Archivio del Tag ‘aiuti umanitari’
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Senato Usa: Obama finanziò la rete Al-Qaeda in Sudan
L’agenzia umanitaria no-profit World Vision United States ha trattato impropriamente con l’Islamic Relief Agency (Isra) nel 2014 con l’approvazione dell’amministrazione Obama, inviando fondi governativi a un’organizzazione che, secondo un nuovo rapporto, era stata sanzionata per i suoi legami con il terrorismo. Il presidente del Comitato finanziario del Senato, Chuck Grassley (dell’Iowa), ha recentemente pubblicato un rapporto che descrive in dettaglio i risultati di un’indagine iniziata nel febbraio 2019 dal suo staff sul rapporto tra World Vision e l’Isra. Si è scoperto che World Vision non era a conoscenza del fatto che l’Isra fosse stata sanzionata dagli Stati Uniti dal 2004 dopo aver incanalato circa 5 milioni di dollari a Maktab al-Khidamat, il predecessore di Al-Qaeda controllato da Osama Bin Laden. Tuttavia, secondo il rapporto, questa ignoranza è nata da pratiche di controllo insufficienti. «World Vision lavora per aiutare le persone bisognose in tutto il mondo, e questo lavoro è ammirevole», ha detto Grassley in una dichiarazione. «Anche se forse non sapeva che l’Isra era nella lista delle sanzioni o che era elencata a causa della sua affiliazione con il terrorismo, avrebbe dovuto saperlo».«L’ignoranza non può essere una scusa sufficiente. I cambiamenti di World Vision nelle pratiche di controllo sono un buon primo passo, e non vedo l’ora che continui a progredire». L’indagine è stata scatenata da un articolo della “National Review” del luglio 2018 in cui Sam Westrop, il direttore dell’Osservatorio islamista del Forum del Medio Oriente, ha dettagliato le conclusioni secondo cui l’amministrazione Obama aveva approvato una «sovvenzione di 200.000 dollari di denaro dei contribuenti all’Isra». I funzionari del governo hanno specificamente autorizzato il rilascio di «almeno 115.000 dollari» di questa sovvenzione anche dopo aver saputo che si trattava di un’organizzazione terroristica designata, ha scritto Westrop. Secondo il rapporto del Senato, World Vision ha presentato una richiesta di sovvenzione all’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale (Usiad) per realizzare il suo Programma di recupero del Nilo Blu il 21 gennaio 2014. Il programma proposto mirava a fornire sicurezza alimentare, attrezzature igienico-sanitarie e servizi sanitari alle aree duramente colpite dal conflitto nella regione del Nilo Blu in Sudan.L’Usaid ha assegnato a World Vision una sovvenzione di 723.405 dollari per il programma. Il mese successivo, secondo il rapporto, l’Isra ha accettato di fornire servizi umanitari a parti della regione del Nilo Blu per World Vision. Le due organizzazioni avevano anche collaborato a diversi progetti nel 2013 e 2014. World Vision ha scoperto che l’Isra è stata autorizzata solo dopo che l’organizzazione umanitaria evangelica, senza scopo di lucro, ha discusso la collaborazione con l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim) per un progetto umanitario separato in Sudan. Nel corso di una verifica di routine di World Vision e dei suoi partner, l’Oim ha scoperto lo status sanzionato dell’Isra e ha contattato il Compliance Team dell’Ufficio per il Controllo dei Beni Stranieri (Ofac) per la conferma. Dopo aver ricevuto conferma dall’Ofac, l’Oim ha rifiutato l’offerta di collaborazione di World Vision, si legge nel rapporto. L’ufficio legale di World Vision è stato informato del potenziale status dell’Isra come entità sanzionata nel settembre 2014, e ha immediatamente interrotto tutti i pagamenti all’organizzazione durante le indagini.Due mesi dopo, il Tesoro ha risposto, confermando che l’Isra è sanzionata e negando la richiesta di licenza per lavorare con l’organizzazione, in quanto ciò sarebbe «incoerente con la politica dell’Ofac». Un mese più tardi, World Vision ha presentato un’altra richiesta di licenza di operare con l’Isra per pagarle 125.000 dollari per i servizi resi, onde non incorrere in conseguenze legali e in una potenziale espulsione dal Sudan. Il 4 maggio 2015, il Dipartimento di Stato dell’amministrazione Obama ha raccomandato all’Ofac di concedere a World Vision la richiesta di licenza per la transazione. Il giorno successivo, l’Ofac ha concesso la licenza per pagare all’Isra quei 125.000 dollari per i servizi resi, e successivamente ha inviato all’organizzazione no-profit una “lettera di ammonimento”, rendendola consapevole del fatto che la sua collaborazione con l’Isra sembrava aver violato il regolamento sulle sanzioni contro il terrorismo globale. Il rapporto dice che l’indagine «non ha trovato alcuna prova che World Vision abbia cercato intenzionalmente di aggirare le sanzioni statunitensi collaborando con l’Isra».«Non abbiamo inoltre trovato alcuna prova che World Vision sapesse che l’Isra era un ente sanzionato prima di ricevere la notifica dal Tesoro», aggiunge il report. «Tuttavia, sulla base delle prove presentate, concludiamo che World Vision aveva accesso alle informazioni pubbliche appropriate e che avrebbe dovuto sapere, ma non è riuscita a controllare adeguatamente l’Isra, con il risultato di trasferire i dollari dei contribuenti statunitensi ad un’organizzazione con una lunga storia di sostegno alle organizzazioni terroristiche [sic] e ai terroristi, incluso Osama Bin Laden». Il rapporto definisce il sistema di World Vision per il controllo dei potenziali sub-garantiti «al limite della negligenza», e dice che l’organizzazione «ha ignorato le procedure investigative di livello elementare». World Vision ha trascorso settimane dopo essere stata informata dall’Oim dello stato di sanzione dell’Isra per indagare sulla richiesta di risarcimento, e non è stata in grado di giungere a una conclusione, basandosi su «ciò che potrebbe essere descritto solo come una logica imperfetta», dice sempre il rapporto.Lo stesso report accusa World Vision di aver tentato di evitare le imputazioni, e nota che l’Oim «è stata in grado di esaminare rapidamente l’Isra e di determinare il loro status di entità sanzionata». Se World Vision avesse impiegato la stessa “due diligence” e metodi simili impiegati dall’Oim, si legge ancora, «i dollari dei contribuenti non sarebbero passati nelle mani di un’organizzazione che è nota per finanziare le organizzazioni terroristiche». Mentre World Vision ha istituito ulteriori metodi di screening, lo staff del Comitato finanziario «ha delle riserve» sulla sua capacità di evitare situazioni simili in futuro, dice il ancora rapporto. «World Vision ha il dovere di garantire che i fondi acquisiti dal governo degli Stati Uniti o donati dagli americani non finiscano per sostenere l’attività terroristica. Riguarda in particolare questo Comitato il tentativo di World Vision di scaricare la colpa sul governo federale per la propria incapacità di controllare adeguatamente un subappaltatore».Un sistema di screening e di controllo più solido è necessario, «per ripristinare la fiducia del pubblico nel fatto che i contributi forniti a World Vision non finanziano organizzazioni illecite». Inoltre, aggiungono gli autori del report, «anche se non troviamo alcun motivo di dubitare dell’affermazione di World Vision secondo cui i fondi nella loro interezza sono stati utilizzati dall’Isra per scopi umanitari, il denaro aiuta inevitabilmente le loro attività terroristiche». World Vision ha affermato in una dichiarazione che «prende sul serio i nostri obblighi di conformità e condivide l’obiettivo del senatore Grassley e dello staff del comitato per una buona amministrazione». Aggiunge: «Apprezziamo il riconoscimento del fatto che la relazione dello staff del comitato al presidente “non ha trovato alcuna prova che World Vision sapesse che l’Isra era un ente sanzionato prima di ricevere la notifica dal Tesoro”. Il terrorismo va contro tutto ciò che World Vision rappresenta, come organizzazione, e noi condanniamo fermamente qualsiasi atto di terrorismo o di sostegno a tali attività».(Brittany Bernstein, “L’indagine del Senato trova che Obama ha consapevolmente finanziato l’affiliato di Al-Qaeda”, da “Yahoo News” del 29 dicembre 2020).L’agenzia umanitaria no-profit World Vision United States ha trattato impropriamente con l’Islamic Relief Agency (Isra) nel 2014 con l’approvazione dell’amministrazione Obama, inviando fondi governativi a un’organizzazione che, secondo un nuovo rapporto, era stata sanzionata per i suoi legami con il terrorismo. Il presidente del Comitato finanziario del Senato, Chuck Grassley, dell’Iowa, ha recentemente pubblicato un rapporto che descrive in dettaglio i risultati di un’indagine iniziata nel febbraio 2019 dal suo staff sul rapporto tra World Vision e l’Isra. Si è scoperto che World Vision non era a conoscenza del fatto che l’Isra fosse stata sanzionata dagli Stati Uniti dal 2004 dopo aver incanalato circa 5 milioni di dollari a Maktab al-Khidamat, il predecessore di Al-Qaeda controllato da Osama Bin Laden. Tuttavia, secondo il rapporto, questa ignoranza è nata da pratiche di controllo insufficienti. «World Vision lavora per aiutare le persone bisognose in tutto il mondo, e questo lavoro è ammirevole», ha detto Grassley in una dichiarazione. «Anche se forse non sapeva che l’Isra era nella lista delle sanzioni o che era elencata a causa della sua affiliazione con il terrorismo, avrebbe dovuto saperlo».
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Blackout e aiuti bruciati, la stampa Usa smaschera Guaidò
Aiuti umanitari per il Venezuela bruciati oltre confine: non da Maduro, ma dal rivale Guaidò, con l’obiettivo di incolpare il governo di Caracas. E’ la stampa Usa ad accusare lo stesso Guaidò (e Washington) sia per l’auto-distruzione degli aiuti che per il drammatico blackout inflitto al Venezuela, con almeno 14 pazienti deceduti negli ospedali. Le denunce del “New York Times” e di “Forbes”, scrive Gennaro Carotenuto sul suo blog, attestano che in Venezuela la guerra è già cominciata, e che le false notizie dominano incontrastate la costruzione dell’opinione pubblica. «Le guerre di nuova generazione fanno morti come e più di quelle che si combatterono con la clava, la balestra o il fucile Chassepot», scrive Carotenuto. «Rispetto alla gravità del blackout in Venezuela, ai media italiani è piaciuto a scatola chiusa sposare la tesi dell’inettitudine chavista», dato che i chavisti «sono per definizione tutti incapaci, sanguinari e corrotti». Al contrario, «vari media statunitensi hanno preso molto sul serio e considerano credibile che il blackout in Venezuela sia stato causato da un cyber-attacco informatico Usa». Se così fosse, aggiunge Carotenuto, «saremmo di fronte a un atto di guerra», nell’ambito di un conflitto “di quarta generazione”. Tanto per chiarire: «Fossero stati gli hacker russi, parleremmo di terrorismo».
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Twin Towers, 15.000 morti. Stop ai sussidi per i moribondi
Se vi chiedessero “quante persone sono morte nell’attacco alle Torri Gemelle?”, la maggioranza di voi risponderebbe: circa 3.000. Invece la cifra è di almeno 5 volte superiore, spiega Massimo Mazzucco. «Sono già oltre 15.000 le persone morte in seguito all’attacco delle Torri Gemelle, se si contano anche tutte quelle morte di cancro negli anni successivi, per aver respirato l’amianto che era contenuto nella struttura dei due grattacieli». Per tutte queste persone – soccorritori, pompieri, poliziotti, normali cittadini – il governo americano aveva stanziato circa 7 miliardi di dollari, che avrebbero dovuto ricompensare le vittime e i loro parenti nel corso degli anni. «Ma ora – vergogna dentro la vergogna – il fondo ha comunicato che i soldi stanno per finire, e che da oggi i rimborsi verranno dimezzati per tutti i nuovi malati», scrive Mazzucco, sul blog “Luogo Comune”. In due accurati documentari, “Inganno globale” (trasmesso anche da Canale 5) e “La nuova Pearl Harbor”, Mazzucco ha sbriciolato la versione ufficiale sull’attentato: le Twin Towers non possono essere crollate per l’impatto degli aerei, sono state sicuramente “demolite” in modo deliberato. Una verità tuttora inaccettabile, per moltissimi: come potrebbero mai, gli Stati Uniti, procurarsi da soli una devastazione del genere?La risposta è che i mandanti della strage del secolo – che ha aperto il terzo millennio – non sarebbero stati gli Usa, ma una struttura-ombra annidata nei gangli del Deep State e capeggiata dall’allora vicepresidente Dick Cheney. Una struttura super-segreta, capace di produrre indagini-farsa dopo aver allontanato funzionari Fbi che si erano insospettiti. E in grado di “accecare” la difesa aerea della superpotenza inserendo un videogame negli schermi radar, quella mattina, in cui – per la prima e unica volta nella storia – c’erano solo due intercettori a difendere il cielo della East Coast: oltre 700 caccia erano tutti impegnati in esercitazioni concomitanti, lontanissimo da New York. Nel saggio “La guerra infinita”, Giulietto Chiesa punta il dito contro l’élite neocon firmataria del Pnac: tre anni prima della strage, il Piano per il Nuovo Secolo Americano prevedeva – nero su bianco – l’invasione dell’Iraq e dell’Afghanistan, all’indomani del provvidenziale casus belli. In un altro saggio, “Massoni”, Gioele Magaldi è ancora più preciso: a progettare il maxi-attentato di Manhattan sarebbe stata la superloggia segreta “Hathor Pentalpha”, creata da Bush senior nel 1980 dopo la sconfitta inflittagli da Reagan alle primarie repubblicane. Obiettivo della “Hathor”: procedere “manu militari” alla globalizzazione neoliberista, anche ricorrendo al terrorismo “false flag” targato prima Al-Qaeda e poi Isis.A quasi 18 anni dalla catastrofe, una quota rilevante dell’opinione pubblica mondiale ha registrato che, come minimo, la versione ufficiale sull’11 Settembre fa acqua da tutte le parti. Certo, ai più sfugge il dato – enorme – su cui ora richiama l’attenzione Mazzucco: le vittime non sono tremila (2.996 morti, più 6.000 feriti) ma addirittura 15.000. Colpa dell’amianto disperso nell’aria durante gli incendi, senza contare le macerie di Ground Zero che continuarono a bruciare – stranamente – per settimane, esalando sostanze altamente tossiche. Triste epilogo, più che beffardo: stanno finendo i soldi stanziati per indennizzare i malati. «Più di 5 miliardi sono già stati spesi fino ad oggi per rimborsare i morti e i danneggiati da malattie respiratorie, e ne restano soltando un paio prima che il fondo si esaurisca», scrive Mazzucco. «Purtroppo – aggiunge – il mesotelioma si rivela a volte solo dopo molti anni, per cui non è possibile sapere quanti ancora si presentaranno agli sportelli governativi per reclamare il compenso per la malattia». Ma la Casa Bianca, così pronta a inviare “aiuti umanitari” nelle nazioni di cui vorrebbe far cadere il governo, «non riesce a trovar dei soldi aggiuntivi per i morti e i malati delle Torri Gemelle», vittime – tecnicamente – della peggior “strage di Stato” della storia.Se vi chiedessero “quante persone sono morte nell’attacco alle Torri Gemelle?”, la maggioranza di voi risponderebbe: circa 3.000. Invece la cifra è di almeno 5 volte superiore, spiega Massimo Mazzucco. «Sono già oltre 15.000 le persone morte in seguito all’attacco delle Torri Gemelle, se si contano anche tutte quelle morte di cancro negli anni successivi, per aver respirato l’amianto che era contenuto nella struttura dei due grattacieli». Per tutte queste persone – soccorritori, pompieri, poliziotti, normali cittadini – il governo americano aveva stanziato circa 7 miliardi di dollari, che avrebbero dovuto ricompensare le vittime e i loro parenti nel corso degli anni. «Ma ora – vergogna dentro la vergogna – il fondo ha comunicato che i soldi stanno per finire, e che da oggi i rimborsi verranno dimezzati per tutti i nuovi malati», scrive Mazzucco, sul blog “Luogo Comune”. In due accurati documentari, “Inganno globale” (trasmesso anche da Canale 5) e “La nuova Pearl Harbor”, Mazzucco ha sbriciolato la versione ufficiale sull’attentato: le Twin Towers non possono essere crollate per l’impatto degli aerei, sono state sicuramente “demolite” in modo deliberato. Una verità tuttora inaccettabile, per moltissimi: come potrebbero mai, gli Stati Uniti, procurarsi da soli una devastazione del genere?
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Cabras: bagno di sangue a Caracas, se tifiamo per Guaidò
E’ evidente che in Venezuela siamo alla fine di un lungo ciclo politico, segnato fin qui dai governi di Chavez e Maduro. Il Venezuela cerca una svolta, e merita di trovarla. Dobbiamo tutti chiederci cosa dobbiamo fare, per assicurare una transizione pacifica, verso un nuovo equilibrio che garantisca tutti ed eviti un immenso bagno di sangue. I due blocchi sono lì, entrambi abbastanza forti da potersi giocare alla pari la partita: o la guerra civile, o la conciliazione nazionale costituzionale. Chi oggi vuole ignorare lo spettro di una guerra civile con risvolti internazionali compie un azzardo politico irresponsabile: tutti i precedenti ce lo dicono, in modo evidente. Più volte abbiamo visto potenze esterne esasperare una crisi, introdursi nel nucleo cesaristico di un potere statale, sgretolarlo e cercare di afferrarne i dividendi fra le macerie. Ma quello che riescono a creare davvero è solo il caos, fatto di infiniti compromessi coi “signori della guerra”. Noi non vogliamo vedere delle milizie che scorrazzano tra le macerie di Caracas con enormi mitragliatrici caricate sui cassoni dei pick-up come abbiamo visto a Baghdad, a Tripoli o ad Aleppo. Non vogliamo una guerra in Venezuela. Il modo migliore di evitarla è la non-interferenza, che è un ottimo principio base delle Nazioni Unite.A quanti qui a Roma pensano di aver già saputo dirimere le controversie costituzionali a Caracas propongo una constatazione semplice: noi non siamo la Corte Suprema del Venezuela. Siamo invece un paese tenuto a tutelare al meglio i propri cittadini e a rispettare la carta dell’Onu. Riconoscere Guaidò, come presidente già ora pienamente in carica, può avere risvolti politici rilevanti: ne capiamo le ragioni contingenti ma, in termini diplomatici, è un atto impraticabile e incompatibile con gli obiettivi dell’Italia, non riconosciuto né riconoscibile dall’Onu. Guidò non controlla i poteri dello Stato venezuelano, non ha presa sull’amministrazione, non dirige i ministeri, non ha in mano le forze dell’ordine, non ha strumenti per garantire gli impegni internazionali. Il rischio di un riconoscimento prematuro è quello di un vicolo cieco diplomatico, che annichilirebbe le chance per il dialogo e la lascerebbe esposta la comunità italiana in Venezuela a incertezze intollerabili. Da questo aspetto non si scappa.Nell’immediato, Guaidò può riuscire a esercitare davvero il potere solo in tre modi, che comportano tutti un enorme incremento della violenza: o un’insurrezione militare, o una rivolta popolare armata (che si scontrerebbe con l’altro blocco politico e sociale, che è abbastanza forte) oppure con un intervento straniero. E in effetti l’8 febbraio, in una dichiarazione, Guaidò dice che non esclude la possibilità di autorizzare (attenzione a questa parola: autorizzare) un intervento militare statunitense per aiutare a rimuovere dal potere il presidente Maduro, naturalmente sotto l’eterno ombrello giustificativo di una crisi umanitaria. Ecco perché sostenere le forzature istituzionali per il “regime change” significa facilitare la guerra nelle case dei venezuelani: c’è ancora qualcuno che può pensare che in Venezuela si possano tenere libere elezioni e ci sia una governabilità praticabile, in assenza di un accordo politico fra i due blocchi? E senza il supporto delle organizzazioni internazionali? Servono meccanismi di mediazione approvati dell’Onu, in ossequio all’ordinamento internazionale, con l’obiettivo di una via pacifica e democratica alla crisi del Venezuela, come il faticoso tentativo in atto con il meccanismo di Montevideo.In questi giorni ci sono state molte polemiche e distorsioni sulla nostra posizione. Siamo ben lontani dal considerare Maduro un modello di qualcosa. Ma una parte della stampa e della politica ragiona così: se non ritieni auspicabile spalleggiare una forzatura istituzionale, allora sei automaticamente un fan entusiasta del presidente. Viceversa, noi non siamo tifosi di nessuno: riteniamo che, in politica estera, sia sbagliato fare il tifo e usare approcci ideologici. E’ molto più utile capire le ragioni del consenso e del dissenso, e capire perché – a sostegno di un potere che si vuole rimuovere con la logica della “debellatio” – si muovono invece forze storiche molto solide, che hanno alleanze internazionali resistenti. La base sociale del chavismo è stata creata negli anni di punta dei prezzi elevati del petrolio. E’ un buon esercizio, leggere i dati economici degli ultimi vent’anni nella scheda-paese del Venezuela compilata dal Fondo Monetario Internazionale.Ecco, i dati ufficiali non descrivono un paradiso, ma un fenomeno politico notevole, radicato, che ha fondato ex novo uno Stato sociale dentro una rete di relazioni internazionali in cui investivano Cina, Russia e altri paesi. Uno Stato sociale oggi sfiancato dalle sue contraddizioni, degli errori gestionali, da un centro di intermediazione burocratica inadeguato e corrotto, dal calo del prezzo del petrolio e delle sanzioni di Washington, che hanno inciso pesantemente negli ultimi due anni. Si tratta tuttavia di un blocco di interessi ancora consistente, che non sopporterebbe un revanscismo che volesse smantellarlo totalmente, riportando il modello classico dell’America Latina di trent’anni fa: quello di una borghesia esclusivamente orientata al Nord America e indifferente alle disuguaglianze sociali. Dal canto suo, l’opposizione ha solidissimi rapporti con il National Endowment for Democracy, l’ente statunitense che spende ogni anno milioni di dollari (e sono tutti i dati pubblici) per sorreggere il tessuto delle organizzazioni del blocco sociale alternativo venezuelano. Insomma, tutte le grandi potenze sono portatrici di vasti interessi economici e geopolitici, non riducibili alla sola questione – pur ingombrante – del petrolio.E c’è dell’altro: qualcosa di cui finora nel nostro Parlamento non si è discusso, ma che merita l’attenzione di tutti. La recentissima fine del trattato Inf sui missili nucleari a raggio intermedio può riaprire una pericolosa corsa agli armamenti: le grandi potenze nucleari guardano all’Europa e ai Caraibi come possibile teatro di dislocazione dei nuovi missili. Non possiamo trascurare questo scenario drammatico, in grado di ridurre a pochi minuti il tempo delle decisioni che possono evitare la catastrofe atomica. L’Europa ha un interesse vitale a costruire un sistema di relazioni internazionali che sia il più lontano possibile dalla “mezzanotte nucleare”, di cui sarebbe la prima vittima. E per fare questo deve ridurre le faglie che si stanno aprendo ormai su troppi fronti interconnessi, incluso questo fronte tropicale. In Venezuela si tenga conto dell’interesse di venezuelani a trovare una via di conciliazione nazionale pacifica, indipendente, attenta alle interdipendenze mondiali e al riconoscimento democratico di tutte le formazioni sociali e politiche del paese. I due polmoni della democrazia del Venezuela devono respirare nello stesso petto.(Pino Cabras, dichirazioni rilasciate nei giorni scorsi alla Camera dei Deputati sulla crisi del Venezuela, riprese su YouTube e sul blog “Megachip”. Parlamentare del Movimento 5 Stelle, Cabras è membro della Commissione Affari Esteri della Camera).E’ evidente che in Venezuela siamo alla fine di un lungo ciclo politico, segnato fin qui dai governi di Chavez e Maduro. Il Venezuela cerca una svolta, e merita di trovarla. Dobbiamo tutti chiederci cosa dobbiamo fare, per assicurare una transizione pacifica, verso un nuovo equilibrio che garantisca tutti ed eviti un immenso bagno di sangue. I due blocchi sono lì, entrambi abbastanza forti da potersi giocare alla pari la partita: o la guerra civile, o la conciliazione nazionale costituzionale. Chi oggi vuole ignorare lo spettro di una guerra civile con risvolti internazionali compie un azzardo politico irresponsabile: tutti i precedenti ce lo dicono, in modo evidente. Più volte abbiamo visto potenze esterne esasperare una crisi, introdursi nel nucleo cesaristico di un potere statale, sgretolarlo e cercare di afferrarne i dividendi fra le macerie. Ma quello che riescono a creare davvero è solo il caos, fatto di infiniti compromessi coi “signori della guerra”. Noi non vogliamo vedere delle milizie che scorrazzano tra le macerie di Caracas con enormi mitragliatrici caricate sui cassoni dei pick-up come abbiamo visto a Baghdad, a Tripoli o ad Aleppo. Non vogliamo una guerra in Venezuela. Il modo migliore di evitarla è la non-interferenza, che è un ottimo principio base delle Nazioni Unite.
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Niente preservativo: e la Chiesa fabbrica migranti e orrori
Verrà il giorno in cui, finalmente, l’ipocrita Chiesa romana oserà pretendere una soluzione per abolirla, la povertà? Anziché predicare l’aiuto ai poveri, nascerà un Papa capace di imporre alla politica di eliminarla dalla faccia della Terra, la miseria? Se lo domanda Paolo Barnard, nell’esprimere un giudizio impietoso sulla situazione di oggi, con l’Africa che si prepara a inondare l’Europa di migranti. E non è che l’inizio dell’esodo, visto il boom demografico in corso nel continente nero. Nessun impegno, dal Vaticano, per limitare la natalità mediante l’uso dei contraccettivi. Anzi: il pontefice è intervenuto per censurare l’Ordine di Malta, che aveva tentato di promuovere gli anticoncezionali in Africa. Così i barconi continuano a solcare il Mediterraneo, dando poi modo allo sceriffo Salvini di fare il “signor no”. Tutto teatro, dice Barnard: facendosi fotografare mentre agita la croce e il rosario, il capo della Lega chiarisce che non si permetterebbe mai di contestare il potere religioso, che secondo Barnard è il vero motore dell’emigrazione. «Il tasso di natalità africano – scrive il giornalista sul suo blog – è una macchina di disperazione e di morte di proporzioni infernali: non esiste guerra, sfruttamento neo-coloniale, franco Cfa o malapolitica africana che gli possa stare vicino, come causa nella monumentale tragedia della loro povertà oggi».Secondo Barnard, nel 2019, «il vero anti-razzista e umanitarista deve guardare in faccia l’africano e l’africana e dirgli di smetterla di figliare come pazzi». Il giornalista punta il dito contro «la perversione mentale chiamata fede cristiana che noi abbiamo esportato e che continuiamo a esportare là, e che fisicamente impedisce ai metodi contraccettivi e all’educazione ai diritti riproduttivi di raggiungere le donne del continente, anche quando sono laiche e consapevoli». In Africa una donna negli anni di fertilità partorisce dai 5 ai 7 figli, in media. L’Onu prevede che, fra 30 anni, più di un miliardo di umani si aggiungerà alla già stipata Africa. «Nonostante i cosiddetti aiuti umanitari – con missionari laici o religiosi, con l’industria delle donazioni e della “caritas cristiana” – il numero totale di poveri estremi nell’Africa Sub-Sahariana è oggi più alto che nel 1981. E di nuovo: l’abnorme tasso di natalità gioca, in questo, un ruolo infernale». Le cause storiche della povertà africana le conosciamo, e sono «il nostro furto delle loro risorse ma anche la loro corruzione». Ma figliare a questo ritmo scriteriato, aggiunge Barnard, «creerebbe disperazione economica anche nella Svizzera delle banche, disintegrerebbe il potere di spesa sociale della Fed degli Stati Uniti».Insiste Barnard: il flusso dei profughi economici che vediamo oggi è solo la minuscola frazione dei fuggitivi africani che riescono ad arrivare in Libia. Ma il 99% dei futuri migranti stanno appena più a Sud, «e sono quelli che arriveranno quando la vera crisi dei migranti esploderà: sono gli africani dell’immenso bacino cattolico». Che fare? Tanto per cominciare, bisognerebbe «distribuire su scala intensiva preservativi agli africani», attraverso «programmi di educazione ai diritti riproduttivi (come evitare gravidanze non volute), in un accordo non solo con i politici, ma con le due maggiori religioni africane, cattolicesimo e Islam». Significherebbe «aiutare a prevenire almeno una notevole fetta di sofferenze umane che negli ultimi 40 anni hanno di molto superato in numeri quelle dell’Olocausto nazista». E di conseguenza, «prevenire la crisi dei migranti». Al contrario, ostacolare la contraccezione in un’Africa già irresponsabilmente riproduttiva «significa pianificare a tavolino uno sterminio, con tragedie incalcolabili, con la destabilizzazione peggiore mai vissuta dall’Europa moderna». Un fenomeno che, fra l’altro, «alimenta la proliferazione dei nuovi fascismi europei».In un’intervista del 1952, ricorda Barnard, il filosofo della scienza Bertrand Russell «non solo predisse il globale dramma delle migrazioni per povertà, ma dettò la ricetta per fermarle, auspicando allo stesso tempo equità economica nell’intero pianeta». Barnard considera Russell «la mente forse più lucida, autorevole e umanitarista del XX secolo». Nodo irrisolto, da allora: il problema demografico e la proibizione cristiana della contraccezione. «Sarà impossibile ridurre la diseguaglianza globale – disse Russell – se non raggiungeremo popolazioni numericamente stabili». Altro pericolo: i poveri oggi possono vedere come vivono i ricchi, cioè noi. «La consapevolezza, da parte di immense masse di poveri, della disparità di ricchezza fra loro e noi, ci porterà pericoli alla pace e calamità», aggiunse Russell. «E’ assolutamente giusto che Africa e Asia ottengano eguaglianza nella ricchezza con l’Occidente. Ma se si vuole evitare che l’Africa e l’Asia travolgano il mondo con immense popolazioni in estrema povertà – concluse il filosofo – esse dovranno però imparare a mantenere popolazioni numericamente stabili. E se non impareranno a controllare questo, allora inevitabilmente perderanno la loro rivendicazione di eguaglianza economica».Cosa si deve aggiungere – dice Barnard – a parole del genere? Furono pronunciate «cinquant’anni prima che chiunque, qui da noi, sentisse parlare di barconi, crisi migranti, neo-razzismo e di Salvini». Profezia lampante: «Il controllo delle nascite, quindi la contraccezione, sono vitali per l’economia e la giustizia globali». La soluzione è proprio la contraccezione, «non la demente astinenza predicata dalla Chiesa». E chi si oppone a questa politica salva-pianeta che mitigherebbe guerre, migrazioni e drammi incalcolabili? «Due fanatici della croce vaticana, Bergoglio e Salvini», scrive Barnard. Per il Vaticano «la contraccezione, in ogni sua forma, è dannazione divina, è perdizione: equivale al peggior sudiciume morale, addirittura all’infanticidio». Non importa se poi la mancata contraccezione miete milioni di vittime: «Conta la croce vaticana, che purtroppo proprio nell’Africa più disperata ha una presa pandemica sui suoi abitanti». Per Barnard, il pontefice romano e il capo leghista «sono disgustosi entrambi», per ipocrisia: il primo contribuisce direttamente alla strage, l’altro campa politicamente sull’esodo. Bergoglio? «Nell’encefalo di milioni di fessi passa come un “francescano” riformatore», come il volto nuovo (decente) della «vomitevole Chiesa storica», cioè «quella dell’opzione per i ricchi e morte ai poveri».Ma per fortuna esiste Wikileaks, continua Barnard: il network di Julian Assange rivela che Papa Francesco intervenne «in un mefitico guazzabuglio di potere» con il cattolico Ordine di Malta, il quale «per un errore di un tal Gran Cancelliere» dell’ordine religioso vaticano, di nome Albrecht Freiherr von Boeselager, «aveva osato finanziare l’uso di contraccettivi per non sovrappopolare l’Africa, e quindi per evitare non solo le infezioni da Aids ma anche per diminuire le crisi dei migranti che finiscono sui barconi». Dai documenti pubblicati da Wikileaks, il Papa si sarebbe «prodigato nel suo decennale doppiogiochismo». Barnard ricorda che Bergoglio «fu pro/anti torturatori argentini, fu pro/anti teologi della liberazione, fu pro/anti-preti pedofili, fu pro/anti Fondo Monetario Internazionale alla gola dei poveri latinoamericani, infatti aiutava una manciata di poveracci ma ostacolava la “socialista” Kirchner». Secondo Wikileaks, se da un lato ha messo sotto scacco la parte più conservatrice del vaticanissimo Ordine di Malta («dopotutto deve figurare come Francesco il progressista, no?»), dall’altro avrebbe imposto «con feroce autoritarismo» la proibizione dei contraccettivi e dei diritti riproduttivi su tutta l’Africa, «con morti per Aids, sovrappopolazione e povertà disperata come conseguenze».Ipocrisia su ipocrisia: non sono certo «i miliardi vaticani investiti in hedge funds o immobili miliardari a pagare per l’accoglienza». Per Barnard, siamo di fronte a «oggettivi crimini contro l’umanità, dettati da una fede religiosa da sempre genocida». Crimini che però «farebbero poca strada, se poi non esistessero vaste masse di complici». Fra queste, «il “popolo del capro espiatorio” in drammatica espansione in Ue, cioè le destre populiste, quelli che “tutto è colpa del migrante, anche il deficit strutturale”». Peggio di loro si comportano le “anime belle”: «Sono l’altro popolo, cioè il “popolo della caritas”, quello che in nome della propria auto-santificazione alimenta l’orrore, abbracciando la croce del genocidio anti-contraccettivo». In patria, i buonisti «lavorano per l’inutile e controproducente industria della “caritas” verso i dannati della Terra», ma spesso «vanno anche a far danni diretti nelle ormai secolari scorribande missionarie vaticane».Si indigna, Barnard: «Se questo “popolo della caritas” dedicasse quella montagna di energie a pretendere dalla politica occidentale soluzioni sistemiche alla povertà e alla sovrappopolazione del mondo, senza neppure spostarsi da casa, se questo avessero fatto da anni invece di sentirsi “buoni” e dare l’obolo o fare il viaggetto santo, noi nel 2019 non avremmo mai sentito parlare di un trionfante Salvini, di barconi, di cadaveri sul fondo del Mediterraneo, di neofascismi in tutto l’Occidente e, soprattutto, la tragedia del Terzo Mondo sarebbe ora solo un brutto ricordo». E invece ecco ogni giorno in televisione «il Santo Signore di tutti gli Ipocriti, con al seguito il vostro beniamino padano che sbraita contro l’invasione dei disperati ma bacia la croce che l’alimenta a tutta forza». Però «mica se la prende con le gabbane, il Matteo: no, solo coi disperati». Ribadisce Barnard: «Priorità per la tragedia migranti: contraccettivi e educazione ai diritti riproduttivi. Ora. Perché mentre ne respingete uno, là se ne creano 10.000».Verrà il giorno in cui, finalmente, l’ipocrita Chiesa romana oserà pretendere una soluzione per abolirla, la povertà? Anziché predicare l’aiuto ai poveri, nascerà un Papa capace di imporre alla politica di eliminarla dalla faccia della Terra, la miseria? Se lo domanda Paolo Barnard, nell’esprimere un giudizio impietoso sulla situazione di oggi, con l’Africa che si prepara a inondare l’Europa di migranti. E non è che l’inizio dell’esodo, visto il boom demografico in corso nel continente nero. Nessun impegno, dal Vaticano, per limitare la natalità mediante l’uso dei contraccettivi. Anzi: il pontefice è intervenuto per censurare l’Ordine di Malta, che aveva tentato di promuovere gli anticoncezionali in Africa. Così i barconi continuano a solcare il Mediterraneo, dando poi modo allo sceriffo Salvini di fare il “signor no”. Tutto teatro, dice Barnard: facendosi fotografare mentre agita la croce e il rosario, il capo della Lega chiarisce che non si permetterebbe mai di contestare il potere religioso, che secondo Barnard è il vero motore dell’emigrazione. «Il tasso di natalità africano – scrive il giornalista sul suo blog – è una macchina di disperazione e di morte di proporzioni infernali: non esiste guerra, sfruttamento neo-coloniale, franco Cfa o malapolitica africana che gli possa stare vicino, come causa nella monumentale tragedia della loro povertà oggi».
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Minà: stampa vile, oscura l’infame assedio del Venezuela
Un drammatico tentativo di “regime change”, al culmine di un assedio spietato. Da sei anni, cioè dalla morte di Hugo Chavez, il Venezuela è stretto nella morsa imperiale degli Usa. Vero obiettivo: mettere le mani sulla Pdvsa, la compagnia petrolifera statale. Per inciso: il Venezuela dispone della maggior riserva di petrolio al mondo. Altro da aggiungere? Certo, a pesare è l’insipienza del governo Maduro, che è solo l’ombra del leader “bolivariano” a cui è succeduto. Ma sarebbe assurdo non vedere – come fa la grande stampa – a quali difficoltà è stato costretto, l’esecutivo di Caracas, dalla micidiale macchina del Washington Consensus. Lo afferma un grande giornalista come Gianni Minà, per lunghi anni rivoluzionario conduttore di programmi che hanno fatto la storia della televisione italiana. Intervistato da Fabrizio Verde per “L’Antidiplomatico”, Minà si schiera senza esitazione dalla parte di Maduro, che nella regione è sostenuto da paesi come il Messico e Cuba, la Bolivia e l’Uruguay. Il Venezuela, scrive Verde, si trova nuovamente sotto attacco: «A Washington hanno costruito il grottesco golpe con lo sconosciuto Guaidò che si è auto-nominato presidente ad interim». Minà sottolinea «l’incongruenza della politica degli Stati Uniti praticamente da sempre». E spiega: «Non saprei definire in altro modo le numerose guerre dichiarate da Washington, nell’ultimo mezzo secolo, in nome della democrazia e della libertà».Osservando conflitti come quello del Vietnam e ultimamente quelli in Medio Oriente, aggiunge Minà, «viene da domandarsi perché tutto questo si ripeta, visto che alla fine gli yankee si devono quasi sempre ritirare e rinunciare alle loro mire iniziali». Riguardo al Venezuela, appoggiato da Russia e Cina, Gianni Minà considera drammatica la situazione, senza la possibilità di una soluzione a breve: «E questo perché nessuno vuol dispiacere al paese della libertà, quello di Trump ovviamente». Spirano venti di guerra: corriamo il rischio che Caracas diventi una nuova Damasco? «Credo proprio di sì», risponde Minà, anche se, aggiunge, «con l’auto-nomina del candidato “americano”, tutto è diventato ridicolo: specialmente se a una tale “trovata” nessuno, neanche l’Unione Europea, ha avuto il coraggio di essere dissenziente e chiaro». Per bocca di John Bolton, gli Stati Uniti hanno annunciato nuove sanzioni contro la compagnia petrolifera statale Pdvsa, quinta fornitrice di petrolio per gli Usa. Inoltre sono stati congelati ben 7 miliardi di dollari della società di Caracas. Il vero obiettivo è quello di impadronirsi del petrolio venezuelano? «Credo che questo obiettivo sia palese», conferma Minà, secondo cui siamo letteralmente alle solite: le Sette Sorelle vogliono il petrolio venezuelano. Tutto il resto è coreografia. O tragedia: «Si può condannare alla fame un paese strategico che fa comodo all’economia di un altro paese? Pare di sì, in barba a tutte le dichiarazioni di moralità e di etica della politica».Secondo Fabrizio Verde, l’informazione sul Venezuela è spesso inquinata da “fake news” propalate senza soluzione di continuità dal circuito informativo mainstream. Perché tanto accanimento contro il Venezuela? La Rivoluzione Bolivariana rappresenta un esempio scomodo per troppi paesi schiacciati sotto il tallone di ferro del neoliberismo? Minà confessa «una punta di malinconia per la fine che ha fatto il nostro mestiere». E spiega: «Non ho letto o ascoltato infatti articoli seri, ma soltanto l’esaltazione della giustezza della politica nordamericana o la propaganda ritmata per cui (ormai da sei anni, dalla morte di Chavez) esiste un piano di mortificazione dei diritti dei venezuelani». Aggiunge: «Gli errori del governo di Maduro hanno fatto il resto, ma è vile assistere a un assedio del paese che dura da tempo, si esprime con atti golpisti ogni due, tre mesi, sparisce dall’informazione per un paio di volte al mese, dopo di che aspetta i dollari che devono arrivare dagli Stati Uniti per continuare una strategia infame e finisce, da giugno, per ignorare che le elezioni le ha vinte il governo chavista. Piaccia o non piaccia agli organizzatori di questi golpe».Le elezioni di cui parla Minà sono le presidenziali del 20 maggio 2018, contestate da alcune Ong. Maduro ha stravinto ottenendo quasi il 70% dei consensi (oltre 6 milioni di voti), battendo Henri Falcon (“Avanzata progressista”) e l’indipendente Javier Bertucci. Alla tornata elettorale però avevano rifiutato di partecipare “Prima la Giustizia”, “Azione Democratica” e “Volontà Popolare”, la formazione di Guaidò. Assediato dalle manifestazioni di piazza, in un video-appello “al popolo Usa”, oggi Maduro dichiara: «È stata avanzata una campagna brutale di immagini false, di immagini truccate e montate: non credete a tutto quello che affermano i media degli Stati Uniti, ve lo dico con il cuore». L’altra notizia è che la Banca d’Inghilterra ha clamorosamente rifiutato di consegnare al governo di Caracas la riserva aurea del Venezuela, di cui il paese ha disperato bisogno. In compenso, i venezuelani sono invitati a consolarsi con gli aiuti umanitari alternativi, richiesti da Guaidò e procurati di fatto dagli stessi poteri che oggi rifiutano di restituire al Venezuela l’oro dello Stato.Un drammatico tentativo di “regime change”, al culmine di un assedio spietato. Da sei anni, cioè dalla morte di Hugo Chavez, il Venezuela è stretto nella morsa imperiale degli Usa. Vero obiettivo: mettere le mani sulla Pdvsa, la compagnia petrolifera statale. Per inciso: il Venezuela dispone della maggior riserva di petrolio al mondo. Altro da aggiungere? Certo, a pesare è l’insipienza del governo Maduro, che è solo l’ombra del leader “bolivariano” a cui è succeduto. Ma sarebbe assurdo non vedere – come fa la grande stampa – a quali difficoltà è stato costretto, l’esecutivo di Caracas, dalla micidiale macchina del Washington Consensus. Lo afferma un grande giornalista come Gianni Minà, per lunghi anni rivoluzionario conduttore di programmi che hanno fatto la storia della televisione italiana. Intervistato da Fabrizio Verde per “L’Antidiplomatico”, Minà si schiera senza esitazione dalla parte di Maduro, che nella regione è sostenuto da paesi come il Messico e Cuba, la Bolivia e l’Uruguay. Il Venezuela, scrive Verde, si trova nuovamente sotto attacco: «A Washington hanno costruito il grottesco golpe con lo sconosciuto Guaidò che si è auto-nominato presidente ad interim». Minà sottolinea «l’incongruenza della politica degli Stati Uniti praticamente da sempre». E spiega: «Non saprei definire in altro modo le numerose guerre dichiarate da Washington, nell’ultimo mezzo secolo, in nome della democrazia e della libertà».
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Bifarini: saremo invasi dagli africani “rapinati” dalla Francia
Sicuramente l’Africa è un continente strategico per le proprie ricchezze e per il proprio patrimonio di risorse naturali. È il continente più ricco al mondo, nonostante continui ad essere il più povero e destinato al sottosviluppo endemico. Tuttavia il problema che è stato scoperchiato proprio in questi giorni, attraverso le dichiarazioni di Di Maio e di Di Battista, è quello del neocolonialismo che viene esercitato in questo continente, in primis dalla Francia. Si tratta di un fenomeno molto complesso e articolato, che è alla base del sottosviluppo di questo territorio. Tutto ciò è quindi collegabile al fenomeno dell’esplosione migratoria a cui stiamo assistendo. Il problema dei flussi migratori va risolto attraverso gli accordi con i singoli Stati, così come era stato fatto in passato. Tuttavia, torno a ripetere, se non capiamo i motivi per i quali stiamo assistendo a questo fenomeno migratorio di massa, non interveniamo sui problemi reali del continente africano e ci limitiamo alla sola gestione difficoltosa dei flussi in ingresso.L’accusa di Di Maio e di Di Battista è assolutamente fondata: la Francia ruba ricchezze all’Africa, e questo avviene da sempre. Attraverso il progetto della Francafrique si è avviato un continuum del colonialismo della Francia, senza alcuna interruzione. La Francia perciò depaupera effettivamente il territorio africano imponendo il dominio delle proprie multinazionali e da sempre agisce alimentando disordini e tensioni locali. L’ingerenza della Francia in Africa è davvero importante e finalmente se ne parla. Se l’Italia viene lasciata sola dagli altri Stati europei non riusciremo a risolvere il problema, anche perché il continente africano sta vivendo un’esplosione demografica: al momento conta 1,2 miliardi di abitanti e nel 2050 è previsto un aumento fino a due miliardi e mezzo. Quindi bisogna risalire all’origine del problema che spinge questi flussi migratori e capire una volta per tutte, scoperchiando il vaso di Pandora del neocolonialismo: perché questi paesi non sono riusciti a svilupparsi, perché non hanno uno sviluppo della propria economia locale, quali sono gli ostacoli che l’hanno impedito e che fine hanno fatto i fiumi di miliardi di dollari che sono stati inviati come aiuti umanitari.Finalmente il problema è stato sollevato e va analizzato in tutta la sua complessità, anziché continuare ad agire secondo direttive e metodi che non hanno funzionato. Smettiamola di stanziare fondi che poi non sappiamo come vengono spartiti. Nel mio libro, che in questi giorni è stato aggiornato con un focus sul neocolonialismo francese in Africa, spiego come il neocolonialismo agisca dalla fase di decolonizzazione ai giorni nostri e soffochi il continente africano, fenomeno che però si continua ad ignorare. Si continua a reagire con il solito finto buonismo di chi parla di accoglienza, di colpe da parte dell’Italia per un passato coloniale che ormai appartiene alla storia. Nessuno si è mai preoccupato di analizzare cosa succeda in Africa, chi sfrutti l’Africa. La Francia deve assumersi le proprie responsabilità, è ora di porre fine a questa ipocrisia. Tra l’altro pochi giorni fa è stata rafforzata questa egemonia ad Aquisgrana con l’asse franco-tedesco. Per cui l’Italia si trova ad essere sempre criticata e tenuta a rispettare le regole e i parametri che le vengono imposti, mentre si chiudono gli occhi di fronte allo scandaloso fenomeno neocolonialista che operano i francesi in Africa.(Ilaria Bifarini, dichiarazioni rilasciate a Tatiana Santi per l’intervista “L’Italia e il neocolonialismo francese”, pubblicata su “Sputnik News” il 25 gennaio 2019. Economista e scrittrice, la Bifarini è autrice del saggio “I coloni dell’austerity” (Altaforte Edizioni): è stata la prima, in Italia, ad aver sollevato il caso del neocolonialismo francese in Africa nel contesto delle migrazioni di massa).Sicuramente l’Africa è un continente strategico per le proprie ricchezze e per il proprio patrimonio di risorse naturali. È il continente più ricco al mondo, nonostante continui ad essere il più povero e destinato al sottosviluppo endemico. Tuttavia il problema che è stato scoperchiato proprio in questi giorni, attraverso le dichiarazioni di Di Maio e di Di Battista, è quello del neocolonialismo che viene esercitato in questo continente, in primis dalla Francia. Si tratta di un fenomeno molto complesso e articolato, che è alla base del sottosviluppo di questo territorio. Tutto ciò è quindi collegabile al fenomeno dell’esplosione migratoria a cui stiamo assistendo. Il problema dei flussi migratori va risolto attraverso gli accordi con i singoli Stati, così come era stato fatto in passato. Tuttavia, torno a ripetere, se non capiamo i motivi per i quali stiamo assistendo a questo fenomeno migratorio di massa, non interveniamo sui problemi reali del continente africano e ci limitiamo alla sola gestione difficoltosa dei flussi in ingresso.
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L’Oxfam: povera Europa, continua a suicidarvi con il rigore
Attraverso un briefing paper del settembre 2013, passato piuttosto in sordina ai globocrati di Bruxelles e ai neoliberisti impenitenti, l’Oxfam aveva lanciato lanciato un monito deciso e inequivocabile all’Europa, affinché abbandonasse le rovinose politiche economiche dell’austerità. Lo ricorda sul suo blog Ilaria Bifarini, “bocconiana redenta”, autrice di saggi sulla catastrofe del neoliberismo di cui in Europa l’Ue e la Bce sono i principali guardiani. Una politica – quella dell’austerity – che preoccupa seriamente l’Oxfam, una confederazione internazionale di organizzazioni no-profit che si dedicano alla riduzione della povertà globale, attraverso aiuti umanitari e progetti di sviluppo. «I programmi di austerità attuati in Europa hanno smantellato le misure di riduzione della disuguaglianza e di stimolo alla crescita equa», scrive l’Ofxam. «Con tassi di disuguaglianza e povertà in crescita, l’Europa sta vivendo un decennio perduto: se queste misure continueranno – scriveva l’associazione, nel suo rapporto di ormai cinque anni fa – altri 15-25 milioni di persone in Europa potrebbero diventare poveri entro il 2015».
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Africa impoverita, migranti in fuga dal neoliberismo usuraio
Il suo nuovo libro si chiama “I coloni dell’austerity. Africa, neoliberismo e migrazioni di massa”. Ilaria Bifarini stavolta si concentra sullo sviluppo mai raggiunto dal continente africano, dopo averci parlato di “Neoliberismo e manipolazione di massa” nella sua prima opera di successo. L’economista, che si definisce ‘bocconiana redenta’ come da sua bio social, parte da alcune domande semplici, ma a cui nessuno ha ancora risposto: dove sono finiti i miliardi di aiuti umanitari ai paesi africani? Perché dopo la fine degli imperi coloniali non si è avviato un modello di sviluppo e di crescita? Cosa spinge gli attuali flussi migratori di massa provenienti dall’Africa subsahariana? “Lo Speciale” ha deciso di fare con lei un “viaggio” nell’economia del continente africano, cercando di scoprire le ragioni di tanto sfruttamento senza alcuna crescita. E’ corretto o è una visione parziale che gli aiuti all’Africa hanno ucciso l’Africa? Tra il 1970 e il 1998, il tasso di povertà è salito da 11% al 66% per questo? «Nonostante la narrazione buonista diffusa dal mainstream, quando si parla di aiuti in Africa si fa riferimento principalmente ai prestiti concessi per rimborsare e rinegoziare il debito, sotto la regia del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale».«Si tratta di somme di denaro legate a delle condizionalità, ossia all’implementazione di politiche neoliberiste, improntate alla massima apertura commerciale, alle liberalizzazioni, ai tagli alla spesa pubblica e alle privatizzazioni. In pratica una forma di ricatto che ha impedito all’Africa postcoloniale di uscire dalla trappola del sottosviluppo e anzi ne ha aumentato la povertà». Ma l’Africa non ha bisogno di investimenti infrastrutturali e modernizzazione dei sistemi per uscire dalla povertà? «L’Africa ha bisogno di liberarsi dal giogo dell’iperglobalizzazione, di proteggere i propri mercati e di sviluppare un’economia propria, basata sulla produzione e il consumo locale. Il modello imposto dalle organizzazioni internazionali, basato sul massimo ricorso al libero scambio, prevede che si esportino beni di prima necessità sottratti al consumo e si importi il resto, impedendo così la nascita di un’industria locale. L’emigrazione non può essere una soluzione per queste economie, sebbene molti sostengano che le rimesse di denaro nei paesi di origine possano aiutare l’economia locale. Esse in realtà non danno alcun impulso allo sviluppo di iniziative e imprese locali, ma arricchiscono solo il fiorente business delle società di trasferimento di denaro».Secondo la sua tesi, invece, il debito pubblico è uno strumento già utilizzato in Africa per impedire crescita e per improntare la globalizzazione della povertà. È proprio un’altra visione. Da quali prove la fa partire? «Proprio a seguito della crisi del debito del Terzo Mondo del 1982 sono stati introdotti i cosiddetti piani di aggiustamento strutturale. Questi programmi prevedono l’accettazione totale e acritica da parte dei paesi poveri del modello economico neoliberista, presentato come condizione indispensabile per lo sviluppo e per l’uscita dalla crisi. Gli effetti disastrosi sono sotto gli occhi di tutti. L’Africa è entrata nella spirale del pagamento degli interessi del debito: dal 1982 al 1990 ha restituito 400 miliardi di dollari di soli interessi. Una situazione che presenta molte analogie con quella che stiamo vivendo in Europa e in Italia in particolare».La Cina è in Africa e più che quella comunista è quella capitalista, le due cose ormai si fondono. Come è potuta accadere questa “rivoluzione” e perché l’Africa è così appetibile da chi commercia e chi vuole produrre «L’Africa è il continente più ricco al mondo di risorse naturali e minerarie, è quindi un ottimo mercato per la Cina, che pure deve far fronte alla propria pressione demografica e alla sempre maggiore richiesta di beni. I funzionari cinesi hanno stimato che il loro paese ha necessità di inviare in Africa ancora 300 milioni di persone per risolvere i problemi interni di sovrappopolazione e inquinamento. La Cina sta occupando l’intero continente africano, concedendo prestiti a tassi bassissimi e appropriandosi di tutti i settori strategici e i ricchi giacimenti di risorse naturali. Per contro la popolazione africana ripone speranze e fiducia nel Dragone cinese che, a differenza dei paesi occidentali, non ha un passato coloniale e non impone il proprio modello economico e sociale».(Ilaria Bifarini, “La spirale del debito neoliberista ha ucciso l’Africa, ora l’Europa”, intervista rilasciata a “Lo Speciale” il 27 marzo 2018. Il libro: Ilaria Bifarini, “I coloni dell’austerity”, sottititolo “Africa, neoliberismo e migrazioni di massa”, 205 pagine, edito da Amazon, con prefazione di Giulietto Chiesa).Il suo nuovo libro si chiama “I coloni dell’austerity. Africa, neoliberismo e migrazioni di massa”. Ilaria Bifarini stavolta si concentra sullo sviluppo mai raggiunto dal continente africano, dopo averci parlato di “Neoliberismo e manipolazione di massa” nella sua prima opera di successo. L’economista, che si definisce ‘bocconiana redenta’ come da sua bio social, parte da alcune domande semplici, ma a cui nessuno ha ancora risposto: dove sono finiti i miliardi di aiuti umanitari ai paesi africani? Perché dopo la fine degli imperi coloniali non si è avviato un modello di sviluppo e di crescita? Cosa spinge gli attuali flussi migratori di massa provenienti dall’Africa subsahariana? “Lo Speciale” ha deciso di fare con lei un “viaggio” nell’economia del continente africano, cercando di scoprire le ragioni di tanto sfruttamento senza alcuna crescita. E’ corretto o è una visione parziale che gli aiuti all’Africa hanno ucciso l’Africa? Tra il 1970 e il 1998, il tasso di povertà è salito da 11% al 66% per questo? «Nonostante la narrazione buonista diffusa dal mainstream, quando si parla di aiuti in Africa si fa riferimento principalmente ai prestiti concessi per rimborsare e rinegoziare il debito, sotto la regia del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale».
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Expo-guerra, il bazar galleggiante dell’Italia che affonda
Il nemico complotta contro l’Italia fino a farla crollare, ma la portaerei Cavour – ammiraglia della marina militare, costata 3,5 miliardi – non si dirige contro chi attenta alla vita e al futuro degli italiani, tramando per devastare l’economia, impoverire il paese e trascinarlo nella catastrofe sociale pianificata tra Bruxelles e Berlino, Wall Street e Francoforte. Al contrario, la grande nave trasformata in expò galleggiante del made in Italy bellico preferisce incrociare in acque lontane: «Si vanno a vendere altre armi ai paesi mediorientali e africani, dominati da oligarchie e caste militari, provocando un ulteriore aumento delle loro spese militari che comporterà un ulteriore aumento della povertà soprattutto in Africa», scrive il “Manifesto”. Scopo ufficiale della “campagna navale” organizzata dal governo Letta, è presentare il “sistema paese” in movimento e «rafforzare la presenza dell’Italia nelle aree geografiche considerate strategiche per gli interessi nazionali», senza trascurare la consueta ipocrisia della «assistenza umanitaria alle popolazioni bisognose».Per il ministro Mauro, il bazar navigante – ribattezzato “crociera di morte” – non andrà a vendere armi di distruzione di massa al di fuori dalle convenzioni internazionali, ma resta una «missione di promozione» che incrocerà aree dove impazzano guerre e repressioni, come ad esempio Congo, Nigeria e Kenya, o terre «dove governi potenti finanziano guerre per procura», scrivono Manlio Dinucci e Tommaso Di Francesco, indicando paesi come l’Arabia Saudita impegnata in Siria, o il Barhein con la sua “primavera” cancellata dai militari. Regioni del mondo «dove le spese sociali vengono ridimensionate se non cancellate per sostenere la sicurezza interna e le frontiere, come in Angola e Mozambico». Oman, Dubai, Doha, Gibuti, Madagascar, Sudafrica, Ghana, Senegal, e poi su fino a Casablanca in Marocco, e poi Algeri. In navigazione fino al 7 aprile 2014. Costo: 20 milioni di euro, di cui 7 a carico dello Stato e 13 dei “partner dell’industria privata”. «Soldi ben spesi: potranno usare la portaerei, lunga 244 metri e larga 39, come una grande fiera espositiva itinerante», con stand per accogliere i clienti. Prezzo amico: 200.000 euro per ogni giorno di navigazione.La portaerei non venderà certo l’immagine turistica dell’Italia: gli “ambasciatori” del paese sono le industrie di Finmeccanica come Agusta-Westland (elicotteri da guerra), Oto Melara (cannoni), Selex Es (sistemi radar e di combattimento), Wass (siluri), Telespazio (satelliti), e poi Mbda, coi suoi missili Aspide, Aster, Teseo. Poi ci sono la Intermarine (vascelli militari) e Elt, che offre apparecchiature elettroniche per la guerra aerea, terrestre e navale, mentre Beretta mette in mostra le sue pistole, accanto agli stand di lusso che presentano gli aerei executive della Piaggio e della Blackshape. «Ogni cannone, ogni missile, ogni mitraglia venduta dai commessi viaggiatori della Cavour ai governi clienti – scrivono i giornalisti del “Manifesto” – significherà meno investimenti locali nel sociale e quindi altre migliaia di bisognosi, affamati e morti, soprattutto tra i bambini, per sottoalimentazione cronica e malattie che potrebbero essere curate». Ma niente paura, sulla nave «ci sono anche gli “operatori umanitari” pronti a soccorrere i disperati che abbiamo contribuito a creare con il traffico di armi, per dimostrare quanto l’Italia sia sensibile e pronta ad aiutare “le popolazioni bisognose”».Il nemico complotta contro l’Italia fino a farla crollare, ma la portaerei Cavour – ammiraglia della marina militare, costata 3,5 miliardi – non si dirige contro chi attenta alla vita e al futuro degli italiani, tramando per devastare l’economia, impoverire il paese e trascinarlo nella catastrofe sociale pianificata tra Bruxelles e Berlino, Wall Street e Francoforte. Al contrario, la grande nave trasformata in expò galleggiante del made in Italy bellico preferisce incrociare in acque lontane: «Si vanno a vendere altre armi ai paesi mediorientali e africani, dominati da oligarchie e caste militari, provocando un ulteriore aumento delle loro spese militari che comporterà un ulteriore aumento della povertà soprattutto in Africa», scrive il “Manifesto”. Scopo ufficiale della “campagna navale” organizzata dal governo Letta, è presentare il “sistema paese” in movimento e «rafforzare la presenza dell’Italia nelle aree geografiche considerate strategiche per gli interessi nazionali», senza trascurare la consueta ipocrisia della «assistenza umanitaria alle popolazioni bisognose».
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Fiscal Compact, Guarino: il pareggio di bilancio è illegale
Il pareggio di bilancio previsto dal Fiscal Compact? Da gettare nella spazzatura della storia. Azzerare il debito pubblico non è solo insostenibile, è anche illegale: perché viola il Trattato di Lisbona, che il debito pubblico lo ammette eccome, anche se limitato al 3% del Pil secondo una teoria “cabalistica” che si vuole risalente a una semplice boutade dell’allora presidente francese Mitterrand: «Il numero 3 suonava bene, ed era perfetto per togliermi di torno i ministri che mi assediavano con le loro continue richieste di soldi». Fondato sul contenimento ossessivo della spesa pubblica, il regime finanziario europeo non deriva da alcuna scienza economica, ma solo dall’ideologia dominante che prescrive di colpire lo Stato per favorire i grandi monopoli economici privati. E persino nella sua applicazione formale le autorità europee stanno violando la legge. Lo sostiene un giurista di peso internazionale come il professor Giuseppe Guarino, già docente di Cossiga ed esaminatore di Napolitano e Draghi, nonché ministro democristiano (finanze e industria) dall’87 al ’93. “Il teorico dell’euro-caos”, lo ribattezza la versione tedesca del “Financial Times”.
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Rotta su Gaza: anche la mamma di Vittorio con la Flotilla
Rotta su Gaza, nel nome di Vittorio Arrigoni: anche la madre, Egidia Beretta, viaggerà a bordo della flotta umanitaria che salperà da diversi porti del Mediterraneo a fine maggio. «Voglio vedere Gaza che mio figlio amava tanto, e per cui si è sacrificato», dichiara la signora Beretta. «Voglio incontrare la brava gente che vive là, e di cui mio figlio Vittorio parlava sempre». Un viaggio rischioso: come già l’anno scorso, i militari israeliani potrebbero sparare e uccidere. Nonostante ciò, proprio la feroce esecuzione di Vittorio Arrigoni sta gonfiando le liste dei partenti: la nave italiana “Stefano Chiarini” salperà da Genova.