Archivio del Tag ‘ambiente’
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Serve il coraggio politico di credere in un sogno realizzabile
E’ partita la campagna elettorale che ci porterà alle elezioni di marzo e come al solito vengono sparate roboanti promesse sperando di conquistare l’elettorato con questa o quella trovata. Il leader indiscusso di questa prassi è l’insuperabile Berlusconi che, riesumato come una mummia egizia, ancora è in pista fra l’incredulità e lo sconforto di tanti italiani che si chiedono di quale terribile colpa ci siamo macchiati per dover ancora assistere alle pessime performance di un pregiudicato che non può nemmeno accedere in Parlamento, indagato di ogni nefandezza tra cui addirittura come mandante delle stragi di mafia assieme al cofondatore di Forza Italia Dell’Utri, tuttora in carcere proprio per reati di mafia. In questo quadro ci sono molte persone che non fanno parte del circuito della vecchia politica e anche molti non votanti che potrebbero essere disponibili a dare credito a una politica che, senza troppe paure o tatticismi, proponga coraggiosamente una nuova strada.Inutile girarci attorno, inutile pensare di rimandare le prese di coscienza; per quante precauzioni e attenzioni del caso si possano prendere, la situazione è chiara: inquinamento alle stelle con conseguente deterioramento della salute e della qualità della vita, veloce esaurimento delle risorse, distruzione dell’ambiente, rischio desertificazione ed emergenza idrica, cambiamenti climatici fuori controllo che aggraveranno la situazione, cementificazione galoppante, persone sempre più prive di senso e stressate, in preda a mille paure e insicurezze dettate da un mondo che ha come unica direzione e obiettivo il vivere per i soldi e fregare il prossimo. E non si tratta di catastrofismo o allarmismo, è la situazione attuale, chiara e limpida, almeno per chi non crede ai telegiornali di regime e conseguente voce del padrone.Di fronte a questa situazione ci sono opportunità per invertire la rotta e fare del nostro paese un giardino fiorito e sono opportunità che danno le maggiori sicurezze e reali ricchezze. Ad oggi, conti alla mano, non c’è politica più lungimirante e foriera di risultati che puntare a quello di cui l’Italia ha potenzialità immense. Non ci sono campi di intervento e con garanzie di risultati maggiori di quelli del campo ambientale e nella fattispecie quelli legati alle energie rinnovabili, efficienza energetica e risparmio energetico. Puntando decisamente anche solo su questi settori, si riassorbirebbe gran parte della disoccupazione e si farebbe ripartire la vera economia che è quella che ha cura, non quella che distrugge. Ma con questi settori saremmo solo all’inizio; ci sarebbe poi il risparmio idrico, assolutamente fondamentale, poi l’agricoltura biologica da diffondere ovunque che è già uno dei pochi settori che scoppia di salute e che viene sempre più richiesto, con conseguente valorizzazione delle eccellenze locali che in Italia vuol dire agire dappertutto. Poi valorizzazione e salvaguardia del territorio che significa anche turismo di qualità ed inoltre riutilizzo, riuso, e recupero delle risorse in ogni forma e specificità per dare respiro ad una terra sempre più saccheggiata. Si tratta quindi di un vero e proprio progetto politico e culturale di rinascita con solide basi economiche e dalle grandi prospettive.Chiamatelo new deal verde, così è più cool, chiamatelo come vi pare ma da questa prospettiva non si scappa e prima ci si dirige velocemente e prima si salva il paese e si ottiene più consenso. Agire politicamente in questa direzione può spaventare solo i ladri, i disonesti o coloro a cui non interessa nulla nemmeno della sorte dei propri figli. Chiunque, onesto e serio, compresa anche la casalinga di Voghera, è in grado di capire e recepire la fattibilità e la lungimiranza di una politica in questo tipo poiché c’è tutto dentro. Ci sono i valori, c’è la salute, c’è l’occupazione, c’è l’economia, c’è il rispetto per l’ambiente e per gli altri, c’è la qualità della vita, c’è il senso di appartenenza e di comunità, c’è il genio italico, c’è la valorizzazione del territorio, c’è il non fare rimanere indietro nessuno, c’è la preservazione di quello che abbiamo per i nostri figli e nipoti, c’è la visione allargata che riesce ad abbracciare anche chi è lontano ma che può beneficiare delle conseguenze positive di quello che può fare un paese che si incamminasse decisamente in questa direzione, c’è la conservazione della memoria storica, c’è la salvaguardia e la valorizzazione del nostro immenso e meraviglioso patrimonio culturale. C’è tutto quello che può fare felici e serene le persone.Non si dica che è prematuro, che è troppo presto, che non è fattibile, che gli italiani non sono pronti, che non lo capirebbero, che si spaventerebbero, perché tanti lo hanno già capito e sono semmai sempre più spaventati davvero dal resto che hanno compreso li porterà dritti nel baratro. Quale infatti è l’alternativa a questa politica? Continuare a costruire in un paese già tutto cementificato e ad ogni alluvione piangere i morti? Continuare a costruire automobili e ad ogni statistica sull’inquinamento piangere i morti? Produrre e vendere oggetti e servizi superflui che impoveriscono le persone e non fanno che alimentare discariche e inceneritori e anche qui poi piangere i morti? Continuare ad inquinare tutto compreso il nostro meraviglioso mare? Dare lavori dannosi e insensati alle persone che le rendono infelici e preda di mutui e incombenze di ogni tipo, in grado di rovinare anche la famiglia più coesa? Non c’è nessuna prospettiva, tantomeno politica, nel percorrere una strada del genere. Tutto ciò non ha alcun futuro e sarà solo un infelice passato.(Paolo Ermani, “Il coraggio politico di credere a un sogno realizzabile”, da “Il Cambiamento” del 12 gennaio 2018).E’ partita la campagna elettorale che ci porterà alle elezioni di marzo e come al solito vengono sparate roboanti promesse sperando di conquistare l’elettorato con questa o quella trovata. Il leader indiscusso di questa prassi è l’insuperabile Berlusconi che, riesumato come una mummia egizia, ancora è in pista fra l’incredulità e lo sconforto di tanti italiani che si chiedono di quale terribile colpa ci siamo macchiati per dover ancora assistere alle pessime performance di un pregiudicato che non può nemmeno accedere in Parlamento, indagato di ogni nefandezza tra cui addirittura come mandante delle stragi di mafia assieme al cofondatore di Forza Italia Dell’Utri, tuttora in carcere proprio per reati di mafia. In questo quadro ci sono molte persone che non fanno parte del circuito della vecchia politica e anche molti non votanti che potrebbero essere disponibili a dare credito a una politica che, senza troppe paure o tatticismi, proponga coraggiosamente una nuova strada.
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Delli, Strasburgo: addio al Tav Torino-Lione, è aberrante
E fatela finita, con questa tragica pagliacciata della Torino-Lione: la linea Tav è obsoleta, inutile e dannosa. «Un’aberrazione, sotto ogni punto di vista». Parola dell’eurodeputata francese Karima Delli, presidente della commissione trasporti del Parlamento Europeo. «Chiedo una moratoria sul progetto Torino-Lione: va sospeso immediatamente. Vogliamo far viaggiare i Tir sui treni? Possiamo farlo da subito, utilizzando la linea ferroviaria che già esiste, e collega Italia e Francia attraverso la valle di Susa». Non a caso, il traforo del Fréjus è stato recentemente riammodernato (costo, 400 milioni di euro) proprio per consentire ai convogli ferroviari di trasportare sia gli autotreni che i container “navali”, della massima pezzatura. Perché insistere ancora, dopo trent’anni, su una follia come la Torino-Lione? Se lo domanda la Nelli, di fronte alla platea dei sindaci valsusini, ai quali promette di convincere i governi italiano e francese a mettere da parte la pazzia del secolo, la grande opera più inutile dell’intera storia europea. Maxi-opera fortemente avversata dalla popolazione, bocciata dai più autorevoli esperti universitari eppure letteralmente scomparsa dall’agenda politica: il grottesco Tav valsusino è sparito dalla campagna elettorale.«Francia e Italia hanno un’enorme sfida da affrontare: il cambiamento climatico, e tutto quel che ne consegue», premette Karima Nelli, europarlamentare di origine algerina, militante tra le fila dei Verdi francesi. «E quindi – aggiunge, ospite del movimento NoTav – non è possibile che due paesi ufficialmente impegnati sul fronte dell’emergenza climatica continuino a portare avanti dei progetti faraonici». Insiste: «Siamo due paesi amici e vicini, dovremmo avere gli stessi obiettivi. Sono venuta in valle di Susa perché non capisco perché ci si intestardisca in un progetto come il Tav Torino-Lione nel momento in cui, invece, c’è bisogno di proporre altre cose». Che dire, di questo progetto assurdo? «Innanzitutto è datato, è vecchio, ha troppi anni alle spalle da quando è stato concepito. Il Ventunesimo secolo – scandisce Karima Nelli – non è quello del gigantismo, ma della prossimità: è l’agire insieme agli abitanti, ai cittadini». Per questo, la giovane presidente della commissione di Straburgo ringrazia in particolare i sindaci della valle di Susa, «perché è il livello locale quello che permette veramente di fare dei progressi: è la comunità a rendere vivibile e democratico un territorio».In questi anni, osserva, il mondo ha avuto un’evoluzione: in particolare, le merci trasportate dalle ferrovie si sono estremamente ridotte. E quindi, «il progetto della Torino-Lione non corrisponde più alle esigenze della società attuale e alle sue necessità di trasporto». La situazione è radicalmente cambiata, continua Karima Nelli: «Se da un lato abbiamo la diminuzione del trasporto delle merci, dall’altro abbiamo problemi che sono diventati enormemente più importanti, primo fra tutti l’emergenza climatica». In più, «qualsiasi progetto faraonico è, innanzitutto, un grosso problema finanziario: i costi di realizzazione lievitano, senza limiti. Siamo passati da un costo di 12 miliardi, inizialmente previsto, e siamo ormai oltre i 26 miliardi. Certo, si parla del costo dell’opera nella sua globalità – ma se si facesse soltanto il tunnel, non si andrebbe da nessuna parte». L’idea di limitare la Torino-Lione al maxi-traforo da 54 chilometri, su cui è ripiegato tatticamente il governo Renzi, sembra infatti un semplice espediente per prendere tempo, di fronte alla carenza di fondi e alla tenace resistenza della valle di Susa, che non mai cessato di contestare un’opera giudicata pericolosa, costosissima e completamente inutile, salvo che il super-business speculativo dei suoi realizzatori.«Resta difficile capire come mai si vada ancora avanti con questo progetto dopo anni e anni di rapporti serissimi che lo contestano, e dopo il rapporto della Corte dei Conti Europea del 1998», afferma Karima Nelli. Sono decine gli studi finora prodotti: «Dicono tutti che questo progetto è un’aberrazione economica: costa troppo. E’ un’aberrazione sanitaria: provoca problemi per la salute. Ed è anche un’aberrazione idrogeologica: provoca l’ingente perdita di acque, e la perdita di acque avrebbe riflessi sia sulla salute umana che su quella dell’ambiente». Non solo: il progetto Tav Torino-Lione «è un’aberrazione anche dal punto di vista democratico: ci si chiede a cosa servano, questi organismi di controllo (che continuano a dire che ci sono tutti questi problemi), se poi non vengono ascoltati». Per cui, «fatti i dovuti bilanci, a questo punto bisogna chiedere il congelamento del progetto», dice la Nelli. Alternative? Immediatamente praticabili: «E’ il momento di utilizzare la linea esistente». Attenzione: «Siamo a favore del trasporto intermodale», che toglie i Tir dalle strade per caricarli sui treni. «Ma non tra 15 o 20 anni: adesso. E’ possibile farlo da subito, a vantaggio del pianeta e del clima, anche pensando alle future generazioni».La linea attuale, Torino-Modane, presenta la problematica tecnica della pendenza del tracciato, che rallenterebbe il trasporto pesante? Anche qui, attenzione: non facciamoci prendere in giro, perché «la pendenza del 30 per mille esiste solo per 100 metri di tratta, e quindi è un problema che è sicuramente possibile risolvere, senza per forza pensare a una linea nuova». Quindi, Karima Nelli chiede formalmente ai governi, italiano e francese, «la moratoria su questo progetto». Cestinare, finalmente, la Torino-Lione? «E’ giunto il momento di prendere in considerazione gli studi indipendenti finora realizzati ed eventualmente di farne di nuovi, ma che siano indipendenti». La presidente della commissione trasporti di Strasburgo annuncia di voler «lavorare seriamente coi ministri dei trasporti, italiano e francese, e con le commissioni trasporti dei due Parlamenti». La notizia, ovviamente, non è comparsa sui media mainstream, per i quali i NoTav (e i valsusini in generale) restano una tribù di scalmanati, e non un’avanguardia di italiani che, in nome della giustizia, tentano di difendere quel che resta della loro sovranità di cittadini.E fatela finita, con questa tragica pagliacciata della Torino-Lione: la linea Tav è obsoleta, inutile e dannosa. «Un’aberrazione, sotto ogni punto di vista». Parola dell’eurodeputata francese Karima Delli, presidente della commissione trasporti del Parlamento Europeo. «Chiedo una moratoria sul progetto Torino-Lione: va sospeso immediatamente. Vogliamo far viaggiare i Tir sui treni? Possiamo farlo da subito, utilizzando la linea ferroviaria che già esiste, e collega Italia e Francia attraverso la valle di Susa». Non a caso, il traforo del Fréjus è stato recentemente riammodernato (costo, 400 milioni di euro) proprio per consentire ai convogli ferroviari di trasportare sia gli autotreni che i container “navali”, della massima pezzatura. Perché insistere ancora, dopo trent’anni, su una follia come la Torino-Lione? Se lo domanda la Delli, di fronte alla platea dei sindaci valsusini, ai quali promette di convincere i governi italiano e francese a mettere da parte la pazzia del secolo, la grande opera più inutile dell’intera storia europea. Maxi-opera fortemente avversata dalla popolazione, bocciata dai più autorevoli esperti universitari eppure letteralmente scomparsa dall’agenda politica: il grottesco Tav valsusino è sparito dalla campagna elettorale.
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Soldati italiani in Niger, a proteggere l’uranio dei francesi
Soldi e uranio, col rischio di finire in mezzo a una guerra. L’Italia in Niger con 500 soldati, su invito della Francia? Motivo ufficiale: fermare, nel Sahel, la tratta dei migranti e il fondamentalismo islamico. Ma attenzione: il Niger ha appena ottenuto, dalla conferenza parigina dei donatori, un super-finanziamento da 23 miliardi di dollari. Un pacchetto di aiuti, come si dice in gergo, “allo sviluppo e alla sicurezza”, i cui appalti sono destinati a imprese europee. «Di sicuro vedremo quindi imprese italiane su quel campo, per non parlare della fornitura di armi necessaria alla “stabilizzazione”», scrive il blog “Senza Soste”, che mette a fuoco anche l’altra possibile motivazione della strana missione italiana, annunciata da Gentiloni dal ponte di una portaerei. «Il punto è che in Niger, oltre ai 23 miliardi di dollari in aiuti che andranno trasformati in appalti, c’è qualcosa che vale, come sempre, una spedizione militare: qualcosa di serio, come quel tipico prodotto da green economy che è l’uranio». Non è certo una novità: proprio per l’uranio destinato al nucleare fu montato, nel 2002, il caso Nigergate. «In poche parole, si scrive Niger e si legge uranio. Stiamo parlando del quinto produttore di uranio al mondo ma con una popolazione, di venti milioni di persone, stimata tra le dieci più povere del pianeta».In Niger c’è anche Arlit, una delle capitali mondiali della produzione di uranio impoverito, continua il newsmagazine. E’ proprio il pericolosissimo materiale «che provocò la morte dei soldati italiani al ritorno dalle missioni coloniali in Kosovo, Afghanistan e Jugoslavia (340 morti, 4000 malati, una strage silenziata al massimo dai media, con D’Alema e Mattarella, all’epoca ministro della difesa, che in materia negarono l’impossibile)». Ma in Niger, continua “Senza Soste”, «se si scrive uranio si legge Areva, una multinazionale francese a proprietà pubblica, con un proprio distinto grattacielo al quartiere parigino della Défense». Il campo si fa quindi più chiaro: resta in mano francese lo sfuttamento e l’export dell’uranio del Niger, i cui proventi non vanno certo ad una popolazione ben al di sotto del livello di povertà. «L’export di uranio del Niger, oltre a non fruttare niente per il popolo di quel paese e inquinarne pesantemente le acque, fornisce energia per il 50 per cento della popolazione francese». E’ evidente quindi che «lo sviluppo drammaticamente ineguale in Niger è un affare interno della Francia». Ma anche esterno, «perchè nella fornitura di energia atomica in Ue, che è circa un terzo di quella complessiva, l’uranio permette alla Francia di essere la principale produttrice di energia del continente, con una quota del 17,1% sulla produzione totale Ue e davanti a Germania (15,3%) e Regno Unito (in calo, ma al 13,9%)».Così è tutto più chiaro, scrive “Senza Soste”: «Gli scafisti di un paese senza sbocco al mare c’entrano poco, se non come fake news all’amatriciana». L’Italia? Forse potrebbe ricavarne, in cambio, anche una quota di energia. Ma, al netto degli eventuali appalti per Roma – una possibile fetta dei 23 miliardi concessi in “aiuti” – il blog segnala che le nostre truppe saranno inserite in un disegno, interamente francese, di ristrutturazione “coloniale” dell’area, dopo la crisi apertasi nel 2011 per Areva, costretta a rivedere una serie di reattori dopo il disastro giapponese di Fukushima. Il 2011, ricorda la “Bbc”, è anche l’anno del cosiddetto “uranium-gate”, che coinvolge l’Areva in fenomeni di corruzione in Niger, con fondi neri finiti in Russia e in Libano, fuori dal controllo di Parigi. Altro obiettivo, per la Francia: contrastare la presenza della Cina sul terreno: «E visto che in Africa i cinesi non esistono, sul piano militare, non c’è niente di meglio che ristrutturare Areva dall’interno e far valere la propria presenza sul campo in termini di truppe, con l’aiuto dell’Italia». Il rischio? La guerriglia: dopo la sollevazione dei Tuareg che ha minacciato proprio le miniere di uranio, si è già fatta sentire una guerriglia definita “islamista”, che ha già colpito siti francesi nel 2013.«Secondo fonti africane in lingua inglese, la guerra dell’uranio in Niger sembra essere appena cominciata: una guerra con gli Usa che forniscono i droni, mentre la Francia e l’Italia sono sul campo – la prima a difendere i propri interessi diretti, la seconda a supporto», cercando di rimediare appalti o magari una posizione privilegiata nella produzione di energia. Gruppi islamisti? In un articolo seguito all’uccisione di quattro soldati americani nell’area, il “Guardian” parla di gruppi in grado di colpire ma difficili da identificare, «in una delle più remote e caotiche zone di guerra del pianeta». Ed è in questo tipo di zona che la Francia vuol rimettere ordine, con l’aiuto italiano, anche per fronteggiare la minacciosa concorrenza del Kazakhstan, super-produttore di uranio. «Se ne può stare certi: le mosse legate al Niger vedranno un piano di decisione politico, su più capitali dell’Occidente, e uno legato alla situazione sui mercati finanziari. Poi si potrà raccontare degli scafisti, dei progressi contro la guerriglia islamista», a beneficio dei grandi media e del loro pubblico ignaro. Non a caso, è già partito il ritornello degli “aiuti” per fronteggiare la devastante emergenza-siccità che sta flagellando l’area. «Per evitare tragedie nel Sahel, legate alla fuga dai territori, basterebbe intervenire sulle crisi idriche, favorendo le naturali economie locali, e non immaginare di creare fortezze da fantascienza».Se però andiamo a vedere la vastità della crisi idrica che tocca il Niger, aggiunge “Senza Soste”, vediamo che non comprende solo quel paese ma anche tutta la grande fascia sub-sahariana, dalla Mauritania all’Eritrea. E spesso, le zone toccate dalla crisi idrica coincidono con quelle interessate dalla cosiddetta guerriglia islamica: è il caso del Mali, oggetto di intervento francese a inizio 2013. «Parigi interviene, quando la crisi economica e politica precipita, per “stabilizzare” economia e situazione politica del paese e far valere gli interessi francesi. La novità è che, stavolta, interviene anche l’Italia», coinvolta anche nell’intricato dopoguerra in Libia. Riusciranno a pesare sulla crisi, i maxi-appalti in arrivo? «A essere cinici – scrive “Senza Soste” – con 150 milioni annui, e qualche cerimonia militare, l’Italia si dovrebbe garantire un po’ di appalti, per una cifra magari 20 o 30 volte superiore, per le proprie imprese dal settore infrastrutture a quello della fornitura». Secondo Gianandrea Gaiani di “Analisi Difesa”, non è né garantito l’affrancamento dalla subalternità militare a Parigi, già evidenziatosi con la crisi libica del 2011, né il processo di razionalizzazione dei flussi migratori. La politica italiana? Considera “naturale” «l’assenza di qualsiasi visione strategica sull’Africa, continente la cui sinergia tra miseria e boom demografico è ottima candidata ad essere un futuro problema per l’Europa».Soldi e uranio, col rischio di finire in mezzo a una guerra. L’Italia in Niger con 500 soldati, su invito della Francia? Motivo ufficiale: fermare, nel Sahel, la tratta dei migranti e il fondamentalismo islamico. Ma attenzione: il Niger ha appena ottenuto, dalla conferenza parigina dei donatori, un super-finanziamento da 23 miliardi di dollari. Un pacchetto di aiuti, come si dice in gergo, “allo sviluppo e alla sicurezza”, i cui appalti sono destinati a imprese europee. «Di sicuro vedremo quindi imprese italiane su quel campo, per non parlare della fornitura di armi necessaria alla “stabilizzazione”», scrive il blog “Senza Soste”, che mette a fuoco anche l’altra possibile motivazione della strana missione italiana, annunciata da Gentiloni dal ponte di una portaerei. «Il punto è che in Niger, oltre ai 23 miliardi di dollari in aiuti che andranno trasformati in appalti, c’è qualcosa che vale, come sempre, una spedizione militare: qualcosa di serio, come quel tipico prodotto da green economy che è l’uranio». Non è certo una novità: proprio per l’uranio destinato al nucleare fu montato, nel 2002, il caso Nigergate. «In poche parole, si scrive Niger e si legge uranio. Stiamo parlando del quinto produttore di uranio al mondo ma con una popolazione, di venti milioni di persone, stimata tra le dieci più povere del pianeta».
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Osservate questi 16 animali, a Natale 2018 saranno estinti
Dalla vaquita, mini-cetaceo ridotto ad appena 30 esemplari nel Golfo di California, al favoloso leopardo dell’Amur, un agilissimo felino che sopravvive ancora nelle foreste temperate tra Cina, Mongolia e Russia, regno della tigre siberiana: oggi, i leopardi dell’Amur sono meno di 70. A Sumatra sono a rischio-scomparsa il rinoceronte e la tigre, in Asia è in pericolo l’orango, nella Carolina del Sud sta scomparendo il lupo rosso. In Centramerica è al lumicino il bradipo pigmeo. Stessa sorte per il rarissimo pangolino cinese e per il chiurlottello, piccolo uccello trampoliere. Sono 16 le specie che rischiano di non vedere il Natale 2018 per il numero esiguo a cui sono ridotte le loro popolazioni. Nella mappa presentata per la campagna “Wwf is calling” vengono indicate le specie ridotte «sul baratro dell’estinzione» a causa di attività umane invasive. Secondo l’associazione ambientalista, solo dal 1970 al 2012 l’uomo ha determinato il calo del 58% dell’abbondanza delle popolazioni di vertebrati terrestri e marini. Su questa “Arca di Natale”, osserva l’Ansa, il Wwf fa salire anche il pappagallo amazzonico ara golablu, il cavallo di Przewalski delle steppe mongole e il kouprey, un grosso bovide dell’Asia sud-orientale.Nella mappa c’è anche una specie di corallo, la madrepora oculata, scelta come simbolo della distruzione dei fondali del Mediterraneo: è una specie di profondità (250-800 metri) e la pesca a strascico e il cambiamento climatico sono i suoi nemici. In Italia per l’orso marsicano oggi si parla di poche decine di esemplari, come per la rarissima aquila del Bonelli, appena 40 coppie sulle scogliere mediterranee. Sarebbero poi appena una decina le coppie stabili di gipeto, il grande “avvoltoio degli agnelli” già estinto all’inizio del ‘900 e poi faticosamente reintrodotto. Una specie che resta a rischio, contando su meno di 10.000 esemplari tra Asia, Africa ed Europa. Se il Wwf lancia l’Sos anche per una specie arborea come l’abete dei Nebrodi, presente solo sulle montagne della Sicilia settentrionale, rischia di scomparire – tra i vari rettili – anche la lucertola delle Eolie. Il lupo della Tasmania, lo stambecco dei Pirenei, la tigre caucasica, il rinoceronte nero dell’Africa occidentale, il leopardo di Zanzibar, sono già stati spazzati via da bracconaggio, prelievo intensivo o distruzione del loro habitat, rileva l’associazione ambientalista.«Abbiamo il dovere di accendere i riflettori sul rischio di estinzione di alcune specie preziose e chiamare tutti a raccolta per combattere le minacce che rischiano di cancellare tesori di biodiversità in Italia e nel mondo», avverte la presidente del Wwf Italia, Donatella Bianchi. «Ormai sappiamo che la scomparsa anche di una sola specie determina una perdita immensa di informazioni biologiche, di caratteristiche genetiche e di servizi ecologici per tutta l’umanità: se, con l’impegno di tutti, anche attraverso piccoli gesti quotidiani, contribuiremo a mantenere il nostro pianeta ricco di animali, sarà a beneficio di tutti, soprattutto delle generazioni che ancora devono nascere». La piaga dell’estinzione rende più labili i sistemi naturali che consentono alle foreste di regolare le temperature del pianeta, ai fiumi di alimentare le biomasse marine, alle terre e agli oceani di produrre cibo e sicurezza, aggiunge Isabella Pratesi, direttore conservazione di Wwf Italia: «Trascuriamo inoltre che molte specie prima di noi hanno trovato, attraverso l’evoluzione, soluzioni a condizioni difficili ed estreme. Ogni insetto scomparso, ogni pianta estinta, ogni barriera corallina sbiancata potrebbe custodire le soluzioni e i rimedi ai nostri mali incurabili o ai drammatici cambiamenti che abbiamo generato».A pesare, in molti casi, sono le foreste abbattute per far spazio alle coltivazioni. Il lupo rosso statunitense sopravvive in meno di 150 individui, del bradipo pigmeo resistono alcune centinaia di esemplari su un’isola panamense. Il pangolino cinese? «E’ perseguitato per le sue scaglie ritenute “miracolose” nella medicina tradizionale». Quanto al chiurlottello, è un uccello «ritenuto una vera e propria chimera dagli ornitologi, data la sua estrema rarità in tutta Europa». Pappagalli ricercati per la loro bellezza, come l’ara golablu, hanno «la sfortuna di nidificare proprio nei palmeti pressati dalla deforestazione». Un animale leggendario come il cavallo selvaggio di Przewalski è ridotto, in Mongolia, ad appena 200 esemplari. Le specie su cui si concentra l’attenzione del Wwf sono gli “ambasciatori” di un percorso di estinzione che è arrivato, purtroppo, quasi al capolinea, insiste Donatella Bianchi: «Se, giustamente, mettiamo tanta cura nel custodire le opere dell’ingegno e della creatività umana, perché non impegnarsi per proteggere anche le meraviglie create dalla natura e che rischiano di scomparire per sempre?».Dalla vaquita, mini-cetaceo ridotto ad appena 30 esemplari nel Golfo di California, al favoloso leopardo dell’Amur, un agilissimo felino che sopravvive ancora nelle foreste temperate tra Cina, Mongolia e Russia, regno della tigre siberiana: oggi, i leopardi dell’Amur sono meno di 70. A Sumatra sono a rischio-scomparsa il rinoceronte e la tigre, in Asia è in pericolo l’orango, nella Carolina del Sud sta scomparendo il lupo rosso. In Centramerica è al lumicino il bradipo pigmeo. Stessa sorte per il rarissimo pangolino cinese e per il chiurlottello, piccolo uccello trampoliere. Sono 16 le specie che rischiano di non vedere il Natale 2018 per il numero esiguo a cui sono ridotte le loro popolazioni. Nella mappa presentata per la campagna “Wwf is calling” vengono indicate le specie ridotte «sul baratro dell’estinzione» a causa di attività umane invasive. Secondo l’associazione ambientalista, solo dal 1970 al 2012 l’uomo ha determinato il calo del 58% dell’abbondanza delle popolazioni di vertebrati terrestri e marini. Su questa “Arca di Natale”, il Wwf fa salire anche il pappagallo amazzonico ara golablu, il cavallo di Przewalski delle steppe mongole e il kouprey, un grosso bovide dell’Asia sud-orientale.
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Galloni: moneta sovrana e posti di lavoro, o addio Italia
Macché reddito di cittadinanza: serve moneta sovrana per creare 7-8 milioni di posti di lavoro, nel più breve tempo possibile, o il grande capitale straniero – francese, in primis – sbranerà quel che resta dell’Italia. Così Nino Galloni risponde all’allarme lanciato sul “Corriere della Sera” da Roberto Napoletano, già direttore del “Messaggero” e del “Sole 24 Ore”: «La Francia ha un disegno di conquista strategico e militare sull’Italia: indebolirne le banche, prenderne i gioielli, conquistare il Nord e ridurre il Sud a una grande tendopoli». Attenzione, perché Napoletano è stato molto vicino al potere: «Quindi, se in questo momento lancia un grido d’allarme così forte – dichiara Galloni a Claudio Messora, su “ByoBlu” – vuol dire che effettivamente chi è vicino al potere ha la percezione di quello che potrebbe succedere in Italia da qui a uno o due anni: una situazione sociale che si sta sempre più lacerando, fino a un’eventuale rottura». In estrema sintesi: se lo zero-virgola di Pil dell’ultimissima mini-ripresa racconta che 20 milioni di italiani stanno un po’ meglio, ce ne sono 15 che restano in condizioni di povertà vera e propria, mentre 25 milioni di italiani stanno scivolando verso il baratro, senza neppure il paracadute del welfare, che ormai è residuale e protegge solo i poveri.Non si sa fino a che punto tutto questo sia sostenibile, riassume Galloni, economista post-keynesiano e vicepresidente del Movimento Roosevelt. Il paradosso? «Quelli che stanno bene possono permettersi di pagare di tasca propria i servizi sanitari per i figli, l’assistenza agli anziani e quant’altro. I più poveri, bene o male, hanno accesso alla gratuità. Ma il grosso della classe media non ha sufficiente reddito per pagarsi i servizi essenziali, e in alcuni casi neppure per fare la spesa al supermercato o andare al cinema, al ristorante o in vacanza, per pagare le bollette, le rate del condominio. E non ha neppure accesso alla gratuità del welfare residuale». Il guaio? Ci sta crollando addosso la storia. Una storia “sbagliata”, che ha cominciato ad andare storta proprio quando l’Italia ha cessato di essere prima “un’espressione geografica”, e poi un paese popolato di contadini analfabeti. Ai fratelli maggiori d’Europa non è mai andato giù il fatto che il Belpaese potesse stupire il mondo con il suo sviluppo da record, il boom del dopoguerra fondato sull’industria. Probabilmente avremmo potuto superare la Francia, dice Galloni, se non ci fossimo fatti sfilare di mano il futuro delle telecomunicazioni, a patrire dalla geniale invenzione di Olivetti: il personal computer.Poi, aggiunge l’economista, fu essenziale il passaggio dell’89 in cui la Germania, per riunificarsi, rinunciò al marco per ottenere l’appoggio della Francia e puntare al suo vero obiettivo strategico: frenare l’Italia. «Perché un’Italia estremamente competitiva avrebbe reso proibitiva l’opera di riunificazione della Germania». Ma i “cugini” d’oltralpe, ricorda Galloni, prima ancora dei tedeschi hanno sempre lavorato contro l’Italia, contribuendo a far fuori gli italiani più decisivi, a cominciare da Enrico Mattei. Il capo dell’Eni era odiato dalle Sette Sorelle perché concedeva più soldi ai paesi petroliferi, ma a costargli la vita fu lo scontro con Parigi sul gas algerino: di fronte alla mano tesa dei francesi per accordarsi su quel business, Mattei rispose “no, grazie”. Disse: «Io tratterò solo col legittimo governo algerino, quello del popolo, che è rivoluzionario e anti-francese». E così avviene: «Gli algerini – ricorda Galloni – vincono la loro guerra di indipendenza nazionale, fanno gli accordi con l’Italia e però, poco dopo, Mattei viene ucciso. Le ultime ricostruzioni convergono sul coinvolgimento dei servizi segreti francesi».Poi è il turno di Aldo Moro, «altro uomo odiatissimo in Europa». Si era lamentato del fatto che i francesi e gli stessi “servizi” della Fiat (che come l’Eni aveva una sua “polizia segreta”, in gran parte composta da ex poliziotti e carabinieri) non comunicassero tutte le notizie riguardo alle Brigate Rosse, e che addirittura alcuni brigatisti venissero ospitati in territorio francese. Mattei e Moro, quindi Berlusconi: voleva evitare la guerra con la Libia scatenata da Sarkozy, ma è stato “convinto” dal crollo in Borsa del titolo Mediaset, precipitato del 40% in poche ore. Così ha dovuto «abbassare la testa e accettare la terza grande aggressione degli interessi nazionali dell’Italia da parte da parte dei francesi». Ci hanno sempre messo i bastoni tra le ruote, ma il peggio è che adesso l’ossigeno di sta esaurendo: «Non abbiamo più un welfare universale, abbiamo solo un welfare residuale che sta creando ulteriori lacerazioni sul territorio, anche perché spesso è destinato soprattutto agli immigrati. E quindi crea tensioni politiche e sociali che poi diventano determinanti nelle scelte dell’elettorato». Nonostante ciò, osserva Galloni, l’Italia non è ancora crollata: ha dimostrato capacità di resistenza impensabili.«In Italia ci sono 4 milioni di imprese, su quattro milioni e mezzo, che ormai sono fuori dal capitalismo perché non lavorano più per il profitto, ma per controllare risorse reali, darsi una dignità, un futuro». Aziende che «sfuggono a quelle che sono le regole dell’economia e della finanza». Anziché vendere l’azienda e vivere di rendita finanziaria, quattro milioni di imprenditori italiani – caso unico, in tutto l’Occidente – hanno tenuto duro pagando le tasse sulle perdite, senza nessun aiuto dal sistema bancario, e in più con infrastrutture oblsolete e la pubblica amministrazione che rema contro. «Però queste piccole imprese italiane hanno la caratteristica di essere competitive sui mercati internazionali, tant’è che noi siamo, con la Germania, l’unico paese che ha visto aumentare le esportazioni». Stiamo parlando di 9 miliardi di euro: «Non è tanto, però è significativo che ci sia un segno positivo. Ma ancora più significativo e positivo è che ci sia stata una riduzione di 40 miliardi di euro nell’importazione di prodotti agricoli e alimentari, dovuta ad un impressionante ritorno di tre milioni e duecentomila giovani che si sono impegnati nell’agricoltura, per fare quello che i loro padri non volevano più fare: riprendere il mestiere dei nonni». Giovani che «sono tornati a fare quello che si faceva in Italia prima del miracolo economico, che è stato soprattutto industriale».Abbiamo perso tutta la nostra grande industria privata, compreso l’80% di quella a partecipazione statale, che era un gioiello (ma quel 20% che ci rimane ancora fa molta gola a parecchi, compresi i francesi). Però, aggiunge Galloni, abbiamo mantenuto in vita l’80% della piccola industria, delle piccole imprese. «Stiamo parlando di più di 7 milioni di famiglie, che poi corrispondono grossomodo a quel 50% di elettorato che non va più a votare: è gente che non si farà abbindolare da nessuno di quelli che si presentano alle elezioni». La Francia non sta molto meglio: il suo grande problema, sociale, è quello che divide i francesi dagli immigrati, cittadini di serie B. «Da noi è esclusivamente un problema di censo, mentre da loro è un problema di nazionalità: e questo fa sì che lo studente che si è preso una laurea e che vive nella banlieue parigina non potrà mai accettare questo sistema francese». Ora, i grandi potentati finanziari – che finora si erano orientati verso i grandi immobili, i grandi alberghi – adesso stanno puntando all’agricoltura, ai terreni. E con la scusa delle crisi del sistema bancario italiano «cercheranno di entrare con grandi capitali per comprare i mutui al 10-20% del loro valore nominale, per poi rivendere gli appartamenti al 20-30% del mutuo residuo stesso. È un’operazione semplicissima, però potrebbe essere estremamente drammatica».Però poi è difficile che queste ciambelle riescano col buco, aggiunge Galloni, «perché l’Italia ha le energie per reagire e rimettersi in pista». Grande incognita, ovviamente, l’Unione Europea: avremo ancora il “quantitative easing” della Bce o prevarrà un ritorno alle posizioni più rigide, con la riapertura dell’incubo spread, che è un grande ricatto nei confronti del paese? Si insisterà sul Fiscal Compact, «che ovviamente ci metterebbe in ginocchio», oppure i “falchi” perderanno e ci sarà un recupero di fiducia fra i vari paesi? «I grandi potentati finanziari e le grandi multinazionali sono, per loro stessa natura, predatori: non guardano in faccia a nessuno. E dove vedono delle prede di più facile cattura (come siamo noi italiani, perché non abbiamo un governo, una guida, non abbiamo una pubblica amministrazione che funziona, non abbiamo un sistema bancario adeguato alle condizioni e non abbiamo – salvo alcune eccezioni – un sistema infrastrutturale adeguato) è chiaro che loro se ne approfitteranno». Nel 2018 saranno quotate in Borsa le Ferrovie dello Stato? Pessima idea: «Dopo, invece d’inseguire il miglioramento del servizio, dovranno inseguire l’aumento dei saggi d’interesse, altrimenti il titolo perderebbe valore».Lo sappiamo: è in atto una sorta di deindustrializzazione dell’Italia, a vantaggio di élite europee ed extra-nazionali a svantaggio della nostra popolazione. Come possiamo tenerci le industrie? «Dei modi ci sarebbero», risponde Galloni, «ma fanno perno sul ripristino della sovranità nazionale», che non è per forza la chiusura delle frontiere. La sovranità “saggia”, e ormai indispensabile, poggia sulla consapevolezza che quest’Europa dell’euro non sta funzionando: potrebbe implodere. Il Piano-B? «Affiancare alla moneta internazionale – che è straniera – una moneta nazionale». E gli altri paesi dovrebbero fare lo stesso. «Una moneta nazionale non è proibita dai trattati europei, perché avrebbe solo circolazione interna, ma sicuramente servirebbe per fare quegli investimenti e quelle assunzioni – dove servono – per ridare respiro al paese e ripristinare quel concetto di “welfare universale” che ci salva dalla guerra civile». Dopo il 1970, quando cioè l’umanità ha raggiunto livelli record di capacità produttiva, «la crisi ha iniziato a significare che la gente non ha abbastanza reddito». E perché il denaro non circola, beché ormai svincolato dal valore dell’oro? Presto detto: «Non esercitando più la propria sovranità monetaria, lo Stato si trova nella stessa situazione di un qualunque disgraziato che debba chiedere un prestito, se vuole fare investimenti. E non ne può fare di più grandi rispetto a quello che incamera con le tasse».Ma quello delle tasse è un falso problema, spiega Galloni: se si tagliano le tasse ma anche la spesa pubblica, la gente avrà più soldi ma li spenderà tutti per pagare i servizi che prima erano gratuiti. A quel punto la classe media si impoverisce, faccendo crollare i consumi: addio quindi a qualsiasi possibile ripresa. «I consumi aumentano se aumentano i salari, ma oggi non ci sono le condizioni: purtroppo ce le siamo bruciate per tutta una serie di scelte furiosamente sbagliate in tutti i campi, cioè tutte le politiche che hanno portato la flessibilizzazione del lavoro in precarizzazione». Questo ovviamente ha impoverito tutti, «tranne le multinazionali che venivano qui a depredare». Ma l’impresa normale «non ha un vantaggio se i lavoratori sono sottopagati, perché allora chi compra i suoi prodotti?». Si potrebbe rispondere: ci pensano le esportazioni. «Ma per essere competitivi con le esportazioni – cioè con paesi dove i salari sono ancora più bassi dei nostri – devi ridurre i salari. Quindi è sempre un cane che si morde la coda, perché per essere competitivo devi ridurre la domanda interna, ovvero l’economia interna. Che è esattamente il modello europeo. Per questo non funziona, il modello europeo. Se non si supera questo modello deflattivo, il salario sull’occupazione, non ne esce vivo nessuno. Questo lo devono capire i francesi, i tedeschi o gli olandesi e tutti quanti».Che può fare l’Italia, da subito? Lo Stato può emettere una sua moneta, in qualsiasi momento. Il Trattato di Maastricht (articolo 128a) dice che non possiamo stampare banconote. Che problema c’è? Basta stampare “Statonote”, a circolazione nazionale, da usare per assumere e per fare investimenti, «perché poi chi le accettasse le utilizzerebbe per pagare le tasse». In questo modo, si aggirerebbe anche la tagliola del pareggio di bilancio in Costituzione (regalo di Monti), «perché se abbiamo spese superiori alle tasse, basterà aggiungere questa moneta sovrana, la quale – non essendo a debito – avrà lo stesso segno algebrico delle tasse, e cioè il segno più. Quindi: tasse più moneta sovrana, uguale spesa. E abbiamo anche il pareggio di bilancio senza tanti drammi». E possiamo persino coniare degli euro. Le monete vengono stabilite dalla Bce in base a dei plafond nazionali, «quindi non possiamo coniare monete della stessa pezzatura di quelle che abbiamo in tasca. Ma possiamo farlo con altre pezzature. Già la Finlandia lo fa con monete da 2,50 euro, e la Germania ha emesso monete da 5 euro. Anche in Italia sono state emesse monete da 10 euro».In Europa, fino al 1979 la filosofia dominante era che chi fosse stato più forte doveva fare delle rinunce per aiutare gli altri. Funzionava fino a un certo punto, «perché comunque i francesi e tedeschi facevano i marpioni, i furboni, e noi italiani – come al solito – invece aiutavamo gli spagnoli, i greci e i portoghesi a entrare». Dopo il 1979, con il G7 di Tokyo, si rompe il patto di solidarietà e l’Europa ne risente, «per cui il progetto europeo diventa un altro», continua Galloni. «E allora avvengono tutta una serie di scelte che poi porteranno all’euro». A quel punto l’abbrivio è stato molto negativo, ma si voleva fare una politica “di convergenza” che costringesse gli Stati ad avere gli stessi parametri finanziari, anche se avevano situazioni diverse a livello di economia reale. E poi magari si dava un contentino con i fondi la coesione, che furono utili soprattutto per i paesi come la Polonia, che entravano nell’Unione Europea in condizioni molto difficili. «Però alla fine ci siamo trovati con un’Europa dove l’obiettivo è la massimizzazione delle esportazioni, anche a basso valore aggiunto, che si realizzano riducendo salari e occupazione. Quindi è una politica deflattiva dove l’euro funge da moneta straniera, artificiosamente scarsa, che per averla devi pagare». Una vita d’uscita? «La moneta parallela statale, che non è a debito». Non è l’unica soluzione, ma è un passaggio fondamentale: «Dobbiamo rompere l’artificiosità della scarsità, perché sennò non ne usciamo».Ad esempio, per fare il reddito di cittadinanza «dobbiamo togliere a una parte della classe media delle risorse per darle a quelli che non hanno reddito». Errore: il vero reddito di cittadinanza, dice Galloni, deve consistere nella creazione di 7-8 milioni di posizioni lavorative «per mandare a regime tutte le esigenze della società italiana in termini di ambiente, di assetto idrogeologico del territorio, di cura delle persone (soprattutto gli anziani, ma anche i bambini) e di recupero del patrimonio artistico, archeologico e comunque esistente: manutenzioni, strade e ferrovie». Quindi, «se davvero vogliamo essere un paese moderno, è chiaro che abbiamo bisogno di 7-8 milioni di addetti». Ma non ne abbiamo, «quindi non c’è bisogno di fare il reddito di cittadinanza». C’è bisogno, invece di lavoro: che si può creare rapidamente, con moneta sovrana. «Dobbiamo rompere la condizione di scarsità artificiosa, che è voluta per asservire la gente e rendere la democrazia un costo. Invece, la democrazia dev’essere un modo che noi scegliamo per vivere, come scritto nella nostra Costituzione. Se invece diciamo che la democrazia non ce la possiamo permettere – perché non abbiamo i soldi per gestirla – è chiaro che non c’è soluzione».Macché reddito di cittadinanza: serve moneta sovrana per creare 7-8 milioni di posti di lavoro, nel più breve tempo possibile, o il grande capitale straniero – francese, in primis – sbranerà quel che resta dell’Italia. Così Nino Galloni risponde all’allarme lanciato sul “Corriere della Sera” da Roberto Napoletano, già direttore del “Messaggero” e del “Sole 24 Ore”: «La Francia ha un disegno di conquista strategico e militare sull’Italia: indebolirne le banche, prenderne i gioielli, conquistare il Nord e ridurre il Sud a una grande tendopoli». Attenzione, perché Napoletano è stato molto vicino al potere: «Quindi, se in questo momento lancia un grido d’allarme così forte – dichiara Galloni a Claudio Messora, su “ByoBlu” – vuol dire che effettivamente chi è vicino al potere ha la percezione di quello che potrebbe succedere in Italia da qui a uno o due anni: una situazione sociale che si sta sempre più lacerando, fino a un’eventuale rottura». In estrema sintesi: se lo zero-virgola di Pil dell’ultimissima mini-ripresa racconta che 20 milioni di italiani stanno un po’ meglio, ce ne sono 15 che restano in condizioni di povertà vera e propria, mentre 25 milioni di italiani stanno scivolando verso il baratro, senza neppure il paracadute del welfare, che ormai è residuale e protegge solo i poveri.
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Zurigo vara il reddito sociale universale: 2.200 euro a tutti
Si chiama “reddito di base incondizionato”, ha qualche affinità con il reddito di cittadinanza che piace al Movimento 5 Stelle ed è stato adottato, a titolo sperimentale, dal Consiglio Comunale di Zurigo. Grazie alla mobilitazione della sinistra, gli abitanti della principale città elvetica potranno disporre di una sorta di “salario di Stato garantito” di 2.500 franchi mensili, ovvero di poco meno di 2.200 euro. Stiamo parlando, secondo i canoni svizzeri, dell’equivalente della soglia di povertà. Come prevedeva l’analogo testo di legge, sottoposto a referendum e bocciato lo scorso anno a livello svizzero, il “reddito di base incondizionato” dovrebbe toccare ogni singolo cittadino. Con la differenza che, mentre per gli adulti sarà di 2.500 franchi, per i minori dovrebbe essere di 625, più o meno 550 euro. In realtà, scrive Franco Zantonelli su “Repubblica”, sia il suo finanziamento che i tempi e modi d’applicazione non sono ancora chiari, visto che al legislativo di Zurigo la proposta è passata con soli due voti di scarto. L’esecutivo ha, in effetti, due anni di tempo per stabilire come metterla in pratica. «Ci muoviamo con i piedi di piombo», ha non a caso dichiarato alla tv pubblica il consigliere comunale socialista Urs Helfenstein.«Il progetto che avevamo proposto a livello nazionale – spiega a “Repubblica” uno dei sostenitori dell’iniziativa respinta nel 2016, il docente di economia all’università di Friburgo, Sergio Rossi – sarebbe stato sostenuto, tra l’altro, tassando le transazioni finanziarie». Era previsto, inoltre, che il “reddito di base incondizionato” si sostituisse alla maggior parte delle prestazioni sociali. In sostanza, si calcolava che lo Stato non ne avrebbe sofferto più di tanto. Rossi è contento che il progetto che era stato messo a punto per tutti gli svizzeri possa venire messo in pratica a Zurigo: «È la dimostrazione – afferma – che sul piano locale esiste, ormai, la consapevolezza che le sfide poste dalla globalizzazione e dalla digitalizzazione delle attività economiche non possono essere affrontate e superate correttamente, senza modificare in maniera fondamentale l’attuale sistema di protezione sociale, che risale alla seconda metà del secolo scorso». Il reddito di base incondizionato (Rbi) sarebbe una rendita mensile, sufficiente per vivere, versata individualmente ad ogni persona, dalla nascita alla morte, indipendentemente dalle altre sue fonti di reddito o ricchezze personali.«Attualmente ricaviamo tutte le entrate dal nostro lavoro, dal nostro patrimonio, dalla nostra famiglia o dalle prestazioni sociali che ci vengono versate», spiega il sito svizzero creato per sostenere l’iniziativa. Il “reddito di base incondizionato” si sostituisce alla parte di reddito individuale che copre i bisogni fondamentali, «mentre le altre rendite rivestiranno la funzione di completare il reddito di base, apportando il margine di comodità, di agio». In sostanza, la nuova entrata dovrebbe sostituirsi alla maggior parte delle prestazioni sociali fino alla quota del suo ammontare, coprendo assistenza sociale, sussidi allo studio, assegni familiari e assicurazione sulla disoccupazione. Le prestazioni sociali più mirate «saranno mantenute per gli aventi diritto, per esempio nel caso della disoccupazione o delle prestazioni complementari». In pratica, dicono gli elvetici, l’Rbi «garantisce la parte di reddito destinata a coprire i bisogni di base: le persone non cercheranno più un impiego perché devono sopravvivere, ma perché nessuno desidera accontentarsi di sopravvivere». Gli svizzeri «potranno così negoziare le loro condizioni di lavoro per soddisfare le loro comodità, più che i loro bisogni vitali».Secondo i sostenitori del “reddito di base”, «le condizioni di lavoro miglioreranno per motivare le persone, che già avranno una base di reddito, a impegnarsi di più». Di fatto, «potranno più facilmente negoziare condizioni di lavoro migliori a tempo parziale, se desiderano», e le imprese «saranno sollevate dalla responsabilità di far vivere le persone». Di conseguenza, «saranno incoraggiate ad automatizzare i compiti più ripetitivi e meno attraenti». Secondo i suoi sostenutori, l’Rbi non rappresenta un vero costo: l’attuale erogazione del welfare svizzero equivale già a un “reddito minimo”. «Non resta dunque che un piccolo saldo da finanziare per le persone che oggi guadagnano meno di quell’importo». Il reale saldo da finanziare, in termini di prestazioni sociali, sarebbe di appena 18 miliardi di franchi, pari al 3% del Pil svizzero. «Questo saldo può facilmente essere coperto in molti modi, come una correzione della Tva», l’Iva elvetica, oppure «della fiscalità diretta», o magari inserendo «una tassa sulla produzione automatizzata, sull’impronta ecologica», senza contare l’eventualità di introdurre una tassazione sulle transazioni finanziarie. Diverse forme di reddito sociale garantito sono state sperimentate negli Usa, in Canada, in Namibia e in India. Il principio è stato introdotto nella Costituzione del Brasile nel 2004. Il Kuwait e altri Stati del Golfo Persico hanno adottato una misura simile al reddito universale. «La Finlandia e il Quebec hannno deciso di introdurlo dal 2017. In Olanda, la città di Utrecht e una decina di altre città si preparano a realizzare dei test con l’Rbi, che intanto è entrato nel dibattito pubblico in Francia».Si chiama “reddito di base incondizionato”, ha qualche affinità con il reddito di cittadinanza che piace al Movimento 5 Stelle ed è stato adottato, a titolo sperimentale, dal Consiglio Comunale di Zurigo. Grazie alla mobilitazione della sinistra, gli abitanti della principale città elvetica potranno disporre di una sorta di “salario di Stato garantito” di 2.500 franchi mensili, ovvero di poco meno di 2.200 euro. Stiamo parlando, secondo i canoni svizzeri, dell’equivalente della soglia di povertà. Come prevedeva l’analogo testo di legge, sottoposto a referendum e bocciato lo scorso anno a livello svizzero, il “reddito di base incondizionato” dovrebbe toccare ogni singolo cittadino. Con la differenza che, mentre per gli adulti sarà di 2.500 franchi, per i minori dovrebbe essere di 625, più o meno 550 euro. In realtà, scrive Franco Zantonelli su “Repubblica”, sia il suo finanziamento che i tempi e modi d’applicazione non sono ancora chiari, visto che al legislativo di Zurigo la proposta è passata con soli due voti di scarto. L’esecutivo ha, in effetti, due anni di tempo per stabilire come metterla in pratica. «Ci muoviamo con i piedi di piombo», ha non a caso dichiarato alla tv pubblica il consigliere comunale socialista Urs Helfenstein.
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Cremaschi: elezioni di regime, tutti allineati ai diktat Ue
Un anno fa la maggioranza del popolo italiano, con una partecipazione al voto largamente superiore a quella delle consultazioni politiche e amministrative, bocciava la riforma costituzionale di Renzi. Non era solo il leader del Pd ad essere duramente sconfitto. Il sistema finanziario, la Confindustria, la grande stampa, tutta la élite intellettuale, la Ue e Obama, che avevano sostenuto il cambiamento costituzionale, venivano battuti. Era un pronunciamento di popolo, simile ad altri che hanno sconvolto la politica europea; un pronunciamento che, partendo da posizioni molto diverse, esprimeva lo stesso intendimento: respingere la controriforma sociale e politica voluta dalle élite della globalizzazione liberista. Cosa è rimasto dopo un anno di quel voto nel sistema politico? Nulla. Il governo è in pura continuità con quello precedente e i principali schieramenti, neppure nelle battute, fanno rifermento a quel voto. Solo le forze a sinistra del Pd ogni tanto ricordano quel referendum e la Costituzione negata, salvo poi proporre la ricostituzione di un centrosinistra senza Renzi. Quelle forze rimpiangono proprio lo schieramento politico responsabile della devastazione dei diritti costituzionali, come e forse più della destra.Il movimento lanciato all’assemblea del Brancaccio aveva provato a richiamarsi con più forza al voto popolare di rottura di una anno fa, ma poi è rifluito nella politica tradizionale della sinistra. E per questo si è sciolto. Non si può mettere il vino nuovo negli otri vecchi, come pure ha detto uno dei suoi promotori. Nel frattempo l’Unione Europea ha già messo l’ipoteca sul risultato elettorale, quale che esso sia. La Ue ha già ottenuto da Gentiloni la piena conferma del folle meccanismo automatico di innalzamento dell’età pensionabile, il che ha portato ad un po’ di sceneggiate con Cgil, Cisl e Uil, nessuno dei quali aveva in realtà mai rivendicato l’abrogazione della legge Fornero. Inoltre la Ue ha già prenotato il mese di maggio per una nuova manovra di tagli, concedendo al governo ed alle principali forze politiche unicamente la possibilità di una campagna elettorale che faccia finta di niente. Da quel 5 agosto 2011 in cui Draghi e Trichet scrissero la lettera sulle cose da fare, tutti i governi italiani hanno adottato quel testo come programma. E se qualche impegno è saltato, ci pensa o ci penserà il pilota automatico, come il presidente della Bce ha chiamato le decisioni economiche che vengono imposte all’Italia e agli altri paesi della Ue sotto controllo della Troika.A fine anno si dovrebbe poi votare in Parlamento la conferma definitiva del Fiscal Compact, cioè di quel trattato, già recepito in Costituzione con la modifica (quasi unanime) dell’articolo 81, che cancella tutti i principi e i diritti sociali della nostra Carta, nel nome del pareggio di bilancio e della riduzione del debito. Insomma la rottura di popolo di un anno fa non ha avuto alcuna vera conseguenza negli indirizzi di fondo del sistema politico, dove tutte le principali forze sono alla ricerca di patenti di rispettabilità e approvazione proprio da quei poteri italiani, europei, americani, che avevano puntato sulla vittoria di Renzi al referendum. Il risultato di tutto questo è un sistema politico sempre più autoritario ed escludente, che non a caso registra un crollo vertiginoso della partecipazione al voto, che oramai riguarda la metà o meno ancora della popolazione. A cosa serve votare se chiunque vinca non cambia niente, al di là di chiacchiere urla o promesse, questa è la convinzione che si diffonde. E il ritorno di Berlusconi, ora sostenuto anche da Scalfari, è la più sfacciata conferma di questo sistema che non cambia.Il M5S raccoglie e probabilmente raccoglierà ancora il consenso genuino di chi rifiuta le tradizionali politiche del palazzo e chiede ben altro. Ma gli elogi a Rajoy, il viaggio negli Usa, la ricerca del dialogo con Macron da parte di Di Maio, dimostrano che la leadership di quel movimento cerca prima di tutto di legittimarsi con le élites liberiste, che non danno mai benedizioni gratuite. Non c’è alcuna corrispondenza tra il voto di un anno fa e il sistema politico: quest’ultimo si muove tutto dentro il quadro della controriforma liberista, proponendo unicamente alternative all’interno di essa. Chi rivendica lavoro e eguaglianza sociale. Chi vuole la scuola pubblica, lo stato sociale e l’intervento pubblico nell’economia contro il dominio del mercato. Chi vuole la difesa dell’ambiente contro l’incuria e la devastazione delle grandi opere. Chi rifiuta e combatte l’oppressione e la violenza di sesso, di razza, di classe. Chi rifiuta ed odia lo sfruttamento, il dominio della finanza, il capitalismo. Chi soffre e chi lotta sa o deve sapere che è necessaria una rottura di sistema.Solo la rottura con i vincoli Ue, con gli impegni militari Nato, con trent’anni di politiche liberiste sempre eguali a se stesse, solo la rottura con il sistema politico e culturale della controriforma crea un’alternativa, un’alternativa fondata su quei principi sociali della Costituzione che oggi sono brutalmente negati dal potere. La coraggiosa proposta elettorale di Je So Pazzo per me è su questo che deve misurarsi. Non si tratta di aggiungere altre parole al chiacchiericcio del palazzo, ma di dare voce e forza a chi rialza la testa e vuole ribellarsi. L’appuntamento elettorale può essere solo un passaggio, e neppure dei più importanti, di questa ribellione organizzata contro il sistema e contro tutte le sue finte alternative. Un passaggio che serva ad accumulare ed unire forze per tutti i conflitti che si aprono e si dovranno aprire. Noi di qua, voi di là, solo se si dice questo ha senso partecipare a queste elezioni, governate dal regime che ha perso il referendum un anno fa.(Giorgio Cremaschi, “Elezioni: noi di qua, voi di là”, da “Micromega” del 26 novembre 2017).Un anno fa la maggioranza del popolo italiano, con una partecipazione al voto largamente superiore a quella delle consultazioni politiche e amministrative, bocciava la riforma costituzionale di Renzi. Non era solo il leader del Pd ad essere duramente sconfitto. Il sistema finanziario, la Confindustria, la grande stampa, tutta la élite intellettuale, la Ue e Obama, che avevano sostenuto il cambiamento costituzionale, venivano battuti. Era un pronunciamento di popolo, simile ad altri che hanno sconvolto la politica europea; un pronunciamento che, partendo da posizioni molto diverse, esprimeva lo stesso intendimento: respingere la controriforma sociale e politica voluta dalle élite della globalizzazione liberista. Cosa è rimasto dopo un anno di quel voto nel sistema politico? Nulla. Il governo è in pura continuità con quello precedente e i principali schieramenti, neppure nelle battute, fanno rifermento a quel voto. Solo le forze a sinistra del Pd ogni tanto ricordano quel referendum e la Costituzione negata, salvo poi proporre la ricostituzione di un centrosinistra senza Renzi. Quelle forze rimpiangono proprio lo schieramento politico responsabile della devastazione dei diritti costituzionali, come e forse più della destra.
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Galloni: non è più capitalista l’Italia che sta battendo la crisi
Volevano ammazzare l’Italia? Ci hanno provato in tutti i modi. La bella notizia? Non ci sono ancora riusciti. E non ci riusciranno: perché il nostro paese è più forte dei suoi potentissimi, aspiranti killer. E attenzione: c’è un’Italia che si sta risollevando. Come? Archiviando il capitalismo: una conversione silenziosa ma vincente. E’ qualcosa che non ha eguali, in tutto l’Occidente. Parola di Nino Galloni, economista post-keynesiano, già allievo del professor Federico Caffè. «La società italiana si sta già evolvendo in senso rivoluzionario», afferma Galloni, nell’ambito di un convegno sulla Costituzione promosso dal Movimento Roosevelt, di cui è vicepresidente. «In Italia – rivela – ci sono 4 milioni di imprese (su 4 milioni e mezzo) che sono ormai fuori dal capitalismo: non lavorano più per il profitto». Si tratta di aziende che «perseguono il controllo di attività reali, che è tutta un’altra facceda». Aziende che «puntano alla valorizzazione del lavoro, che è esattamente l’opposto del capitalismo: è un nuovo paradigma». E in prima linea figurano le ultimissime generazioni: «Ci sono 2,3 milioni di giovani che sono tornati all’agricoltura: senza che nessuno gliel’abbia chiesto, ci stanno sostituendo, dalla bilancia commerciale, 40 miliardi di importazioni di prodotti agricoli. Sono cose enormi, di cui nessuno parla».Per Galloni, sono almeno 7 milioni gli italiani che oggi stanno già interpretando questo rivoluzionario cambio di patradigma, pur nelle ristrettezze imposte dal regime ideologico neoliberista incarnato da Bruxelles, che prescrive tagli senza pietà allo Stato sociale. «Dietro – sostiene – c’è il fallimento di tutte quelle forze che sono passate dal welfare universale (che riguardava tutti, e che secondo me sta nella Costituzione) al welfare residuale, cioè solo per i poveri, che invece c’era già nella visione bismarckiana e liberale dei secoli precedenti». Anche in passato, infatti, «nessuno ha mai negato che i poveri dovessero essere aiutati: ma questo non è democrazia, al limite è buon senso. Eliminare lo Stato per metterci gli enti filantropici e le “charity” è un progetto che fa parte della multinazionalizzazione della questione, con sottomissione generalizzata degli esseri umani – che è esattamente il contrario di quello che vogliamo noi», sottolinea Galloni. «La deriva qual è stata? Difendere principi formali per tutti, e va bene, ma poi destinare risorse per tutelare solo le minoranze. E questo – aggiunge il professore – ha spiazzato la sinistra dalla possibilità vera di rappresentare una maggioranza, perché è passata a difendere le minoranze», e così «le maggioranze poi hanno seguito la Lega, Berlusconi, i 5 Stelle».Economista e insegnante (Sapienza, Luiss, Cattolica), oggi sindaco dell’Inail e presidente del Centro Studi Monetari, Galloni riflette sul cambio di paradigma silenziosamente in corso nel tessuto produttivo italiano: «Stiamo parlando di 7 milioni di casi, per i quali l’obiettivo non è più nemmeno la piena occupazione, o il lavoro, ma il pieno soddisfacimento dei bisogni della società. Dentro c’è l’ambiente, c’è la cura delle persone, c’è la cura e la valorizzazione del patrimonio esistente. E dietro questa solida realtà si nascondono almeno 7-8 milioni di posizioni lavorative aggiuntive, che esprimono lavoro produttivo e creativo, imprenditivo, artistico e organizzativo, in tutte le sue forme». Questo cambio di paradigma, continua Galloni, «ci aiuta a uscire dal capitalismo». Ed è anche «la ragione per cui poi, la gente, alla fine, si allontana dalla politica». Un tempo, gli astensionisti potevano essere qualunquisti e distratti. «Oggi, invece, quella che non va a votare, in gran parte è gente che “ci capisce”, e si dà da fare, come quei 7 milioni che ho citato».Resistono e “vincono”, quegli italiani, nell’indifferenza delle istituzioni. La Costituzione non li tutela? «Il punto debole della nostra Costituzione è che non si è realizzato quasi nulla, o ben poco, della parte sostanziale. Lo Stato non deve rimanere neutro, semplice arbitro, ma giocatore che scende in campo per attuare le funzioni-obiettivo contenute nei principi della Carta. Funzioni che ci portano al lavoro, alla scuola, alla sanità, alla dignità». Il Movimento Roosevelt chiede la piena attuazione della Costituzione: anziché il “reddito di cittadinanza”, sarebbe meglio garantire – per legge – la possibilità di lavoro per tutti. Come? Impegnando lo Stato a esercitare appieno la sua sovranità: «Non è vero che Maastricht l’abbia abolita», sottolinea Galloni: «Se volesse, lo Stato potrebbe emettere tutta la moneta metallica che vuole, o anche “moneta fiduciaria”, non a corso legale e non spendibile all’estero, ma valida per pagare le tasse e coprire il disavanzo, rimediando così al pareggio di bilancio». Qualcosa bisognerà pur fare, in ogni caso, imparando da quei 7-8 milioni di italiani che, nel frattempo, in silenzio, si stanno risollevando: hanno scartato il capitalismo, puntando sul lavoro anziché sul profitto.Volevano ammazzare l’Italia? Ci hanno provato in tutti i modi. La bella notizia? Non ci sono ancora riusciti. E non ci riusciranno: perché il nostro paese è più forte dei suoi potentissimi, aspiranti killer. E attenzione: c’è un’Italia che si sta risollevando. Come? Archiviando il capitalismo: una conversione silenziosa ma vincente. E’ qualcosa che non ha eguali, in tutto l’Occidente. Parola di Nino Galloni, economista post-keynesiano, già allievo del professor Federico Caffè. «La società italiana si sta già evolvendo in senso rivoluzionario», afferma Galloni, nell’ambito di un convegno sulla Costituzione promosso dal Movimento Roosevelt, di cui è vicepresidente. «In Italia – rivela – ci sono 4 milioni di imprese (su 4 milioni e mezzo) che sono ormai fuori dal capitalismo: non lavorano più per il profitto». Si tratta di aziende che «perseguono il controllo di attività reali, che è tutta un’altra faccenda». Aziende che «puntano alla valorizzazione del lavoro, che è esattamente l’opposto del capitalismo: è un nuovo paradigma». E in prima linea figurano le ultimissime generazioni: «Ci sono 2,3 milioni di giovani che sono tornati all’agricoltura: senza che nessuno gliel’abbia chiesto, ci stanno sostituendo, dalla bilancia commerciale, 40 miliardi di importazioni di prodotti agricoli. Sono cose enormi, di cui nessuno parla».
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Farmaco, Italia beffata: tutte al Nord Europa le agenzie Ue
Altro che monetina. Altro che pallina da biliardo finita per caso nella buca sbagliata. La mancata vittoria di Milano, la candidata italiana a ospitare l’Agenzia europea del farmaco (Ema) in trasmigrazione da Londra causa Brexit, è frutto della blindatura del blocco teutonico esercitato vuoi con discrezione da colonizzatori e tessitori diplomatici, vuoi con calibrati atti di forza. I franco-tedeschi hanno occupato tutti gli snodi fondamentali delle decisioni politiche, quelli che manovrano i bilanci più capienti o dai quali dipendono le scelte finanziariamente rilevanti. Oltretutto, la Germania è riuscita a disegnare una rete di controllo effettivo che punta più sul peso che sul numero degli enti legati o collegati all’Unione. Basta guardare la cartina con le bandierine dei paesi membri sulle 48 agenzie targate Ue, ma anche sulle istituzioni comunitarie. E più che nei livelli politici, nei piani determinanti per la formazione dei dossier e l’istruzione delle pratiche in mano ai commissari: direttori generali, segretari generali, capi di gabinetto e loro vice.A fare la parte del leone nel computo delle agenzie sono da un lato il Benelux, triangolo fondatore dell’Unione perno del Nord Europa e incardinato nell’asse franco-tedesco: Belgio, Olanda e Lussemburgo. Poi la Francia e il satellite mediterraneo della Germania, la Spagna, che con il suo tradimento nella votazione sull’Ema ha pregiudicato il successo di Milano. Le briciole finiscono all’Italia, agli altri paesi del Mediterraneo e all’Europa dell’Est. Il risultato è un’Europa sbilenca, sbilanciata a Nord. Sulla quale aleggia un ormai maturo «basta!». Le agenzie, in 24 dei 28 paesi, ci costano 1,2 miliardi di euro, pari allo 0.8 per cento del budget europeo. Ma regalano con l’indotto una torta miliardaria ai paesi che le ospitano. A Bruxelles, che già ospita Parlamento e Commissione, ce ne sono 9, comprese l’Agenzia europea per la Difesa (Eda) e il Comitato unico di risoluzione delle crisi bancarie. Hanno base nella capitale belga il grosso delle Agenzie esecutive a tempo, da quella per le Piccole e medie imprese (Easme) a quella per l’Educazione, audiovisivo e cultura, e per la Ricerca.Il Lussemburgo (che già esprime il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker, tedesco di formazione, lingua e affinità politica, zavorrato a sua volta da un capo di gabinetto germanico, Martin Selmayr, da molti considerato il vero presidente, più potente dello stesso Juncker) ospita l’Agenzia esecutiva Ue per i Consumatori, salute, agricoltura e cibo. Ma anche la Banca europea di investimenti. E la Corte europea di giustizia, da non confondere con la Corte per i diritti dell’uomo con sede all’Aja, Olanda, emanazione del Consiglio d’Europa che travalica gli stretti confini europei. Nei Paesi Bassi ci sono, sempre all’Aja, gli uffici Europol e Eurojust, rispettivamente per la collaborazione tra le forze di polizia e giudiziaria. Adesso, ad Amsterdam, per fare l’en plein andrà pure l’Ema, anche se il primo mattone della nuova sede dev’essere ancora gettato (investimento previsto, 250-300 milioni). Altra mattatrice la Francia, con 5 agenzie tra cui l’Esma che regola il mercato borsistico, ora pure quella che fissa le regole bancarie dopo il suicidio brexistico del Regno Unito, attribuita tramite sorteggio a Parigi per lo spareggio con l’Irlanda (Dublino).Parigi non si fa mancare l’Agenzia spaziale europea e quella per le Ferrovie. A Copenaghen, Danimarca, l’Agenzia per l’Ambiente. In Germania, a prima vista, solo 2 agenzie: per la sicurezza aerea e l’Autorità per le assicurazioni e pensioni aziendali e professionali. Ma vale più agenzie, a Francoforte, la Banca centrale europea (Bce), guidata dall’italiano Mario Draghi. E una sezione del Tribunale unificato dei brevetti a Monaco, strappata proprio a Milano perché l’Italia, all’epoca, si era battuta per il mantenimento dell’italiano come lingua ufficiale dell’Unione. L’altra sezione si trova a Londra: potrebbe diventare il contentino per Milano a cui si riferiva l’altro ieri Maroni? Ad Alicante, Spagna, opera l’ufficio per i marchi, la proprietà intellettuale, con uno staff di 913 persone e un budget di oltre 384 milioni. Ed è uno dei tanti, troppi (in proporzione) enti europei che si è accaparrata Madrid con la sua politica ancellare rispetto all’asse franco-tedesco, con l’Agenzia per la Pesca a Vigo, quella per la sicurezza sul lavoro, il Centro satellitare europeo, e a Barcellona lo Sviluppo dell’energia atomica. Non proprio bazzecole.Paradossali per dislocazione le attribuzioni della cyber-sicurezza a Creta o l’agenzia Frontex per il controllo delle frontiere Ue a Varsavia, dove i boat-people sono una leggenda esotica. La Francia beneficia inoltre dello sdoppiamento del Parlamento tra Bruxelles e Strasburgo. A proposito, qui il segretario generale e il suo vice sono entrambi tedeschi. E tedesco è il maggior numero di direttori generali della Commissione. Raccontano i funzionari Ue che ci sono riunioni del lunedì tra capi di gabinetto che istruiscono la riunione dei commissari il mercoledì, in cui tra capi e vice i tedeschi arrivano a essere 15 su 28. Sono loro le figure chiave, quelle che gestiscono i fondi dell’Unione. Cruciale la casella occupata da Gunther Oettinger al bilancio e alle risorse umane. Dal 2014 il governo italiano ha puntato su un riequilibrio, arrivando a 2 capi di gabinetto e 4 vice, più 24 italiani nei gabinetti dei commissari. Quattro i direttori generali, anzi 3 dopo che uno, Kessler, si è dimesso. Parecchi, circa il 10 per cento, i vincitori italiani ai concorsi per entrare negli organismi della Ue. Segno che i nostri giovani si fanno valere. Ma la strada per riequilibrare gli assetti è in salita.Le figure di spicco della burocrazia europea che parlano italiano sono Marco Buti agli Affari economici e finanziari, Roberto Viola al Mercato unico digitale e Stefano Manservisi alla cooperazione allo Sviluppo. Scarsa la nostra presenza nei gabinetti dei portafogli economici. E veniamo agli scampoli. Per restare sul tema delle agenzie, l’Italia ne conta realmente solo due (e mezzo). La Sicurezza alimentare a Parma, risultato di una battaglia all’ultimo sangue con la Finlandia, e quella (poco rilevante) per la Formazione a Torino, più il Centro per la meteorologia che si sposterà dal Regno Unito a Bologna, forte di un mega-computer. E a Varese l’Ispra, Istituto superiore per la Protezione e la ricerca ambientale. Bruscolini. Secondarie le agenzie dislocate nel resto d’Europa, nel Sud e all’Est. Siamo 28, ma il cuore e il portafogli battono a Nord. Ma l’Europa si è ristretta al Grande Benelux?(Marco Ventura, “Ma cosa ci stiamo a fare in Ue se si pappa tutto l’Europa del Nord?”, dal “Messaggero” del 23 novembre 2017, articolo ripreso da “Dagospia”).Altro che monetina. Altro che pallina da biliardo finita per caso nella buca sbagliata. La mancata vittoria di Milano, la candidata italiana a ospitare l’Agenzia europea del farmaco (Ema) in trasmigrazione da Londra causa Brexit, è frutto della blindatura del blocco teutonico esercitato vuoi con discrezione da colonizzatori e tessitori diplomatici, vuoi con calibrati atti di forza. I franco-tedeschi hanno occupato tutti gli snodi fondamentali delle decisioni politiche, quelli che manovrano i bilanci più capienti o dai quali dipendono le scelte finanziariamente rilevanti. Oltretutto, la Germania è riuscita a disegnare una rete di controllo effettivo che punta più sul peso che sul numero degli enti legati o collegati all’Unione. Basta guardare la cartina con le bandierine dei paesi membri sulle 48 agenzie targate Ue, ma anche sulle istituzioni comunitarie. E più che nei livelli politici, nei piani determinanti per la formazione dei dossier e l’istruzione delle pratiche in mano ai commissari: direttori generali, segretari generali, capi di gabinetto e loro vice.
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Insetti e Ogm: per l’élite sarà quello il nostro cibo del futuro
«La frutta era l’unico elemento della loro dieta. Quegli esseri del futuro erano vegetariani rigorosi, e per tutto il tempo che rimasi con loro, pur desiderando un pezzo di carne, fui frugivoro anch’io». È l’anno 802.701. Il Viaggiatore del Tempo ha appena incontrato una delle due razze che popolano il futuro della Terra: si tratta degli Eloi, creature bellissime, fragili, pacifiche, piccole di statura come bambini, dalla pelle color porcellana e simili tra loro anche nel sesso. Conducono una vita di puro divertimento e sono dotati di scarsa immaginazione e intelletto. Si tratta di una citazione de “La macchina del tempo”, uno dei racconti più celebri di H.G. Wells, pubblicato per la prima volta nel 1895. Nell’Inghilterra di fine Ottocento, uno scienziato racconta ai suoi più stretti amici di aver trovato il modo di viaggiare nel tempo, ma non viene creduto. Otto giorni dopo, durante una cena a casa sua, il protagonista ricompare in uno stato alterato, i vestiti in disordine e il volto spettrale: racconterà davanti a una platea sbigottita, di aver viaggiato avanti e indietro nel tempo fino a raggiungere l’anno 802.701, periodo in cui l’umanità è divisa in due tronconi differenti: gli Eloi, appunto, e i Morlock, esseri mostruosi che vivono nelle viscere della terra.Costoro escono la notte per cibarsi delle carni degli Eloi, da loro accuditi e allevati come bestie da macello. Se gli Eloi sono fruttariani, i Morlock non solo sono carnivori ma si cibano addirittura della carne dei fragili Eloi. Gli Eloi di Wells prefigurano alcune caratteristiche che ritroveremo nel capolavoro distopico di Aldous Huxley, “Il mondo nuovo”. Gli abitanti del futuro (un futuro remoto in Wells, più vicino a noi in Huxley) sono creature pacifiche che vivono in apparenza in una società perfetta e felice. Gli Eloi però sono il cibo dei Morlock, così come gli abitanti del mondo nuovo di Huxley sono creature create in laboratorio e manipolate fin dalla nascita: sono cioè “cavie” per il potere, distratte dai problemi della vita tramite la saturazione del piacere. Non vengono “mangiati” come gli Eloi, ma è la loro “anima”, la loro capacità intellettiva e artistica a essere stata annullata dai governanti. Viene da citare, seppur impropriamente, Charles Fort quando scrisse «the Earth is a farm. We are someone else’s property».Queste due opere hanno anche prefigurato molte tematiche ora più che mai attuali che ho approfondito ampiamente in altre sedi con Gianluca Marletta (“Governo Globale”, “La fabbrica della manipolazione”, “Unisex”). Tornando alla citazione iniziale, è però interessante notare come l’attuale moda “vegetariana” e “vegana” abbia preso una deriva bizzarra, arrivando ad accettare di introdurre sulle nostre tavole carne e pesce artificiale (in linea con l’orizzonte post-umano del Transumanesimo che si pone come dottrina “spirituale” del mondialismo) oppure una dieta che accolga nei nostri piatti anche gli insetti, ossia l’entomofagia. Premesso che sono vegetariana da 21 anni e che dunque non è mia intenzione “giudicare” regimi dietetici alternativi, mi sembra però che si stia “spingendo” per l’assunzione di alimenti alternativi, quasi si prefigurasse per il nostro futuro una divisione in caste tra i poveri costretti a mangiare insetti, frutta e verdura (che ovviamente saranno Ogm, mica biologici!) e i sempre più ricchi a cui nulla sarà interdetto, tantomeno la carne che sarà appunto un lusso per pochi eletti.Mi sembra che oltre al mantra buonista e politicamente corretto del Love is Love (che dal poliamore arriverà presto a battersi per la legalizzazione della pedofilia), si stia andando di pari passo verso la sponsorizzazione di una moda culturale hippie-chic-newaggiarola che impone come modello per l’uomo del futuro un pacifista a tempo determinato (cioè buono e amorevole solo nei confronti di coloro che sono come lui, per gli altri nessuna pietà), empatico a intermittenza, irrazionale, incapace di pensiero critico (sarà ormai schiavo del bipensiero orwelliano) e di assumersi le proprie responsabilità. Insomma, un bambino o al massimo un perenne adolescente emotivo, vittima delle mode inculcate dalla propaganda e intrappolato nella visione estetico-dongiovannesca dell’esistenza. La teoria della gradualità, declinata nel Principio della Rana Bollita di Noam Chomksy o nella Finestra di Overton, sembra ora voler sdoganare nell’opinione pubblica occidentale anche l’introduzione di insetti sulle nostre tavole. Nascono così start-up che si occupano di creare cibi a base di farina di grilli o di altri insetti commestibili che presto saranno disponibili anche in Italia.La Fao ha lanciato da alcuni anni il programma “Edible insects” per promuovere la diffusione dell’entomofagia, già seguita da circa 2 miliardi di persone nel mondo, principalmente in Asia, Africa e America Centrale. Ciò avviene in base alle stime di sovrappopolazione che vedono la Terra, nell’anno 2050, popolata da circa 9 miliardi di persone. Gli insetti, pertanto, potrebbero diventare una “necessaria” fonte di cibo, sia per la loro ricchezza nutrizionale sia per il minor impatto ambientale del loro allevamento. Per ovviare al problema della sovrappopolazione rientra anche la produzione di carne e pesce artificiali, prodotti cioè in laboratorio. L’obiettivo, in apparenza “legittimo”, sarebbe anche in questo caso, quello di risparmiare al pianeta lo sfruttamento delle risorse ambientali. Ma è proprio questo lo scopo? Il “progresso” legittima tutto ciò che è “sintetico” e dall’altra rimodella la società in due macro caste metaforicamente simili agli Eloi e ai Morloch. Forse i ricchi del futuro non mangeranno fisicamente i più poveri, ma costoro rappresenteranno per loro “carne da macello”, come lo siamo ora per i governanti. E come lo siamo sempre stati. Manodopera da sfruttare, sorvegliare e controllare.Torniamo a “La macchina del tempo” e al “Mondo nuovo”. Si tratta in apparenza di due romanzi, uno fantascientifico, l’altro “distopico”. Eppure hanno molto in comune se non fosse per gli interessi e il legame tra i due romanzieri. Entrambi si inseriscono infatti nell’alveo mondialista britannico di quegli anni, fervidi sostenitori del dogma evoluzionistico, dell’eugenetica e del mondialismo, appassionati critici del problema della sovrappopolazione e quindi neomalthusiani. H.G. Wells era socio della Fabian Society (come entrambi i fratelli Huxley) e del Coefficent Club, già allievo dello zio di Aldous, il biologo darwinista Thomas Huxley, amico e collega del fratello di Aldous, Julian, con cui aveva collaborato alla stesura nel 1927 di “The Science of Life”. Il saggio proponeva il tema dell’evoluzione come fondamento dell’etica di quello Stato mondiale a cui Wells avrebbe dedicato il lavoro negli ultimi anni della sua vita. Wells, nel 1928 pubblicò, ricorda Enzo Pennetta in “Inchiesta sul darwinismo”, «un libro intitolato “The Open Conspiracy”, in cui manifestò il proprio ideale di un mondo unificato sotto l’egemonia anglosassone e ispirato agli ideali socio economici della Fabian Society».Nella raccolta “Idee per un nuovo umanesimo” (1961), premesso che «la nuova organizzazione del pensiero deve essere globale», Julian Huxley precisava che «la religione del prossimo futuro potrebbe essere una buona cosa. Crederà nella conoscenza», conciliando così il neodarwinismo e la filosofia positiva di Comte. Infatti, concludeva, «la religione può essere utilmente considerata ecologia spirituale applicata». L’umanesimo promosso infatti da pensatori come Wells e i fratelli Huxley ha dato vita a un’ideologia ibrida che unisce eugenetica, malthusianesimo, denatalismo, socialismo e una spiccata attenzione per le scienze e il controllo sociale. Da lì a pochi anni il nazismo avrebbe mostrato al mondo quali rischi implicava l’eugenetica, ma i suoi princìpi base sarebbero sopravvissuti al crollo del Terzo Reich e sarebbero confluiti in organizzazioni di stampo mondialista come l’Unesco, fondata nel novembre del 1945. Julian Huxley, sostenitore di svariati metodi di “selezione” della specie, ne sarebbe stato nominato primo direttore. Il cerchio così si chiude, lasciando intravedere il “filo conduttore” che anima ideologicamente molte fra le scelte sociali, culturali e politiche degli anni che stiamo vivendo. E su cui forse dovremmo riflettere… per non fare la fine degli Eloi.(Enrica Perucchietti, “Insetti e Ogm: il cibo del futuro secondo i padroni del mondo”, dal blog “Interesse Nazionale”, novembre 2017).«La frutta era l’unico elemento della loro dieta. Quegli esseri del futuro erano vegetariani rigorosi, e per tutto il tempo che rimasi con loro, pur desiderando un pezzo di carne, fui frugivoro anch’io». È l’anno 802.701. Il Viaggiatore del Tempo ha appena incontrato una delle due razze che popolano il futuro della Terra: si tratta degli Eloi, creature bellissime, fragili, pacifiche, piccole di statura come bambini, dalla pelle color porcellana e simili tra loro anche nel sesso. Conducono una vita di puro divertimento e sono dotati di scarsa immaginazione e intelletto. Si tratta di una citazione de “La macchina del tempo”, uno dei racconti più celebri di H.G. Wells, pubblicato per la prima volta nel 1895. Nell’Inghilterra di fine Ottocento, uno scienziato racconta ai suoi più stretti amici di aver trovato il modo di viaggiare nel tempo, ma non viene creduto. Otto giorni dopo, durante una cena a casa sua, il protagonista ricompare in uno stato alterato, i vestiti in disordine e il volto spettrale: racconterà davanti a una platea sbigottita, di aver viaggiato avanti e indietro nel tempo fino a raggiungere l’anno 802.701, periodo in cui l’umanità è divisa in due tronconi differenti: gli Eloi, appunto, e i Morlock, esseri mostruosi che vivono nelle viscere della terra.
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Mundell, il genio malvagio dell’euro: così vi rovineremo
L’idea che l’euro abbia “fallito” è pericolosamente ingenua. L’euro sta facendo esattamente quello che il suo progenitore – e il ricco 1% che l’ha adottato – hanno previsto e progettato che facesse. Il progenitore è un ex economista dell’università di Chicago, Robert Mundell. L’architetto dell’“economia dell’offerta” è ora un professore presso la Columbia University, ma io ho avuto modo di conoscerlo attraverso i suoi rapporti con il mio professore di Chicago, Milton Friedman, ben prima che le ricerche di Mundell su valute e tassi di cambio avessero dato vita al progetto di un’unione monetaria europea e di una valuta europea comune. Mundell, allora, era più preoccupato dei lavori di ristrutturazione del suo bagno. Il professor Mundell, che ha sia un Premio Nobel sia un’antica villa in Toscana, mi disse furibondo: «Non mi permettono nemmeno di avere un gabinetto. Hanno regole per cui mi dicono che non posso avere un bagno in questa stanza! Ti rendi conto?». In effetti no, non posso rendermi conto. Ma io non ho una villa italiana, quindi non riesco a immaginare le frustrazioni per le norme edilizie che disciplinano il posizionamento dei gabinetti.Ma Mundell, da intraprendente canadese-americano, aveva intenzione di fare qualcosa: trovare un’arma che spazzasse via regole governative e norme sul lavoro (odiava veramente gli idraulici sindacalizzati che gli avevano fatto pagare un fracco di soldi per spostare il suo trono). «È molto difficile licenziare lavoratori in Europa», si era lamentato. La sua risposta fu l’euro. L’euro avrebbe realmente fatto il suo dovere quando sarebbero arrivate le crisi economiche, aveva spiegato Mundell. Togliere al governo il controllo sulla valuta avrebbe impedito agli odiosi, piccoli funzionari eletti di usare “estratti” di politiche monetarie e fiscali keynesiane per tirare un paese fuori dalla recessione. L’euro «mette la politica monetaria fuori dalla portata dei politici», disse. E «senza politica fiscale, l’unico modo in cui le nazioni possono mantenere i posti di lavoro è la riduzione competitiva delle regole sugli affari». Citò leggi sul lavoro, norme di tutela ambientale e, naturalmente, le tasse. L’euro avrebbe spazzato via tutto. Non si sarebbe permesso alla democrazia di interferire con il mercato – o con l’impianto idraulico!Come osserva un altro Nobel, Paul Krugman, la creazione dell’Eurozona ha violato la regola economica di base conosciuta come “area valutaria ottimale”. Era una regola inventata da Bob Mundell, ma questo non preoccupa Mundell: per lui, l’euro non riguardava la trasformazione dell’Europa in una potente unità economica unificata. Si trattava di Reagan e Thatcher. «Reagan non sarebbe stato eletto presidente senza l’influenza di Mundell», scrisse Jude Wanniski sul “Wall Street Journal”. L’economia dell’offerta pionieristica di Mundell è divenuta il modello teorico per la Reaganomics – o “economia voodoo”, come l’ha definita George Bush senior: la magica convinzione nella panacea del libero mercato che ha ispirato che le politiche della signora Thatcher. Mundell mi ha spiegato che, infatti, l’euro fa parte delle Reaganomics: «La disciplina monetaria impone la disciplina fiscale anche ai politici». E quando si verificano crisi, le nazioni economicamente disarmate hanno poco da fare, ma cancellano i regolamenti governativi all’ingrosso, privatizzano in modo massiccio le industrie statali, riducono le tasse e gettano lo stato sociale europeo nella discarica.Così, vediamo che il primo ministro Mario Monti (non eletto) ha preteso la “riforma” del diritto del lavoro in Italia per rendere più facile, per i datori di lavoro come Mundell, sparare agli idraulici toscani. Mario Draghi, capo (non eletto) della Banca Centrale Europea, chiede “riforme strutturali” – un eufemismo per i sistemi di frantumazione dei lavoratori. Cita la teoria nebulosa che questa “svalutazione interna” di ogni nazione li renderà tutti più competitivi. Monti e Draghi non possono credibilmente spiegare come, se ogni paese del continente riduce la propria forza lavoro, chiunque può ottenere un vantaggio competitivo. Ma non devono spiegare le proprie politiche; devono solo lasciare che i mercati agiscano sui titoli di Stato di ogni nazione. Quindi, l’unione monetaria è la guerra di classe con altri mezzi.La crisi in Europa e le fiamme della Grecia hanno prodotto il bagliore di ciò che il sommo filosofo Joseph Schumpeter ha chiamato “distruzione creativa”. L’apologeta del libero mercato Thomas Friedman, seguace di Schumpeter, volò ad Atene per visitare il “tempio improvvisato” della banca bruciata dove tre persone erano morte dopo esser state bombardate dai manifestanti anarchici, e ha usato l’occasione per condurre un’omelia sulla globalizzazione e l’“irresponsabilità” greca. Le fiamme, la disoccupazione di massa, la svendita delle risorse nazionali porterebbero ciò che Friedman definiva “rigenerazione” della Grecia e, in ultima analisi, di tutta l’Eurozona. Così che Mundell e gli altri con ville possono ben mettere i loro bagni ovunque vogliono. Lungi dall’essere un fallimento, l’euro, che era il figlio di Mundell, è riuscito probabilmente ad andare al di là dei sogni più selvaggi del suo progenitore.(Greg Palast, “Robert Mundell, il genio malvagio dell’euro”, dal “Guardian” del 26 giugno 2012).L’idea che l’euro abbia “fallito” è pericolosamente ingenua. L’euro sta facendo esattamente quello che il suo progenitore – e il ricco 1% che l’ha adottato – hanno previsto e progettato che facesse. Il progenitore è un ex economista dell’università di Chicago, Robert Mundell. L’architetto dell’“economia dell’offerta” è ora un professore presso la Columbia University, ma io ho avuto modo di conoscerlo attraverso i suoi rapporti con il mio professore di Chicago, Milton Friedman, ben prima che le ricerche di Mundell su valute e tassi di cambio avessero dato vita al progetto di un’unione monetaria europea e di una valuta europea comune. Mundell, allora, era più preoccupato dei lavori di ristrutturazione del suo bagno. Il professor Mundell, che ha sia un Premio Nobel sia un’antica villa in Toscana, mi disse furibondo: «Non mi permettono nemmeno di avere un gabinetto. Hanno regole per cui mi dicono che non posso avere un bagno in questa stanza! Ti rendi conto?». In effetti no, non posso rendermi conto. Ma io non ho una villa italiana, quindi non riesco a immaginare le frustrazioni per le norme edilizie che disciplinano il posizionamento dei gabinetti.
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Globalizzati e sempre più poveri: come nell’Impero Romano
I banchieri centrali non hanno mai fatto tanti danni all’economia mondiale quanti ne hanno fatti in questi ultimi dieci anni. Possiamo anche dire che finora non hanno mai avuto tanto potere per farlo. Se i loro predecessori avessero avuto questo potere… chissà? Comunque, l’economia globale non è mai stata più interconnessa come lo è oggi, soprattutto per effetto dell’avanzamento del globalismo, del neoliberismo e forse anche della tecnologia. Ironia della sorte, tutti e tre questi fattori vengono continuamente magnificati come forze del bene. Ma gli standard di vita per molti milioni di persone in Occidente sono scesi – o sono pieni di incertezze – mentre milioni di cinesi ora hanno un livello di vita migliore. Alle persone in Occidente hanno detto di guardare a questo come ad uno sviluppo positivo; dopo tutto, permette di comprare prodotti che costano meno di quelli che produrrebbero le industrie nazionali. Ma insieme al loro posto di lavoro nella produzione, è sparito anche tutta la loro way of life, il loro modello di vita. O, piuttosto, si è nascosto dietro un velo di debiti, tanto da non poter credibilmente negare che circa tre quarti degli americani hanno difficoltà a pagare le bollette. Cosa che sicuramente non succedeva dagli anni ’50 e ’60.In Europa occidentale questo è un po’ meno evidente, o forse è solo in ritardo, ma con il globalismo e il neoliberismo, che sono ancora le religioni economiche dominanti, non ci sarà via d’uscita. Che è successo? Beh, noi non facciamo più le cose. Ecco tutto. Dobbiamo comprare da altri tutte le cose che ci servono: sempre di più. E di conseguenza non abbiamo nemmeno le competenze per fare altre cose. Siamo diventati dipendenti, per la nostra sopravvivenza, da nazioni che stanno dall’altra parte del pianeta. Dipendenti da nazioni che sono interessate solo a venderci le loro cose, se le possiamo pagare. Nazioni che vedono le richieste di salario interno salire e che – dovranno – farci pagare i loro prodotti a prezzi sempre più alti. E noi non avremo altra scelta che pagare. Ma possiamo pagare solo con quello che possiamo prendere in prestito – come nazioni, come imprese e come individui. Dobbiamo prendere in prestito perché, come nazioni, come società e come individui noi non facciamo più le cose. È un circolo vizioso con cui la globalizzazione ci ha benedetto. E da cui – ci viene detto – potremo uscire solo se riusciremo a crescere ancora. Cosa che non possiamo fare, perché noi non facciamo nulla.Quindi ci affidiamo ai banchieri centrali per gestire la crisi. Perché ci viene detto che loro sanno come gestirla. Non lo sanno, ma fingono di saperlo. Però, a leggere bene tra le righe, ammettono la loro ignoranza. A Janet Yellen, poche settimane fa, è scappato di dire che non ha idea del motivo per cui l’inflazione è debole. Mario Draghi ha detto più o meno la stessa cosa. Perché non lo sanno? Perché conoscono solo i modelli attuali, che non vanno più bene, perché non si adattano. E i modelli sono tutti quelli che hanno. Nel settore bancario centrale i modelli economici sono più importanti del buon senso. La Fed ha almeno un migliaio di dottorati PhDs sotto contratto. Ma la Yellen, il loro capo, continua a sostenere che “forse” sono sbagliati i modelli che dicono che se cresce l’inflazione aumentano i salari. Non hanno idea del perché i salari non crescano. Perché i modelli dicono che invece dovrebbero crescere. Perché loro hanno tutti un lavoro – i 1000 dottoroni ben pagati. E questo è tutto quello che hanno da dire. Dicono che il fatto che i salari non aumentano è un mistero.Io dico che quelli per cui questo è un mistero non sono le persone giuste per fare il lavoro che fanno. Se si esportano milioni di posti di lavoro in Asia, si sposta anche il potere negoziale dei lavoratori e li si spinge a fare dei lavori di merda e senza nessun benefit, allora c’è solo un risultato possibile. E questo risultato non include né inflazione, né crescita dei salari. L’unico risultato possibile, invece, è una erosione continua delle economie. Il mantra globalista afferma che riempiremo lo spazio che perdono le nostre economie offrendo posti di lavoro migliori, nel settore dei servizi e nel settore della conoscenza. Ma la realtà non segue il mantra. La maggior parte dei nuovi posti di lavoro non sono sicuramente “migliori”. E mentre aspettiamo di vedere questi posti di lavoro migliori, salutiamo i clienti di Wal-Mart, vediamo che i robot cominciano a prendersi cura di quel poco che ci rimane della nostra capacità produttiva e i servizi pronta consegna eliminano dagli scaffali anche quello che restava nei nostri magazzini di mattoni e di calce. Sì, questo significa che stiamo perdendo anche i lavori “di minor qualità”.Nel frattempo i cinesi, che ora fanno i nostri vecchi lavori, sono stati capaci di farli grazie ad una folle quantità di inquinamento prodotto. E come se non fosse abbastanza, recentemente, solo per mantenere in vita il loro nuovo magico paradiso produttivo, sono stati costretti a prendere in prestito tanto quanto abbiamo preso in prestito noi – a livello statale, a livello di governo locale e ora anche a livello individuale. In Cina, le funzioni del credito sono come gli oppiacei in America. Milioni di persone che non erano mai entrate in contatto con le cose – e avrebbero continuato a viver bene anche se non ci fossero mai entrate in contatto – ora sono state agganciate. Ma sono stati agganciati anche i governi locali, che hanno creato un sistema bancario ombra che minaccerà presto Pechino; ma per i cittadini, questo, è un fenomeno relativamente nuovo. E si vede gente che dice cose come: “Se non compri un appartamento oggi, non te lo potrai mai più permettere”; oppure: “Una persona senza un appartamento non ha futuro a Shenzhen”.Sappiamo tutti che è sbagliato, ma i cinesi sono gente che ha visto solo che i prezzi dei beni salgono, e che non ha mai pensato che esistono delle città fantasma, e che ha pochi altri modi per parcheggiare i soldi che si guadagna, grazie al lavoro importato dagli Stati Uniti e dall’Europa. Pensano, senza avere mai dubbi, che i loro salari continueranno a crescere, proprio come il “valore” degli appartamenti. E’ gente che non ha mai visto i prezzi scendere. Ma se noi dobbiamo prendere soldi in prestito per permetterci di comprare i prodotti che (i cinesi) fanno per ripagare i soldi che hanno preso in prestito per comprare i loro appartamenti, allora siamo tutti in difficoltà, siamo tutti in mezzo ai guai. E allora è la stessa globalizzazione ad essere in difficoltà. I beneficiari assoluti, i proprietari della globalizzazione saranno in mezzo ai guai. Anche se lo saranno non prima di essersi pappati la maggior parte dei frutti del nostro lavoro. Che cosa ci farete, poi, con tutti i vostri miliardi, quando il tipo di società che avevate conosciuto quando siete cresciuti saranno state sradicate dal processo stesso che vi ha permesso di fare quei miliardi? Da qualche parte però, quei miliardi dovranno andare!Se quei 1000 dottoroni vogliono studiare un nuovo modello, potrebbero cominciare da qui. La globalizzazione provoca molti problemi. Il fatto che il lavoro scompaia dalle società – in modo che i cittadini di queste società possano però acquistare gli stessi prodotti per pochi centesimi di meno, se vengono in Cina – è un grande problema. Ma il problema principale della globalizzazione è quello finanziario: i soldi svaniscono continuamente dalle società, che devono indebitarsi sempre più per non regredire. La globalizzazione, come qualsiasi tipo di centralizzazione, fa questo: chiede soldi lontano, li chiede alle “periferie”. Il modello di Wal-Mart, McDonald’s, Starbucks ha già portato via lavoro, negozi e soldi incalcolabili dalle nostre società, ma non abbiamo ancora visto nulla. L’avvento di Internet farà prendere gli steroidi a quel modello; ma perché bisogna lasciare che un gruppo di capitalisti-avventurieri di Silicon Valley gestisca certi affari, come Uber o Airbnb, anche nel posto in cui viviamo noi, quando noi potemmo farlo benissimo e utilizzare i profitti di questi affari per migliorare la nostra comunità, invece di lasciarla diventare più povera?Vedo che, nel Regno Unito, Jeremy Corbyn ci aveva già pensato, e aveva fatto bene. La Gran Bretagna può diventare la prima grande vittima del lato oscuro della centralizzazione e, dopo essere uscita dall’organizzazione che l’appoggia – l’Unione Europea – l’idea di Corbyn di creare una cooperativa locale per sostituire Uber è proprio il modo di pensare di cui avrà bisogno. Ma perché devi accentrare tanti soldi e tanta capacità produttiva e poi lasciare tutto nel posto in cui si vive? Non si riuscirà mai a correre abbastanza velocemente, e non si deve farlo. Questo è il succo del dibattito sulla centralizzazione dell’Impero Romano. Anche se i Romani non spingevano mai le loro periferie a smettere di produrre i beni essenziali, però chiedevano di versare a Roma una parte. Il loro problema era che, verso la fine dell’Impero, la quota-parte che richiedevano (con la forza) divenne sempre più grande. Fino a che le periferie non si ribellarono – anche loro con forza.Il club delle banche centrali del mondo presto avrà delle nuove leadership. La Yellen potrebbe andar via, così come Kuroda in Giappone e Zhou in Cina; la Bce e Mario Draghi – della Goldman – cambieranno un po’ più tardi. Ma non c’è nessun segnale che le religioni economiche a cui aderiscono tutti saranno sostituite; così si andrà avanti con la centralizzazione. E se non dovesse funzionare, imporranno ancora più centralizzazione. Come finiranno i giochi in questo processo è dolorosamente ovvio già dall’inizio. La centralizzazione alimenta forze centrali, siano esse governative, militari o commerciali, pagate con i frutti del lavoro delle popolazioni locali, delle periferie. Questo è un processo che, sempre e inevitabilmente, andrà a sbattere contro un muro, perché sono troppi i frutti di quel lavoro che vengono tolti. Troppo è il peso di quei frutti che continuano a scorrere verso il centro, sia verso la Silicon Valley, sia verso Wall Street o sia verso Roma Antica. Non c’è nessuna differenza. Ci sono cose che si possono tranquillamente centralizzare (come le trattative di pace), ma non si possono centralizzare beni essenziali come il cibo, la casa, i trasporti, l’acqua, l’abbigliamento. Hanno un costo troppo alto a livello locale per essere centralizzati. Oppure tutti e ovunque finiremo per romperci l’osso del collo solo per sopravvivere. E’ molto facile, forse perché nessuno ci fa caso.(Raul Ilargi Meijer, “La globalizzazione è povertà”, da “The Automatic Earth” del 16 ottobre 2017, post ripreso da “Come Con Chisciotte” con traduzione di Bosque Primario).I banchieri centrali non hanno mai fatto tanti danni all’economia mondiale quanti ne hanno fatti in questi ultimi dieci anni. Possiamo anche dire che finora non hanno mai avuto tanto potere per farlo. Se i loro predecessori avessero avuto questo potere… chissà? Comunque, l’economia globale non è mai stata più interconnessa come lo è oggi, soprattutto per effetto dell’avanzamento del globalismo, del neoliberismo e forse anche della tecnologia. Ironia della sorte, tutti e tre questi fattori vengono continuamente magnificati come forze del bene. Ma gli standard di vita per molti milioni di persone in Occidente sono scesi – o sono pieni di incertezze – mentre milioni di cinesi ora hanno un livello di vita migliore. Alle persone in Occidente hanno detto di guardare a questo come ad uno sviluppo positivo; dopo tutto, permette di comprare prodotti che costano meno di quelli che produrrebbero le industrie nazionali. Ma insieme al loro posto di lavoro nella produzione, è sparito anche tutta la loro way of life, il loro modello di vita. O, piuttosto, si è nascosto dietro un velo di debiti, tanto da non poter credibilmente negare che circa tre quarti degli americani hanno difficoltà a pagare le bollette. Cosa che sicuramente non succedeva dagli anni ’50 e ’60.