei governi, della Curia, delle due Camere riunite in un solo emiciclo, volgarmente denominato gobba; fu il simbolo vivente della Roma di potere e sacrestia, figlio di Santa Romanesca Chiesa, come diceva il cardinal Ottaviani.
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Tav, la strana guerra contro i palestinesi della val di Susa
Ormai, parlare dell’orrido Tav che incombe sulla valle di Susa è gradevole quanto lo è inoltrarsi tra il filo spinato del conflitto israelo-palestinese, degenerato in cancrena da decenni e trasformato in tumore fisiologico, incurabile. Di qua i buoni, di là i cattivi. Nemici, odio: il banchetto che qualcuno sperava di allestire fin dall’inizio? Non che ci tenessero, i palestinesi della valle di Susa: ne avrebbero fatto volentieri a meno, dell’intifada che li ha opposti periodicamente ai reparti antisommossa. Una sfida costata moltissimo in termini di conseguenze giudiziarie, tra arresti in massa e processi. Contro Golia, il piccolo Davide brillò nel 2012, quando rinunciò alla fionda: emozionò l’Italia (obbligando ad accorrere sul posto persino le telecamere di Santoro) il drammatico volo dell’acrobata Luca Abbà, che sfiorò la morte precipitando dal traliccio dell’Enel sul quale si era arrampicato, per protesta – lui anarchico, alle prese con una classica dimostrazione di resistenza nonviolenta. Ma durò poco: le cariche dispersero i manifestanti scesi a bloccare l’autostrada, messi in fuga e rincorsi casa per casa, dopo giorni di tensione. Tutto doveva tornare all’ordine fisiologico delle cose, cioè a come si presume che il pubblico s’immagini sia la realtà: un’aspra lotta tra opposti che si detestano, una partita feroce in cui difficilmente vincerà il migliore.Nemmeno l’umorismo iperbolico di Paolo Villaggio, forse, sarebbe riuscito a dipingere il carattere lunare, gaglioffo e cialtrone del fantasma ferroviario che insidia da più di vent’anni l’estremo nord-ovest italiano: un ipotetico super-treno pensato negli anni ’80 del secolo scorso per i passeggeri, surclassato in capo a un decennio dall’avvento dei voli low-cost e infine umiliato anche dal traffico merci, defunto pure quello. La globalizzazione “cinese” sbarca a Genova e punta verso Rotterdam, snobbando il Piemonte e le Alpi del Rodano. Dalla Fortezza Bastiani del Tav, a lungo presidiata dall’ineffabile Pd con la collaborazione del centrodestra (leghisti compresi), ormai si guarda con malinconia ai dati, impietosi, sciorinati ufficialmente anche a Palazzo Chigi: il flusso di merci è crollato, e la ferrovia internazionale che già collega Torino a Lione attraversando l’infelice valle di Susa (via Modane, traforo del Fréjus) potrebbe tranquillamente reggere un incremento di traffico del 900%, se solo ci fossero merci da trasportare. Bel guaio: cosa bisognerà inventare, ancora, per spillare soldi euro-italiani da spalmare su appalti e subappalti? Avverte il giallista Massimo Carlotto, vicino ai NoTav: le grandi opere sono perfette per riciclare denaro, nell’immensa “lavanderia a cielo aperto” chiamata Europa. Business is business: non è che si possa smontare così, su due piedi, un grande affare destinato a pompare milioni (miliardi) in una filiera che include industria e indotto cantieristico, studi e consulenze, progettisti, banche e partiti.Se sento ancora parlare di Tav Torino-Lione, scrisse Giorgio Bocca nel 2005, vado a ripescare il mio vecchio Thompson dal pozzo in cui l’avevo gettato alla fine della guerra partigiana. Si era documentato, l’ultimo grande vecchio del giornalismo italiano: aveva capito che i palestinesi inermi le avevano buscate in modo selvaggio, riempiti di botte – uomini e donne, ragazzi e anziani – dai robocop venuti da lontano, in piena notte, per sgomberare il prato di Venaus occupato dalle famiglie impegnate in una sorta di sit-in permanente. Ne seguì una sommossa popolare a carattere insurrezionale: qualcosa che in Italia s’era visto soltanto nei moti di Reggio Calabria del 1970. Un popolo sulle barricate, armato solo di indignazione. Scudi umani, i sindaci in fascia tricolore (e le loro auto, quelle dei vigili urbani, spedite a sbarrare le strade, coi lampeggianti accesi). Due giorni di follia collettiva, dopo il pestaggio notturno, fino alla paralisi della tangenziale di Torino e alla capitolazione del governo: progetto sospeso, ritirato, archiviato. Clamorosa vittoria dei palestinesi, che da quel momento cominciarono a credersi invincibili. O meglio: ritennero invincibile la forza della ragione, la sovranità democratica del cittadino, la legittimità della protesta di una comunità coesa e fasciata di tricolore.Durò anni, l’illusione. Una speranza radicata: il governo centrale si sarebbe deciso a cestinare il dossier – poi bocciato anche da 360 tecnici universitari – per concludere che sì, avevano ragione i palestinesi della valle di Susa: quella ferrovia andava dimenticata, gettata nella spazzatura della storia. Ma le trivelle tornarono, dopo un quinquennio di silenzio. Era il 2010. La tensione emotiva era scemata, molti sindaci erano spariti – non rieletti, o semplicemente rimasti a casa, non più disposti a fare da caschi blu. Fu allora che cominciò l’accerchiamento, lento e inesorabile. Senza più i sindaci in prima fila, i NoTav erano nudi. “Siete finiti”, li avvertì cordialmente il sindaco di Torino, Chiamparino. Risposero in quarantamila, con una marcia sotto la neve. I piani di Roma, intanto, erano cambiati: il cantiere per la prima galleria esplorativa, inizialmente programmato nel prato poi “espugnato” a Venaus nel 2005, sarebbe stato reimpiantato a Chiomonte, sopra le gole della Dora Riparia, in posizione militarmente difendibile. I NoTav risposero asserragliandosi proprio lì, tra le loro Termopili. Nacque la Libera Repubblica della Maddalena, il villaggio di Asterix attrezzato – con barricate – per tentare di resistere all’esercito imperiale. I reparti antisommossa, duemila uomini, si presentarono puntuali all’alba del 27 giugno 2011. Agirono con calma, minimizzando la loro forza d’urto. In cabina di regia il ministro Maroni e il capo della polizia Manganelli. Niente più cariche, solo lacrimogeni.Ci rimasero malissimo, i palestinesi: avevano sperato di ripetere il “miracolo” del 2005, quand’erano riusciti – sciamando in 80.000 attraverso i boschi – a sfrattare la polizia da Venaus. Una settimana dopo lo sgombero della “Libera Repubblica”, il 3 luglio 2011 tentarono di riprendersi Chiomonte. Erano in centomila: un corteo lungo chilometri. Pullman da tutta Italia, decine di migliaia di valsusini. E anche giovani dei centri sociali: quelli che poi, nel pomeriggio, avrebbero contribuito a trasformare la protesta in guerriglia. “Volevano il morto”, dichiarò Maroni. Bilancio ufficiale: 200 feriti per parte. E fine di una lunga, gloriosa anomalia: la lotta popolare esclusivamente nonviolenta, nata e cresciuta in mezzo ai monti, che tanto aveva spaventato la politica. Inammissibile che una comunità di sessantamila valligiani riuscisse a fermare le ruspe. Intollerabile, che lo facesse in modo pacifico. Inaccettabile, che imponesse al governo di lasciarsi ascoltare, e lo costringesse a prender nota del fatto che, secondo tutti gli esperti, la linea Tav Torino-Lione era (ed è) una pazzia completamente inutile, destinata a pesare per decine di miliardi sul debito pubblico dopo aver reso invivibile il territorio, cioè i 50 chilometri che separano Torino dalla Francia. Rocce piene di amianto, montagne dove l’Agip scavò decine di gallerie per estrarre l’uranio al tempo del nucleare italiano. Falde acquifere a rischio, salute in pericolo e addio agricoltura. Dissesto idrogeologico irrimediabile, apocalisse urbanistica, catastrofe idrica incombente sulla stessa area metropolitana torinese. Ma perché, di grazia? A beneficio di chi?“Diteci almeno a cosa servirebbe, tutto questo”. Domanda rimasta sempre inevasa. Lo vuole l’Europa, c’è un impegno con la Francia. Davvero? Sì e no. L’Europa ha cambiato idea: ha archiviato l’originaria, fantascientifica direttrice Kiev-Lisbona, di cui la Torino-Lione sarebbe stata il passante alpino. Quanto alla Francia, varie istituzioni parigine hanno via via intiepidito la loro posizione. Analoga retromarcia tattica dal governo Renzi: è vero, la nuova linea costa troppo; meglio limitarsi al solo traforo, facendo poi passare i treni sull’attuale linea (perfettamente idonea, dunque – percorsa, già oggi, dal Tgv francese). Nel frattempo, sui NoTav si è scatenata una campagna di demonizzazione parossistica, da parte della politica istituzionale e dei grandi media. E il movimento valsusino, senza più la tutela diretta dei sindaci, ha fatto miracoli per arginare il pericolo di infiltrazioni da parte delle frange virtualmente violente (un conto è gestire un corteo, un altro controllare manifestanti in ordine sparso, nei boschi). Anni durissimi, rischiosi, in bilico, ma durante i quali – nonostante tutto – la resistenza dei palestinesi ha conquistato piena cittadinanza in larghi strati del paese, anche grazie al generoso impegno di opinion leader di prima grandezza, scrittori e artisti, cantanti, giuristi, intellettuali. Senza con questo riuscire minimamente a scalfire il muro di omertoso silenzio che ancora protegge, misteriosamente, il progetto della grande opera: un dogma marmoreo, quasi mistico, che sembra imposto da una religione sconosciuta, alla quale gli stessi politici (ministri, premier) appaiono sottomessi.C’è altro, poi, che i valsusini sanno e gli altri italiani per lo più ignorano. E’ una storia complicata, tra loro e il governo. Una storia tormentata e opaca, per molti aspetti, che risale addirittura alla Liberazione, quando molti partigiani – in maggioranza comunisti – rifiutarono di consegnare le armi agli alleati, per poi tirarle fuori, occupando fabbriche, in risposta all’attentato a Togliatti. Ha radici antiche, il ribellismo della valle di Susa, industriale e operaia già alla fine dell’800. Dopo il Sessantotto, mentre i padri issavano bandiere rosse sui cotonifici, decine di figli cedettero alla tentazione della lotta armata. La valle di Susa è stata l’unica area non metropolitana, in tutta Italia, ad allevare una colonna di terroristi, arruolati tra le file di Prima Linea. Poi vennero gli anni ’80, con l’autostrada del Fréjus che la valle non voleva. Le solite mazzette e, a seguire, la relativa Tangentopoli, con arresti eccellenti, mentre la commissione parlamentare antimafia denunciava il radicamento della ‘ndrangheta nell’alta valle, il paradiso sciistico che a Sestriere avrebbe ospitato i Mondiali di sci e poi le Olimpiadi Invernali. Quello di Bardonecchia è stato il primo Consiglio comunale italiano, a nord del Po, a essere disciolto per mafia.L’onorata società tornò a occupare la cronaca della valle di Susa poco dopo gli attentati siciliani costati la vita a Falcone e Borsellino, quando la magistratura di Torino scoprì che erano finite a una cosca calabrese le pistole uscite illegalmente, a centinaia, da un’armeria di Susa. Chi avrebbe dovuto vigilare non l’aveva fatto: emerse l’ombra dei servizi segreti. Gli inquirenti avevano scoperto il traffico di armi grazie a un pentito della ‘ndrangheta, che smise di parlare (di colpo) dopo che gli fu ucciso il fratello, proprio in valle di Susa, da un ex agente del Sismi, reo confesso. Uno stillicidio di notizie inquietanti, che il valsusino medio – non ancora palestinese – apprendeva con sgomento, a metà degli anni ’90. A seguire, cominciarono a esplodere bombe: una dozzina di attentati dinamitardi, notturni e devastanti ma tutti incruenti, colpirono le prime trivelle del futuro Tav ma anche centraline Enel, tralicci telefonici, ripetitori televisivi. I giornali, in coro, parlarono di eco-terrorismo anarco-insurrezionalista. Comparve una sigla, “Lupi Grigi”, con rivendicazioni deliranti contro le grandi opere. Finirono in manette tre giovani anarchici, due dei quali (“Sole e Baleno”) poi trovati morti in stato di detenzione, impiccati. L’accusa: banda armata e associazione sovversiva. Lui, Edoardo Massari, un anarchico piemontese. Lei, Maria Soledad Rosas, argentina, giovanissima, venuta in Europa in vacanza premio, dopo il liceo, e poi rimasta in Italia perché innamoratasi del suo “Edo”. Il pm annunciò di avere “prove granitiche”, contro di loro. Salvo poi ammettere il tragico errore, fuori tempo massimo. Scagionati post mortem, alla fine del processo: non erano stati quei ragazzi, a far saltare in aria mezza valle di Susa. Chi, allora?Aveva in testa anche questi pensieri, il valsusino medio (mediamente colto e informato, mediamente scettico) quando cominciò a diventare un po’ palestinese, trascinando la famiglia nei prati di Venaus dove, nel 2005, si era accampata la polizia, spedita lassù da un governo che sosteneva fosse fondamentale far passare proprio di lì, spianando l’intera vallata, la famosa super-ferrovia miliardaria destinata a collegare il Portogallo all’Ucraina. Non può essere, si dicevano i valligiani: avranno capito male, a Roma. E così studiarono, si documentarono, mobilitarono i migliori specialisti. Non sta né in cielo né in terra, conclusero: è un’opera faraonica e devastante, tragicamente inutile. Ne parlavano anche coi poliziotti infreddoliti, inviati a Venaus a presidiare il prato prescelto per accogliere il primo cantiere. Dai NoTav, una protesta formato famiglia: bambini, polenta, bicchieri di tè caldo offerti agli stessi agenti – non quelli che li avrebbero sgomberati (per l’operazione, il reparto presidiario fu avvicendato). Gli incursori notturni colpirono alla cieca, travolgendo tende e sacchi a pelo. Una gradine di manganellate, al buio. Le ambulanze, le urla, i feriti. L’inizio della saga, già l’indomani: i valsusini, a migliaia, nelle strade. La circolazione paralizzata, i treni fermi. Il ministro dell’interno, Pisanu, scomparso dai radar. Imbarazzo, fra i palazzi romani. I palestinesi in rivolta ospitati per la prima volta in televisione, da Gad Lerner, per poi ricevere i primi rumorosi endorsement a reti unificate: Beppe Grillo, Dario Fo. E quei benedetti sindaci, avvolti nel tricolore, a ripetere che la legalità comincia dal rispetto del cittadino, democraticamente sovrano e tutelato da diritti costituzionali.Era solo il 2005, ma sembrano passati cent’anni. Le famiglie di allora avevano una luce particolare, negli occhi. La crisi era ancora lontana. C’era lavoro per tutti, i negozi non avevano ancora cominciato a chiudere, uffici e fabbriche funzionavano. All’ora dell’aperitivo i bar tracimavano di giovani – tutti palestinesi, naturalmente, tra svolazzi di bandiere NoTav. Un clima festoso, di fiducia. “Capiranno, a Roma. Si decideranno a ragionare”. I valsusini: riscopertisi comunità, proprio grazie allo scampato pericolo. Idee politiche forse rudimentali, antiche: la destra, la sinistra. A dire il vero, nella valle ribelle non s’era visto nessuno dei big: tutti spariti, i grandi partiti. La parte del cattivo era toccata a Berlusconi, ma poi Prodi (frenato dai ministri filo-valsusini Paolo Ferrero e Alfonso Pecoraro Scanio) non aveva comunque mai mostrato entusiasmo, per il fervore democratico dei palestinesi garibaldini, alle prese con quello strano risorgimento alpino, montanaro, periferico ma non provinciale. E’ come se si fosse laureato honoris causa, il valsusino medio, in questi anni grami: si è probabilmente conquistato il suo diploma di cittadino di prima classe, quanto a consapevolezza, mentre buona parte dell’Italia dormiva ancora sugli allori, prima di essere svegliata nel peggiore dei modi dal professor Monti, dalla professoressa Fornero.Si racconta che dal massiccio dell’Ambin, nel quale si è andato scavando il dannato tunnel esplorativo, sia disceso Annibale coi suoi elefanti. In direzione opposta avanzò Giulio Cesare alla conquista delle Gallie, facendo base a Susa, dove poi l’imperatore Costantino assediò Massenzio. Poco più a valle, Carlomagno sbaragliò i Longobardi manzoniani di Adelchi e Desiderio per poter fondare il Sacro Romano Impero, il cui erede Barbarossa mise a soqquadro Susa. Napoleone aprì la strada del Moncenisio, Cavour fece scavare il traforo del Fréjus. Quasi ogni sasso, in valle di Susa, ha molti secoli da raccontare, all’ombra dell’imponente Sacra di San Michele, monumento simbolo del Piemonte, eretto prima dell’anno Mille. Sul versante opposto, da una roccia emerge il Giove Dolicheno, scolpito dai soldati mediorientali arruolati da Roma nella Legione Siriana, di stanza nella valle conquistata dai Cesari. I valsusini amano le loro montagne, le frequentano con devozione. Le guardano diventare rosse, e poi viola, quando il tramonto illanguidisce nel crepuscolo lungo la cordigliera transalpina, dalla piramide del Rocciamelone alla mole nevosa del Niblè. Prima di altri, a loro spese, hanno imparato che il nuovo impero ha un’unica legge davvero sacra, quella dei soldi. A loro modo, da palestinesi, sono stati tra gli ultimi difensori di una repubblica di cui tutti gli italiani, oggi, hanno nostalgia.(Giorgio Cattaneo, “Tav, la strana guerra contro i palestinesi della valle di Susa”, dal blog “Petali di Loto” dell’11 dicembre 2018).Ormai, parlare dell’orrido Tav che incombe sulla valle di Susa è gradevole quanto lo è inoltrarsi tra il filo spinato del conflitto israelo-palestinese, degenerato in cancrena da decenni e trasformato in tumore fisiologico, incurabile. Di qua i buoni, di là i cattivi. Nemici, odio: il banchetto che qualcuno sperava di allestire fin dall’inizio? Non che ci tenessero, i palestinesi della valle di Susa: ne avrebbero fatto volentieri a meno, dell’intifada che li ha opposti periodicamente ai reparti antisommossa. Una sfida costata moltissimo in termini di conseguenze giudiziarie, tra arresti in massa e processi. Contro Golia, il piccolo Davide brillò nel 2012, quando rinunciò alla fionda: emozionò l’Italia (obbligando ad accorrere sul posto persino le telecamere di Santoro) il drammatico volo dell’acrobata Luca Abbà, che sfiorò la morte precipitando dal traliccio dell’Enel sul quale si era arrampicato, per protesta – lui anarchico, alle prese con una classica dimostrazione di resistenza nonviolenta. Ma durò poco: le cariche dispersero i manifestanti scesi a bloccare l’autostrada, messi in fuga e rincorsi casa per casa, dopo giorni di tensione. Tutto doveva tornare all’ordine fisiologico delle cose, cioè a come si presume che il pubblico s’immagini sia la realtà: un’aspra lotta tra opposti che si detestano, una partita feroce in cui difficilmente vincerà il migliore.
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Franceschetti: delitti rituali, se i killer agiscono come automi
«Ora è finita», dice il cannibale Jeffrey Dahmer ai suoi giudici. Si è arreso, il Mostro di Milwaukee, dopo aver ucciso, squartato e divorato 17 vittime. «Qui non si è mai trattato di cercare di essere liberato: non ho voluto mai la libertà, e oggi non chiedo attenuanti». Il serial killer dichiara ufficialmente di aspettarsi la pena capitale: sarebbe un sollievo, per lui. Confessa tutti i suoi delitti, ma precisa: «Non ho mai odiato nessuno. Sapevo di essere malato, o malvagio, o entrambe le cose. So quanto male ho causato, ma ora mi sento in pace: grazie a Dio, non potrò più fare del male». Si è convertito, Dahmer: «Credo che solo il Signore Gesù Cristo possa salvarmi dai miei peccati». E’ il 1992 quando viene condannato all’ergastolo. Due anni dopo, però, viene ucciso da un detenuto affetto da schizofrenia, il cui nome (Christopher Scarver) contiene, curiosamente, il riferimento a Cristo. Solo un caso? Chi lo sa. Certo è che, nei delitti anomali – cioè non scatenati da moventi ordinari (denaro, passione, vendetta) – ci si imbatte spesso in una mole impressionante di «coincidenze eccezionali». Lo sostiene Paolo Franceschetti, già avvocato delle Bestie di Satana e poi indagatore di casi intricatissimi come quello del Mostro di Firenze: una inquietante sequenza di omicidi rituali. Domanda: com’è possibile che si verifichino tutte quelle maledette coincidenze? Ed è credibile che una forza sconosciuta guidi la mano dei killer?Franceschetti, buddista praticante e autore del saggio “Alla ricerca di Dio”, suggestiva indagine trasversale sulla spiritualità, esplorata “dalle religioni ai maestri contemporanei”, propende per una spiegazione occultistica: quella cioè di chi crede davvero che la ritualità della cosiddetta magia possa produrre effetti concreti, pericolosamente tangibili e persino letali. A colpirlo, è l’ineffabile ricorrere di troppe concatenazioni altamente simboliche e altrimenti inspiegabili, a suo parere: come se “l’invisibile” fosse una specie di lavagna, sulla quale poter imprimere precisi desideri. Dal canto suo, Franceschetti vanta anni di coraggiose ricerche condotte con rigore, partendo dalle carte giudiziarie. «Nei delitti delle Bestie di Satana – scrive, sul blog “Petali di Loto” – alcuni dei nomi dei ragazzi coinvolti sono, appunto, nomi di bestie: Volpe, Leoni, Zampollo (zampa di pollo)». La figura simbolica di Satana, nella tradizione cristiana, è sconfitta dell’arcangelo Michele: «E guarda caso, i due personaggi che in tutta la vicenda risultano la chiave per scoprire i delitti si chiamano Michele». Il primo è Michele Tollis, il padre di uno dei ragazzi assassinati, il cui cognome richiama la preghiera “qui tollis peccata mundi”. L’altro invece è un carabiniere, Michelangelo Segreto, all’epoca comandante della stazione di Somma Lombardo. «Michelangelo: qui non abbiamo solo Michele, ma anche l’angelo».La Bestia dell’Apocalisse, sottolinea Franceschetti, in alcune raffigurazioni ha le zampe di pollo e la testa di leone: i “registi” dell’operazione Bestie di Satana, che ha coinvolto giovani sbandati (e spesso innocenti, sostiene il loro ex legale) era dunque una terribile, sanguinosa allegoria vivente, messa in scena per “rappresentare” l’Apocalisse di Giovanni? Franceschetti si concentra sulle coincidenze: Volpe sparò a Mariangela Pezzotta, colpendola alla gola. Come si chiama il luogo in cui avvenne il delitto? Golasecca. La vicenda delle Bestie di Satana, almeno per la versione ufficiale diffusa dalla stampa, finì il giorno che Volpe e Ballarin, dopo aver ucciso Mariangela, si schiantarono con l’auto presso la diga di Panperduto, dove poco dopo furono fermati. Traduzione simbologica: proprio a Panperduto, le Bestie di Satana “si perdono”. E il dio pagano Pan, aggiunge Franceschetti, nella tradizione cattolica era «una delle rappresentazioni di Satana», secondo la Chiesa medievale ancora impegnata a debellare il tenace paganesimo che resisteva nelle campagne. Qualcuno si è preso gioco di quei ragazzi, allestendo (a loro insaputa) una trama spaventosa?Da Varese a Firenze, cambiano gli attori ma resta invariato l’affollamento di coincidenze anomale. Nei delitti del Mostro, le zone del delitto – se segnate su una mappa – disegnano un cerchio (magico) attorno a Firenze, rileva Franceschetti. Il capoluogo toscano «è per eccellenza la città di Dante, il poeta che mise per iscritto nella “Divina Commedia” il sapere templare e rosacrociano». In vari scritti, inclusi due saggi, Franceschetti attribuisce l’operazione “Mostro di Firenze” alla cosiddetta Rosa Rossa, potente setta formata da individui coltissimi e socialmente altolocati, passati dall’iniziale esoterismo alla degenerazione dell’occultismo più sanguinario, sulle orme del “mago nero” Aleister Crowley, teorico dei sacrifici umani a scopo propiziatorio. Il primo a mettere gli inquirenti sulla pista esoterica dei delitti rituali fu il criminologo Francesco Bruno, all’epoca consulente del Sisde. Più tardi, l’indicazione dei servizi segreti fu recepita dal super-poliziotto Michele Giuttari, commissario messo a capo dell’unità investigativa speciale istituita a Firenze per venire finalmente a capo del giallo.Giuttari però fu fermato a un passo dalla risoluzione del caso: la pista “magica” l’ha narrata anni dopo, in romanzi divenuti bestseller, in cui l’eminenza grigia dell’organizzazione – nella fiction – risulta essere nientemeno che un prestigioso magistrato, il procuratore di Firenze. Titoli evocativi: “La loggia degli innocenti”, “Scarabeo”, “Le rose nere di Firenze”. Pedofilia, massoneria deviata, occultismo (e quel fiore, la rosa) all’ombra del potere. Lo stesso Franceschetti non ha esitato a puntare il dito contro l’allora capo della Procura fiorentina Piero Luigi Vigna, poi promosso procuratore nazionale antimafia. La moglie di Vigna, ha scritto Franceschetti, morì travolta da un’auto-pirata dopo aver denunciato il marito allo stesso Giuttari: era scossa dalla strana morte della moglie del farmacista di San Casciano, Francesco Calamandrei, deceduta in una struttura psichiatrica dopo aver dichiarato «Vigna spara, mio marito taglia». Giuttari si arrese quando scoprì che era stato violato l’archivio d’indagine sul Mostro: conteneva le impronte digitali su lettere anonime inviate anni prima agli inquirenti – buste contenenti anche resti umani, appartenenti alle vittime.Grazie a quel misterioso furto nel quartier generale della polizia non fu possibile incrociare le impronte sulle buste con quelle del medico perugino Francesco Narducci, dichiarato “annegato” nel Lago Trasimeno e citato in varie deposizioni dai “compagni di merende”, Pacciani e soci. A Perugia il pm Giuseppe Mignini fece riesumare il cadavere e scoprì che non era Narducci, il morto ripescato nel lago: prima del funerale c’era stata una clamorosa sostituzione della salma, perché la tomba riportò alla luce il vero Narducci – non annegato, ma vistosamente strangolato, sull’isoletta del Trasimeno che aveva raggiunto il 3 ottobre 1985, imbarcandosi in stato di forte agitazione, come se temesse l’appuntamento che lo attendeva. Giuttari ha ormai lasciato la polizia, dopo una sfolgorante carriera di detective antimafia, e ora affida ai romanzi la possibile verità sul Mostro di Firenze. Dal canto suo, Franceschetti insiste sui dettagli cifrati, simbologici: un codice fuori della portata di personaggi come Pacciani, Vanni e Lotti. «Il primo delitto del Mostro è quello di Pasquale Gentilcore, e la “Vita Nova” di Dante si apre con il verso “a ciascun’alma presa e gentil core”. Più in generale la trama dei delitti richiama dal punto di vista simbolico la “Divina Commedia” e il quadro del Botticelli “La Primavera”, la cui allegoria sembra “contenere” tutti gli omicidi del Mostro.Franceschetti cita persino il delitto Moro: la vicenda si apre in via Fani (Mario Fani, fondatore del circolo di Santa Rosa) e si chiude in via Caetani al numero 9 (cioè esattamente davanti al conservatorio di Santa Caterina della Rosa) dove viene parcheggiata la Renault rossa in cui c’era il cadavere del presidente della Dc. Per inciso: Michelangelo Caetani era uno stimato dantista, e – volendo stare al “gioco” dei simboli – le iniziali del binomio “Renault rossa” sono le stesse dell’invisibile Rosa Rossa. «Di recente – racconta sempre Franceschetti su “Petali di Loto” – mi ha abbastanza colpito il delitto avvenuto nella mia città», Viterbo (patrona: Santa Rosa), «il giorno in cui io aveva un’udienza per la vicenda del Mostro di Firenze», a causa della querela presentata contro Franceschetti dal giornalista Mario Spezi. I fatti: duplice omicidio il 13 dicembre 2017, giorno di Santa Lucia, proprio in strada Santa Lucia. Al numero 26 (due volte 13, «ovverosia due volte il numero della morte», per certo esoterismo numerologico) vengono ritrovati uccisi due coniugi, e la donna si chiama Rosa Rita Franceschini.In altre parole, ragiona Franceschetti, «il giorno in cui, a Viterbo, si celebra un processo che riguarda quello che io ho additato come uno dei principali esponenti della Rosa Rossa (organizzazione che ha la Rosa, e Santa Rita, tra i suoi simboli principali, con cui firma i suoi delitti), viene uccisa una donna che ha, nel nome di battesimo, i simboli dell’organizzazione, e il cui cognome ha una certa assonanza con il mio». Difficile, per un simbologo, non notare la coincidenza. Quella volta furono addirittura i giornali a parlare di omicidio rituale, perché la coppia uccisa era disposta in un modo particolare sul letto, e il loro figlio (accusato del delitto) aveva appena finito di leggere il romanzo “Il grande Dio Pan” di Arthur Machen, che descrive una scena simile a quella del delitto commesso a Viterbo. «Potrei andare avanti per ore», aggiunge Franceschetti, che al tema del delitto rituale ha dedicato centinaia di pagine. La domanda che si pone oggi è un’altra. Ovvero: come si creano, queste coincidenze così straordinarie?Se si esclude il caso, Franceschetti non crede che un copione così complicato possa essere progettato a tavolino: scegliere i nomi delle vittime e stabilire in che data e a che ora ucciderle «richiederebbe anni di lavoro e sarebbe ad alto rischio di fallimento, a causa delle troppe variabili». Senza contare che «se dietro tutto questo ci fosse un’intelligenza umana, prima o poi – in qualche processo, in qualche atto parlamentare o in qualche libro – qualcuno ne darebbe testimonianza». Invece, solo per fare un esempio, nel delitto Moro «non risulta da nessuna parte che qualcuno abbia ordinato di acquistare proprio una Renault rossa, per poi andarla a depositare proprio al numero 9». Ed è qui che Franceschetti, per darsi una spiegazione, parla della magia. Non si limita a dire che gli assassini compiono rituali magici – cosa peraltro plausibile e confermabile. Franceschetti va oltre: per tentare di risolvere il rompicapo, ritiene che la stessa magia sia, esattamente, la spiegazione mancante. Il presupposto, indimostrabile, sta nel credere che la pratica magica “funzioni” davvero, sul piano materiale. Tradotto: compio un rito, e il rito scatena “forze occulte” così potenti da influire nella realtà, compresa quella di un omicidio, provvedendo anche al corredo “perfetto” delle coincidenze simboliche.Lo stesso Franceschetti ha più volte rivelato che la magia – sempre ridicolizzata dai media – sia in realtà praticata dalle alte sfere del potere, insospettabilmente dedite all’occultismo e alla divinazione. Sempre secondo Franceschetti, alcuni delitti rituali vengono commessi con il concorso di una certa “magia”, che deve per forza “funzionare”. O meglio: «Mentre l’assassino o gli assassini agiscono sul piano materiale, un altro gruppo, o dei singoli, agiscono sul piano magico ed esoterico». Sempre sul terreno dell’indimostrabile, Franceschetti aggiunge che la cosiddetta “azione magica” potrebbe scatenare «l’azione di entità che si affiancano agli esseri umani per raggiungere il fine dell’operazione». Come se i killer agissero in una sorta di trance? «Alcune di queste entità prendono il possesso delle persone coinvolte, agendo al posto loro». Stati mentali alterati? «Un prete cattolico definirebbe queste persone “indemoniate”, mentre in gergo esoterico si dicono “parassitate”: si tratta infatti di veri e propri “parassiti psichici” che prendono il controllo, a lungo o per pochi attimi, di singole persone o addirittura di gruppi».Automatico il riferimento a pratiche messe a punto da servizi segreti militari – i programmi Monarch e Mk Ultra – per manipolare individui, trasformandoli in strumenti inconsapevoli. Franceschetti preferisce parlare del ruolo (intermedio) che sarebbe svolto da quelle che chiama “entità”. Secondo lui prendono vari nomi, a seconda delle tradizioni di riferimento: eggregore, “elementali”. «Corrado Malanga li chiamava “alieni”, e chiamava “addotti” coloro che erano sotto il controllo di queste entità. I preti li chiamano demoni e chiamano indemoniate le persone soggette a questi fenomeni. La psichiatria li chiama spesso schizofrenici» (succede quando il paziente “sente le voci”: la diagnosi parla di psicosi). «Tutte le tradizioni magiche, di tutte le culture, e da sempre, si occupano di queste “entità” e del loro rapporto con gli esseri umani», osserva Franceschetti. Non è delirio paranoico, assicura: il fenomeno esiste. Ma di cosa si tratta, esattamente? Franceschetti propende per la sua tesi “spiritualistica”, ovvero: si tratterebbe di «entità non umane», anche se poi è il killer – una volta “riavutosi”, ad ammettere: «Non so perché l’ho fatto, so solo che dovevo farlo».Lo stesso Dahmer, pentito, implorò i giudici: «Datemi il massimo della pena». Il cosiddetto Mostro di Foligno, Luigi Chiatti, ha chiesto scusa ai familiari delle sue vittime. Lo statunitense Jonh Wayne Gacy, soprannominato Killer Clown, che stuprò e assassinò decine di bambini, dichiarò al processo che a uccidere non era stato lui, ma il suo “doppio”. Altro dettaglio molto interessante, segnala Franceschetti, è che alcuni serial killer hanno raccontato agli inquirenti di esser stati avvicinati da persone eleganti e facoltose che si erano dichiarate “interessate alla loro attività”. «Sono molti i casi di persone che hanno ucciso e fatto vere e proprie stragi: erano persone normali, fino a un attimo prima; e poi, in pochi secondi, si sono trasformate in mostri». La causa? Franceschetti parla di “energia dell’eggregora” che scatenerebbe la furia omicida, dopo il presunto rito magico. Tornando invece al livello investigativo del ragionamento, troppe volte gli inquirenti hanno sottovalutato la matrice occultistica e rituale di un delitto, pur in presenza di segni simbolici estremamente evidenti. Jung le chiama “coincidenze significative”. Per Einstein, sono «Dio che passeggia in incognito». E il credente, si sa, ritiene che tutto venga dalla “divinità”, i cui piani sono ovviamente imperscrutabili – come il buio in cui naufragano troppe indagini.«Ora è finita», dice il cannibale Jeffrey Dahmer ai suoi giudici. Si è arreso, il Mostro di Milwaukee, dopo aver ucciso, squartato e divorato 17 vittime. «Qui non si è mai trattato di cercare di essere liberato: non ho voluto mai la libertà, e oggi non chiedo attenuanti». Il serial killer dichiara ufficialmente di aspettarsi la pena capitale: sarebbe un sollievo, per lui. Confessa tutti i suoi delitti, ma precisa: «Non ho mai odiato nessuno. Sapevo di essere malato, o malvagio, o entrambe le cose. So quanto male ho causato, ma ora mi sento in pace: grazie a Dio, non potrò più fare del male». Si è convertito, Dahmer: «Credo che solo il Signore Gesù Cristo possa salvarmi dai miei peccati». E’ il 1992 quando viene condannato all’ergastolo. Due anni dopo, però, viene ucciso da un detenuto affetto da schizofrenia, il cui nome (Christopher Scarver) contiene, curiosamente, il riferimento a Cristo. Solo un caso? Chi lo sa. Certo è che, nei delitti anomali – cioè non scatenati da moventi ordinari (denaro, passione, vendetta) – ci si imbatte spesso in una mole impressionante di «coincidenze eccezionali». Lo sostiene Paolo Franceschetti, già avvocato delle Bestie di Satana e poi indagatore di casi intricatissimi come quello del Mostro di Firenze: una inquietante sequenza di omicidi rituali. Domanda: com’è possibile che si verifichino tutte quelle maledette coincidenze? Ed è credibile che una forza sconosciuta guidi la mano dei killer?
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Strinati: caro Giacomelli, unico giudice ucciso in pensione
Un delitto “senza”: senza clamore e senza assassini (mai trovati), senza movente per lungo tempo, senza lapidi e celebrazioni per ricordare l’uomo e il magistrato. Un delitto senza niente e senza tutto, quello del giudice trapanese Alberto Giacomelli, freddato dai killer il 14 settembre 1988: il primo a morire già in pensione, dopo aver osato (di nuovo: per primo) applicare in Sicilia la legge Rognoni-La Torre sulla confisca dei patrimoni mafiosi. «Un giudice dimenticato un attimo dopo la sua morte violenta», lo ricorda Attilio Bolzoni nella sua prefazione della biografia “Un uomo per bene” (Edb, 2018) scritta da Salvo Ognibene. Giacomelli? «Inghiottito da maldicenze e depistaggi, dall’omertà, dall’ignoranza. Inghiottito da una Sicilia che appena qualche giorno dopo stava piangendo il presidente della Corte d’assise Antonino Saetta e qualche giorno dopo ancora il giornalista Mauro Rostagno». Proprio ad Alberto Giacomelli, su Libridee, Fabio Strinati dedica un’intensa rievocazione poetica.Si saprà solo dopo molti anni – quando ne parleranno i pentiti di Cosa Nostra – che Alberto Giacomelli aveva “pagato” per avere confiscato con un provvedimento un “bene di famiglia”, una proprietà di Gaetano Riina, il fratello dello “zio Totò”, il capo dei capi, in quel 1988 latitante già da quasi vent’anni. Giacomelli, scrive ancora Bolzoni, era presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Trapani: un uomo defilato, silenzioso, sobrio. Dietro il sipario, decideva i destini economici di quei “galantuomini”. E aveva «messo la sua firma su un patrimonio che per sua volontà e in nome del popolo italiano non apparteneva più al mafioso di Corleone», il feroce padreterno che in Sicilia «decideva chi doveva vivere e chi doveva morire». Così è uscito di scena, in punta di piedi, «un coraggiosissimo magistrato siciliano che non aveva mai avuto le attenzioni dei cronisti o le luci degli studi televisivi». Così è morto in solitudine Alberto Giacomelli, classe 1919, in magistratura dal ‘45, congedato nell’87 e assassinato appena un anno dopo, con un proiettile in testa.Il fatale provvedimento l’aveva firmato quattro anni prima. Pentiti di mafia e collaboratori di giustizia confermarono che fu proprio quella decisione a costargli la vita. Per la prima volta, Cosa Nostra decise di colpire un magistrato giudicante. E quello di Giacomelli resta l’unico caso di omicidio, nella storia d’Italia, di un magistrato in pensione. Ancora Bolzoni inquadra l’omicidio nella luce sinistra del biennio ‘88-89, che preparò le stragi di Capaci e via d’Amelio. «Corvi, talpe, sciacalli, candelotti di dinamite, “menti raffinatissime”, misteri che hanno fatto tremare l’isola e anche l’Italia». Inquietante il diario dell’ex sindaco palermitano Giuseppe Insalaco, che proprio nel 1988 indicò i “buoni” (Piersanti Mattarella, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Cesare Terranova e Pio La Torre, tutti assassinati), additando fra i “cattivi” Salvo Lima e Andreotti, il procuratore capo Vincenzo Pajno e l’esattore mafioso Ignazio Salvo. «E in mezzo, una Palermo sprofondata nella paura», in balìa dei sicari di Riina.Il maxi-processo si era concluso un anno prima, con le prime e decisive condanne per la Cupola. «L’impianto accusatorio del pool antimafia aveva retto alla prova della Corte d’Assise, ma in tanti speravano nell’appello per disintegrare quel capolavoro di ingegneria giudiziaria che aveva inventato Giovanni Falcone». Era già arrivata la stagione del disincanto, scrive Bolzoni. Fu in quella primavera, aggiunge, che a Roma «decisero di scavare la fossa istituzionale a Falcone». Al posto di Antonino Caponnetto, il consigliere istruttore che aveva sostituito Rocco Chinnici (saltato in aria nell’83), il Csm nominò «un vecchio magistrato che non sapeva nulla di questioni mafiose e che in poche settimane disintegrò a colpi di penna “l’unicità” di Cosa Nostra, sparpagliando in mille rivoli tutte le indagini che il pool aveva centralizzato». Per Bolzoni, era la fine di un metodo di lavoro e di investigazione che aveva dato per la prima volta straordinari risultati. «Un segnale per Giovanni Falcone, dentro e fuori Palermo, dentro e fuori lo Stato». Paolo Borsellino denunciò «la fine della lotta alla mafia».L’estate siciliana del 1988, aggiunge Bolzoni, se ne andò con un titolo in prima pagina – ogni giorno – su tutti i quotidiani italiani. Era esploso il “caso Palermo”, con il suo tribunale ormai chiamato il Palazzo dei Veleni, le infuocate polemiche sulla mancata nomina di Falcone a consigliere istruttore, il cambio improvviso dei vertici della polizia palermitana, i timori degli ambienti politici romani, le speranze dei siciliani. «Un’estate inquieta, che non era ancora finita. E il 14 settembre, di mattina, nel silenzio più cupo uccisero Alberto Giacomelli, giudice figlio di un giudice, che da poco più di un anno aveva lasciato la toga». Delle indagini, ricorda oggi la Rai, si occupò lo stesso Borsellino, poi ucciso in via d’Amelio, in collaborazione con Paolo Germanà, scampato ai killer a Mazara del Vallo quattro anni dopo. Una storia esemplare ma coperta dal silenzio, quella di Giacomelli, in un paese – scrive Ognibene – che ha il difetto di dimenticare in fretta. Anche per questo assume un particolare valore la tensione emotiva della poesia di Strinati, commosso omaggio a un uomo mite e giusto come Giacomelli.AD ALBERTO GIACOMELLIHanno contaminato il tuo addomeavvelenato il tuo dabbene sguardosottratto la tua anima alla vitausando il megafono della violenzail microfono dell’arroganza,il sotterfugio putrido vile dell’ignoranza;hanno calpestato il tuo onorepestato il tuo cognome da galantuomoscucito al mondo il tuo sorrisodelicato che sapeva come corteggiare la speranza;hanno usato la peggior vergognaper ammorbare il tuo esile corpoattraverso un colorante colmo, strapieno di sangue…e ti hanno tolto l’esistenzaperché figli di un frutto acerbodi un albero avverso nutrito dal morbofradicio della menzognala più cattiva rogna che sembra uno sciame,intinto, in un volume abnorme di peccato.(Fabio Strinati)Fabio Strinati (Esanatoglia, 1983) è poeta, artista visivo, compositore e fotografo. È presente in diverse riviste e antologie letterarie. Da ricordare “Il Segnale”, rivista letteraria fondata a Milano dal poeta Lelio Scanavini, la rivista Fabio Strinati“Sìlarus” fondata da Italo Rocco, e “Osservatorio Letterario – Ferrara e L’Altrove”. È stato inserito da Margherita Laura Volante nel volume “Ti sogno, Terra”, viaggio alla scoperta di Arte Bellezza Scienza e Civiltà, inserito nei “Quaderni del Consiglio Regionale delle Marche”. Sue poesie sono state tradotte in romeno e in spagnolo. È inoltre il direttore della collana poesia per “Il Foglio Letterario” e cura una rubrica poetica dal nome “Retroscena”, proprio sulla Rivista trimestrale del “Foglio Letterario”. Pubblicazioni: “Pensieri nello scrigno. Nelle spighe di grano è il ritmo” (2014); “Un’allodola ai bordi del pozzo” (2015); “Dal proprio nido alla vita” (2016); “Al di sopra di un uomo” e “Periodo di transizione” (2017), “Aforismi scelti Vol.2” e “L’esigenza del silenzio” (2018).Un delitto “senza”: senza clamore e senza assassini (mai trovati), senza movente per lungo tempo, senza lapidi e celebrazioni per ricordare l’uomo e il magistrato. Un delitto senza niente e senza tutto, quello del giudice trapanese Alberto Giacomelli, freddato dai killer il 14 settembre 1988: il primo a morire già in pensione, dopo aver osato (di nuovo: per primo) applicare in Sicilia la legge Rognoni-La Torre sulla confisca dei patrimoni mafiosi. «Un giudice dimenticato un attimo dopo la sua morte violenta», lo ricorda Attilio Bolzoni nella sua prefazione della biografia “Un uomo per bene” (Edb, 2018) scritta da Salvo Ognibene. Giacomelli? «Inghiottito da maldicenze e depistaggi, dall’omertà, dall’ignoranza. Inghiottito da una Sicilia che appena qualche giorno dopo stava piangendo il presidente della Corte d’assise Antonino Saetta e qualche giorno dopo ancora il giornalista Mauro Rostagno». Proprio ad Alberto Giacomelli, su Libridee, Fabio Strinati dedica un’intensa rievocazione poetica.