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Morte ai palestinesi, questa Italia fa rimpiangere Craxi
Bei tempi, quelli di Craxi e Andreotti – perlomeno, rispetto all’attuale disastro politico. Cartina di tornasole, il voto del 27 febbraio sul (mancato) riconoscimento italiano dello Stato di Palestina. Tutti contrari, in aula – i berlusconiani, Renzi, perfino Sel – con l’unica eccezione del M5S, favorevole ai palestinesi “senza se e senza ma”. «Il partito unico che ci governa, ivi compresa la Lega Nord e il cespuglio “rosafucsia” alla “sinistra” del Pd», i cui esponenti vendoliani «fingono di litigare nei vari talk-show», non è stato neanche capace di votare quella che di fatto sarebbe stata poco più di una mozione di intenti, sebbene di alto valore simbolico. Il voto, scrive Fabrizio Marchi, non avrebbe comunque comportato nessuna ricaduta concreta sulla realtà della cosiddetta “crisi” israelo-palestinese, «cioè l’occupazione neocoloniale e razzista a cui è sottoposto da decenni il popolo palestinese da parte dello Stato di Israele e di tutti i suoi governi, nessuno escluso». Forse, aggiunge Marchi, «ci sono anche modi relativamente più dignitosi per servire i propri padroni, ad esempio fingendo di avere una propria autonomia politica: in fondo a questo serviva o avrebbe potuto servire votare in favore dello Stato di Palestina».Anche per fare questo, però, «serve un briciolo di dignità e di spessore», scrive Marchi su “L’Interferenza”. Qualità elementari, che purtroppo «questo ceto politico non possiede». Perlomeno, la classe politica della Prima Repubblica «cercava di assolvere alla funzione che all’interno dell’alleanza politico-militare occidentale le era stata affidata, con un relativo margine di autonomia politica, di equilibrio e di capacità di mediazione reale in quella che era la sua area geopolitica di pertinenza, cioè il bacino del Mediterraneo». Partiti come Dc, Psi e Pci credevano nel ruolo politico dell’Italia nell’area mediterranea e mediorientale. Di sicuro si sarebbero comportati «con maggiore dignità e senso dello Stato». Marchi ricorda il celebre discorso alla Camera del 6 novembre del 1985 con cui l’allora presidente del Consiglio, Bettino Craxi, difese il legittimo diritto dei palestinesi alla lotta armata per liberare la propria terra dalla potenza occupante, «azzardando addirittura un paragone storico fa il movimento di liberazione nazionale palestinese e quello risorgimentale e mazziniano». Per non parlare del famoso episodio di Sigonella dell’ottobre dello stesso anno, dove lo stesso Craxi impedì ai marines Usa di catturare un commando palestinese del Fplp che aveva sequestrato una nave da crociera italiana, l’Achille Lauro.Il commando palestinese aveva ucciso un passeggero americano di religione ebraica, Leon Klinghoffer, costretto sulla sedia a rotelle. Tra parentesi, la vittima «non era un anziano qualsiasi», spiega oggi uno studioso come Gianfranco Carpeoro: Klinghoffer era il capo del “B’Nai Brit”, la superloggia massonica segreta ebraica, che corrisponde alla sezione più impenetrabile del Mossad, l’intelligence israeliana. «L’aereo su cui viaggiavano i membri del commando palestinese – ricorda Marchi – fu fatto circondare dai carabinieri», che impedirono armi in pugno ai marines americani di catturare i palestinesi, per poi far ripartire l’aereo verso il porto sicuro della Jugoslavia comunista di Tito. «Un episodio che provocò un momento di grave tensione nei rapporti fra il governo italiano e quello americano», e che oggi appare lunare, incredibile. La crisi di Sigonella «rilanciava il ruolo dell’Italia nello scacchiere mediorientale come paese non ostile ai popoli arabi, in continuità con una politica di cooperazione e collaborazione con i paesi maghrebini e mediterranei già iniziata a suo tempo dal presidente dell’Eni, Enrico Mattei, che per questo fu assassinato dalle multinazionali del petrolio Usa».C’è chi sostiene che Usa e Israele non avessero dimenticato quell’affronto, aggiunge Marchi. Si ritiene infatti che la successiva caduta in disgrazia di Craxi avesse in qualche modo a che vedere con la sua politica di apertura nei confronti dell’Olp e in generale dei governi nazionalisti laici arabi, ben oltre le vicende di Tangentopoli. «Questo ovviamente non fa di Craxi, così come di Andreotti e in generale di quel ceto politico da loro rappresentato, degli eroi della lotta dei popoli del mondo contro l’imperialismo, però ci offre una testimonianza reale di quale sia il livello dell’attuale classe politica». Un panorama desolante, che comprende a pieno titolo anche la Lega Nord di Salvini, che «ha votato contro lo Stato di Palestina con una dichiarazione esplicitamente filoisraeliana». La Lega si rivela così «una forza di finta opposizione al “sistema”, schierata in realtà su posizioni filo-atlantiste». Le simpatie per Putin e la Corea del Nord? «Nero seppia da buttare in faccia alla parte culturalmente più debole del suo elettorato». Morte ai palestinesi, dunque, ora e sempre, anche da parte del Salvini che spande odio verso i migranti più disperati. «E’ bene non farsi ingannare da questa gente, molto abile in queste operazioni di maquillage dalle quali purtroppo molte persone in buona fede tendono a farsi condizionare – conclude Marchi – soprattutto in assenza di un’alternativa politica solida».Bei tempi, quelli di Craxi e Andreotti – perlomeno, rispetto all’attuale disastro politico. Cartina di tornasole, il voto del 27 febbraio sul (mancato) riconoscimento italiano dello Stato di Palestina. Tutti contrari, in aula – berlusconiani e renziani, perfino Sel – con l’unica eccezione del M5S, favorevole ai palestinesi “senza se e senza ma”. «Il partito unico che ci governa, ivi compresa la Lega Nord e il cespuglio “rosafucsia” alla “sinistra” del Pd», i cui esponenti vendoliani «fingono di litigare nei vari talk-show», non è stato neanche capace di votare quella che di fatto sarebbe stata poco più di una mozione di intenti, sebbene di alto valore simbolico. Il voto, scrive Fabrizio Marchi, non avrebbe comunque comportato nessuna ricaduta concreta sulla realtà della cosiddetta “crisi” israelo-palestinese, «cioè l’occupazione neocoloniale e razzista a cui è sottoposto da decenni il popolo palestinese da parte dello Stato di Israele e di tutti i suoi governi, nessuno escluso». Forse, aggiunge Marchi, «ci sono anche modi relativamente più dignitosi per servire i propri padroni, ad esempio fingendo di avere una propria autonomia politica: in fondo a questo serviva o avrebbe potuto servire votare in favore dello Stato di Palestina».
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Fine della crisi? Via la Germania dall’Ue, e addio alla Nato
A mio modo di vedere, una valuta internazionale non è più necessaria. All’indomani della II Guerra Mondiale quando tutte le altre grandi nazioni industriali avevano economie distrutte e strutture industriali distrutte: solo il dollaro aveva valore e quindi poteva diventare la moneta mondiale. Oggi chiaramente ci sono molte zone sviluppate del mondo con valute legittime e quindi è possibile condurre scambi tra nazioni tramite le loro proprie valute. Avete l’euro, avete il rublo, avete la valuta cinese, avete la giapponese, la canadese, l’australiana, ognuna già ora con un grande volume di attività economica sulla faccia del pianeta che non esisteva nel 1945. E quindi una valuta di riserva non è veramente più necessaria. Una valuta di riserva connessa a una nazione assicura a quella nazione un potere, le dà l’egemonia finanziaria sopra altre nazioni. Stiamo osservando come Washington faccia un cattivo uso di questo potere. Un altro problema è il modo in cui Washington usa la valuta di riserva per pagare i suoi conti. Se sei la nazione con valuta di riserva puoi rilassarti, perché puoi pagare i tuoi conti emettendo moneta di credito.Negli anni recenti ciò che è successo è stato che Washington ha espanso oltre misura la sua disponibilità monetaria e il dollaro ha denominato il debito. Washington inflaziona la sua valuta come ha fatto, anno dopo anno, col “quantitative easing”. Una politica che, strettamente parlando, non è finita. Ciò costringe le altre nazioni a inflazionare le proprie valute, altrimenti il valore di scambio delle loro valute aumenta e le esportazioni vengono tagliate, e quindi per proteggere i mercati di esportazioni tutti devono inflazionare se lo fanno gli Stati Uniti. Così la conseguenza è che il mondo ora è sommerso da “fiat money”, ma la produzione di merci e di servizi non è cresciuta in modo commensurabile alla crescita del denaro. Ci aspettiamo una seria inflazione mondiale per molte ragioni. Molta di questa moneta è sotto chiave nel sistema bancario. C’è comunque una situazione molto instabile, ogni volta che la creazione di “fiat money” superi la produzione di beni e servizi.Penso che la situazione abbia raggiunto il punto in cui molte nazioni, parlo di nazioni potenti come la Russia e la Cina, si rendono conto che il sistema del dollaro, il sistema di pagamenti basato sul dollaro, si sta frantumando, ed è anche il sistema che può essere usato per imporre sanzioni su nazioni che non seguono le imposizioni di Washington. Avete sanzioni se vi comportate indipendentemente da Washington. Quindi si possono già vedere movimenti per abbandonare il sistema, e ciò certamente avverrà. La Cina è il più grande creditore del Tesoro statunitense: possiede la parte maggiore del debito Usa e ha legato la sua valuta al dollaro per dimostrare che la sua valuta è buona quanto il dollaro. E ciò che vediamo è che la valuta cinese è meglio del dollaro. Io penso che l’obiezione della Cina è il modo in cui gli Stati Uniti usano la loro valuta come un’egemonia finanziaria sopra tutte le altre nazioni. La usano per minare la sovranità delle altre nazioni.Lo vediamo con le sanzioni contro la Russia. Questo è il modo per costringere la Russia a sottomettersi al volere di Washington. Ma stanno ottenendo il risultato opposto. La Russia sta lasciando il sistema dei pagamenti basati sul dollaro. E inoltre, a causa della stupidità dei governi europei, la Russia sta riorientando il suo commercio dall’Europa all’Oriente. Lo vediamo oggi con gli sviluppi in campo energetico. Così ciò manderà in frantumi il sistema di pagamento basato sul dollaro. Le nazioni europee sono i grandi facilitatori dell’egemonia di Washington. Se le nazioni europee fossero davvero sovrane e fossero in grado di condurre politiche internazionali indipendenti non sarebbero stati vassalli degli Stati Uniti e questo limiterebbe lo strapotere degli Usa e priverebbe gli Stati Uniti della copertura per le sue guerre di aggressione. Cosa può fare l’Europa? Può disimpegnarsi dalla Nato. Essere un membro della Nato vuol dire assoggettarsi al controllo di Washington. La Nato esisteva per proteggersi dall’invasione dell’Europa da parte dell’Armata Rossa, l’esercito sovietico. Questa minaccia è spartita da almeno vent’anni. Eppure la Nato continua ad espandersi e viene usata dagli Stati Uniti per le sue guerre in Africa e nel Medio Oriente.Cosa ci guadagna l’Europa da tutto ciò? Niente. E adesso viene trascinata in un confronto militare con la Russia. Che cosa ne uscirà da tutto ciò? Nulla di buono per l’Europa. E’ quindi necessario che i paesi europei riacquistino la loro sovranità. Ma non sono sovrani, sono colonie. Sono regimi fantoccio. Non hanno politiche estere indipendenti. Sono assoggettate al volere di Washington. E ciò costituisce una grande facilitazione per l’egemonia di Washington. Senza ciò gli Stati Uniti sarebbero solo un altro paese tra tanti. Magari un paese molto forte, certo, ma un paese tra tanti. Quando però uno ha tutta l’Europa, il Canada, l’Australia e il Giappone come regimi fantoccio e Stati vassalli, diventa strapotente. Quindi, ciò che l’Europa può fare? Lasciare la Nato. La Nato non protegge più l’Europa, ma la mette in pericolo perché la coinvolge nelle guerre di Washington.Perché gli Usa riescono ad assoggettare le nazioni europee? Ci sono vari motivi. Uno è che dopo la Seconda Guerra Mondiale il dollaro è diventato la moneta di riserva, e ciò dà un potere enorme agli Stati Uniti. Un’altra ragione è stata la lunga Guerra Fredda con l’Unione Sovietica e la propaganda secondo cui l’Europa poteva essere invasa dall’Urss, con la conseguente dipendenza dell’Europa, che dura da decenni, dalla protezione americana. Se tu dipendi dalla protezione di un altro paese finisci per dover seguire le politiche di quel paese perché dipendi da quel paese. E’ il ruolo che assumi col tempo. Tutto ciò avrebbe dovuto finire con il collasso dell’Unione Sovietica. Sfortunatamente il collasso dell’Unione Sovietica ha portato alla ribalta negli Stati Uniti l’ideologia dei neoconservatori, che dice che la storia ha scelto gli Stati Uniti per dominare il mondo. Sarebbe la “Nazione Eccezionale”, la “Nazione Indispensabile”. E il collasso del comunismo, del socialismo, avrebbe provato che gli Stati Uniti dovevano esercitare la loro egemonia sul mondo.Questa ideologia è stata istituzionalizzata nella politica estera e militare degli Stati Uniti. Abbiamo la dottrina Brzezinski e la dottrina Wolfowitz. E in sostanza queste dottrine dicono che gli Stati Uniti devono prevenire l’ascesa di ogni altro paese che abbia il potere e la capacità di bloccare i propositi di Washington nel mondo. Questi due Stati, oggi, sono la Russia e la Cina. E quindi questa ideologia è estremamente pericolosa, perché mette il mondo in conflitto con la Russia e la Cina. E questi sono tra i principali paesi nucleari, e sono grandi economie ed enormi aree geografiche. E quindi l’ideologia dell’egemonia americana è una minaccia alla stessa esistenza della vita sulla Terra. La possibile alternativa rappresentata dalla Germania? Temo che la Merkel sia solo un pupazzo di Washington. E’ molto difficile per un leader europeo alzarsi in piedi e rappresentare il proprio popolo invece che gli Stati Uniti. Tutti i leader europei rappresentano gli Stati Uniti e non rappresentano il popolo della Francia, della Germania o il popolo britannico. Rappresentano gli Stati Uniti. E certamente sono ben remunerati per questo. E quindi i leader che mostrano una qualche disposizione a non stare al gioco sono sempre rovinati.Immaginatevi se la Germania dovesse semplicemente lasciare l’Ue . Restare non serve agli interessi della Germania. Perché la Germania verrebbe munta e pagherebbe i debiti dell’Ue, e dell’Ucraina. O se la Germania lasciasse la Nato: perché la Germania dovrebbe stare nella Nato? La Germania ha grandi collegamenti economici con la Russia. Ma questi stanno per essere sacrificati per far piacere agli americani. Quindi, sì, la Germania potrebbe fare molto. Potrebbe lasciare la Ue, potrebbe lasciare la Nato. Questo sarebbe la fine dell’egemonia statunitense. Ma non succederà, perché i paesi occidentali non hanno più, a mio avviso, la democrazia: i loro leader non rappresentano il popolo. Negli Stati Uniti rappresentano ideologie e rappresentano potenti gruppi di interessi, come ad esempio il complesso militare e di sicurezza, Wall Street e le grandi banche, e poi l’agribusiness, la lobby israeliana, le industrie estrattive, il petrolio, le miniere, l’industria del legno. Tutti questi sono interessi potentissimi, le cui donazioni determinano chi viene eletto. E le persone che traggono beneficio da questi contributi alle campagne elettorali sono alleate alle fonti del denaro. Quindi tutto il processo viene rimosso dalla rappresentazione del popolo. Il popolo non fornisce i soldi che eleggono i candidati. E quindi si ha una situazione in cui l’Europa è solo un vassallo degli Stati Uniti.Questi leader non possono nemmeno rappresentare gli interessi del loro popolo ma devono conformarsi alle politiche degli Stati Uniti. Perciò si può solamente dire che la democrazia in fin dei conti non esiste. E’ solo una copertura perché i governi sono incapaci di rappresentare gli interessi del popolo. Cosa dovrebbero fare i lavoratori e le persone comuni per ribilanciare lo squilibrio nei confronti del capitale? E’ chiaro che non possono fare nulla all’interno di questo sistema. Ciò che ha distrutto il potere dell’uomo comune negli Stati Uniti è stato la delocalizzazione all’estero dei posti di lavoro dell’industria manifatturiera. Quando l’industria è stata delocalizzata all’estero, i sindacati sono stati distrutti. E quando i sindacati sono stati smantellati, la fonte indipendente di finanziamento del Partito Democratico è stata distrutta. Di conseguenza, i Democratici ora devono rivolgersi agli stessi gruppi di interesse che finanziano i Repubblicani. Devono rivolgersi al complesso militare-sicurezza, a Wall Street, alle banche. E così, entrambi i partiti sono finanziati dalle medesime fonti. A tutti gli effetti, c’è un unico partito.L’unica cosa che possono fare i lavoratori spossessati è contestare la legittimità del governo e ribellarsi. E’ l’unica alternativa che hanno. Non c’è nessuna possibilità di cambiare il sistema dall’interno. Fin quando protestare vuol dire protestare pacificamente vuol dire che la gente accetta la struttura e semplicemente cerca di convincere coloro che hanno il potere che devono cambiare le proprie idee. Ma questo non avverrà. Non succede mai. Abbiamo raggiunto un punto in cui i lavoratori sono spinti ai margini. Non hanno nessuna influenza, nessuna rappresentanza. Quanto all’Europa, tutto quello che posso dire è che paesi che hanno una così lunga storia non devono rinunciare alla loro sovranità, per Washington. Devono riconquistare la loro sovranità per proteggere il mondo dall’aggressione di Washington. Devono ridiventare indipendenti, per costringere gli Usa a mollare questa ideologia della supremazia mondiale, perché è molto pericolosa – pericolosa per gli americani, per gli europei, per i cinesi, per i russi, per tutti. Potete vedere i morti e le distruzioni nel Medio Oriente da tredici anni. E l’ingerenza irresponsabile del governo degli Stati Uniti in Ucraina, le accuse irresponsabili contro la Russia, contro la Cina, la costruzione di basi militari sulle frontiere della Russia e in Asia per bloccare l’accesso della Cina alle risorse. Tutto questo ci porterà alla guerra. Ma la Russia e la Cina non sono la Libia o l’Iraq.(Paul Craig Roberts, dichiarazioni rilasciate a Piero Pagliani per un’intervista su “Pandora Tv”, ripresa da “Megachip” il 13 febbraio 2015).A mio modo di vedere, una valuta internazionale non è più necessaria. All’indomani della II Guerra Mondiale quando tutte le altre grandi nazioni industriali avevano economie distrutte e strutture industriali distrutte: solo il dollaro aveva valore e quindi poteva diventare la moneta mondiale. Oggi chiaramente ci sono molte zone sviluppate del mondo con valute legittime e quindi è possibile condurre scambi tra nazioni tramite le loro proprie valute. Avete l’euro, avete il rublo, avete la valuta cinese, avete la giapponese, la canadese, l’australiana, ognuna già ora con un grande volume di attività economica sulla faccia del pianeta che non esisteva nel 1945. E quindi una valuta di riserva non è veramente più necessaria. Una valuta di riserva connessa a una nazione assicura a quella nazione un potere, le dà l’egemonia finanziaria sopra altre nazioni. Stiamo osservando come Washington faccia un cattivo uso di questo potere. Un altro problema è il modo in cui Washington usa la valuta di riserva per pagare i suoi conti. Se sei la nazione con valuta di riserva puoi rilassarti, perché puoi pagare i tuoi conti emettendo moneta di credito.
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Ma il povero renziano Baricco non può capire Houllebecq
Nella repubblica delle lettere ha prodotto qualche trapestio la stroncatura di “Sottomissione”, l’ultimo discusso libro di Michel Houellebecq, a opera di Alessandro Baricco. Con tutto il rispetto, che Baricco stronchi Houllebecq è l’ultimo dei problemi: è come se un barboncino tentasse di azzannare un lupo. Solo, non vorrei che domani, in qualche cartoleria francese, Houellebecq trovasse, immediatamente tradotta, la stroncatura di Baricco, e – cattivo com’è – ci massacrasse definitivamente il nostro maggiore scrittore renziano. Anche per questo, e non solo perché “Sottomissione” merita davvero di essere preso maggiormente sul serio, provvedo personalmente a un massacro preventivo di Baricco. Voglio dire, molto meglio che lo faccia io, che sono infinitamente meno cattivo di Houellebecq. “Sottomissione” è uscito in Francia mercoledì 7 gennaio, preceduto da un infernale battage pubblicitario; l’anno scorso, d’altronde, Houellebecq ha avuto una sovraesposizione mediatica senza precedenti, soprattutto dopo che il premio Goncourt 2010, assegnatogli per il suo libro meno acre, “La carta e il territorio”, aveva fatto pensare che gli sarebbe bastato rabbonirsi un po’ per puntare addirittura al Nobel.Per fortuna, invece, Houellebecq ha scritto “Sottomissione”, che rinvia sin dal titolo al film del regista olandese Theo van Gogh, assassinato da un islamista nel 2004: roba forte, dunque, anche senza il successivo macello di “Charlie Hebdo”. La traduzione italiana, uscita a tambur battente, ha esaurito subito la prima edizione, e la stroncatura di Baricco, intitolata “L’inutile lezione del professore”, è uscita su “Repubblica” il 20 gennaio, quand’era già tardi per impedire il successo del libro, per giunta perfidamente accostata alla recensione di un libro di Giuliano Amato. È inutile girarci attorno: di “Sottomissione”, Baricco non ha capito nulla. Del resto, potrebbe mai un intellettuale da salotto capire quel che passa per la testa di un predatore? L’esordio è solenne: «Se ancora esiste una pratica che si chiama letteratura – scandisce Baricco – non sono poi molti gli scrittori che vi si dedicano con risultati memorabili: per quel che ne capisco io, uno è Houellebecq». Con queste poche righe trasudanti ammirazione, però, l’inventore di “Holden – Scuola di Storytelling & Performing Arts”, il più costoso Dams italiano – prende due granchi con una sola frase.Primo granchio: c’è un fottio di buona letteratura in giro, persino i libri di Baricco non sono poi così male, a parte titoli come “Castelli di rabbia” (1991) che produrrebbe rabbia vera se non producesse costernazione. Ma la gran parte è letteratura d’intrattenimento, questo è il problema, e Houllebecq è tutt’altra cosa. Secondo granchio: Baricco pensa ancora alla Letteratura con la elle maiuscola, al Grande Romanzo Ottocentesco. Subito dopo, infatti, scrive che “Sottomissione” non attinge a quei livelli, limitandosi a cucire insieme «un romanzetto di fantapolitica, un racconto dedicato al mesto declino umano di un accademico parigino e un saggio su J. K Huysmans». Ora, come spiegare a uno scrittore d’intrattenimento che la letteratura più viva di quest’inizio millennio è proprio quella à la Houellebecq, che contamina romanzo, saggistica, reportage, dossier scientifico, e molte altre cose ancora? È, per citare i primi due titoli che mi vengono in mente, “Limonov” (2012) di Emmanuel Carrère, o il “Progetto Kraus” (2014) di Jonathan Franzen.Lo stesso Baricco, in “Castelli di rabbia”, cerca di fare qualcosa del genere, senza riuscirci. “Sottomissione”, invece, ci riesce perfettamente, direi con disinvoltura: vogliamo trattarlo come un «romanzetto di fantapolitica» solo per questo? Il terzo granchio è aver perso completamente di vista, a differenza dei critici d’Oltralpe, il tono satirico, paradossale, di tutta l’operazione. Come può essere sfuggito a uno scrittore, benché da salotto, che “Sottomissione” è un capolavoro dell’humour nero, nel solco di André Breton, autore che oltretutto cita? Come si fa a non capire che tutta la storia dell’islamizzazione della Francia, lungi dall’essere «una boutade buona per ravvivare una cena con dei colleghi», come crede Baricco, è un apologo sulla perdita d’identità francese ed europea, perdita che rende disponibili a votare il “Front National” o a convertirsi all’islamismo, indifferentemente, pur di ridarsi un’anima conservando il confort? Lo scrive Philippe Lançon su “Libération” del 3-4 gennaio: «L’humour è buona educazione per disperati – o maleducazione, come più vi piace».Nel libro c’è una tale quantità di battute politicamente scorrette, soprattutto sulle donne, che mi limito a citarne una, quasi inevitabile, sul presidente francese in carica. A proposito di François Hollande, “Sottomissione” si esprime con la seguente tranquilla ferocia: «Alla fine di due quinquennati catastrofici, con una rielezione dovuta solo alla strategia miserabile di favorire l’ascesa del Fronte nazionale, il presidente uscente aveva praticamente rinunciato a esprimersi, e la maggior parte dei media sembrava averne addirittura dimenticato l’esistenza. Quando, sulla soglia dell’Eliseo, davanti a una sparuta dozzina di giornalisti, si presentò come “l’ultimo baluardo dell’ordine repubblicano”, ci fu qualche risata, breve ma inequivocabile» (p. 101). Ve l’immaginate Baricco che scrive una cosa così, non dico del suo idolo Renzi, ma di Graziano Delrio?Houellebecq qualifica il politico francese di centrosinistra François Bayrou come «l’uomo politico ideale per incarnare l’umanesimo», incontrando «una certa popolarità nell’elettorato cattolico, che si sente rassicurato dalla sua idiozia» (p. 131). A proposito di umanesimo, la sua bestia nera, Houellebecq scrive che la sola parola «mi metteva una leggera voglia di vomitare» (p. 213). Ora, cosa può capire di tutto questo Baricco, che confonde l’ironia con la propria, finta, trasandatezza subalpina, a base di «robe», «quella cosa lì», «per quel che ne capisco io»? Ma sì, quella specie di understatement che tanto impressiona gli aspiranti romanzieri di “Holden”, lasciandogli credere che il loro guru, da un momento all’altro, potrebbe stupirli con effetti speciali. Io ho consultato persino Wikiquote, e mi permetto di disilluderli: gli effetti speciali non arrivano mai.Il quarto granchio di Baricco, sul quale il titolista di “Repubblica” ha fatto il titolo, riguarda «quello che sembra essere […] il vero nervo centrale del libro e in definitiva la sua ragion d’essere: il racconto dello strisciante declino, grottesco e rancoroso, di un cattedratico di mezza età». Senza accorgersi che il protagonista si chiama François, come se uno, in Italia, si chiamasse Italiano, lo stroncatore conclude che «difficilmente [un protagonista del genere] può assurgere a personaggio memorabile». Il granchio è condiviso con Bifo Berardi, il quale però, in una lunga recensione pubblicata online, molto più acutamente suggerisce: «Il dolore di cui [Houllebecq] parla in tutti i suoi romanzi non è solo il suo personale dolore, ma la chiave attraverso cui raccontare un’epoca». Ovvio: i traumi esibiti, la depressione, la paura della morte, sono solo le lenti attraverso cui Houellebecq guarda il meticoloso naufragio di una civiltà.Quinto e ultimo granchio – per ora: ma si attendono repliche – la totale ignoranza da parte di Baricco della metafisica di Houellebecq: che è poi ciò che rende i suoi libri così spiazzanti, così sgradevoli per le anime belle, ma anche così contagiosamente umoristici. Sulla base delle proprie esperienze personali, chirurgicamente raccontate nel suo libro migliore, “Le particelle elementari” (1998), Houellebecq ritiene questo nostro universo, retto dalle leggi darwiniane della selezione naturale, lo scherzo di un creatore malvagio, o mostruosamente stupido: una di quelle divinità dementi che affollano gli incubi di Howard Philip Lovecraft, uno dei suoi autori di culto. La vita degli umani segue le leggi dettate da questo semidio gnostico: soffrire, riprodursi e, appunto, sottomettersi alla necessità.Di sottomissione Houllebecq parla già in una delle pagine più hard delle “Particelle elementari”, dove descrive le angherie subite da ragazzo nel collegio, o piuttosto nella fossa dei serpenti, dove lo avevano parcheggiato i genitori dopo la loro separazione. Tutte le società animali, scriveva allora, compresa la società umana, «si reggono su un sistema di dominazione basato sulla forza relativa dei loro membri». Nel suo solito modo puntuale e disturbante, dunque, Houllebecq concludeva già allora che «l’animale più debole ha la possibilità di evitare il combattimento adottando una posizione di sottomissione (assunzione di stazione supina, esposizione dell’ano)» (p. 47 della trad. it., corsivo nel testo).Bene, anzi male, ma fatto sta che “Sottomissione” applica questa metafisica, desolante però esatta, alla situazione odierna della Francia, ma si potrebbe pure dire, contraddicendo anche qui Baricco, dell’Europa, se non della cultura occidentale in genere. Perché non ditemi che l’Italia è messa meglio della Francia, o che la nostra università pubblica non rischia, prima o poi, di essere rasa al suolo come quella francese nella finzione letteraria, o che le nostre povere vite sono molto più esaltanti della vita dell’accademico François. Chiaro che il protagonista di “Sottomissione”, alla fine, sia ridotto a convertirsi all’Islam: e neppure per ridare senso alla propria vita – espressione che a Houllebecq non produrrebbe neppure un sorriso di compatimento, ma il vomito, direttamente – bensì per avere una moglie, anzi tre, che finalmente lo accudiscano, come non avrebbe mai fatto, a credergli, la sua mamma snaturata.Ma tutto questo potrebbe sembrare semplicemente penoso, o palloso, come direbbe lo stesso Houllebecq, e non renderebbe giustizia all’assoluta godibilità del libro: che fa proprio ridere, da scompisciarsi, se solo uno sa coglierne l’ironia paradossale, e qua e là abissale, come sarebbe stato troppo pretendere dal malcapitato Baricco. Già che ci sono, anzi, mi permetto di rinviare al capolavoro di Houellebecq, “Le particelle elementari”, per suggerire un’interpretazione psicologica, sociologica, oserei dire antropologica, dell’incomprensione di Baricco. Il libro del 1998, come ho già detto, ha pagine autobiografiche tremende, che se fossero scritte da un altro lo farebbero semplicemente chiudere per non riaprirlo mai più. Eppure, o forse proprio per questo – se vi siete annotati la definizione dell’humour come buona o cattiva educazione per disperati – ha anche, nel capitolo terzo della parte seconda, alcune delle pagine più esilaranti della letteratura contemporanea.Succede che il co-protagonista delle “Particelle elementari”, Bruno, praticamente un maniaco sessuale, fa una disperata vacanza in un campeggio alternativo, sempre con il chiodo fisso di rimorchiare, ma con l’alibi, fornito dai sagaci gestori, di fare esperienze culturali estreme, dal massaggio erotico a tutte le varianti dello yoga sino alle più sofisticate forme di misticismo. In questa sorta di Disneyland dell’immaginario tipico della sinistra anni Settanta, che ha in realtà sdoganato l’individualismo e l’edonismo reaganiano degli Ottanta, per non parlare degli sputtanamenti ancora successivi, il nostro co-protagonista sceglie, fra i tanti a disposizione, anche un corso di scrittura creativa, tipo “Holden”. Solo che, trattandosi pur sempre di un alter ego di Houellebecq, non riesce a resistere dallo sfornare, su richiesta, questo distico indimenticabile: “I tassisti sono proprio dei froci / non ce n’è uno che si fermi agli incroci”.Ora, ditemi pure che Houellebecq e io, indifferentemente, siamo degli irresponsabili, dei goliardi, degli psicolabili: ma io non riesco a smettere di ridere, convulsamente, da quando ho letto questi versi la prima volta. E siccome penso che il riso, come ci hanno insegnato quelli di “Charlie Hebdo”, sia la sola religione per la quale vale la pena di vivere, e persino di morire, aggiungo solo una minuscola considerazione conclusiva. Altro che scrittura creativa e letteratura d’intrattenimento: se finalmente la gente si abitua alla buona letteratura, quella che fa semplicemente ridere e piangere, una risata le seppellirà.(Mauro Barberis, “Massacro preventivo, su Baricco critico di Houllebecq”, da “Micromega” dell’11 febbraio 2015. Il libro: Michel Houllebecq, “Sottomissione”, Bompiani, 252 pagine, euro 17,50).Nella repubblica delle lettere ha prodotto qualche trapestio la stroncatura di “Sottomissione”, l’ultimo discusso libro di Michel Houellebecq, a opera di Alessandro Baricco. Con tutto il rispetto, che Baricco stronchi Houllebecq è l’ultimo dei problemi: è come se un barboncino tentasse di azzannare un lupo. Solo, non vorrei che domani, in qualche cartoleria francese, Houellebecq trovasse, immediatamente tradotta, la stroncatura di Baricco, e – cattivo com’è – ci massacrasse definitivamente il nostro maggiore scrittore renziano. Anche per questo, e non solo perché “Sottomissione” merita davvero di essere preso maggiormente sul serio, provvedo personalmente a un massacro preventivo di Baricco. Voglio dire, molto meglio che lo faccia io, che sono infinitamente meno cattivo di Houellebecq. “Sottomissione” è uscito in Francia mercoledì 7 gennaio, preceduto da un infernale battage pubblicitario; l’anno scorso, d’altronde, Houellebecq ha avuto una sovraesposizione mediatica senza precedenti, soprattutto dopo che il premio Goncourt 2010, assegnatogli per il suo libro meno acre, “La carta e il territorio”, aveva fatto pensare che gli sarebbe bastato rabbonirsi un po’ per puntare addirittura al Nobel.
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Giovani al lavoro gratis per l’Expo dei ladri e degli ipocriti
Per quale ragione in una Expo appaltata alle grandi multinazionali del cibo, nella quale affari edilizi, speculazione e corruzione hanno prosperato e che viene ancora presentata come un possibile volano per l’economia del paese, perché in un evento ove tutto è misurato in termini di profitti a breve o differiti, gli unici gratis devono essere i lavoratori? Con un accordo del luglio 2013, un mese che dovrebbe essere abolito dal calendario sindacale visti i disastri che in esso si son concepiti, l’ente Expo, le imprese e tutte le istituzioni hanno concordato con Cigil, Cisl e Uil che gran parte di coloro che faranno funzionare la fiera lo faranno gratuitamente. Per l’esattezza circa 800 persone lavoreranno con contratti a termine, di apprendistato, da stagista, che garantiranno una lauta retribuzione dai 400 ai 500 euro mensili. Siccome i contratti e la stessa legge Fornero sul mercato del lavoro avrebbero previsto condizioni più favorevoli per i lavoratori, si è applicato quel principio della deroga normativa, contro il quale la Cgil si era spesso pronunciata.Ma questi 800 lavoratori sottopagati sono comunque una élite rispetto a tutti gli altri. Che avranno un orario giornaliero obbligatorio e turni, pare bisettimanali, di lavoro, ma che lo faranno senza alcuna retribuzione. Essi saranno considerati volontari e come tali riceveranno solamente dei buoni pasto quotidiani, per non smentire il significato alimentare dell’evento. Nelle previsioni iniziali questi fortunati avrebbero dovuto essere 18.500, da qui il peana subito scattato sui 20.000 posti di lavoro creati dalla magia dell’Expo. Ora invece pare che siano meno della metà, per la semplice ragione che lavorare all’Expo non solo non paga, ma costa. Immaginiamo un pendolare che debba accollarsi i costosissimi costi quotidiani del sistema ferroviario lombardo. O addirittura un giovane di un’altra regione che volesse fare questa esperienza a Milano. Per lavorare gratis bisogna godere di un buon reddito e non tutti ce l’hanno.Eppure a tutto questo ci sarebbe stata una alternativa semplice semplice. Visto che l’Expo per sua natura è un evento a termine, coloro che lo faranno funzionare avrebbero potuto essere assunti con il tradizionale contratto a termine. Lavori sei mesi? Sei pagato per quelli. Sono solo due settimane? Riceverai la tua quindicina. Perché non si è fatto così? Semplice. Perché in questo modo si sarebbe dovuto spendere molto di più in salari e questo non era compatibile con gli alti costi della fiera. C’era da pagare una montagna di mazzette, non si potevano retribuire anche gli addetti agli stand. Capisco che questo modo di ragionare possa essere considerato troppo rigido e ancorato a vecchi tabù. C’è un lavoro e si pretende anche un salario, allora si vogliono difendere vecchi privilegi, direbbero gli araldi del lavoro flessibile. Quando l’accordo sul lavoro gratis è stato sottoscritto, l’allora presidente del Consiglio Enrico Letta disse, facendo eco al presidente della Confindustria Squinzi, che esso era un modello per il paese. La rottamazione renziana sempre rivolta alle nuove generazioni ha lasciato quella intesa intatta, così come hanno fatto Cgil, Cisl e Uil, nonostante le critiche a quel “#jobsact” che l’accordo Expo già anticipava.Tutte le forze politiche rappresentate in parlamento, escluso il Movimento 5 Stelle, sono consenzienti. Così l’Expo finirà per essere una vetrina di tutto ciò che non dovrebbe, ma che invece continua a dominare le scelte economiche e sociali del paese. L’Expo sarà la migliore rappresentazione dell’ipocrisia e del gattopardismo che governano la nostra crisi. Sotto lo slogan “Nutrire il pianeta” si lascerà alla Nestlè il compito di spiegare che l’acqua va gestita in ragione di mercato. Si farà l’apologia delle grandi opere senza riuscire neppure a nascondere la speculazione – e non solo quella illegale, ma quella ancor più scandalosa sulle aree, che è perfettamente consentita. Si lanceranno proclami sui giovani capaci di operare nella globalizzazione, rimuovendo il fatto che lo faranno solo in cambio di una medaglietta che non varrà nemmeno come accreditamento per altri lavori precari. E ancora una volta tutto, ma proprio tutto, sarà a carico del lavoro. In una fiera che si presenta come l’ultimo Ballo Excelsior di una globalizzazione in piena crisi, l’Italia che guarda al passato cianciando di futuro troverà la sua vetrina. Che dovrebbe essere accesa proprio il Primo Maggio, trasformando così la festa dell’emancipazione del lavoro nella celebrazione del suo ritorno allo stato servile. Ci sono movimenti e forze sindacali che dicono no a tutto questo e che già dalle prossime settimane si faranno sentire, per poi provare a restituire alla Festa del Lavoro il suo antico valore. Fanno benissimo.(Giorgio Cremaschi, “L’Expo della precarierà”, da “Micromega” del 5 febbraio 2015).Per quale ragione in una Expo appaltata alle grandi multinazionali del cibo, nella quale affari edilizi, speculazione e corruzione hanno prosperato e che viene ancora presentata come un possibile volano per l’economia del paese, perché in un evento ove tutto è misurato in termini di profitti a breve o differiti, gli unici gratis devono essere i lavoratori? Con un accordo del luglio 2013, un mese che dovrebbe essere abolito dal calendario sindacale visti i disastri che in esso si son concepiti, l’ente Expo, le imprese e tutte le istituzioni hanno concordato con Cigil, Cisl e Uil che gran parte di coloro che faranno funzionare la fiera lo faranno gratuitamente. Per l’esattezza circa 800 persone lavoreranno con contratti a termine, di apprendistato, da stagista, che garantiranno una lauta retribuzione dai 400 ai 500 euro mensili. Siccome i contratti e la stessa legge Fornero sul mercato del lavoro avrebbero previsto condizioni più favorevoli per i lavoratori, si è applicato quel principio della deroga normativa, contro il quale la Cgil si era spesso pronunciata.
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Putin: 11 Settembre organizzato dagli Usa, eccovi le prove
L’attacco alle Torri Gemelle «è stato pianificato dal governo degli Stati Uniti, ma è stato eseguito per procura, in modo tale che l’attacco contro l’America e il popolo degli Stati Uniti sembrasse un’aggressione effettuata da organizzazioni terroristiche internazionali». Attenzione: «Le prove fornite sarebbero a tal punto convincenti, da smontare completamente la versione ufficiale dell’11 Settembre sostenuta dal governo degli Stati Uniti». Quali prove? Quelle che starebbero per essere pubblicate a Mosca, controfirmate nientemeno che da Vladimir Putin. Ultima mossa, clamorosa, per tentare di fermare la macchina da guerra che – dalla Siria all’Ucraina – sta assediando i non-allienati allo strapotere di Washington, Russia e Cina in primis, tenendo sotto ricatto anche i paesi del petrolio e la stessa Europa, costretta a varare sanzioni autolesioniste contro l’impero del gas e usare la Nato come minaccia contro Mosca. Il presidente russo, annuncia la “Pravda”, si prepara dunque al colpo del ko: l’esibizione di «prove schiaccianti», satellitari, che inchioderebbero l’intelligence di Bush al crimine dell’11 Settembre, spaventoso massacro ai danni dei cittadini americani, da terrorizzare al punto da indurli a sostenere le guerre a venire, cominciando da Iraq e Afghanistan.La notizia trapela dal newsmagazine “Veterans Today”: un collaboratore, Gordon Duff, segnala che sulla “Pravda” del 7 gennaio 2015 si parla dell’imminente, clamorosa iniziativa dei russi: smascherare definitivamente l’imbroglio mondiale dell’11 Settembre, quello degli arei dirottati sulle Torri “all’insaputa della Cia e dell’Fbi”, senza alcuna reazione da parte della difesa aerea americana. «Le evidenze satellitari russe che provano la demolizione controllata del World Trade Center con “armi speciali” – scrive “Come Don Chisciotte” – sono state recensite da un redattore di “Veterans Today”, mentre si trovava a Mosca». Gli analisti ritengono che l’attuale situazione di “guerra fredda” tra Washingon e Mosca rappresenti la quiete prima della tempesta: «Putin colpirà una sola volta, ma ha intenzione di farlo con notevole durezza», annuncia “Veterans Today”. «L’elenco delle prove include delle immagini satellitari», aggiunge il newsmagazine, e il materiale in via di pubblicazione «dimostrerebbe la complicità del governo degli Stati Uniti negli attacchi del 9/11 e la successiva manipolazione dell’opinione pubblica».«Le ragioni dell’inganno e dell’assassinio dei propri cittadini – continua Duff – avrebbero servito gli interessi petroliferi degli Stati Uniti e delle corporazioni statali del Medio Oriente». La Russia si preparebbe quindi a dimostrare, in modo clamoroso, che «l’America ha utilizzato il terrorismo “false flag”, sotto falsa bandiera, contro i suoi stessi cittadini, per creare il pretesto per un intervento militare in paesi stranieri». Se così dovesse essere, aggiunge Duff, «la conseguenza diretta della tattica di Putin sarebbe quella di rendere note le politiche terroristiche segretamente adottate dal governo degli Stati Uniti: secondo gli analisti americani, la credibilità del governo statunitense ne risulterebbe compromessa e ci sarebbero, di conseguenza, delle proteste di massa nelle città e infine una rivolta generalizzata». A quel punto, si domanda Duff, gli Usa come potranno rapportarsi ancora sulla scena politica mondiale? «La leadership americana nella lotta contro il terrorismo internazionale ne risulterebbe totalmente compromessa, dando un immediato vantaggio agli Stati-canaglia e ai terroristi islamici».Lo stesso Barack Obama non è immune da accuse: tutti ricordano la scandalosa gestione dell’ultimo capitolo dell’affare Bin Laden, dichiarato morto in Pakistan senza uno straccio di prova, il presunto cadavere inabissato nell’Oceano Indiano. Morti anche i soldati del commando che avrebbe ucciso il capo di Al-Qaeda ad Abbottabad: fulminati “per errore” da fuoco amico, a Kabul, poche settimane dopo il misterioso blitz. Tutte le voci più importanti della dissidenza, negli Usa, hanno denunciato come palesemente falsa la versione ufficiale sulla strage dell’11 Settembre, mentre il Senato degli Stati Uniti ha concluso, di recente, che l’Fbi era perfettamente al corrente delle mosse dei futuri dirottatori-kamikaze. Finora, il manistream ha avuto buon gioco nel rifiutare i sospetti, avvalorando la verità ufficiale sulla base di una semplice tesi: il crimine evocato – strategia della tensione, con numeri smisuratamente stragistici – è troppo mostruoso per essere accettato. Impossibile digerire l’idea che qualcuno, al Pentagono, abbia organizzato l’attentato del secolo, arrivando addirittura ad “accecare” l’aviazione Usa per molte ore e a “sequestrare” il presidente Bush, fatto letteralmente scomparire “per proteggerlo”, e anche per impedirgli di reagire. “Complottismo”, è stata finora la formula liquidatoria per seppellire le scomode verità sull’11 Settembre, illuminate da prestigiose contro-inchieste: le Torri sarebbero crollate secondo le procedure della “demolizione controllata”, grazie all’impiego di esplosivi speciali come la nano-termite, di origine militare. E se ora Putin riuscisse davvero a confermare questa versione con evidenze esclusive?Gioele Magaldi, autore del dirompente libro “Massoni”, sulla scorta di documentazione top secret di origine massonica (che l’autore si dichiara pronto a esibire in caso di contestazioni) rivela che Osama Bin Laden non fu soltanto reclutato dalla Cia in Afghanistan ai tempi dell’invasione sovietica, ma fu “affiliato” nientemeno che da Zbigniew Brzezinski e inserito nel potentissimo club ultra-segreto delle superlogge internazionali. Una di queste, denominata “Hathor Pentalpha”, sarebbe stata creata da Bush padre con intenti palesemente eversivi: usare il terrorismo per manipolare l’opinione pubblica e trascinare l’Occidente nella “guerra infinita”, a beneficio delle super-lobby del petrolio e delle armi. Nella “Hathor Pentalpha” sarebbe arruolato anche Tony Blair, che più di ogni altro si spese per costruire la suprema menzogna delle inesistenti “armi di distruzione di massa” di Saddam Hussein. Oggi, l’erede di Bin Laden è il “califfo” Abu Bakr al-Baghdadi, misteriosamente scarcerato nel 2009 dal centro di detenzione di Camp Bucca in Iraq, perché potesse combattere nel sedicente “Esercito Siriano Libero” e poi fondare l’Isis, il cui nome coincide con quello della divinità egizia Iside, vedova di Osiride, nei testi antichi chiamata anche “Hathor”. Solito schema: creare l’armata del terrore per poi scatenare una guerra. E, prima ancora, una campagna elettorale: quella di Jeb Bush, ultimo rampollo della dinastia presidenziale del fondatore della “Hathor Pentalpha”, definita «superloggia del sangue e della vendetta» perché nata quando Bush – affiliato a superlogge reazionarie – fu battuto nella corsa alla Casa Bianca da Ronald Reagan, sostenuto da clan massonici concorrenti.Sempre secondo Magaldi, lo stesso Putin è “affiliato” a una superloggia latomistica internazionale. L’autore di “Massoni” sostiene inoltre che da qualche anno sia in atto una sorta di guerra inframassonica: le “Ur-Lodges” progressiste starebbero preparando una controffensiva, dopo gli ultimi decenni in cui il mondo è caduto letteralmente nelle mani dell’élite finanziaria che ha pilotato la globalizzazione più selvaggia, calpestando i diritti dei popoli e gettando anche l’Occidente in una crisi senza precedenti, il cui punto più critico è l’Europa, dove le classi medie sono state rapidamente impoverite a beneficio dell’oligarchia neo-feudale che domina Bruxelles con il dogma neoliberista del rigore. In parallelo, si muovono scenari geopolitici: come previsto da tutti gli analisti, il gigante cinese è cresciuto in modo esponenziale, minacciando la supremazia americana. La Russia di Putin, prima provocata in Siria e ora assediata in Ucraina a due passi da casa, rappresenta la prima linea del fronte, mentre i Brics lavorano nelle retrovie per preparare un’alternativa multipolare, anche finanziaria, alla “dittatura” del petrodollaro. Quella che Papa Francesco chiama Terza Guerra Mondiale si sta avvicinando. Nel tentativo di scongiurarla, Putin giocherà davvero la sconvolgente carta delle “prove definitive” per accusare il governo Usa per l’11 Settembre?L’attacco alle Torri Gemelle «è stato pianificato dal governo degli Stati Uniti, ma è stato eseguito per procura, in modo tale che l’attacco contro l’America e il popolo degli Stati Uniti sembrasse un’aggressione effettuata da organizzazioni terroristiche internazionali». Attenzione: «Le prove fornite sarebbero a tal punto convincenti, da smontare completamente la versione ufficiale dell’11 Settembre sostenuta dal governo degli Stati Uniti». Quali prove? Quelle che starebbero per essere pubblicate a Mosca, controfirmate nientemeno che da Vladimir Putin. Ultima mossa, clamorosa, per tentare di fermare la macchina da guerra che – dalla Siria all’Ucraina – sta assediando i non-allienati allo strapotere di Washington, Russia e Cina in primis, tenendo sotto ricatto anche i paesi del petrolio e la stessa Europa, costretta a varare sanzioni autolesioniste contro l’impero del gas e usare la Nato come minaccia contro Mosca. Il presidente russo, annuncia la “Pravda”, si prepara dunque al colpo del ko: l’esibizione di «prove schiaccianti», satellitari, che inchioderebbero l’intelligence di Bush al crimine dell’11 Settembre, spaventoso massacro ai danni dei cittadini americani, da terrorizzare al punto da indurli a sostenere le guerre a venire, cominciando da Iraq e Afghanistan.
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I nostri Tsipras alle vongole e gli orrori del centrosinistra
Se il nuovo governo greco comincerà subito a tenere fede al suo programma elettorale stabilendo il salario minimo a 750 euro mensili, la Germania del governo Merkel-Spd chiuderà la porta ad ogni trattativa sul debito. Infatti con le “riforme” tedesche che han fatto da modello a tutto il continente, i milioni di lavoratori precari impegnati nei minijobs prenderebbero di meno di un lavoratore greco. È vero che ci sono le integrazioni dello stato sociale, ma è altrettanto vero che la coerenza del nuovo governo greco aprirebbe un fronte con una Germania anche sui tagli al welfare. Insomma la coerenza di Tsipras sarebbe insostenibile per una classe dirigente tedesca che da anni impone terribili sacrifici al proprio mondo del lavoro spiegando che gli altri stanno tutti peggio. Gli operai tedeschi, che hanno subìto una delle peggiori compressioni salariali d’Europa, si chiederebbero a che pro, visto che le cicale greche ricominciano a frinire. È per il timore del contagio sociale, della ripresa, magari persino conflittuale, dei salari e della richiesta di welfare che si dirà no alla Grecia e non per la questione debito.Il debito pubblico della Grecia ruota attorno a 350 miliardi di euro, quello interno alla Ue dovrebbe essere circa attorno ai due terzi di quella cifra. Abbuonarne la metà significherebbe per la Ue rinunciare a poco più di 100 miliardi. È una cifra enorme naturalmente, ma dal 2008 governi europei, Bce e sistema finanziario hanno speso 3000 miliardi per sostenere le banche. E altri 1.000 verranno spesi nel Quantitative Easing, presentato come un sostegno agli Stati che in realtà finanzia ancora gli istituti bancari acquirenti di titoli di Stato. Cosa sono allora 100 miliardi di abbuono del debito ad una Grecia che comunque non potrebbe pagarli, di fronte ai 4.000 miliardi concessi al sistema bancario e finanziario? Niente sul piano delle dimensioni della cifra, tutto sul piano del suo significato. Come dicono accreditate indiscrezioni, una dilazione dei pagamenti più che trentennale sarebbe già stata concessa dalla Troika nel novembre scorso, ma naturalmente in cambio della impegno a continuare le politiche liberiste di questi anni. Il problema dunque è la continuità o la rottura con quelle politiche, e qui “Syriza” e la Troika si scontreranno.Quello che sta succedendo in Grecia e in Spagna è qualcosa di diverso dalla storia europee delle sinistre. La politica dell’austerità sta portando tutta l’Europa meridionale verso quello che una volta si chiamava terzo mondo. Le prime risposte vere son quindi legate a questa nuova terribile realtà. Le socialdemocrazie si sono immolate sull’altare del rigore e le sinistre comuniste son troppo piccole e divise per contare. Si apre così lo spazio per forze alternative diverse da quelle del passato. In fondo il successo del M5S aveva inizialmente questo segno, anche se sinora a quel movimento è mancata una vera spinta sociale e la sua politica è rimasta ancorata al terreno della cosiddetta lotta per l’onestà. Invece “Syriza” e “Podemos” somigliano sempre di più alle formazioni populiste di sinistra che governano gran parte dell’America Latina e con questa impronta affrontano la crisi europea e il Fiscal Compact, vedremo. Quel che è certo è che le cose stanno cambiando, ma non da noi. Siamo stati facili profeti ad anticipare il salto sul cavallo greco di tutto il mondo politico italiano, oramai campione di trasformismo in Europa.C’è ovviamente anche un calcolo parassitario non solo elettorale. Se la Grecia ottiene qualcosa, si spera che qualcosa tocchi anche a noi. Così tutti a fare gli Tsipras con le vongole, dimenticando ovviamente la sostanza del programma del nuovo governo greco. Che tradotto in Italiano significherebbe misure immediate come la cancellazione del Jobs Act, della legge Fornero sulle pensioni, del pareggio di bilancio costituzionalizzato. E a seguire la fine delle privatizzazioni, dei tagli alla sanità e alla scuola pubblica, del Patto di Stabilità per gli enti locali. Attenzione, questi non dovrebbero essere gli obiettivi strategici di un governo che promette tanto, ma le azioni dei famosi primi cento giorni. Poi dovrebbe seguire la messa in discussione della politica dei debiti e del debito stesso, che da quando nel 2011 Giorgio Napolitano indicò come vincolo per le politiche di austerità è passato da 1.900 a 2.150 miliardi. Si tratta di rompere con tutte le politiche seguite non solo dalla destra, ma dal centrosinistra in questi anni. Come si fa allora a stare con la Grecia mentre ci si allea con il Pd di Renzi in tutte le regioni più importanti?Mi fermo qui perché è assolutamente ovvio che, se non si rompe con i partiti dell’austerità, il sostegno alla Grecia non c’è. Anche sul piano sindacale son tutti felici per le elezioni greche. Ricordo però le tante volte che in Cgil si è usata la Grecia come esempio di una resistenza vana. 14 scioperi generali e in quel paese non è cambiato nulla, si diceva quando si lasciavano passare la pensione a 68 anni e le altre riforme di Monti. E in nome della flessibilità, Cgil, Cisl e Uil son arrivate a concordare il lavoro gratuito per migliaia di giovani precari che dovranno far funzionare l’Expo. È quindi inutile usare il marchio greco per coprire politiche e gruppi dirigenti responsabili o complici del nostro disastro sociale. La sola cosa seria che si deve fare in casa nostra per sostenere la Grecia contro la Troika è praticare la stessa rottura. Non son in grado di sapere se Tsipras sarà coerente, ma per aiutare lui ad esserlo bisogna fare in modo che non sia solo “Bella Ciao” l’unico legame utile all’Italia.(Giorgio Cremaschi, “La coerenza di Tsipras e quella nostra”, da “Micromega” del 29 gennaio 2015).Se il nuovo governo greco comincerà subito a tenere fede al suo programma elettorale stabilendo il salario minimo a 750 euro mensili, la Germania del governo Merkel-Spd chiuderà la porta ad ogni trattativa sul debito. Infatti con le “riforme” tedesche che han fatto da modello a tutto il continente, i milioni di lavoratori precari impegnati nei minijobs prenderebbero di meno di un lavoratore greco. È vero che ci sono le integrazioni dello stato sociale, ma è altrettanto vero che la coerenza del nuovo governo greco aprirebbe un fronte con una Germania anche sui tagli al welfare. Insomma la coerenza di Tsipras sarebbe insostenibile per una classe dirigente tedesca che da anni impone terribili sacrifici al proprio mondo del lavoro spiegando che gli altri stanno tutti peggio. Gli operai tedeschi, che hanno subìto una delle peggiori compressioni salariali d’Europa, si chiederebbero a che pro, visto che le cicale greche ricominciano a frinire. È per il timore del contagio sociale, della ripresa, magari persino conflittuale, dei salari e della richiesta di welfare che si dirà no alla Grecia e non per la questione debito.
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Mitchell: deficit altissimi o morte, spiegatelo a Tsipras
Syriza parla in parte di liberare la Grecia dal giogo della Troika ma ha un insieme di proposte che sono reciprocamente incoerenti. Potrebbero servire a “uscire dall’angolo” e a ridistribuire un po’ i redditi, ma ciò di cui c’è bisogno è un imponente rilancio di redditi nazionali che può venire solamente da un imponente aumento della spesa. Il settore non governativo non fornirà le ingenti risorse di spesa per modificare la situazione. Non ci può essere una situazione a favore della crescita se queste regole fiscali della Ue sono riaffermate in ogni modo. La crisi finanziaria globale ha provato che l’impatto degli effetti ciclici sugli equilibri fiscali (cioè la perdita di entrate fiscali dovute alla perdita di occupazione e produzione) erano sufficienti a far violare la soglia del 3%. Queste violazioni hanno portato all’imposizione dell’austerità fiscale. Inoltre, la maggior parte dei paesi dell’Eurozona non saranno capaci di conseguire i necessari importi dei loro deficit fiscali (per favorire la crescita) nella situazione attuale che impedisce alla Bce – il monopolista di emissione dell’euro – di attuare tali deficit.Paesi come la Grecia ne hanno già abbastanza dei mercati di titoli privati necessari, con le regole attuali, per finanziare i deficit. Quindi, perché non invocare un cambiamento delle regole che permettano alla Bce di comportarsi in pieno come un soggetto emittente di moneta? La ragione è ovvia. La Germania non lo permetterebbe mai, ed essa comanda l’Eurozona. Quel programma ha mostrato incondizionatamente che attraverso l’acquisto di titoli specifici nel mercato secondario (per aggirare le regole dei Trattati) la Bce potrebbe escludere i privati dal mercato dei titoli e controllare i rendimenti dei titoli a qualsiasi tasso essa scelga. E’ stata una lezione salutare della potenza dell’emettitore di moneta. Il problema è che la Bce ha insistito affinché l’austerità fiscale sia imposta e perseguita come condizione per l’acquisto sui mercati secondari del debito di un paese “assediato”. Quindi hanno controllato i rendimenti e gestito i mercati privati ma allo stesso tempo hanno disfatto le economie in questione.Sospetto che la “tolleranza” tedesca di questa settimana sull’annuncio del Qe di Draghi sia limitata. Sanno che finché i deficit fiscali sono obbligati a non crescere e l’austerità è mantenuta il Qe non servirà granché a stimolare la crescita. Ma se il Qe fosse stato combinato con un’espansione su larga scala dei deficit fiscali di vari paesi, mirati alla creazione di lavoro nel settore pubblico e allo sviluppo delle infrastrutture, allora la “tolleranza” tedesca (attualmente concessa a denti stretti) svanirebbe presto e si innescherebbe una crisi politica. I tedeschi vincerebbero in quanto i francesi e gli italiani non hanno “gli attributi” per affermare la loro sovranità nazionale. Non ho dubbi che questo messaggio politico è un tentativo sincero di instillare ottimismo. Sono d’accordo che un cambiamento consistente nella politica Greca è necessario e Syriza sembra intenzionato a raggiungere questo cambiamento. Ma è veramente questo il cambiamento necessario? Ne dubito – e mi dispiace dirlo, visto che ho amici nel movimento di Syriza.Primo, non credo all’idea che Syriza sia un partito radicale. I suoi discorsi pubblici e i propositi con cui guiderà il popolo greco non sono per niente radicali e lo vedranno operare in accordo alle regole mainstream (neoliberiste) che sono decise e difese da Bruxelles. Syriza non sta proponendo un ritorno alla sovranità valutaria. Piuttosto sta proponendo che Bruxelles sia morbida con la Grecia per un po’ e fissa una parte delle attività pubbliche come parte di un alleggerimento concordato delle condizioni di rimborso. Ciò non è radicale. Ciò assicura che la Grecia rimanga nell’Eurozona, le cui dinamiche sono dominate dalla Germania, che ha un’economia non confrontabile con l’economia greca e la rende un partner “impossibile” con cui stare in una unione valutaria comune. Parlano di “andare dai mercati” (mercati privati di titoli) per finanziare la spesa governativa. Questo è alquanto mainstream. Pensiamoci per un attimo. I fondi di salvataggio della Troika sono attualmente offerti a tassi più bassi di quelli che la Grecia otterrebbe nei mercati privati di titoli. E sarebbe fare l’interesse della gente esporsi a costi di finanziamento più alti?Mentre ci potrebbero essere buone ragioni per ridistribuire i correnti esborsi fiscali sui vari interessi in competizione, il fatto fondamentale è che il deficit pubblico greco deve salire in maniera consistente – multipli del limite attuale del 3% contenuto nel Patto di Stabilità e Crescita. Perseguire una politica fiscale neutra per aiutare la gente stimolerà solo parzialmente la spesa totale del paese. La realtà è che la Grecia ha bisogno di uno stimolo pubblico che è ben al di là di qualsiasi cosa sia ammessa con le regole attuali. Mantenendo una posizione di sostegno all’obiettivo del pareggio di bilancio non si fornisce una risposta a un simile tema. Ma i greci possono risolverlo in una singola decisione – lasciare l’Eurozona e ripristinare la sovranità monetaria. Le affermazioni di Dragasakis precludono questa alternativa.La sola ragionevole conclusione è che gli obiettivi espressi da Syriza non sono reciprocamente coerenti. Non possono raggiungere le originarie aspirazioni di maggior crescita e aumento dei redditi ed equità mentre permettono a Bruxelles di dominare la quantità dei loro deficit fiscali. Non possono raggiungere i loro obiettivi con un tasso di cambio fisso (o tasso di cambio non indipendente) con la Germania come partner nell’unione monetaria. Le loro promesse politiche si amplificano con la popolazione sofferente. Ma la realtà è che la popolazione non viene informata da forze progressiste sul danno auto-inflitto che comporta il mantenere l’euro come valuta. Non ritengo Syriza la soluzione, dato che tendono verso il centro (che in realtà è la destra). Ma sarei molto contento di scoprire che mi sbaglio!(Bill Mitchell, estratto di un recente intervento sulle elezioni in Grecia, ripreso dal sito “MeMmt.info” il 27 gennaio 2015. Il professor Mitchell è un economista sovranista dell’Università di Newcastle, Australia).Syriza parla in parte di liberare la Grecia dal giogo della Troika ma ha un insieme di proposte che sono reciprocamente incoerenti. Potrebbero servire a “uscire dall’angolo” e a ridistribuire un po’ i redditi, ma ciò di cui c’è bisogno è un imponente rilancio di redditi nazionali che può venire solamente da un imponente aumento della spesa. Il settore non governativo non fornirà le ingenti risorse di spesa per modificare la situazione. Non ci può essere una situazione a favore della crescita se queste regole fiscali della Ue sono riaffermate in ogni modo. La crisi finanziaria globale ha provato che l’impatto degli effetti ciclici sugli equilibri fiscali (cioè la perdita di entrate fiscali dovute alla perdita di occupazione e produzione) erano sufficienti a far violare la soglia del 3%. Queste violazioni hanno portato all’imposizione dell’austerità fiscale. Inoltre, la maggior parte dei paesi dell’Eurozona non saranno capaci di conseguire i necessari importi dei loro deficit fiscali (per favorire la crescita) nella situazione attuale che impedisce alla Bce – il monopolista di emissione dell’euro – di attuare tali deficit.
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Non c’è speranza, l’Italia applaude i suoi macellai golpisti
Lo scenario italiano attuale ha due poli emergenti: da un lato abbiamo una situazione economica strutturalmente grave, con tendenze sfavorevoli, non sostenibile soprattutto in quanto a disoccupazione e pensioni; dall’altro lato abbiamo il combinato della riforma costituzionale ed elettorale detta Italicum. Un combinato che concentra tutti i poteri – legislativo, esecutivo e di controllo, cioè di garanzia – nelle mani del segretario del partito di maggioranza relativa. Questi, prendendo anche solo in teoria il 25% dei suffragi, si aggiudica il controllo delle camere, del governo, delle commissioni anche di garanzia, della nomina del presidente della Repubblica, di giudici costituzionali e di componenti del Csm. In più, quale segretario del partito, forma le liste elettorali del suo partito, cioè decide chi si candida e con quali chances. Quindi i parlamentari eletti hanno un vincolo di mandato, ma non nei confronti degli elettori, bensì del segretario del partito. Una vera mostruosità giuridico-costituzionale, senza pari nel mondo ritenuto civile.Un ritorno massiccio e deciso a prima della separazione dei poteri statuali, cioè a un modello di Stato di tipo assolutistico, cioè a oltre due secoli fa. Aggiungiamo che la riforma elettorale non solo dà il premio di maggioranza al partito che prende anche solo il 25% dei suffragi, ma anche, per effetto dell’attribuzione del premio di maggioranza non a una coalizione bensì al singolo partito, risulta congegnata per far sì che ci sia un partito fisso di maggioranza, cioè un partito-Stato – il Partito Democratico (e come altro potrebbe chiamarsi?) – più alcuni piccoli partiti in funzione di alleati mobili e clientelari del partito di maggioranza, più ancora un partito medio-grosso di opposizione perenne. Insomma, in previsione di una situazione economica e sociale sempre peggiore e tale da generare forti tensioni e forse rotture sociali, viene costituito, con la massima precedenza, un apparato statuale autocratico e bloccato, per garantire alla buro-partitocrazia parassitaria e criminale le sue rendite, le sue poltrone, le sue impunità anche nel disastro nazionale; e insieme per garantire il dominio sul paese ai grandi interessi finanziari stranieri, con la possibilità di completare l’estrazione o l’acquisizione degli asset nazionali e dei mercati nazionali ancora appetibili attraverso il controllo del suo governo e del suo capo di Stato.Per fare queste importanti riforme, e per eleggere un adeguato Capo di Stato che funga da raccordo tra la casta nazionale e i superiori potentati europei e americani, cioè un presidente di garanzia per il suddetto assetto, niente di meglio dell’attuale Parlamento di nominati, illegittimo perché eletto con legge elettorale dichiarata incostituzionale dalla Corte Costituzionale. Aiuta anche la “condizionabilità” giudiziaria, e non solo giudiziaria, del leader del primo o secondo partito di “opposizione”: nove o dieci milioni di voti controllati o neutralizzati così. La precisa e chiarissima scelta di concentrare i poteri di legislazione, governo e controllo in un’unica persona, toglie ogni dubbio sul progetto dittatoriale: non esiste in Europa, neanche in Russia, qualcosa di simile. Neanche il fascismo la realizzò. La passività e la ignavia via con cui la popolazione italiana accetta tutto ciò, l’assenza di obiezioni e anzi l’incoraggiamento da parte dell’Europa verso tale mostruosità giuridica, confermano che il destino dell’Italia è già stato deciso, che non vi è spazio per un’alternativa, e che quindi l’unica via razionale, per chi può, è l’emigrazione.Impossibile è giustificare le riforme suddette dicendo che sono indispensabili per assicurare la governance e l’efficacia della politica: come ho spiegato in precedenti articoli, questo obiettivo si può raggiungere con un sistema bicamerale differenziato: una Camera della governabilità, eletta con sistema maggioritario e premio di maggioranza, la quale vota i governi e le leggi, e una Camera della rappresentanza e delle garanzie, eletta con metodo proporzionale e senza soglie, la quale elegge gli organi di garanzia (presidente della Repubblica, giudici costituzionali, commissioni di sorveglianza) e vota le leggi costituzionali nonché quelle elettorali e concernenti la cittadinanza. Quindi la giustificazione suddetta, in nome della governabilità, è falsa. Ma lo è anche perché la politica nazionale ha ben poco da decidere, essendo guidata da vincoli e dettami esterni, rispetto ai quali ha una funzione perlopiù esecutiva. La realtà è che, in Italia e in altri paesi deboli e arretrati, il capitalismo finanziario globale sta instaurando regimi autoritari al fine di usarli per imporre, rapidamente e senza possibilità di opposizione, leggi e riforme strumentali ai suoi interessi e al suo potere, come il famigerato Ttip, oggi in gestazione.(Marco Della Luna, “Disastro e dittatura”, dal blog di Della Luna del 15 gennaio 2015).Lo scenario italiano attuale ha due poli emergenti: da un lato abbiamo una situazione economica strutturalmente grave, con tendenze sfavorevoli, non sostenibile soprattutto in quanto a disoccupazione e pensioni; dall’altro lato abbiamo il combinato della riforma costituzionale ed elettorale detta Italicum. Un combinato che concentra tutti i poteri – legislativo, esecutivo e di controllo, cioè di garanzia – nelle mani del segretario del partito di maggioranza relativa. Questi, prendendo anche solo in teoria il 25% dei suffragi, si aggiudica il controllo delle camere, del governo, delle commissioni anche di garanzia, della nomina del presidente della Repubblica, di giudici costituzionali e di componenti del Csm. In più, quale segretario del partito, forma le liste elettorali del suo partito, cioè decide chi si candida e con quali chances. Quindi i parlamentari eletti hanno un vincolo di mandato, ma non nei confronti degli elettori, bensì del segretario del partito. Una vera mostruosità giuridico-costituzionale, senza pari nel mondo ritenuto civile.
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Cremaschi: reclutano terroristi, poi fingono di piangere
Tutti i principali media hanno diffuso l’immagine dei capi di Stato a braccetto in testa al corteo, in una Parigi diventata capitale del mondo come ha detto, rispolverando antica grandeur, Hollande. Ebbene, questa immagine è un falso costruito e alimentato ad arte. Come mostrano le foto indipendenti che si trovano solo su Internet, i capi di Stato e governo sfilavano da soli in una via deserta isolata dal mondo dalle forze di sicurezza. Altrove sfilava il popolo, che con le origini e motivazioni le più diverse mostrava il suo sdegno per la strage infame commessa dai fondamentalisti islamici. Ma il corteo dei 200 potenti non era alla testa dei milioni scesi in piazza, forse con molti di loro non sarebbe stato neppure in connessione. Sono i mass media ad aver costruito questo legame, questa rappresentanza degli uni rispetto agli altri, e questa è semplicemente moderna e sapiente propaganda bellica. Siamo in guerra, dicono mass media e finta testa del corteo, ma chi è in guerra, contro chi e per quale scopo deve restare indeterminato per lasciare spazio ad ogni manovra.Con il massimo della malafede intellettuale si usa la denuncia di Papa Francesco contro una guerra mondiale a pezzi che andrebbe fermata, per sostenere all’opposto che essa vada condotta fino alla vittoria. Alla fine l’unico concetto che rimane è quello della guerra di civiltà tra i valori democratici occidentali e il fanatismo terrorista. Sulle dimensioni della guerra e degli avversari ci si divide sia nella finta testa del corteo di Parigi, sia tra di essa e le forze populiste e xenofobe escluse. Ci si divide su modalità ed estensione della guerra, ma non sul fatto di farla. Eppure fin dal 1991 siamo in conflitto armato contro i nuovi Hitler e forse il massacro di Parigi dovrebbe imporre una riflessione su 24 anni di guerre per la democrazia e sui loro risultati. Invece si reagisce sempre allo stesso modo. Ho visto in televisione l’ex presidente francese Sarkozy esaltare l’unità della nazione di fronte al terrorismo. E ho pensato alla sua decisione di bombardare la Libia per sostenere i ribelli contro Gheddafi. Ricordo anche le vibranti parole di Giorgio Napolitano a sostegno di quella azione militare. Che ha avuto pieno successo, Gheddafi è stato trucidato e ora in Libia dilagano tutte le organizzazioni del terrorismo fondamentalista islamico.Gli spietati assassini di Parigi sono cittadini francesi che hanno fatto il loro apprendistato militare contro Assad in Siria. E Hollande tuttora insiste per un maggior impegno militare della Nato a sostegno dei ribelli siriani. Obama ha lanciato per primo l’appello contro quell’Isis i cui gruppi dirigenti sono stati addestrati dagli Usa sia in funzione anti Siria che anti Iran. Gli occidentali si stanno ritirando dall’Afghanistan dove hanno sostanzialmente perso la guerra, condotta ora contro quei talebani armati e istruiti a suo tempo dagli Usa contro l’occupazione sovietica del paese. In Somalia negli anni ‘90 ci fu un colossale intervento militare guidato dagli Usa. Ora quel paese non è più uno Stato e scopriamo di mantenere ancora lì delle truppe quando son minacciate da questa o quella banda di signori della guerra. In Kosovo D’Alema mandò i suoi bombardieri per difendere la libertà dei popoli. Ora quello è uno Stato canaglia in mano alle multinazionali del crimine e anche una evidente via di transito e rifornimento per i terrorismi, forse anche per gli assassini francesi.Da quel 1991 quando Bush padre trascinò il mondo nella prima guerra contro l’Iraq di Saddam, gli interventi militari dell’Occidente son stati molteplici e tutti dichiaratamente a favore della democrazia. Abbiamo esportato la democrazia con le armi e abbiamo importato il terrorismo fondamentalista. Ma nonostante tutto lo scambio continua. In Ucraina i nazisti di tutta Europa si son dati convegno a sostegno del governo appoggiato da Ue e Nato. Lì stanno facendo la loro scuola militare, il loro apprendistato, poi li vedremo all’opera in tutta Europa. Farsi sbranare dai mostri che si sono allevati è la coazione a ripetere che l’Occidente non riesce a interrompere. Anzi, di nuovo risuonano gli stessi appelli e le stesse strumentalità che abbiamo sentito negli ultimi decenni. Per combattere davvero questo terrorismo, l’Occidente e l’Europa dovrebbero cambiare politica economica e militare, anzi dovrebbero mettere in discussione la stessa coalizione che le definisce. Da un quarto di secolo l’Occidente pratica politiche liberiste di austerità e le accompagna con guerre umanitarie in difesa della democrazia. L’Unione Sovietica non c’è più, ma la Nato esiste e chiede ancora più tributi. L’arsenale nucleare cresce e continua a minacciare la stessa esistenza umana anche se, per ora, non è in mano ai terroristi.Non sono un pacifista gandhiano, voglio sconfiggere iI fondamentalismo islamico e con esso ogni oscurantismo religioso e politico, compreso il ritorno del fascismo e del razzismo europei. Ma le politiche economiche e di guerra della coalizione occidentale hanno prodotto sinora un solo risultato, hanno diffuso e rafforzato il nemico che han dichiarato di voler combattere. Per questo la destra integralista occidentale rivendica una guerra totale vera e non le si può ipocritamente rispondere che basta una guerra in modica quantità. Da noi dopo decenni di precarizzazione del lavoro senza risultati occupazionali, Renzi ha convinto il Pd ad abolire quell’articolo 18 contro cui si era sempre scagliata la destra economica. Se sulla guerra si seguisse la stessa logica dopo 24 anni di fallimenti, non resterebbe che una vera completa guerra mondiale. Se si vuole abbattere il mostro che le stesse guerre democratiche dell’Occidente hanno creato e alimentato ci sono precise scelte di rottura da compiere. La prima è sciogliere la Nato e costruire una vera coalizione mondiale, con Russia, Cina, Iran, India, America Latina, Sudafrica. Il primo atto di questa nuova coalizione dovrebbe essere la fine della corsa agli armamenti e lo smantellamento del nucleare, che non dovrebbe servire contro il terrorismo.Questa coalizione dovrebbe operare dentro l’Onu e non con la guerra ma con una azione comune a sostegno delle forze che si oppongono al fondamentalismo, come timidamente e contraddittoriamente si fa con i Curdi a Kobane. Questa coalizione dovrebbe avere come primo alleato sul posto il popolo palestinese e dovrebbe costringere Israele a tornare sui confini del ‘67 e a riconoscere lo Stato di questo popolo oppresso. Questa coalizione dovrebbe abbandonare le alleanze con i finti moderati, corresponsabili della crescita del terrorismo islamico. Parlo dell’Arabia Saudita e delle altre monarchie del petrolio, vera base culturale e finanziaria del fondamentalismo. Infine bisogna cambiare le politiche interne, perché non bisogna essere marxisti ortodossi per affermare ciò di cui erano consapevoli i democratici che sconfissero il nazifascismo. E cioè che la disoccupazione e l’ingiustizia sociale sono da sempre il brodo di coltura di dittature e guerra.Bisogna cancellare le politiche di austerità e riprendere quelle di eguaglianza sociale, bisogna finirla con l’assecondare quella guerra economica permanente che è stata chiamata globalizzazione. Solo così sarà più facile riconquistare quelle periferie emarginate, ove si scontrano il rancore fondamentalista con quello xenofobo. Onestamente credo poco che la finta testa del corteo di Parigi, che di questo disastro venticinquennale è responsabile, sia in grado di cambiare. Per questo bisogna respingere l’appello all’unità nazionale dietro di essa e costruire ad essa un’alternativa. Altrimenti tra poco potremmo sentirci dire in qualche talkshow che il solo modo per sconfiggere un miliardo e mezzo di minacciosi musulmani è far ricorso al nucleare. In fondo non è già stata usato per concludere una guerra?(Giorgio Cremaschi, “La guerra mondiale che vogliono fare”, da “Micromega” del 13 gennaio 2015).Tutti i principali media hanno diffuso l’immagine dei capi di Stato a braccetto in testa al corteo, in una Parigi diventata capitale del mondo come ha detto, rispolverando antica grandeur, Hollande. Ebbene, questa immagine è un falso costruito e alimentato ad arte. Come mostrano le foto indipendenti che si trovano solo su Internet, i capi di Stato e governo sfilavano da soli in una via deserta isolata dal mondo dalle forze di sicurezza. Altrove sfilava il popolo, che con le origini e motivazioni le più diverse mostrava il suo sdegno per la strage infame commessa dai fondamentalisti islamici. Ma il corteo dei 200 potenti non era alla testa dei milioni scesi in piazza, forse con molti di loro non sarebbe stato neppure in connessione. Sono i mass media ad aver costruito questo legame, questa rappresentanza degli uni rispetto agli altri, e questa è semplicemente moderna e sapiente propaganda bellica. Siamo in guerra, dicono mass media e finta testa del corteo, ma chi è in guerra, contro chi e per quale scopo deve restare indeterminato per lasciare spazio ad ogni manovra.
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Ziegler: privatizzano il mondo, e la sinistra dov’è finita?
«Marx è ancora attuale, anche se aveva torto su una cosa: fino alla fine, rimase convinto che la deprivazione materiale sarebbe durata molto a lungo. Tuttavia, oggi saremmo in grado di provvedere al sostentamento di 12 miliardi di esseri umani». A parte questo errore, gli strumenti analitici che Marx ha fornito per comprendere il capitalismo finanziario «sono ancora applicabili e ci permettono di capire meglio come funziona». Parola di Jean Ziegler, autore de “La privatizzazione del mondo”. «Il mio libro – spiega – va inteso come una sorta di arma nella lotta della nuova società civile globale». Siamo in pericolo, ma c’è chi se n’è accorto. Ziegler cita il World Social Forum di Tunisi nel 2013 con 15.000 persone riunite a discutere alternative al capitalismo globale. «Si tratta di un esercito di resistenza formato da gruppi che combattono su una serie di fronti: il Movimento Internazionale dei Contadini contro l’espropriazione delle terre, Attac contro la mancanza di regolamentazioni nei mercati finanziari, Greenpeace per la protezione ambientale, Amnesty International per il rispetto dei diritti umani, e il secondo più grande sindacato tedesco, Ig Metall, così come i sindacati austriaci, contro il Ttip», il Trattato Transatlantico tra Usa e Ue.I sostenitori del Ttip – cioè Washington e la Commissione Europea – hanno presentato l’accordo come fosse una rivoluzione che creerà centinaia di milioni di posti di lavoro all’interno di un mercato comune transatlantico. «Stupidaggini: se passa il Ttip, tutti gli standard europei e ciò che si era ottenuto in termini di protezioni sociali, ambientali e della salute, rischiano di scomparire». Autorevolissimo sociologo e antropologo, membro del Consiglio dell’Onu per i diritti umani, lo svizzero Ziegler – intervistato da “Voxeurop” – lancia l’allarme: sotto quali condizioni verranno creati i posti di lavoro promessi dal Ttip? «Non c’è alcuna ragione per essere ottimisti: il “dialogo sul commercio”, iniziato nel 2005 tra le 70 maggiori società multinazionali e il Dipartimento americano per il commercio, ha portato al progetto del Ttip, che è stato negoziato in totale segretezza fino al 2013». Attenzione: «Non c’è un solo deputato di un singolo Parlamento nazionale o del Parlamento Europeo che sappia esattamente quanto sia ampio il mandato assegnato a coloro che stanno negoziando il Ttip da parte dell’Ue».Tradotto in termini semplici, «le multinazionali vogliono essere liberate da qualsiasi costrizione che sia posta alla massimizzazione dei loro profitti, come ad esempio la scandenza dei brevetti, che vorrebbero prolungare». Pericolo: «Nel campo della salute, dell’ambiente e della sicurezza alimentare, ciò significa l’abolizione delle normative europee», anche perché «la clausola-chiave dell’accordo stabilisce un tribunale arbitrale per risolvere le controversie, con giudici stabiliti dalle parti, e senza la possibilità di appello di fronte ad un tribunale nazionale». Sarebbe la fine dello Stato di diritto, della legislazione europea e di quelle nazionali. «Se questo accordo verrà firmato, se il Parlamento Europeo lo approva, se il 28 Parlamenti dei paesi membri lo ratificano e se esso entra in vigore, allora le multinazionali potranno sporgere denuncia contro qualsiasi Stato sovrano prenda delle decisioni contrarie ai loro interessi o ai loro desideri. In breve, se il Ttip viene applicato, darebbe alle multinazionali la corda per strangolare le politiche economiche e finanziarie decise a livello nazionale». Senza più poter intervenire con le loro leggi, gli Stati nazionali – già ampiamente scavalcati dall’Ue, retta da un’élite di non-eletti – verrebbero definitivamente annullati.«La giungla si sta espandendo anche in Europa, minacciando il principio di legalità e le conquiste sociali», afferma Ziegler. «In Spagna il 18,2% dei bambini sotto i dieci anni sono costantemente e seriamente malnutriti. In Inghilterra e a Berlino ci sono esempi di sindacati degli insegnanti che organizzano raccolte di generi alimentari per i bambini che patiscono la fame». Letteralmente: «La democrazia in Europa potrebbe scomparire. Sarebbe l’Armageddon per i democratici se non si svegliano in fretta». Chi dovrebbe sentire i campanelli d’allarme? «Sarebbe il ruolo tradizionale della sinistra politica, ma la sinistra in Europa è priva di idee», accusa il sociologo. «Non succede più che i movimenti socialisti e i loro intellettuali forniscano ai lavoratori i necessari strumenti di analisi, di percezione e comprensione del mondo. L’integrazione dei lavoratori europei all’interno della strategia definita dal progetto imperialista ha ucciso la teoria e la pratica della solidarietà con le classi subalterne del terzo mondo. La violenza inflitta oggi contro i lavoratori viene percepita come “normale”, come un’inevitabile e intriseca parte del capitale». Si cancellano storiche conquiste sociali, mentre dilaga la xenofobia e cresce l’estrema destra. C’è un modo per contrastare questa recrudescenza? «La coscienza nazionale. La nazione appartiene a quelli che aderiscono al contratto nazionale e che rispettano le leggi della Repubblica». Purché, appunto, la Repubblica non sia cancellata. E possa ancora emanare leggi democratiche.«Marx è ancora attuale, anche se aveva torto su una cosa: fino alla fine, rimase convinto che la deprivazione materiale sarebbe durata molto a lungo. Tuttavia, oggi saremmo in grado di provvedere al sostentamento di 12 miliardi di esseri umani». A parte questo errore, gli strumenti analitici che Marx ha fornito per comprendere il capitalismo finanziario «sono ancora applicabili e ci permettono di capire meglio come funziona». Parola di Jean Ziegler, autore de “La privatizzazione del mondo”. «Il mio libro – spiega – va inteso come una sorta di arma nella lotta della nuova società civile globale». Siamo in pericolo, ma c’è chi se n’è accorto. Ziegler cita il World Social Forum di Tunisi nel 2013 con 15.000 persone riunite a discutere alternative al capitalismo globale. «Si tratta di un esercito di resistenza formato da gruppi che combattono su una serie di fronti: il Movimento Internazionale dei Contadini contro l’espropriazione delle terre, Attac contro la mancanza di regolamentazioni nei mercati finanziari, Greenpeace per la protezione ambientale, Amnesty International per il rispetto dei diritti umani, e il secondo più grande sindacato tedesco, Ig Metall, così come i sindacati austriaci, contro il Ttip», il Trattato Transatlantico tra Usa e Ue.
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Anche Tsipras da Draghi per negoziare la fine della Grecia
Non è difficile comprendere ciò che accadrà in Grecia il 25 gennaio, allorché si voterà per eleggere il nuovo Parlamento dopo i tre scrutini non conclusivi in merito all’elezione del presidente della Repubblica, che si sono consumati in un lampo per la pervicace volontà del leader di “Nuova Democrazia”, Antonis Samaras, di portare il paese alle elezioni anticipate e vincerle dopo aver imposto alla nazione un funzionario dell’Ue come presidente, rassicurando così non tanto i fantomatici mercati, ma la Germania e la tecnocrazia europea sul fatto che nulla sarebbe mutato nel progetto di distruzione pressoché completa della società greca. Essa dovrebbe e potrebbe essere in tal modo consegnata (in ciò che di essa rimane) nelle mani del capitale finanziario internazionale che ne farebbe un’isola (sì!, il paradosso dell’isola delle tremila isole) per ricchi turisti e un’area di transito per le merci che dall’heartland passano per i Dardanelli e l’Egeo, pieno di petrolio e di gas.Mario Draghi in questi mesi ha ricevuto più e più volte Samaras, come ha più e più volte ricevuto il principale protagonista dell’opposizione a questo progetto: il leader di “Syriza”, ossia il buon Alexis Tsipras, che propone un programma in generale assai moderato e tutto “nazionale”, ossia fondato non sul rifiuto dell’euro (così come dicono coloro che vogliono speculare sui ribassi da quasi-panico e lucrare poi guadagni nei rialzi che ne seguono inevitabilmente nelle borse), ma su una schedulazione del debito, ossia una sua gestione condivisa che certamente non può provocare contagio alcuno per la sua piccolezza: 300 miliardi circa di euro sono una bazzecola rispetto alla potenza di fuoco dell’oligopolio finanziario mondiale e dei bilanci degli attori del citato oligopolio, oltreché dell’indimenticabile dispensatrice di sogni mediatici, ossia la Bce con il suo presidente, fascinoso come un attor giovane settecentesco.Ciò che è interessante, tuttavia, non è discettare sull’esito delle elezioni; infatti due cose sono certe: la vittoria di “Syriza” e l’impossibilità che essa avrà di formare un nuovo governo. Il che costringerà a una rinegoziazione del debito sub specie democratica in regime di emergenza. Questo se la Germania non si deciderà a scambiare condivisione di sovranità, e quindi di debito, con esistenza dell’euro. Nessuno vuole uscire dall’euro, ma l’unico modo per rimanervi è trattare e schedulare il debito. L’alternativa sarebbe l’occupazione militare del suolo greco, ma essa è impossibile. La soluzione sarà il congelamento della Grecia in un regime speciale di sorveglianza fiscale e finanziaria, com’è successo già diverse volte alla nazione greca, si ricorra o meno alle elezioni. Questo sarà possibile per ciò ch’io chiamo il paradigma greco. Paradigma analitico di cui mi sono convinto rileggendo il mio vecchio libro edito da Longam nel 1994 (“Southern Europe Since 1945: Tradition and Modernity in Portugal, Spain, Italy, Greece and Turkey”).Occorre riflettere sulla storia greca e sulla dinamica della macchina partitica che già il mio vecchio amico Keith R. Legg, in “Politics in Modern Greece”, aveva magistralmente descritto ben prima di me, per comprendere ciò che succederà. Esiste tuttavia anche un’altra nazione greca, attiva sin dalle guerre civili che segnarono il decennio che va dal 1821 al 1830 e su cui Lord Byron scrisse pagine memorabili. È la nazione dell’altra diaspora, ossia dei milioni di poveri greci emigrati in tutto il mondo e quella che, invece, non emigra e che fonda la tradizione democratica e socialista e comunista greca che attraverserà una tribolata esistenza anch’essa plurisecolare. Alcune famiglie (i Papandreou ne sono l’esempio più eclatante e preclaro) anche in questo caso ne rappresentano il gruppo dirigente, sino a condividere con la diaspora plutocratica usi e costumi, mantenendo tuttavia nella nazione le fonti essenziali della costruzione del potere, a differenza dell’altra nazione diasporico-plutocratica.Dalla dittatura di Metaxas negli anni Trenta del Novecento a quella dei colonnelli nel decennio Sessanta è tutto uno sgranarsi di conflitti in cui la Grecia è eterodiretta oppure fa immensi sforzi per liberarsi dall’eterodirezione. Come? Con politiche di ogni sorta, anche clientelari e assistenziali. Ma fa ciò anche il gruppo plutocratico estero, come ha dimostrato negli anni Novanta “Nuova Democrazia”, dominata allora dall’altra famiglia simbolo, i Karamanlis, con i brillanti risultati raggiunti truccando i conti e falsificando i bilanci dello Stato pur di entrare nell’euro. L’euro e la tecnocrazia antinazionale, del resto, è il regime più idoneo per l’ala plutocratica greca che si trova in tal modo a governare nel modo più consono alla sua storia che, come ho cercato di dimostrare, non è l’intera storia greca. Per questo le elezioni del gennaio 2015 sono così importanti nella storia europea. Perché lo sono in forma culturalmente cogente per l’intera storia greca e per i rapporti tra nazione e internazionalizzazione che sovradeterminano anche la storia di questa dimidiata “patria byroniana”.Una vicenda del resto non dissimile in molti punti dalla storia italiana e che quindi noi dovremmo seguire con grande partecipazione intellettuale. Il paradigma è quello di una nazione a precocissima parlamentarizzazione e ad altrettanto precoce larghissimo suffragio che si crea dal basso con forti radici popolari e un’immensa eco culturale in tutto il mondo civilizzato dell’epoca Il popolo greco, contadini e intellettuali déraciné in primis, insorge contro i turchi nel 1821 e nel 1829 raggiunge l’autonomia dall’Impero ottomano per ottenere, dopo intestine lotte civili, l’indipendenza nel 1830. Certo, Francia, Regno Unito (a Londra si firmò la dichiarazione d’indipendenza, del resto) e Russia appoggiano questa lotta in funzione anti-ottomana, ma immediatamente il prezzo che la nazione paga è l’imposizione di un re bavarese, Ottone I. La lotta tra le opposte fazioni facilita questa sottomissione. Ottone rappresenta quel settore cosmopolita della società e della cultura greca: la sua plutocrazia oligarchica e diasporica. Ancora oggi gli armatori greci godono dalla clausola costituzionale – costituzionale, si badi bene! – per cui essi non pagano tasse e possono legalmente battere bandiere straniere pur considerandosi cittadini greci.Ecco il mio paradigma. Il paradigma greco è quello di una nazione spaccata in due. L’oligarchia dominante che da più di due secoli esercita il potere di fatto è diasporica: ossia in Grecia, paradossalmente, laddove (se si appartiene alle classi alte) si studia, ci si forma e si domina la nazione è l’estero e non ciò che in altri contesti culturali è “la patria”. Si governa da più di due secoli la nazione, in primis, dai centri del capitale finanziario internazionale, non da Atene o da Salonicco. Un tempo solo da Londra, oggi anche da New York. Giova ricordare che la più interessante, libera e colta rivista greca, indispensabile per studiare e conoscere la Grecia, è edita a New York e il suo titolo è tutto un programma e un destino insieme, “Journal of Hellenic Diaspora”, una rivista di cui non si può far a meno, non solo per conoscere e seguire i problemi della Grecia, ma anche della regione turco-balcanica.Non ci sono problemi reali di default europeo e, se ce ne fossero, per i greci sarebbe meglio di questa lenta agonia somministrata come brevi permanenze nei lager. Anche se l’arroganza di persone come il povero Wolfgang Schaeuble, le quali avvertono i greci che qualsivoglia sia la loro decisione di voto nulla cambierà rispetto ai dettati europei, ossia della Troika, è veramente da commiserare ed esprime in forma plastica e icastica che ciò che l’ordoliberalismus invera è la fine della democrazia e la sua trasformazione in un’oligarchia dei ricchi e dei potenti, ovvero una plutocrazia: quella forma di governo, insomma, tanto osteggiata dal grande Tocqueville, il quale, guarda caso, è uno dei pensatori meno citati di questi tempi. Con Schaeuble è quasi impossibile prendersela, ma con l’ordoliberalismus sì, e verrà il giorno in cui la miseria dei dioscuri della distruzione della società salterà agli occhi di tutti.(Giulio Sapelli, “Il futuro dell’Italia è in Grecia”, da “Il Sussidiario” del 1° gennaio 2015).Non è difficile comprendere ciò che accadrà in Grecia il 25 gennaio, allorché si voterà per eleggere il nuovo Parlamento dopo i tre scrutini non conclusivi in merito all’elezione del presidente della Repubblica, che si sono consumati in un lampo per la pervicace volontà del leader di “Nuova Democrazia”, Antonis Samaras, di portare il paese alle elezioni anticipate e vincerle dopo aver imposto alla nazione un funzionario dell’Ue come presidente, rassicurando così non tanto i fantomatici mercati, ma la Germania e la tecnocrazia europea sul fatto che nulla sarebbe mutato nel progetto di distruzione pressoché completa della società greca. Essa dovrebbe e potrebbe essere in tal modo consegnata (in ciò che di essa rimane) nelle mani del capitale finanziario internazionale che ne farebbe un’isola (sì!, il paradosso dell’isola delle tremila isole) per ricchi turisti e un’area di transito per le merci che dall’heartland passano per i Dardanelli e l’Egeo, pieno di petrolio e di gas.
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Grillini, ragionate: sono ben altri i ladri del nostro futuro
Fin dagli albori ho seguito con attenzione genesi ed evoluzione del “Movimento 5 Stelle”, avanguardia italiana capace di cristallizzare un moto di ribellione e di protesta oramai estesosi, con declinazioni differenti, in tutto il Vecchio Continente. La perversa alleanza che unisce in funzione pro-austerity i vertici del Partito Popolare Europeo con i pari grado del Partito Socialista, non poteva infatti alla lunga non provocare l’esplosione elettorale di nuovi partiti e movimenti in grado di incanalare il crescente malcontento nei confronti di un establishment considerato a ragione corrotto e infingardo. “Podemos” in Spagna, Syriza in Grecia, il Front National in Francia e l’Ukip in Inghilterra, solo per fare gli esempi più evidenti, sono termometri diversi che registrano però la capillare e omogenea diffusione ad ogni latitudine degli stessi identici sentimenti: ovvero rabbia, disillusione e sfiducia nei confronti delle forze politiche “tradizionali”. In questo campo, oggettivamente, il “Movimento 5 Stelle” può orgogliosamente affermare di avere aperto una breccia e indicato una strada.Per queste ragioni, pur non sfuggendomi alcuni evidenti limiti ontologici, avevo in passato più volte invitato ai miei lettori a votare per i pentastellati. Non accordare consenso ai partiti che hanno sostenuto governi come quello di Mario Monti è il primo, insufficiente, passo per raggiungere una libertà che cammini sulla ali della consapevolezza. Limitarsi però ad evidenziare le aberrazioni altrui senza contestualmente costruire una alternativa politica credibile, coerente e ideologicamente orientata è prassi sterile e in prospettiva perdente. Renzi, ennesimo curatore fallimentare nominato premier dal presidente Napolitano (quest’ultimo in forza alla Ur-Lodge “Three Eyes” fin dal 1978), è riuscito a “svuotare” in parte il bacino elettorale del Movimento di Grillo e Casaleggio, sfidandoli proprio sul loro terreno: quello delle retorica contro la Casta, gli sprechi, i corrotti e altre simili amenità, non a caso alimentate e fomentate dai giornali di regime fin dai tempi di Mani Pulite.La Rottamazione di Renzi rappresenta nulla di più che l’evoluzione, perfezionata e politicamente corretta, del già rodato “tutti a casa” di grillina memoria. Al sistema schiavista dominante, quello che parla per bocca di ectoplasmi con la penna che creano ad arte finti mostri come lo spread e il debito pubblico, interessa poco della sorte personale dei diversi burattini che si alternano al governo del paese; ai padroni veri, quelli che operano all’interno dei templi più esclusivi ed occulti, interessa soltanto che non vengano messi in discussione i paradigmi concettuali che legittimano la prosecuzione di politiche antisociali e disumane. Per queste ragioni, tempo fa, rimasi inorridito nel leggere una intervista rilasciata da Casaleggio al “Fatto Quotidiano” contenente un indiscriminato attacco alla spesa pubblica degno di un Enrico Letta qualsiasi. Perché mai, mi chiesi allora, il “Movimento 5 Stelle” sceglie una narrazione dei fatti terribilmente simile a quella recitata dai vari Napolitano, Renzi e Merkel? E’ possibile si tratti di una opposizione di comodo, nata cioè con lo specifico intento di fornire agli altri una buona scusa per formare all’infinito governi consociativi ed etero-diretti dall’esterno?Questo rovello mi ha inseguito fino al 5 gennaio scorso, giorno in cui il blog di Grillo ha deciso coraggiosamente di pubblicare una riflessione di Gioele Magaldi, leader del movimento massonico di opinione Grande Oriente Democratico nonché autore del fortunato libro “Massoni” (Chiarelettere editore). Solo degli uomini liberi, infatti, possono permettersi di rilanciare le tesi di Magaldi senza dover chiedere il preventivo consenso del “maestro venerabile” di turno. E Grillo e Casaleggio, evidentemente, appartengono alla categoria degli uomini e non a quella, nutritissima, dei quaquaraquà. Certo, dopo anni passati a dispensare letture delle realtà molto semplificate, non sarà agevole spingere i militanti e i simpatizzanti del “Movimento 5 Stelle” ad abbracciare immediatamente una dimensione politica più articolata. Sono comunque certo del fatto che le tante sottili intelligenze che animano il Movimento di Grillo colgono l’impellente necessità di uno scatto in avanti.Non a caso, anche oggi, dimostrando una lodevole apertura mentale, Grillo ha pubblicato sul suo blog un articolo chiaramente e positivamente influenzato dalla fruttuosa lettura del libro “Massoni”. Nelle more del summenzionato pezzo, infatti, Grillo scrive: «Il miglioramento rispetto ai picchi dello spread di novembre 2011 pilotato per cacciare Berlusconi e imporre Monti e la sua “Three Eyes” in grembiulino…», dando perciò prova di avere già indossato le pregiate lenti offerte da Magaldi. Giusto per essere precisi, è bene sottolineare come Mario Monti risulti organico tanto alla superloggia “Babel Tower”, quanto alla Gran Loggia Unita d’Inghilterra. Alla Ur-Lodge “Three Eyes”, invece, fondata da Kissinger, Brzezinski e David Rockefeller nel 1967, è affiliato fin dall’aprile del 1978 il nostro presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (ma non Mario Monti). Ma questi sono dettagli. Il dato davvero importante è quello che testimonia come oggi, in Italia, esista una forza politica importante che conserva la libertà di chiedere conto al sistema dominante di fatti e dinamiche decisive, graniticamente silenziate da un circuito mediatico omertoso che invoca implicitamente un oblio che mai otterrà.(Francesco Maria Toscano, “Il Movimento 5 Stelle è perfezionabile, ma è guidato da uomini liberi”, da “Il Moralista” del 9 gennaio 2015).Fin dagli albori ho seguito con attenzione genesi ed evoluzione del “Movimento 5 Stelle”, avanguardia italiana capace di cristallizzare un moto di ribellione e di protesta oramai estesosi, con declinazioni differenti, in tutto il Vecchio Continente. La perversa alleanza che unisce in funzione pro-austerity i vertici del Partito Popolare Europeo con i pari grado del Partito Socialista, non poteva infatti alla lunga non provocare l’esplosione elettorale di nuovi partiti e movimenti in grado di incanalare il crescente malcontento nei confronti di un establishment considerato a ragione corrotto e infingardo. “Podemos” in Spagna, Syriza in Grecia, il Front National in Francia e l’Ukip in Inghilterra, solo per fare gli esempi più evidenti, sono termometri diversi che registrano però la capillare e omogenea diffusione ad ogni latitudine degli stessi identici sentimenti: ovvero rabbia, disillusione e sfiducia nei confronti delle forze politiche “tradizionali”. In questo campo, oggettivamente, il “Movimento 5 Stelle” può orgogliosamente affermare di avere aperto una breccia e indicato una strada.