Archivio del Tag ‘Angela Merkel’
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Pritchard: se resta nell’euro, nel 2014 l’Italia collassa
Enrico Letta aspetta che sia la Merkel a salvare l’Italia? Be’, buonanotte. Secondo Ambrose Evans-Pritchard, l’Italia sta scherzando col fuoco: avanti di questo passo, sotto la sferza dell’euro-rigore, il nostro paese rischia il collasso già nel 2014. Il problema? L’euro, ovviamente. E il regime di Bruxelles, che taglia lo Stato imponendo sacrifici con un unico orizzonte: la catastrofe. «Quello che serve in Europa oggi è uno shock economico sul modello dell’Abenomics», dice il columnist economico del “Telegraph”, indicando come modello il Giappone di Shinzo Abe. Sovranità monetaria e deficit positivo, per risollevare l’economia. «Italia, Spagna, Grecia e Portogallo, insieme alla Francia devono smettere di fare finta di non avere un interesse in comune da tutelare». Attenzione: «Questi paesi hanno i voti necessari per forzare un cambiamento». In Francia, sarà risolutiva Marine Le Pen: magari non conquisterà l’Eliseo, ma costringerà i grandi partiti a cambiare agenda, imponendo loro di fare finalmente i conti con Bruxelles, Berlino e la Bce.Per l’Italia, il disastro è imminente: «Senza un cambio di strategia forte», si prevede lo tsunami già nel 2014. «Il paese ha un avanzo primario del 2,5% del Pil, e ciononostante il suo debito continua ad aumentare: il dramma dell’Italia non è morale, ma dipende dalla crisi deflattiva cui è costretta per la sua partecipazione alla zona euro», dice Pritchard nell’intervista concessa ad Alessandro Bianchi e ripresa da “Come Don Chisciotte”. «La politica è fatta di scelte e di coraggio. Fino ad oggi non si è agito per impedire che si dissolvesse il consenso politico dell’euro in Germania. Ma oggi c’è una minaccia più grande. E se Berlino non dovesse accettare le nuove politiche, può anche uscire dal sistema». Fuori dall’euro, dunque. «Il ritorno di Spagna, Italia e Francia ad una valuta debole è proprio quello di cui i paesi latini hanno bisogno. Del resto, la minaccia tedesca è un bluff e i paesi dell’Europa meridionale devono smascherarlo. L’ora del confronto è arrivata». E Letta? Non pervenuto. Pritchard l’ha incontrato a Londra. «Alla mia domanda sul perché non si facesse promotore di un cartello con gli altri paesi dell’Europa in difficoltà per forzare questo cambiamento, il premier italiano mi ha risposto che secondo lui sarà Angela Merkel a mutare atteggiamento nel prossimo mandato e venire incontro alle esigenze del sud».Per l’analista inglese, «si tratta di un approccio assolutamente deludente», perché «come anche Hollande in Francia, Letta è un fervente credente del progetto di integrazione europea e non riesce ad accettare che l’attuale situazione sia un completo disastro». Chi agita la paura dell’uscita dall’euro dice che la svalutazione produrrebbe iper-inflazione, e questo metterebbe ko la nostra industria di fronte alla concorrenza della Cina. E’ vero esattamente il contrario, dice Pritchard: Pechino ha gioco facile col super-euro proprio perché mantiene lo yuan sottovalutato. La moneta europea è il nostro vero handicap: «L’euro è un’autentica maledizione per le esportazioni, che dipendono dai prezzi e dal tasso di cambio». Da quando vige la moneta della Bce, l’Europa ha perso rilevanti quote di mercato e l’export italiano è crollato. E a chi sostiene che un’uscita disordinata dall’euro produrrebbe iper-inflazione e impennate nei prezzi, Pritchard risponde che già ora i prezzi sono fuori controllo. Eppure, continuiamo a farci del male: in Italia il rapporto debito-Pil in soli due anni è schizzato dal 120 al 133%. E’ la trappola che sta portando il paese al collasso: «Il problema da combattere oggi è la deflazione, e non l’inflazione».Dalla stessa trappola, ricorda il giornalista del “Telegraph”, la Gran Bretagna uscì due volte – negli anni ’30 del Gold Standard e poi durante la crisi dello Sme nel ’91-92 – con lo stesso strumento: rafforzamento della sovranità monetaria e svalutazione per stimolare la ripresa. Il fantasma-inflazione? Smentito dai fatti: lo stimolo monetario ha prodotto nuova economia, senza alcun “impazzimento” dei prezzi. Per cui, «se dovesse lasciare l’euro, l’Italia dovrebbe optare per un grande stimolo monetario da parte della Banca d’Italia, una svalutazione ed una politica fiscale sotto controllo: questa combinazione garantirebbe al paese una transizione tranquilla e nessuna crisi fuori controllo». Ritorsioni da Berlino? «Niente di più falso», replica Pritchard: «Nel caso di un deprezzamento fuori controllo della lira, ad esempio, il più grande sconfitto sarebbe Berlino: le banche e le assicurazioni tedesche che hanno enormi investimenti in Italia sarebbero a rischio fallimento». Inoltre, «le industrie tedesche non potrebbero più competere con quelle italiane sui mercati globali». Quindi, la Bundesbank correrebbe ad acquisire sui mercati valutari internazionali le lire, i franchi, pesos o dracme per impedirne un crollo.«Si tratta di un punto molto importante da comprendere: nel caso in cui uno dei paesi meridionali dovesse decidere di lasciare il sistema in modo isolato, è nell’interesse dei paesi economici del nord Europa, in primis la Germania, impedire che la sua valuta sia fuori controllo e garantire una transizione lineare. Tutte le storie di terrore su eventuali disastri che leggiamo non hanno alcuna base economica». Lo sanno bene gli economisti di Parigi che ispirano la svolta sovranista di Marine Le Pen, che a partire dalle europee 2014 potrebbe dare la scossa necessaria all’inversione di rotta. «Il programma di Le Pen è chiaro: uscita immediata dall’euro – con il Tesoro francese che proporrà un accordo con i creditori tedeschi: se questi non l’accetteranno, la Francia tornerà lo stesso al franco e le perdite principali saranno per la Germania». Poi c’è la proposta di un referendum sull’Ue sul modello inglese proposto da Cameron. Prima reazione a Bruxelles: gli inglesi sarebbero “stupidi suicidi”. «Argomentazioni ridicole», afferma Pritchard: tutti sanno che, senza Londra (più l’Olanda e la Scandinavia), l’Ue sarebbe finita, e salterebbe anche l’equilibrio tra Francia e Germania. «La decisione inglese è un enorme avviso a Bruxelles: l’integrazione è andata troppo oltre il volere popolare e le popolazioni vogliono indietro alcuni poteri».La Costituzione europea, continua Pritchard, è stata rigettata dai referendum in Francia e in Olanda. Trattati imposti contro la volontà popolare? «Questa fase in cui si procede senza consultare i cittadini è finita. Questo tipo di arroganza è finito». Problema fondamentale: la confisca della politica economica nazionale. A imporre le tasse e i tagli alla spesa non può essere un organismo non eletto democraticamente. «Non è un caso che la guerra civile inglese sia iniziata nel 1640 quando il re ha cercato di togliere questi poteri al Parlamento o che la rivoluzione americana sia scoppiata quando questo potere è stato tolto da Londra a stati come Virginia o il Massachusetts». Quello che sta facendo Bruxelles è «pericoloso e antidemocratico». L’alibi è la salvezza dell’euro? «E’ ridicolo. La federazione deve essere subordinata ai grandi ideali che plasmano una società e non alla salvezza di una moneta. I paesi devono tornare alla realtà sociale al più presto e non devono pensare a strumenti di ingegneria finanziaria per far funzionare qualcosa che non può funzionare».Con buona pace degli eurocrati alla Enrico Letta, l’orizzonte decisivo è quello delle europee 2014, col previsto boom degli euroscettici. «Oggi il pericolo maggiore per i paesi dell’Europa meridionale si chiama crisi deflattiva», cioè: mancanza di liquidità, tagli alla spesa, asfissia dell’economia. La recessione «potrebbe presto trasformarsi in una depressione economica, in grado di rendere fuori controllo la traiettoria debito-Pil: è un potenziale disastro». In questo contesto, per il giornalista inglese, la politica si deve porre l’obiettivo del ritorno di una serie di poteri sovrani delegati a Bruxelles. Le elezioni del maggio prossimo? «Saranno un evento potenzialmente epocale: i partiti scettici dell’attuale architettura istituzionale potrebbero essere i primi in diversi paesi – l’Ukip in Gran Bretagna, il Fronte Nazionale in Francia, il Movimento 5 Stelle in Italia, Syriza in Grecia». Parleranno i popoli: gli elettori potranno «esprimere la loro irritazione e frustrazione contro le scelte da Bruxelles». Così, «un blocco politico importante potrà distruggere questo “mito artificiale” che si è costruito: l’Ue non sarà più la stessa e sarà costretta ad essere meno ambiziosa e comprendere che molte delle sue prerogative devono tornare agli Stati nazionali». In altre parole: «I governi di Italia, Spagna e Francia devono riprendere il pieno controllo delle vite dei loro cittadini e non pensare all’allargamento all’Ucraina o alla Turchia. Si tratta dell’ultima battaglia».Enrico Letta aspetta che sia la Merkel a salvare l’Italia? Be’, buonanotte. Secondo Ambrose Evans-Pritchard, l’Italia sta scherzando col fuoco: avanti di questo passo, sotto la sferza dell’euro-rigore, il nostro paese rischia il collasso già nel 2014. Il problema? L’euro, ovviamente, e il regime di Bruxelles, che taglia lo Stato imponendo sacrifici con un unico orizzonte: la catastrofe. «Quello che serve in Europa oggi è uno shock economico sul modello dell’Abenomics», dice il columnist economico del “Telegraph”, indicando come modello il Giappone di Shinzo Abe. Sovranità monetaria e deficit positivo, per risollevare l’economia. «Italia, Spagna, Grecia e Portogallo, insieme alla Francia devono smettere di fare finta di non avere un interesse in comune da tutelare». Attenzione: «Questi paesi hanno i voti necessari per forzare un cambiamento». In Francia, sarà risolutiva Marine Le Pen: magari non conquisterà l’Eliseo, ma costringerà i grandi partiti a cambiare agenda, imponendo loro di fare finalmente i conti con Bruxelles, Berlino e la Bce.
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Lerner: proni ai diktat Ue, il Grillo no-euro vi punirà
Unione Europea intoccabile? Chiunque la critichi da sinistra, chiedendo una revisione dei trattati-capestro per allentare il rigore in nome della giustizia sociale, viene subito bollato come sovversivo. Dunque poi non ci si lamenti, osserva Gad Lerner, se a fare il pieno di voti alle prossime europee sarà Beppe Grillo, che ora attacca Napolitano, «individuato come il garante della stabilità del nostro sistema di fronte all’establishment dell’Unione Europea». Parola d’ordine del terzo Vday: “L’Italia non deve più versare il suo tributo di sangue all’Europa”. Primo atto di una lunga campagna elettorale. Obiettivo: «Trasformare in plebiscito no-euro l’ostilità abbattutasi un po’ dappertutto sull’Ue, e liquidare come velleità riservata ai benestanti gli ideali della sinistra europeista». Molto probabile che, a maggio 2014, il “referendum contro l’Europa dell’euro” incoroni come partito di maggioranza relativa la formazione grillina, che avrà buon gioco «nell’indicare il governo delle larghe intese, e la sua sudditanza ai diktat di Bruxelles, come i responsabili della crescente sofferenza sociale».La stessa contrarietà dichiarata da Grillo all’abrogazione del reato di immigrazione clandestina, aggiunge Lerner, conferma che il leader del M5S «vuole assecondare la sindrome da invasione straniera, impersonata altrove dai partiti populisti e xenofobi antieuropei, per offrirsi così come punto di riferimento all’elettorato di destra in libera uscita». Sfumature “strumentali” a parte, il progetto di Grillo è ambizioso: «Mira infatti a una clamorosa bocciatura per via elettorale di quegli “stupidi” parametri con cui, vent’anni fa a Maastricht, si diede vita a una Unione prima finanziaria e monetaria che politica». Parametri «inaspriti ulteriormente, sotto i colpi della recessione, con i vincoli di bilancio pretesi dalla cancelleria di Berlino», e col rubinetto della liquidità creditizia gestito col contagocce dalla Bce. «Grillo sa di riscuotere vasto consenso quando parla di “tributo di sangue” imposto dall’Europa all’Italia. Nella sua propaganda, “Imu, Iva, Tarsu, Tares, Trise sono il frutto della religione dell’austerità”. Poi, nel 2016, entrerà in vigore il Fiscal Compact, col quale “siamo condannati a trovare ogni anno 50 miliardi per i prossimi vent’anni”. Senza peraltro che ciò garantisca il ripianamento del nostro debito pubblico».Ecco l’argomento anti-Ue grazie a cui Grillo confida di imporsi come maggioranza relativa in Italia: «Le enormi cifre che l’Europa ci impone di versare, da sole “basterebbero a riavviare la nostra economia e a fare del nostro paese uno Stato florido”. Dunque l’Europa sarebbe un impedimento anziché la levatrice della nostra rinascita». Per Lerner si tratta di «demagogia»: giudizio davvero sorprendente, e non spiegato. “Demagogia” comunque «efficacissima», quella di Grillo, specie se messa a confronto con l’uscita di Letta alla Sorbona: «Dirò qualcosa di impopolare, ma se non avessi avuto lo scudo comunitario, non avrei potuto dire no a chi in Italia faceva pressione per aumentare il debito». Se la contrapposizione resta frontale – Grillo che sconfessa i trattati europei e il governo che si trincera dietro lo “scudo comunitario” pur di non rivedere i vincoli di bilancio – l’esito delle elezioni europee è segnato, «col partito dell’austerità destinato alla sconfitta, Renzi o non Renzi», con in più l’incognita dei contraccolpi che causerebbe nell’Ue «la vittoria di un movimento antieuropeo in un grande paese come Italia».Più che antieuropeo, sarebbe meglio dire antieuropeista: cioè contro l’attuale gestione dell’Unione, frutto del disastroso europeismo finanziario dei suoi padri fondatori. Lerner giudica “drammatica”« l’irrilevanza cui sembra condannato il progetto sociale e politico di una sinistra europeista». E più che di irrilevanza, bisognerebbe parlare delle responsabilità primarie che partiti come il Pds-Ds-Pd, l’Spd e i socialisti francesi hanno assunto nell’interpretare la politica antisociale di Bruxelles – ruolo tutt’altro che irrilevante, purtroppo. Le conseguenze sono ben evidenziate dallo stesso Lerner: «Viviamo un passaggio storico cruciale in cui sembrerebbe che l’Europa dei cittadini indebitati, dei giovani disoccupati, del ceto medio impoverito, del Quinto Stato in cui confluiscono milioni di lavoratori parasubordinati, autonomi, precari, possa trovare solo nel populismo nazionalista uno sbocco politico al suo malessere».E’ come se all’analisi di Lerner mancasse un passaggio: il giornalista sembra non “vedere” l’abisso che separa «il cosmopolitismo sessantottino dei Cohn-Bendit, Langer, Fischer», da quella che chiama «la visione sociale di Delors e Prodi», cioè del “nonno” del rigore – massimo padrino europeo dell’euro-sciagura – e del super-tecnocrate professore dell’Ulivo, già presidente della Commissione Europea nonché advisor della famigerata Goldman Sachs. Grandi privatizzatori, demolitori delle fondamenta del welfare. Risultato? Quello attuale: il «vuoto di cultura della cittadinanza e del comune destino europeo», su cui in Italia giganteggia l’anziano Napolitano, «il principale interlocutore dei partner dell’Unione, e come tale appare proteso in un faticoso impegno di salvaguardia degli architravi comunitari vacillanti». La democrazia federale degli Stati Uniti d’Europa è rimasta nel grande sogno di Altiero Spinelli. «Sarebbe prezioso», conclude Lerner, che in campagna elettorale «emergesse una visione europeista disincagliata dai parametri di Maastricht e dal Fiscal compact». Non accadrà. Vincerà quello che Lerner chiama «il catastrofismo no-euro di Grillo, nutrito dai fallimenti di una tecnocrazia che s’illude ancora di trovare riparo dietro allo “scudo comunitario”».Unione Europea intoccabile? Chiunque la critichi da sinistra, chiedendo una revisione dei trattati-capestro per allentare il rigore in nome della giustizia sociale, viene subito bollato come sovversivo. Dunque poi non ci si lamenti, osserva Gad Lerner, se a fare il pieno di voti alle prossime europee sarà Beppe Grillo, che ora attacca Napolitano, «individuato come il garante della stabilità del nostro sistema di fronte all’establishment dell’Unione Europea». Parola d’ordine del terzo Vday: “L’Italia non deve più versare il suo tributo di sangue all’Europa”. Primo atto di una lunga campagna elettorale. Obiettivo: «Trasformare in plebiscito no-euro l’ostilità abbattutasi un po’ dappertutto sull’Ue, e liquidare come velleità riservata ai benestanti gli ideali della sinistra europeista». Molto probabile che, a maggio 2014, il “referendum contro l’Europa dell’euro” incoroni come partito di maggioranza relativa la formazione grillina, che avrà buon gioco «nell’indicare il governo delle larghe intese, e la sua sudditanza ai diktat di Bruxelles, come i responsabili della crescente sofferenza sociale».
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Della Luna: morte lenta, la nostra fine decisa all’estero
«Italy is going the right way», dice l’umorista Obama al fido Enrico Letta. Solo che la “giusta via” ricorda la macellazione per dissanguamento: morte lenta. Così funziona la politica economica italiana, da qualche decennio al servizio di interessi stranieri: il trucco, sostiene Marco Della Luna, sta nello svuotare il paese di tutta la sua linfa, ma lentamente, in modo che non “muoia” e che non soffra troppo, perché potrebbe ribellarsi. All’avvio dell’euro, è bastato qualche anno di bassi tassi per la finanza pubblica, per gonfiare fabbisogno strutturale e debito. «Poi, di colpo, austerità e tassi alti (spread), per creare l’emergenza, imporre il presidenzialismo de facto e la “sospensione della democrazia” a tempo indeterminato». Ma già con la riforma monetaria del 1981-83 poi col Trattato di Maastricht, era stata scardinata la Costituzione: sovranità nazionale e primato del lavoro. «Fatto questo, tutto il resto è stato in discesa»: svuotare il paese di industrie pregiate, capitali e cervelli, in favore della finanza apolide e del suo feudatario-kapò europeo, la Germania.Si è tutto tragicamente avverato: lo dicono Pil, occupazione, flussi di capitale, investimenti, quote di mercato internazionale, qualità della scuola, prospettive per i giovani e per i pensionati. Una manovra che viene da lontano: blocco dei cambi, divieto di protezioni doganali, privatizzazione della gestione delle banche centrali, politiche di tagli e nuove tasse. «Queste mosse hanno prodotto e continuano a produrre esattamente i risultati opposti a quelli promessi e per cui erano stati imposti», scrive Della Luna nel suo blog. Ed è un declino “irreversibile”: «Il che dimostra che il vero fine per cui sono stati concepiti e imposti è molto diverso da quello dichiarato, probabilmente opposto, ossia di creare disperazione, paura, miseria, distruzione, la fine delle democrazie parlamentari, della responsabilità dei governanti verso i governati, della possibilità di un’opposizione e persino di un dissenso culturale, scientifico, giuridico».Lo stesso Fmi ha riconosciuto che, su 167 paesi colpiti da misure di “risanamento” e rigore, nessuno si è risanato né rilanciato, ma tutti sono peggiorati, soprattutto in quanto a Pil e debito pubblico. «I paesi che crescono sono quelli che non applicano questa ricetta e che mantengono il dominio della loro propria moneta: i Brics. La Russia ha superato l’Italia in fatto di Pil e ora l’Italia è nona, fuori dal G8». Già lo si era visto col primo aumento dell’Iva, quello di Monti, aumentata dal 20 al 21%: consumi scoraggiati, crollo della domanda, ulteriore recessione. Con Letta, obbligato a non sforare il tetto europeo del 3% per il deficit, l’Iva è al 22%. Risultato? Scontato: depressione. Che poi, per Della Luna, è esattamente l’obiettivo voluto, come già per Monti. Tutto a va a rotoli? Non è certo un caso: «I vent’anni di stagnazione, declino, delocalizzazioni ed emigrazioni, senza capacità di recupero, di questo paese, nonostante i diversi cambi di maggioranze parlamentari e di inquilini del Quirinale, sono un aspetto di questo processo di lungo termine. Vent’anni inaugurati dal Britannia Party e da Mani Pulite».A questo, continua Della Luna, sono serviti l’architettura dell’Ue, del mercato comune, dei parametri di convergenza, e soprattutto di quel sistema di blocco dei naturali aggiustamenti dei cambi monetari noto come “euro”. «A questo piano hanno lavorato molti governi e gli ultimi capi dello Stato: ne ho parlato ampiamente nei miei ultimi tre saggi, “Cimit€uro”, “Traditori al governo”, e “I signori della catastrofe”», pubblicati da Arianna-Macro Edizioni. E chi ha collaborato al piano di liquidazione dell’Italia «non ha mai avuto problemi giudiziari e, se ne aveva, gli sono stati risolti». Grande svendita del paese, a bordo del famoso panfilo inglese. Fine dell’Italia, altro che Ruby o diritti Mediaset. L’attuale governante Letta? Un continuatore: la sua finanziaria 2014 è pura «policy del dissanguamento lento e pacifico in favore dei paesi e dei capitali dominanti», e si basa sui due pilastri della politica italiana degli ultimi decenni: mantenere l’Italia sottomessa alla super-casta mondiale dell’élite finanziaria e, necessariamente, continuare a foraggiare la mini-casta nazionale incaricata di portare a termine la missione, agli ordini dell’euro-regime.«Una sorta di patto: tu, casta italiana, aiutaci a estrarre tutto quello che c’è di buono per noi in Italia, e ad annientare la capacità italiana di competere con noi sui mercati; in cambio, noi ti lasceremo continuare a mangiare come sei abituata sulle spalle della cosa pubblica, dei lavoratori, dei risparmiatori – ma non troppo voracemente, altrimenti il paese collassa o insorge, vanificando l’esecuzione del piano». Naturalmente l’operazione «deve apparire all’opinione pubblica come perfettamente legittima e democratica», meglio quindi se al governo ci sono larghe intese. Parliamoci chiaro: «Che cosa può mai fare, per rilanciare un paese, un governo che non può permettersi, nemmeno per fronteggiare una tragedia nazionale, di ridurre gli sprechi e le mangerie di una partitocrazia-burocrazia ladra e incapace quanto trasversale?». E’ una casta incompetente ma «selezionata, da decenni, solo per intercettare le risorse pubbliche». Non ci saranno svolte, ma solo promesse.Poi, continua Della Luna, l’Italia è invecchiata, tecnologicamente arretrata, sorpassata per le infrastrutture e in più sovra-indebitata, vessata da maxi-interessi. E infine devastata dalla disoccupazione. Il paese vacilla: «Non vi sono abbastanza giovani lavoratori per pagare le pensioni e le cure dei vecchi». Succede tutto questo perché l’Italia «è sottomessa a potenze straniere che la condizionano e la limitano». Lo profetizzò quarant’anni fa l’economista Nikolas Kaldor: bloccando i cambi e introducendo l’unione monetaria europea, sarebbe ulteriormente aumentato il vantaggio competitivo dei più forti, che avrebbero assorbito industrie, capitali e lavoratori dai paesi più fragili. Vent’anni fa ribadivano questa previsione economisti come Paul Krugman e Wynne Godley. Quindi, «tutti quelli che hanno architettato l’euro sapevano benissimo su che scogli era diretta la nave: il loro scopo era appunto quello di farla naufragare».Le previsioni continuano ad avverarsi in modo sempre più violento da almeno sette anni, ma non è stato introdotto alcun correttivo; al contrario, sono state inasprite le misure di squilibrio e sopraffazione. E chi ha osato anche solo accennare a un referendum sull’euro – Berlusconi, Papandreou – è stato «sostituito dalla Merkel», che ha imposto governi compiacenti (Monti, Letta) patrocinati dal Quirinale. Mentre in Gran Bretagna si fa largo l’Ukip di Nigel Farage e in Francia il Front National di Marine Le Pen, due formazioni fieramente all’opposizione di Bruxelles, «l’Italia si trova nella condizione di protettorato», quasi fosse tornata alla debolezza strutturale pre-unitaria, di entità politica «messa insieme artificialmente, per volontà straniera, mediante conquiste militari». Napolitano? «Si conferma un realista e un saggio disincantato». Inutile opporsi allo strapotere di forze soverchianti: «Poiché gli italiani sono in questa condizione, bisogna farli obbedire e agire anche contro il loro interesse, onde risparmiare loro un male peggiore». La consapevolezza? «Renderebbe la gente solo più infelice e inquieta» e anche «più esposta alle violenze repressive» se osasse ribellarsi. Come dice Obama, fiduciario del Washington Consensus e dei suoi super-banchieri, quella dell’Italia è proprio la “right way”.«Italy is going the right way», dice l’umorista Obama al fido Enrico Letta. Solo che la “giusta via” ricorda la macellazione per dissanguamento: morte lenta. Così funziona la politica economica italiana, da qualche decennio al servizio di interessi stranieri: il trucco, sostiene Marco Della Luna, sta nello svuotare il paese di tutta la sua linfa, ma lentamente, in modo che non “muoia” e che non soffra troppo, perché potrebbe ribellarsi. All’avvio dell’euro, è bastato qualche anno di bassi tassi per la finanza pubblica, per gonfiare fabbisogno strutturale e debito. «Poi, di colpo, austerità e tassi alti (spread), per creare l’emergenza, imporre il presidenzialismo de facto e la “sospensione della democrazia” a tempo indeterminato». Ma già con la riforma monetaria del 1981-83 poi col Trattato di Maastricht, era stata scardinata la Costituzione: sovranità nazionale e primato del lavoro. «Fatto questo, tutto il resto è stato in discesa»: svuotare il paese di industrie pregiate, capitali e cervelli, in favore della finanza apolide e del suo feudatario-kapò europeo, la Germania.
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Saccomanni ci riprova con l’Eni, mentre l’euro ci divora
Saccomanni ci riprova: dopo aver più volte annunciato a partire dalla scorsa estate la fine della crisi italiana, ora supera se stesso affermando che è finita addirittura la crisi mondiale. Unitamente a questo splendido annuncio, ecco l’altra grande conferma: la svendita dei maggiori beni statali, cominciando da un gioiello come l’Eni. L’ex banchiere centrale, prende nota Mitt Dolcino, ora annuncia che vuol proprio vendere l’asset migliore che l’Italia ha in portafoglio, che secondo Paolo Scaroni rende al Tesoro il 6%, per poi pagare interessi sul debito pubblico inferiori al 4%. Follia? La “spiegazione”, secondo Dolcino, la fornisce involontariamente il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, che a “Radio 3” – definisce l’interesse straniero (a comprare Eni) come più forte di quello italiano. «Della serie: Saccomanni per chi lavora, per l’interesse degli italiani o per quello dei partner europei, potenziali compratori di Eni?». Dubbio più che lecito, ricordando le famose privatizzazioni del 1992 in cui il nume tutelare di Saccomanni, Mario Draghi, regalò mezza Italia agli stranieri, facendo così decollare la sua brillante carriera.Bonanni che balbetta, scrive Dolcino su “Scenari Economici” in un intervento ripreso da “Come Don Chisciotte”, «fa ben capire la gravità della situazione: anche un sindacalista vede le stesse cose che stiamo stigmatizzando noi da qualche mese». Qualcuno, aggiunge il blogger, dovrebbe “spiegare” a Saccomanni che «le partecipazioni statali non sono sue», e che in teoria esiste ancora un Parlamento. Inoltre, dire che “la crisi è finita” serve «solo per giustificare successivamente azioni straordinarie, approfittando dei problemi che emergeranno e della crescita che non ci sarà». Soltanto alibi, per arrivare all’obiettivo desiderato: privatizzare l’Italia. Tutti gli indicatori smentiscono il ministro, persino i consumi di energia: -3% rispetto all’anno scorso. Il pericolo dello smantellamento del paese resta forte, perché «nessun politico, per cialtrone che sia, ha interesse a far cadere il governo attuale: meglio che la colpa di provvedimenti impopolari non abbia un nome, un responsabile, un colore». Questo potrebbe essere il “movente” dell’eventuale salvataggio di Berlusconi dalla decadenza, per non staccare la spina a Letta e Saccomanni.Le misure speciali evocate del ministro? Tutte inutili, anzi suicide. Unico risultato: agevolare la Germania, che punta a trasformare l’Italia – il suo più grande competitor manifatturiero continentale – in una sacca di manodopera a basso costo, dopo averne acquistato a prezzi di saldo i pezzi più pregiati. «Italiani sveglia, bisogna fare qualcosa», aggiunge Dolcino. Se oggi la maggioranza degli italiani ha finalmente capito che la moneta unica avvantaggia solo i tedeschi a nostro danno, «bisogna minacciare seriamente di uscire dall’euro se non verranno rivisti pesantemente i limiti di bilancio imposti dalle regole europee», preparandosi anche a «ripudiare la moneta unica». Fare qualcosa, subito: «Non bisogna continuare a permettere a politici come Saccomanni di prendere decisioni contro gli interessi del paese». E attenzione anche alla geopolitica, conclude Dolcino, convinto che siano stati gli Usa ad “autorizzare” la Germania a spremere il resto d’Europa. Ora, con lo scandalo Datagate e lo spionaggio ai danni della Merkel, la fiducia si è incrinata: e Washington potrebbe scoprire di aver “allevato”, a Berlino, un competitor globale insidioso per l’America, quasi quanto Cina e Russia.Saccomanni ci riprova: dopo aver più volte annunciato a partire dalla scorsa estate la fine della crisi italiana, ora supera se stesso affermando che è finita addirittura la crisi mondiale. Unitamente a questo splendido annuncio, ecco l’altra grande conferma: la svendita dei maggiori beni statali, cominciando da un gioiello come l’Eni. L’ex banchiere centrale, prende nota Mitt Dolcino, ora annuncia che vuol proprio vendere l’asset migliore che l’Italia ha in portafoglio, che secondo Paolo Scaroni rende al Tesoro il 6%, per poi pagare interessi sul debito pubblico inferiori al 4%. Follia? La “spiegazione”, secondo Dolcino, la fornisce involontariamente il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, che a “Radio 3” – definisce l’interesse straniero (a comprare Eni) come più forte di quello italiano. «Della serie: Saccomanni per chi lavora, per l’interesse degli italiani o per quello dei partner europei, potenziali compratori di Eni?». Dubbio più che lecito, ricordando le famose privatizzazioni del 1992 in cui il nume tutelare di Saccomanni, Mario Draghi, regalò mezza Italia agli stranieri, facendo così decollare la sua brillante carriera.
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Aiuto, ci spiano. Rodotà: e lo scoprono solo adesso?
Chi aveva decretato la fine dell’età dei diritti, oggi dovrebbe riflettere sul fatto che la prima, vera crisi tra Stati Uniti e Unione Europea si è aperta proprio intorno alle violazioni di un diritto fondamentale – quello alla privacy. Ed è una crisi che mostra con chiarezza che cosa significhi in concreto la globalizzazione, quali siano i limiti della sovranità nazionale, di quale portata siano ormai le sfide rivolte alla democrazia attraverso diverse negazioni di diritti. L’Europa reagisce, ma non è innocente: fin dai giorni successivi all’11 Settembre, sapeva benissimo che la strada imboccata dagli Usa andava verso lo spionaggio di massa, la cancellazione delle garanzie per i cittadini, l’accesso alle banche dati. Stefano Rodotà parla di «colpevole sottovalutazione di queste dinamiche», e accusa: è rimasto inascoltato chi premeva per un cambio di passo nelle relazioni euro-atlantiche, «per impedire che sul mondo si abbattesse il “digital tsunami” poi organizzato dalla National Security Agency e provvidenzialmente rivelato da Edward Snowden».Oggi la Merkel ha reagito alla notizia del controllo sulle sue telefonate, ma negli anni ’90 nessuno protestò per la scoperta del primo sistema mondiale di intercettazioni, “Echelon”, gestito da Usa, Gran Bretagna e Canada con Australia e Nuova Zelanda. Tra i bersagli anche l’allora premier italiano, Prodi. L’Europa? Sempre subalterna alle lobby americane, scrive Rodotà in un editoriale su “Repubblica” ripreso da “Megachip”. Oggi protesta anche Barroso, fingendo di non sapere che – da “Echelon” ai Big Data della Nsa – quelle intercettazioni non sono servite solo a contrastare il terrorismo, ma a spiare i leader dei paesi “alleati” e le loro aziende, «per dare alle imprese americane un di più di informazioni per renderle più competitive rispetto a quelle europee». La presidente brasiliana Dilma Rousseff, secondo cui «senza tutela del diritto alla privacy non v’è libertà di opinione e di espressione, e quindi non v’è una vera democrazia», per Rodotà apre «una vera questione di democrazia planetaria».Di fronte al Datagate «non bastano fiere dichiarazioni di buone intenzioni», ma occorre agire – con leggi opportune – per proteggersi, anche mettendo in forse il trattato commerciale euro-atlantico. «A questa globalizzazione delle pure politiche di potenza, incarnate anche dai grandi padroni privati della Rete, bisogna cominciare ad opporre una politica dei diritti altrettanto globale», sostiene Rodotà, difendendo lo stesso Snowden da chi lo criminalizza. «Si è ormai aperta una partita che riguarda proprio i caratteri della democrazia al tempo della Rete, e questo terreno non può essere abbandonato». Aggiunge il giurista: «La morte della privacy, troppe volte certificata, è una costruzione sociale che serve alle agenzie di sicurezza per affermare il loro diritto di violare la sfera privata», e inoltre «serve ai signori della Rete, come Google o Facebook, per considerare le informazioni sugli utenti come loro proprietà assoluta, utilizzandole per qualsiasi finalità economica». Regole, finalmente, sulla tecnologia digitale. «Ma bisogna pure chiedersi se gli Stati, che oggi virtuosamente protestano contro gli Stati Uniti, hanno le carte in regola per quanto riguarda la tutela dei dati dei loro cittadini: se la posta in gioco è la democrazia, né cedimenti, né convenienze sono ammissibili».Chi aveva decretato la fine dell’età dei diritti, oggi dovrebbe riflettere sul fatto che la prima, vera crisi tra Stati Uniti e Unione Europea si è aperta proprio intorno alle violazioni di un diritto fondamentale – quello alla privacy. Ed è una crisi che mostra con chiarezza che cosa significhi in concreto la globalizzazione, quali siano i limiti della sovranità nazionale, di quale portata siano ormai le sfide rivolte alla democrazia attraverso diverse negazioni di diritti. L’Europa reagisce, ma non è innocente: fin dai giorni successivi all’11 Settembre, sapeva benissimo che la strada imboccata dagli Usa andava verso lo spionaggio di massa, la cancellazione delle garanzie per i cittadini, l’accesso alle banche dati. Stefano Rodotà parla di «colpevole sottovalutazione di queste dinamiche», e accusa: è rimasto inascoltato chi premeva per un cambio di passo nelle relazioni euro-atlantiche, «per impedire che sul mondo si abbattesse il “digital tsunami” poi organizzato dalla National Security Agency e provvidenzialmente rivelato da Edward Snowden».
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Non cittadini di Google, ma sudditi dei ricattatori Nsa
«Scusate, di quale sovranità parliamo? Oggi sappiamo cha la National Security Agency degli Stati Uniti ci spiava, ci spia e – aggiungo – ci spierà: non penseremo mica che sia finita qui», dice Giulietto Chiesa. E la Nsa «ci spierà dall’alto della sua tecnologia, quella che qualcuno anche sul web esalta come il futuro della democrazia». Solo in Francia, racconta Snowden, 70 milioni di comunicazioni telefoniche raccolte in un mese: non certo per spiare la vita privata dei parigini. I motori di ricerca, macchine spionistiche, controllano il flusso dei meta-dati: chi ha chiamato chi, da dove è partita la telefonata, e quando. Poi interviene la selezione: qualcuno estrae dettagli specifici dalla massa delle comunicazioni. «Esempio: andiamo a vedere con chi ha parlato la signora Angela Merkel l’altro ieri». Idem per tutti gli altri “alleati”: «Con la scusa di combattere il terrorismo, hanno messo sotto controllo tutti i nostri leader politici, che io continuo a chiamare “maggiordomi”, perché – essendo tutti ricattati, e sapendo di esserlo (se non lo sanno è ancora peggio) – sono stati ben zitti».L’arma del ricatto: ti controllo, so chi hai parlato, quando, e di cosa. Se l’agenda del grande alleato riparlasse di guerra, sarebbe più difficile opporsi. «Vale per Enrico Letta, vale per la presidente brasiliana Dilma Rousseff, come sappiamo. Vale per Hollande, il burattino di Francia. Vale per l’ex presidente messicano Felipe Calderon e per l’attuale presidente messicano, Enrique Peña Nieto. Vale probabilmente anche per il Papa», aggiunge Chiesa, in un video-editoriale su “Megachip”. «Forse non vale per Xi-Jingping, il presidente cinese, e per il presidente russo Vladimir Putin, i quali – non essendo alleati degli Stati Uniti – hanno probabilmente pensato di tutelarsi, cioè di innalzare le misure difensive». Come scrive persino il “New York Times”, la questione non è certo quella della privacy dell’uomo della strada: «Il programma di sorveglianza ha investito la politica, il business, la diplomazia, le banche». Per prima cosa, spiano con molta attenzione le mosse dei partner. «Begli alleati, che abbiamo». Controllare il cellulare della Merkel: per proteggerla dai terroristi, come dice Obama? No: «Per ricattarla, all’occorrenza, nel caso decidesse di fare qualcosa che “non deve” decidere di fare».Non sugge nessuno: «Se Enrico Letta va a prostrarsi a Washington, pensate che lo faccia perché è un fedele seguace del dio dollaro? Forse, anche. Ma soprattutto: teme la punizione, se sgarrasse». Dunque: «Possiamo fidarci di un alleato di questo genere? Cioè di un’America che ci spia facendo i propri interessi, contro di noi?». Per questo, Chiesa insiste nel chiedere l’uscita dalla Nato: «Non è una questione ideologica, ma pratica: voglio salvare la pelle, la mia e quella dei nostri figli. E se questi signori decidono che per i loro interessi occorre fare la guerra, diranno ai loro servi – i nostri governanti – di portarci in guerra. E se non capiamo questo, noi in guerra ci andremo ancora, finché non ci lasceremo la pelle». Date un’occhiata al grande problema americano: la finanza. «Il loro debito in realtà è il nostro: tocca a noi pagarlo, attraverso la subordinazione dell’euro». Eppure, c’è ancora chi pensa che stiamo entrando nell’era della libertà digitale, in cui potremo decidere tutto premendo un pulsante sul computer e votare insieme ai cinesi e agli indiani su come si gestisce il mondo. «Non siate ingenui, il controllo di queste macchine non ce l’avete voi. Non facciamoci illusioni: non diventeremo cittadini di Google, ma della Nsa».«Scusate, di quale sovranità parliamo? Oggi sappiamo cha la National Security Agency degli Stati Uniti ci spiava, ci spia e – aggiungo – ci spierà: non penseremo mica che sia finita qui», dice Giulietto Chiesa. E la Nsa «ci spierà dall’alto della sua tecnologia, quella che qualcuno anche sul web esalta come il futuro della democrazia». Solo in Francia, racconta Snowden, 70 milioni di comunicazioni telefoniche raccolte in un mese: non certo per spiare la vita privata dei parigini. I motori di ricerca, macchine spionistiche, controllano il flusso dei meta-dati: chi ha chiamato chi, da dove è partita la telefonata, e quando. Poi interviene la selezione: qualcuno estrae dettagli specifici dalla massa delle comunicazioni. «Esempio: andiamo a vedere con chi ha parlato la signora Angela Merkel l’altro ieri». Idem per tutti gli altri “alleati”: «Con la scusa di combattere il terrorismo, hanno messo sotto controllo tutti i nostri leader politici, che io continuo a chiamare “maggiordomi”, perché – essendo tutti ricattati, e sapendo di esserlo (se non lo sanno è ancora peggio) – sono stati ben zitti».
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Gaffe, bugie e arroganza: la Merkel smaschera Obama
Gaffe, arroganza e menzogne: così perfino Angela Merkel finisce per “smascherare” un’America in cui l’opinione pubblica è distratta dal «pessimo debutto della nuova sanità obamiana», i mass media “dormono al volante” e Barack Obama «è lento a reagire all’ultima puntata del Datagate», lo scandalo sullo spionaggio globale rivelato da Edward Snowden, ex consulente Cia e Nsa oggi riparato a Mosca. Il capo della Casa Bianca, spiega Federico Rampini, è stato «colto di sorpresa dalla durezza di Angela Merkel», ovvero dalla brusca telefonata “voluta da Berlino” per protestare vibratamente contro lo spionaggio del cellulare della cancelliera. «L’impreparazione della Casa Bianca e dell’America intera di fronte allo sdegno degli alleati – osserva Rampini – traspare nei bizantinismi adottati per placare e minimizzare: false smentite e bugie dalle gambe corte tradiscono imbarazzo e pigrizia, sottovalutazione o arroganza».Obama risponde alla Merkel che «l’America non spia e non spierà la cancelliera tedesca», ma si guarda bene dall’usare il verbo al passato: dunque, scrive Rampini su “Repubblica”, non esclude che lo spionaggio sia accaduto in passato. Trucchi semantici come quelli usati dal capo dell’intelligence, James Clapper: di fronte alle rivelazioni di “Le Monde” sui 70 milioni di telefonate francesi sorvegliate dalla National Security Agency in un solo mese, Clapper smentisce che siano state “intercettate”. Ma lo spionaggio nell’èra di Big Data, per controllare quantità così smisurate di comunicazioni, cattura a tappeto i “meta-dati”, registrando chi ha chiamato chi, da dove, quando. «L’intercettazione dei contenuti scatta semmai ex post, se gli algoritmi che analizzano i meta-dati segnalano qualcosa di sospetto». Questo, aggiunge Rampini, è il succo dei due maggiori programmi di spionaggio, “Prism” e “Swift”.Del resto, lo stesso Clapper non smentisce le intercettazioni alle ambasciate francesi a Washington e all’Onu, indebolendo la linea difensiva di Obama, secondo cui la Nsa avrebbe «salvato vite umane, sventato attentati terroristici anche ai danni dei nostri alleati». No, protesta Rampini: «Lo spionaggio delle ambasciate all’Onu serviva per le manovre della diplomazia Usa ai tempi delle sanzioni contro l’Iran». La tempesta con Berlino, ricorda il giornalista di “Repubblica”, era stata anticipata da un primo screzio il 19 giugno, quando Obama si preparava a replicare lo storico discorso di Kennedy. Poche ore prima, in una gelida conferenza stampa, la Merkel aveva avanzato le prime proteste per iniziali rivelazioni sullo spionaggio della Nsa ai danni degli alleati Usa. Già allora, Obama rispose che quelle intercettazioni erano «servite a prevenire attacchi terroristici, anche qui sul territorio tedesco». Spiegazione, osserva Rampini, accettata in un primo momento sia dai media, sia dall’opinione pubblica «assuefatta al Grande Fratello post-11 Settembre».Analoga indifferenza, dal mainstream americano, anche dopo la telefonata di protesta della Merkel del 23 ottobre. E le proteste del presidente francese Hollande per lo spionaggio? «Quattro righe nei notiziari esteri del “New York Times”, un colonnino sul “Wall Street Journal” che precisa: “Il governo francese vuole già ridimensionare, non ci saranno conseguenze”». In questo clima, «autoreferenziale e distratto», Obama è colto in contropiede dalla cancelliera e dalla sua minaccia di “gravissimi danni” nelle relazioni bilaterali Germania-Usa. «Difficile, stavolta, rispondere alla Merkel che il suo cellulare fu spiato per prevenire attacchi terroristici», annota Rampini. Per di più, «l’incidente con Berlino giunge al termine di un crescendo di disastri». Dilma Roussef, presidente del Brasile, «non si è accontentata di cancellare una visita di Stato»: è andata all’Onu per proclamare la sua indignazione all’assemblea generale. E il Messico, alleato di ferro degli Stati Uniti, «è in subbuglio per lo spionaggio sul suo ex-presidente». L’intera America latina sprofonda in un clima “anti-yankee” che non si ricordava da decenni. «Valeva la pena pagare un prezzo così alto, pur di lasciare le briglie sciolte al Grande Fratello della Nsa?».È questo, dice Rampini, il dibattito assente negli Stati Uniti, tra la classe dirigente e sui media. È vero, Obama aveva promesso una riforma dell’intelligence con nuove tutele per la privacy, come conferma anche oggi alla Merkel. «Ammesso che questa riforma avanzi, la sua lentezza tradisce la sottovalutazione del danno inflitto nel mondo intero al “soft power” americano», scrive il giornalista di “Repubblica”. «Visti da Washington, gli europei sono sempre un’Armata Brancaleone che reagisce in ordine sparso». Hollande, Letta, Merkel: «Ciascuno parla per sé, con sfumature diverse,». Una posizione unitaria dell’Europa? Forse è ormai imminente. Nonostante la tradizionale debolezza politico-diplomatica di Bruxelles, «dall’Europa si sente crescere la voglia di rappresaglie: contro la cooperazione anti-terrorismo tra le due sponde dell’Atlantico, o contro il patto per la liberalizzazione degli scambi e degli investimenti». Risultato: «Per un’America obamiana che partiva da una popolarità a livelli record, la caduta dovrebbe essere inquietante». Sintetizza da Parigi il presidente della commissione parlamentare affari legislativi: «Gli Stati Uniti non sanno avere alleati, per loro il mondo si divide tra nemici e vassalli».Gaffe, arroganza e menzogne: così perfino Angela Merkel finisce per “smascherare” un’America in cui l’opinione pubblica è distratta dal «pessimo debutto della nuova sanità obamiana», i mass media “dormono al volante” e Barack Obama «è lento a reagire all’ultima puntata del Datagate», lo scandalo sullo spionaggio globale rivelato da Edward Snowden, ex consulente Cia e Nsa oggi riparato a Mosca. Il capo della Casa Bianca, spiega Federico Rampini, è stato «colto di sorpresa dalla durezza di Angela Merkel», ovvero dalla brusca telefonata “voluta da Berlino” per protestare vibratamente contro lo spionaggio del cellulare della cancelliera. «L’impreparazione della Casa Bianca e dell’America intera di fronte allo sdegno degli alleati – osserva Rampini – traspare nei bizantinismi adottati per placare e minimizzare: false smentite e bugie dalle gambe corte tradiscono imbarazzo e pigrizia, sottovalutazione o arroganza».
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Le Pen: no-euro e sfide a viso aperto, Grillo prenda nota
Marine Le Pen come Beppe Grillo? Con una differenza colossale, anzi due. Sull’euro ha una posizione che più chiara non si può: l’uscita dalla moneta unica – pena l’abbandono dell’Unione Europea da parte della Francia – è il suo maggiore cavallo di battaglia, l’ascia di guerra impugnata per imporre all’élite finanziaria una soluzione democratica in alternativa all’agonia infinita della crisi. E a differenza del Beppe nazionale, la battagliera figliola di Jean-Marie Le Pen non si trincera dietro l’incerta esegesi oracolare del blog, sempre fatalmente “interpretabile”, ma si getta nella mischia, senza nessuna paura dell’interdizione operata dalle televisioni in mano all’establishment. Vero, intorno alla Le Pen c’è il nulla: nessun dirigente di rilievo – come del resto intorno a Grillo, che però è “vegliato” dall’ombra di Casaleggio. Identica l’intransigenza contro gli immigrati: ma per affermare la linea dura nel Front National, Marine Le Pen non ha bisogno di diktat. Per questo, a Bruxelles, fa più paura di Grillo.Il “problema”, per i tecno-gestori della cupola politico-finanziaria che ci governa con potere praticamente assoluto, sono i numeri: quelli dei sondaggi che assegnano alla Le Pen il 24% delle intenzioni di voto dei francesi. Più o meno la stessa quota riservata in Italia ai grillini, valutati sopra il 20% e già sottostimati nella precedente tornata elettorale. Milioni di elettori, tra Francia e Italia, che formano una diga potenziale contro lo strapotere della Troika: anche se molto più vago di Marine Le Pen, lo stesso Grillo non può certo essere considerato un docile esecutore della politica di rigore, quella del massacro sociale neoliberista che sta piegando l’Europa grazie alla Bce di Draghi e ai super-commissari di Bruxelles, non eletti da nessuno ma sempre agli ordini di Angela Merkel, e prima ancora delle lobby planetarie che usano la Commissione Europea per far scrivere una dopo l’altra, sotto dettatura, le leggi-capestro buone solo per le multinazionali e i grandi cannibali della finanza mondiale, i Padroni dell’Universo.Proprio grazie alla straordinaria grinta di Marine Le Pen, ora il fronte anti-austerity ha davvero cambiato marcia, rileva il blog “Cobraf” in una nota ripresa da “Come Don Chisciotte”: la grande stampa internazionale bolla ancora il Front National come “fascista” per la chiusura brutale sull’immigrazione, ma la Le Pen si smarca dal passato paterno, rifiuta di considerarsi “destra”. In economia si definisce addirittura “socialista”, e attacca: «L’austerità porta a più deficit e più debito, e la follia fiscale rallenta lo sviluppo. Il commercio anche in Francia è ridotto come nel Sud Europa. Austerità e follia fiscale: ma per cosa? E’ per loro bella faccia che, anche nel 2014, dovremmo continuare a remunerare profumatamente i rapaci mercati finanziari, di cui siamo stati messi alle dipendenze?».Date un’occhiata al sito di Marine Le Pen, consiglia “Cobraf”: anziché di post, è pieno di video-interviste rilasciate alle maggiori testate, dalle tv nazionali ai santuari gauchisti come “Libération”. E attenzione: la leader del Fn si muove ovunque, in tutto il paese, facendosi riprendere anche in mezzo alle porcilaie, pronta a pronunciarsi su chissà quale crisi regionale alimentare. «Una donna di 46 anni, senza trucco, vestita con solo un maglione». Poi non ci si stupisca se fa il pieno di voti tra contadini e operai. Nessuna paura delle telecamere, la leader del Front National non si nasconde mai: «Al contrario, appena la inviti a un dibattito azzanna gli interlocutori con foga su qualunque argomento. E ovviamente tutti i suoi discorsi sono improvvisati: niente teleprompter che la segue come Obama».Marine Le Pen come Beppe Grillo? Con una differenza colossale, anzi tre. Sull’euro ha una posizione che più chiara non si può: l’uscita dalla moneta unica – pena l’abbandono dell’Unione Europea da parte della Francia – è il suo maggiore cavallo di battaglia, l’ascia di guerra impugnata per imporre all’élite finanziaria una soluzione democratica in alternativa all’agonia infinita della crisi. E a differenza del Beppe nazionale, la battagliera figliola di Jean-Marie Le Pen non resta in panchina: si candida. Né si trincera dietro l’incerta esegesi oracolare del blog, sempre fatalmente “interpretabile”, ma si getta nella mischia, senza nessuna paura dell’interdizione operata dalle televisioni in mano all’establishment. Vero, intorno alla Le Pen c’è il nulla: nessun dirigente di rilievo – come del resto intorno a Grillo, che però è “vegliato” dall’ombra di Casaleggio. Identica l’intransigenza contro gli immigrati: ma per affermare la linea dura nel Front National, Marine Le Pen non ha bisogno di diktat. Per questo, a Bruxelles, fa più paura di Grillo.
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Libertà, contro i diktat: scommettere su Marine Le Pen
«Negozierò sulle questioni per noi irrinunciabili. Se non si giungesse ad una soluzione soddisfacente, chiederò l’uscita. L’Europa è solo un bluff. Da un lato vi è l’enorme potere di popoli sovrani, dall’altro un pugno di tecnocrati». Così Marine Le Pen ad Ambrose Evans-Pritchard, del “Telegraph”. Uscire dalla moneta unica? La leader del Front National ne parlava già un anno fa: «Sì, perché l’euro impedisce qualsiasi autonomia nelle scelte di politica economica», e la Francia «non è un paese che possa accettare di ricevere ordini da Bruxelles». Scenari da cataclisma finanziario, coi tecnici incaricati di pianificare un ritorno al franco e i custodi dell’Eurozona chiamati a una difficile decisione: collaborare con la Francia per concertarne l’uscita, coordinando la rottura dell’unione monetaria, o attendere fatalmente una disgregazione disordinata. La Le Pen ostenta tranquillità: «L’euro cesserebbe nel momento stesso della nostra uscita, questa è la nostra forza. Cosa farebbero? Invierebbero i carri armati?».Secondo il Front National, per mantenere la Francia nell’Unione Europea occorrono l’uscita dall’euro, la reintroduzione dei controlli alla frontiera, la superiorità della legge francese rispetto alle norme europee e il “patriottismo economico”, cioè la possibilità per Parigi di perseguire un “protezionismo intelligente” e salvaguardare lo stato sociale. «Non riesco a immaginare una politica economica senza il pieno controllo di quella monetaria», dice la Le Pen a Pritchard, in un’intervista ripresa da un post su “Come Don Chisciotte”. A gonfiare le vele del Fn sono i sondaggi che lo presentano come primo partito francese e la fresca vittoria alle amministrative di Brignoles (maggioranza assoluta degli elettori), ma il partito anti-euro fa presa molto saldamente, e non da oggi, sui lavoratori francesi delusi dalla sinistra europeista e “finanziaria” di Hollande. Da qui il nuovo termine coniato dalla stampa francese: “Lepenismo di sinistra”. La figlia di Jean-Marie Le Pen «sta scavalcando a sinistra i socialisti attaccando le banche e il capitalismo internazionale». E rifiuta con sdegno la definizione di “estrema destra”: ha appena accolto tra le sue fila Anna Rosso-Roig, candidata per il partito comunista nelle elezioni del 2012.Il piano di uscita dall’euro della Le Pen, spiega Evans-Pritchard, è basato sugli studi degli economisti dell’École des Hautes Études di Parigi, diretta dal professore Jacques Sapir, secondo cui «la Francia, la Spagna e l’Italia beneficerebbero di un’uscita dall’euro, potendo riacquistare immediatamente competitività sul versante del costo del lavoro senza anni di decrescita». Gli squilibri nella bilancia dei pagamenti fra nord e sud Europa sono giunti ad un punto di non ritorno: il tentativo di ridurli attraverso ulteriore deflazione e tagli dei salari causerebbe disoccupazione di massa e la perdita di buona parte dell’apparato industriale. Per Sapir, la soluzione migliore sarebbe «uno smantellamento coordinato dell’euro, con controlli nei movimenti dei capitali e con le banche centrali impegnate a far convergere le nuove valute verso le quotazioni desiderate». Il modello stima che il marco tedesco e il fiorino olandese sarebbero rivalutati del 15% rispetto all’euro, mentre il franco sarebbe svalutato del 20%. Vantaggi competitivi che invece sarebbero compromessi da una disgregazione non concertata, con brusche fluttuazioni delle valute.Nella sua “conversione” radicalmente anti-europeista, aggiunge Evans-Pritchard, il Front National ha “rimosso” le sue vecchie istanze antisemite, mentre le sue chiusure sull’immigrazione «condurranno inevitabilmente a una resa dei conti con i 5 milioni di francesi musulmani». Attenzione anche alla propaganda: «La mia impressione è che Marine Le Pen abbia una visione più moderata sui diritti degli omosessuali e sull’aborto di quello che dica», osserva il giornalista inglese. «Per certi versi è più vicina alle posizioni populiste del politico olandese assassinato Pim Fortuyn che a quelle di suo padre Jean-Marie Le Pen, che si lamenta delle idee “piccolo-borghesi” maturate dalla figlia frequentando le scuole di Parigi». Comunque, la sua campagna contro la “demonizzazione” del Fn sembra stia funzionando: «Solo una minoranza di elettori ancora ritiene che il Front sia “una minaccia per la democrazia”». La Le Pen «sta conquistando il consenso di moltissime lavoratrici bianche». E, con una leadership femminile, il Front National «non è più un partito maschilista bianco». Se il padre chiamò l’Olocausto «un dettaglio della storia», lei lo definisce «l’apice della barbarie umana». Solo cinico calcolo elettoralistico? Pritchard resta prudente, ma ammette che «un nuovo scenario» si sta aprendo: la possibilità che i cittadini di un paese-chiave come la Francia possano tornare a dire la loro su quest’Europa così disastrosa.Di fatto, il Front National eredita la maggiore bandiera storica della sinistra, il welfare dei diritti: niente a che vedere con gli anti-euro inglesi, l’Ukip di Nigel Farage che detesta l’euro ma non il libero mercato. Al contrario, Marine Le Pen «è una fiera sostenitrice del modello francese di stato sociale», e la sua critica frontale al capitalismo «le dona una sfumatura di sinistra». La Le Pen «critica severamente Washington e la Nato, rivendicando per la Francia una politica di paese “non schierato” in un mondo multipolare, e rinfaccia al partito gollista Ump di aver venduto l’anima della Francia all’Europa e all’egemonia anglo-americana». L’ascesa del Front National «continua a ricordarci che la lenta crisi politica dell’Europa è lungi dall’aver raggiunto l’apice», sostiene Pritchard. «La disoccupazione di massa e le conseguenze negative delle politiche di deflazione stanno minando le fondamenta dell’establishment, così come avvenne nei primi anni ’30 sotto il Gold Standard», il regime di cambi fissi che coinvolse i principali paesi del mondo, «analoga situazione dell’attuale unione monetaria europea».La Francia «sta soffrendo la stessa lenta agonia di allora», perché il Fiscal Compact voluto da Angela Merkel «è esattamente una rivisitazione della politica deflazionista» che provocò il collasso economico del 1936. «Non c’è nessuna giustificazione macroeconomica per aver costretto la Francia all’inasprimento fiscale così pesante degli ultimi due anni, spingendo l’economia nuovamente in recessione», scrive Pritchard. «Le misure sono state fatte ingoiare alla Francia perché la dottrina dell’Unione Europea prevede solo “austerity”», cioè riduzione della spesa pubblica e aumento delle tasse con l’obiettivo di ridurre il debito pubblico, senza controbilanciare il rigore con stimoli monetari come la creazione di moneta sovrana da parte della banca centrale per facilitare il credito a beneficio di consumatori e imprese. Fino a ieri, «la Francia ha permesso alla Germania di decidere per tutti»: è questo che ha provocato la valanga elettorale del Front National, che ha «frantumato l’assetto politico francese» e ora ha la strada spianata verso le elezioni europee del maggio 2014. Marine Le Pen non sarà sola: molti altri euro-scettici prenotano il Parlamento Europeo. Giusto così: «Le più grandi paure delle élite europee si stanno avverando», conclude Pritchard, «ed è solamente colpa loro».«Negozierò sulle questioni per noi irrinunciabili. Se non si giungesse ad una soluzione soddisfacente, chiederò l’uscita. L’Europa è solo un bluff. Da un lato vi è l’enorme potere di popoli sovrani, dall’altro un pugno di tecnocrati». Così Marine Le Pen ad Ambrose Evans-Pritchard, del “Telegraph”. Uscire dalla moneta unica? La leader del Front National ne parlava già un anno fa: «Sì, perché l’euro impedisce qualsiasi autonomia nelle scelte di politica economica», e la Francia «non è un paese che possa accettare di ricevere ordini da Bruxelles». Scenari da cataclisma finanziario, coi tecnici incaricati di pianificare un ritorno al franco e i custodi dell’Eurozona chiamati a una difficile decisione: collaborare con la Francia per concertarne l’uscita, coordinando la rottura dell’unione monetaria, o attendere fatalmente una disgregazione disordinata. La Le Pen ostenta tranquillità: «L’euro cesserebbe nel momento stesso della nostra uscita, questa è la nostra forza. Cosa farebbero? Invierebbero i carri armati?».
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Curzio Maltese: il Nulla al governo, decide tutto Draghi
«L’Italia è un’espressione geografica», senza valore politico. La celebre frase di Metternich si potrebbe oggi usare per l’Europa, non fosse che l’Europa non è nemmeno un’espressione geografica e non ha neppure una lingua o una cultura comuni. Da un punto di vista geografico siamo solo l’Ovest dell’Asia; da quello politico, l’Est degli Stati Uniti. Il resto è soltanto una parziale unità monetaria e doganale. La larga vittoria di Merkel e l’affermarsi un po’ ovunque di grandi coalizioni eterodirette dalle banche centrali riconfermano il modello di questa unione debole, di questa fusione fredda. Le alternative a questo modello disastroso di Europa, lontano ormai anni luce dai sogni dei fondatori, è rappresentata da movimenti populisti poco credibili. Quindi si andrà avanti sulla strada sbagliata, verso il nulla. Eppure è questo nulla che da due anni governa l’Italia, attraverso governi commissariati dalle banche centrali. E continuerà a governarci chissà per quanto, perfino a dispetto di eventuali elezioni.Una volta festeggiata la fine del berlusconismo con la ridicola sconfitta al Senato sulla sfiducia, bisogna prendere atto che il governo Letta, sopravvissuto al bluff del Cavaliere, è soltanto la continuazione del governo Monti, con gli stessi risultati depressivi sull’economia. L’unica vera differenza, ma importante, è che questo è un governo politico e sta ponendo le basi per durare a lungo. Monti aveva sognato un grande centro, clamorosamente bocciato dagli elettori. Ma siccome gli elettori e le elezioni ormai contano poco, il grande centro si è formato lo stesso e oggi governa. A dispetto del voto, il Pd si sta trasformando in un partito neocentrista e progetta di governare, insieme a Monti e a un pezzo neocentrista dell’ex corte berlusconiana, per molti anni.Un (vero) governo di sinistra oggi dovrebbe scontrarsi con la politica imposta dalla Banca europea e da Berlino, e la sinistra italiana non ha né il coraggio né la volontà di farlo. A questo punto si tratta soltanto di prendere ordini da Draghi, e dunque che senso ha preoccuparsi di alleanze, programmi, leader? Meglio noi degli altri, è il ragionamento. Andrebbe tutto bene, se non che la politica delle banche centrali sta distruggendo l’industria italiana. Per l’Europa naturalmente non è un problema se le imprese italiane falliscono o si trasferiscono altrove. Affari degli italiani, che per vent’anni hanno inseguito un pagliaccio. Ma per noi, e ancora di più per i nostri figli, il problema è colossale. La ricetta di Draghi non ha funzionato con Monti e non sta funzionando con Letta. Ma l’alternativa dov’è? Il nuovo Pd di Renzi, il vaffa di Grillo? Lo status quo va benissimo anche a loro.«L’Italia è un’espressione geografica», senza valore politico. La celebre frase di Metternich si potrebbe oggi usare per l’Europa, non fosse che l’Europa non è nemmeno un’espressione geografica e non ha neppure una lingua o una cultura comuni. Da un punto di vista geografico siamo solo l’Ovest dell’Asia; da quello politico, l’Est degli Stati Uniti. Il resto è soltanto una parziale unità monetaria e doganale. La larga vittoria di Merkel e l’affermarsi un po’ ovunque di grandi coalizioni eterodirette dalle banche centrali riconfermano il modello di questa unione debole, di questa fusione fredda. Le alternative a questo modello disastroso di Europa, lontano ormai anni luce dai sogni dei fondatori, è rappresentata da movimenti populisti poco credibili. Quindi si andrà avanti sulla strada sbagliata, verso il nulla. Eppure è questo nulla che da due anni governa l’Italia, attraverso governi commissariati dalle banche centrali. E continuerà a governarci chissà per quanto, perfino a dispetto di eventuali elezioni.
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Polonia come Cipro: il governo “rapina” i fondi pensione
Ora che il “bail-in” è diventato una prassi accettata in tutto il pianeta, nessun conto in banca sarà più sicuro al 100 %. In realtà, la confisca delle ricchezze “alla cipriota” è ormai prassi in tutto il mondo, avverte Michael Snyder: in Polonia i fondi pensione privati sono stati appena alleggeriti da parte del governo, mentre in Italia è nel mirino il Montepaschi. Ed è solo l’inizio: il precedente di Cipro «viene utilizzato come modello» anche in Nuova Zelanda, in Canada e in tutta Europa. «E’ solo una questione di tempo, prima di vedere accadere questa cosa negli Stati Uniti: d’ora in poi, chiunque mantenga una grande quantità di denaro in un singolo conto bancario o fondo pensione si dimostrerà incredibilmente stupido». Se ne sono accorti a Varsavia, dove ora il governo “tosa” i fondi pensione privati per «ridurre le dimensioni del debito pubblico». Molte delle attività detenute dai fondi saranno trasferite allo Stato, «mettendo in dubbio il futuro di fondi da molti miliardi di euro, molti dei quali di proprietà straniera».Il governo polacco, scrive Snyder in un intervento ripreso da “Come Don Chisciotte”, sta facendo del suo meglio per farlo sembrare una sorta di complicata manovra legale, «ma la verità è che ciò che hanno fatto è stato rubare un patrimonio privato senza dare in cambio alcun compenso». Per l’organizzazione polacca dei fondi pensione, le modifiche sono incostituzionali. Secondo il premier Donald Tusk, ciò che rimane dei versamenti dei cittadini nei fondi privati sarà progressivamente trasferito nel sistema statale nel corso dei prossimi 10 anni, prima che i risparmiatori arrivino all’età età pensionabile. Analogo allarme in Islanda, dove – dopo l’iniziale rivolta contro i banchieri-truffa e i politici loro complici – ora si ventila l’adozione di garanzie vere e proprie, come da modello Ue, solo per i conti correnti fino ai 100.000 euro. E gli altri? Per i ministri delle finanze europei, in futuro il prelievo forzoso sarà la procedura standard per salvare le banche “troppo grandi per fallire”. Obbligazionisti, azionisti e grandi risparmiatori, con conti superiori ai 100.000 euro, saranno i primi a subire perdite nel caso le banche fallissero, mentre solo i titolari di conti inferiori a quella cifra saranno relativamente al sicuro.In Italia, parla da solo il caso Mps: la banca è senza soldi, dovrebbe essere nazionalizzata e ricapitalizzata dallo Stato, ma è praticamente impossibile che accada. La banca si prepara a non remunerare gli obbligazionisti, dopo aver dichiarato la sospensione dei pagamenti residui su tre titoli “ibridi”, «a seguito delle richieste da parte delle autorità europee che gli obbligazionisti contribuiscano alla ristrutturazione del debito della banca». Secondo “Bloomberg”, Siena «non pagherà nessun residuo su circa 481 milioni di euro (650 milioni di dollari) di titoli ibridi in circolazione, emessi attraverso Mps Capital Trust II e Antonveneta Capital Trust I e II». Perché questi titoli? «Perché gli obbligazionisti ibridi hanno protezione zero e zero possibilità di fare ricorso», spiega Snyder. «In base ai termini dei titoli senza scadenza, la banca senese è autorizzata a sospendere il pagamento degli interessi senza essere dichiarata inadempiente», e senza risarcire i titolari delle obbligazioni, “rapinati” per ripianare i conti. Tutto questo avviene solo adesso, cioè dopo le elezioni tedesche: con la Merkel ancora al potere, si è certi che la Germania non permetterà alla Bce di Draghi di varare un altro programma “Ltro” per immettere nuova liquidità salva-banche.Ma se l’Europa piange, il mondo anglosassone non ride: in Nuova Zelanda, i Verdi di Russel Norman accusano il governo di meditare una soluzione “alla Cipro”: i piccoli risparmiatori sarebbero “rapinati” dal programma Obr, “Open Bank Resolution”, messo a punto dal ministro delle finanze Bill English per affrontare un grande fallimento bancario. E persino il Canada si sta muovendo in questa direzione: lo conferma il “Piano d’azione economica 2013” già presentato al Parlamento dal governo di Stephen Harper. «Ciò significa che questo regime di “bail-in” è stato probabilmente progettato molto prima che scoppiasse la crisi di Cipro», annota Snyder. «Ciò significa che i governi del mondo stanno tenendo d’occhio i nostri soldi come parte della soluzione di eventuali futuri fallimenti delle grandi banche: di conseguenza, non vi è più alcun posto veramente “sicuro” per mettere il vostro denaro». L’unico modo per tentare di proteggersi è dislocare i depositi in banche diverse. «Ma se non dai retta agli avvertimenti e continui a mantenere tutte le tue sostanze in un unico grande mucchio, non sorprenderti se un giorno tutto sarà spazzato via in un attimo».Ora che il “bail-in” è diventato una prassi accettata in tutto il pianeta, nessun conto in banca sarà più sicuro al 100 %. In realtà, la confisca delle ricchezze “alla cipriota” è ormai prassi in tutto il mondo, avverte Michael Snyder: in Polonia i fondi pensione privati sono stati appena alleggeriti da parte del governo, mentre in Italia è nel mirino il Montepaschi. Ed è solo l’inizio: il precedente di Cipro «viene utilizzato come modello» anche in Nuova Zelanda, in Canada e in tutta Europa. «E’ solo una questione di tempo, prima di vedere accadere questa cosa negli Stati Uniti: d’ora in poi, chiunque mantenga una grande quantità di denaro in un singolo conto bancario o fondo pensione si dimostrerà incredibilmente stupido». Se ne sono accorti a Varsavia, dove ora il governo “tosa” i fondi pensione privati per «ridurre le dimensioni del debito pubblico». Molte delle attività detenute dai fondi saranno trasferite allo Stato, «mettendo in dubbio il futuro di fondi da molti miliardi di euro, molti dei quali di proprietà straniera».
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Europee 2014, gli elettori voteranno contro Bruxelles
L’affermazione del partito anti-euro in Germania, la crescita dell’estrema destra in Austria, la pressione degli eurofobi di Nigel Farage sui conservatori britannici e il disastro elettorale del partito di governo alle elezioni amministrative portoghesi a causa delle misure di rigore rappresentano una sorta di introduzione alla campagna elettorale per le elezioni europee del maggio 2014, che rischia di essere caratterizzata dai gruppi ostili all’ortodossia di Bruxelles. Ai tradizionali voti contro l’immigrazione e contro Bruxelles, che hanno alimentato le campagne euroscettiche in occasione delle precedenti elezioni, si aggiunge un voto anti-Merkel e anti-troika rafforzatosi con la crisi dell’euro e con i successivi piani di rigore. Spesso questi fronti anti-Europa si mescolano tra di loro. Da un lato gli euroscettici sono preoccupati dello sviluppo dell’immigrazione, dall’altro il rigore alimenta il rifiuto di un’Europa liberista.Mentre i partiti di governo sono più preoccupati per elezioni nazionali che per quelle europee a scarsa partecipazione, queste forze “contro” vogliono capitalizzare i loro voti sull’elezione del 22 e del 25 maggio 2014 per rafforzare la loro influenza. Inoltre questo movimento arriva nel momento in cui il Parlamento europeo ottiene poteri più importanti, in particolare sulla scelta del presidente della Commissione. Il presidente del Partito per l’indipendenza del Regno Unito (Ukip) Nigel Farage ha fatto delle elezioni europee il suo principale obiettivo per imporsi nel Regno Unito e cambiare il rapporto di forza a Bruxelles. Questa è anche la priorità dei Veri Finlandesi o del Fronte Nazionale (Fn) francese, così come di Beppe Grillo in Italia o di Syriza, il principale partito di opposizione in Grecia. Tutte queste forze politiche sperano di raccogliere i voti “contro”, che si esprimono più facilmente in questo genere di elezioni. «Le europee sono tradizionalmente favorevoli ai partiti periferici», spiega il politologo Dominique Reynié. «Sono a scrutinio proporzionale e l’astensione è molto forte, soprattutto fra i moderati».Gli ingredienti del cocktail sono noti: l’immigrazione, la burocrazia e il rigore. E quando vengono mescolati possono diventare esplosivi. La polemica sui Rom in Francia mostra che l’immigrazione – sia verso l’Europa che all’interno dell’Unione – sarà uno dei temi della campagna elettorale. Questo è uno dei cavalli di battaglia dell’estrema destra, dalla Danimarca alla Grecia, dai Paesi Bassi all’Austria o alla Francia. Si tratta di un argomento spesso trattato dagli euroscettici dell’Ukip o da parte del nuovo partito anti-euro “Alternativa per la Germania” (Afd). Una parte degli europei preoccupati dalla crisi vede la libera circolazione come una minaccia per l’occupazione. Il lavoratore romeno o bulgaro sta sostituendo l’idraulico polacco. L’euroscetticismo approfitta della crisi. Alle critiche nei confronti della burocrazia di Bruxelles si aggiunge la cattiva gestione della tempesta finanziaria. «Dopo la crisi del debito i paesi del sud sono persuasi che quello che succede loro è colpa di Berlino, mentre i paesi del nord ritengono che è colpa di Bruxelles se devono dare del denaro al sud», spiega il deputato del Partito popolare europeo (Ppe) Alain Lamassoure.I Veri Finlandesi vedono nell’aiuto alla Grecia la giustificazione del loro euroscetticismo, così come il Partito della Libertà di Geert Wilders nei Paesi Bassi, che nei sondaggi raggiunge il 30 per cento. Accanto a queste due opposizione tradizionali, la crisi ha dato vita a un fronte anti-Merkel e anti-troika molto attivo nell’Europa meridionale, tanto a sinistra quanto a destra. In Grecia, Syriza e il partito populista dei Greci Indipendenti vogliono approfittare del rifiuto delle misure imposte da Bruxelles e dal Fondo Monetario Internazionale (Fmi) per imporsi a Strasburgo. In Spagna il movimento degli Indignados vuole presentare delle liste alle elezioni di maggio. Finora l’estrema destra e i movimenti euroscettici, molto divisi, hanno avuto un’influenza limitata al Parlamento Europeo. «Il progetto europeo corre un grave pericolo», riconosce Anni Podimata, vicepresidente del Parlamento ed esponente del Partito socialista greco (Pasok). «L’avversione all’Europa è sempre più forte. Questo deve spingere i partiti a farsi carico di un messaggio europeista».I deputati dell’Fn non sono iscritti, mentre gli altri movimenti si ritrovano nel gruppo “Europa libertà democrazia” intorno a Nigel Farage e ai membri della Lega Nord. Il sogno dell’Fn è quello di creare un gruppo con l’Fpö austriaco, che ha superato il 20 per cento alle elezioni politiche del 29 settembre. «Tra un quarto e un terzo dei deputati voterà “no” a tutto, ma questo non impedirà al Parlamento di funzionare. L’intesa fra il Ppe e i socialdemocratici sarà più necessaria che mai», sostiene Lamassoure. I due partiti hanno annunciato che faranno una campagna destra-sinistra, ma l’inizio della campagna elettorale dei socialdemocratici è coincisa con la decisione dell’Spd di partecipare al governo Merkel.(Alain Salles, “Elezioni europee 2014, la minaccia del voto di protesta”, intervento pubblicato da “Presseurop” e ripreso da “Globalist” il 7 ottobre 2013).L’affermazione del partito anti-euro in Germania, la crescita dell’estrema destra in Austria, la pressione degli eurofobi di Nigel Farage sui conservatori britannici e il disastro elettorale del partito di governo alle elezioni amministrative portoghesi a causa delle misure di rigore rappresentano una sorta di introduzione alla campagna elettorale per le elezioni europee del maggio 2014, che rischia di essere caratterizzata dai gruppi ostili all’ortodossia di Bruxelles. Ai tradizionali voti contro l’immigrazione e contro Bruxelles, che hanno alimentato le campagne euroscettiche in occasione delle precedenti elezioni, si aggiunge un voto anti-Merkel e anti-troika rafforzatosi con la crisi dell’euro e con i successivi piani di rigore. Spesso questi fronti anti-Europa si mescolano tra di loro. Da un lato gli euroscettici sono preoccupati dello sviluppo dell’immigrazione, dall’altro il rigore alimenta il rifiuto di un’Europa liberista.