Archivio del Tag ‘agricoltura’
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Fatto fuori anche Gratteri, così Renzi si rottama da solo
Nel 1994 era stato Cesare Previti, l’avvocato degli affari sporchi di Silvio Berlusconi, a entrare al Quirinale come Guardasigilli in pectore e a uscire degradato. Sull’onda dell’indignazione suscitata dalla scoperta di Tangentopoli, il Colle aveva detto no. E Previti era finito alla Difesa. Oggi, nel mondo alla rovescia dei ladri e della Casta, a venir depennato all’ultimo momento dalla lista ministri è Nicola Gratteri, stimato magistrato antimafia, la cui colpa principale è quella di aver sognato di poter far funzionare la giustizia anche in Italia. Gratteri resterà in Calabria. E per la gioia della ‘ndrangheta, delle consorterie politico-mafiose e dell’Eterno Presidente, Giorgio Napolitano, in via Arenula ci finisce l’ex ministro dell’Ambiente, Andrea Orlando, celebre per aver chiesto l’abolizione dell’ergastolo e proposto l’abrogazione dell’obbligatorietà dell’azione penale.È il segno più evidente di come il rottamatore Matteo Renzi prosegua imperterrito nella distruttiva opera di auto-rottamazione e di demolizione del sogno di cambiamento che aveva rappresentato per molti italiani. Una stolta manovra iniziata con il tradimento e il successivo brutale accoltellamento politico del mediocre Enrico Letta, a cui il nuovo premier aveva più volte pubblicamente e bugiardamente assicurato lealtà. Certo, sull’esclusione all’ultimo minuto di Gratteri in molti vedono le impronte digitali di Napolitano. Il presidente del secondo paese più corrotto d’Europa, noto per aver lesinato solo i moniti in materia di legalità della politica, ovviamente esclude ogni responsabilità. Resta però da spiegare come mai, stando a quello che risulta per certo a “Il Fatto Quotidiano”, al magistrato fosse stato assicurato il dicastero solo pochi minuti prima della salita di Renzi al Colle. E perché Napolitano, pubblicamente, abbia poi tenuto a precisare – con una sorta di excusatio non petita – che tra lui e Renzi non era avvenuto nessun “braccio di ferro” sulla lista dei ministri.Nelle prossime ore le notizie su quello che è esattamente accaduto durante il lunghissimo faccia a faccia tra il neopremier e l’ottuagenario capo dello Stato, non mancheranno. Non c’è invece bisogno di retroscena per capire tutto il resto. Bastano i curricula dei ministri più importanti. Nella lista spiccano i nomi dell’esponente di Confindustria e della Commissione Trilaterale, Federica Guidi (Sviluppo economico), quello del presidente della Lega Cooperative, Giuliano Poletti, dell’ex delfino di Berlusconi, Angelino Alfano (Interno), e del ciellino Maurizio Lupi (Infrastutture). Mentre all’Economia ci finisce Pier Carlo Padoan, capo economista dell’Ocse e ex presidente della Fondazione italiani europei di Massimo D’Alema, e alle Politiche, Agricole Maurizio Martina, già pupillo di Filippo Penati, l’ex presidente della Provincia di Milano sotto processo per le tangenti di Sesto San Giovanni.Il fatto che Renzi sia riuscito a mettere insieme una squadra formata al 50 per cento da donne, che l’età media dell’esecutivo sia piuttosto bassa, non servirà al premier per cancellare negli elettori la sensazione di trovarsi di fronte a un consiglio dei ministri espressione di quelle lobby da più parti ritenute responsabili del degrado del paese. È infatti più che ragionevole dubitare che il suo obamiano programma di governo (“una riforma al mese”) possa essere messo in atto da una compagine del genere. Perché questo non è un dream team, ma solo una galleria di errori e orrori. Così già oggi sappiamo che ha vinto il Gattopardo. #lavoltabuona può attendere.(Peter Gomez, “Governo Renzi auto-rottamato, fatto fuori Gratteri restano solo lobby e gattopardi”, da “Il Fatto Quotidiano” del 21 febbraio 2014).Nel 1994 era stato Cesare Previti, l’avvocato degli affari sporchi di Silvio Berlusconi, a entrare al Quirinale come Guardasigilli in pectore e a uscire degradato. Sull’onda dell’indignazione suscitata dalla scoperta di Tangentopoli, il Colle aveva detto no. E Previti era finito alla Difesa. Oggi, nel mondo alla rovescia dei ladri e della Casta, a venir depennato all’ultimo momento dalla lista ministri è Nicola Gratteri, stimato magistrato antimafia, la cui colpa principale è quella di aver sognato di poter far funzionare la giustizia anche in Italia. Gratteri resterà in Calabria. E per la gioia della ‘ndrangheta, delle consorterie politico-mafiose e dell’Eterno Presidente, Giorgio Napolitano, in via Arenula ci finisce l’ex ministro dell’Ambiente, Andrea Orlando, celebre per aver chiesto l’abolizione dell’ergastolo e proposto l’abrogazione dell’obbligatorietà dell’azione penale.
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Meno e meglio: oggi sprechiamo metà del nostro cibo
Le grandi aziende tramutano lo sperpero alimentare nel nuovo “trending topic” del marketing sociale aziendale. «Gli attuali dati sugli sprechi alimentari sono uno scandalo etico e morale», accusa Javier Guzmàn, direttore del centro Vsf che si occupa di “giustizia alimentare globale”. In Europa, si perdono o sperperano tra il 30% e il 50% degli alimenti sani e ancora commestibili lungo tutti gli anelli della catena agroalimentare, fino ad arrivare al consumatore finale. Le quantità alimentari che annualmente si sprecano nei 27 stati membri sono 89 milioni di tonnellate, ossia 179 chili per abitante. E senza contare quelle di origine agricola, generate nei processi di produzione, né gli scarti del pescato rigettato a mare. In un’uniformativa sui rifiuti alimentari, la stessa Fao segnala che nel 2007 la terra coltivata per generare sprechi era di 1,4 miliardi di ettari, il 28% della superficie coltivabile a livello mondiale, proprio mentre sta crescendo la pressione su queste risorse a fini non alimentari, cioè per speculazioni finanziarie o per produrre agrocombustibili.In Spagna, sottolinea Guzmàn in un post su “Rebeliòn” ripreso da “Come Don Chisciotte”, ogni anno finiscono nella spazzatura 2,9 milioni di tonnellate di alimenti, in un paese dove secondo la Caritas ci sono 9 milioni di persone ridotte in povertà, con meno di 6.000 euro all’anno. Nel 2012, il Parlamento Europeo ha sollecitato gli Stati membri a impegnarsi a dimezzare gli sprechi entro il 2050. Sempre in Spagna, il ministero dell’agricoltura ha chiesto alla grande distribuzione di ridurre gli sperperi alimentari. In realtà, sostiene Guzmàn, si tratta di campagne che mirano a «nascondere deliberatamente le responsabilità dell’attuale industria agroalimentare», a cominciare dalla reale quantità – tenuta nascosta – dei rifiuti alimentari prodotti. Tesi: «Provano a farci credere che l’attuale spreco alimentare non è una conseguenza del modello agroalimentare imposto negli ultimi anni dalle grandi aziende». Sprechi osceni, a livello globale? Sì, ma secondo loro la colpa è nostra, dei consumatori “spreconi”: compriamo troppe merci, non sappiamo utilizzare al meglio i prodotti, trascuriamo le date di scadenza. Siamo stupidi, compulsivi e irresponsabili.«Scegli i tuoi prodotti secondo le necessità della tua casa», raccomanda la campagna del ministero spagnolo dell’agricoltura. «Prima di programmare un acquisto controlla lo stato degli alimenti che hai in casa, soprattutto i prodotti freschi o con data di scadenza. E pianifica il menù giornaliero o settimanale tenendo conto del numero di persone che mangiano». Ma le grandi aziende agroalimentari e i governi non hanno nessuna colpa? «Se mettiamo a fuoco le industrie e le loro strategie – osserva Guzmàn – cominceremo a vedere i contorni di una responsabilità immensamente superiore». Primo fronte, le quantità di merci immesse: l’Europarlamento insiste sul fatto che gli “agenti della catena alimentare” sono i primi responsabili. L’industria apporta il 39% dei rifiuti, mentre ristoranti, catering e supermercati contribuiscono ad appesantire il sistema ecologico per un altro 20%. Naturalmente, «imprese, governi e lobby alimentari danno per inevitabili queste percentuali». L’industria è responsabile anche nel consumo finale, visto che la maggior parte dei rifiuti domestici sono dovuti gli imballaggi. In Spagna, l’80% degli acquisti alimentari è effettuato all’ipermercato (infatti i piccoli negozi, che prima del 2000 erano ancora 95.000, in pochi anni si sono ridotti a 25.000).Inoltre, con la scusa di “migliorare l’efficienza del processo”, le industrie «integrano le “banche alimentari” nella catena agroalimentare», e così «prendono due piccioni con una fava», perché «migliorano l’immagine aziendale e riducono i costi del trattamento dei rifiuti». Una strategia che, alla fine, «rende cronico un intervento assistenziale che di norma sarebbe d’emergenza temporanea» come il “last minute market” dei prodotti vicini alla scadenza, «facendolo invece diventare parte integrante della “catena”», tra l’altro «dimenticando che questi interventi generano stigmatizzazioni sociali e molte volte l’offerta alimentare non è poi adeguata, con mancanza di alimenti freschi, con alimenti trasformati, poveri di nutrimento e sproporzionati a livello di energie, grassi saturi e carboidrati, favorendo così malattie cardiovascolari e diabete». Tuttavia, continua Guzmàn, queste campagne «vengono spacciate come punti di forza», sia dalla Ue che dalla Fao, come fossero davvero utili per ridurre i rifiuti alimentari e promuovere agricoltura territoriale piccoli negozi locali. Le filiere corte evitano dispersioni sia nella produzione, non soggetta ai canoni standard dell’agroindustria, sia nella distribuzione, perché il prodotto locale «non necessita di una grande catena del freddo e di trasporto per arrivare al consumatore finale».Inoltre, la vendita diretta «migliora l’incontro tra offerta e domanda, consumando esattamente ciò di cui necessitiamo». Così, si creano «prezzi equi per i produttori, posti di lavoro e indotto, dinamizzazione del territorio e rivalorizzazione del mondo rurale, incremento generale della qualità nutritiva degli alimenti». E’ la strada che sta battendo la Francia, fino a ieri “regina” europea della grande distribuzione. Il governo di Parigi, ricorda Guzmàn, si sta impegnando anche a livello legislativo per favorire l’economia a chilometri zero: incentivi per la produzione e la trasformazione locale, adeguamento delle norme igienico-sanitarie alle caratteristiche della piccola produzione e iniziative di sostegno diretto come l’acquisto di alimenti per scuole, ospedali e università, presso agricoltori e allevatori locali, «convertendo lo sviluppo dell’agricoltura locale in uno dei pilastri centrali della strategia contro gli sprechi». La Spagna resta lontana. Solo il 3% degli agricoltori iberici ha accesso alla vendita diretta, contro il 20% dei colleghi francesi. Volendo, conclude Guzmàn, basterebbe imitare la Francia per rilanciare l’economia virtuosa dei territori, abbattendo così anche il costo dei rifiuti agroalimentari.Le grandi aziende tramutano lo sperpero alimentare nel nuovo “trending topic” del marketing sociale aziendale. «Gli attuali dati sugli sprechi alimentari sono uno scandalo etico e morale», accusa Javier Guzmàn, direttore del centro Vsf che si occupa di “giustizia alimentare globale”. In Europa, si perdono o sperperano tra il 30% e il 50% degli alimenti sani e ancora commestibili lungo tutti gli anelli della catena agroalimentare, fino ad arrivare al consumatore finale. Le quantità alimentari che annualmente si sprecano nei 27 stati membri sono 89 milioni di tonnellate, ossia 179 chili per abitante. E senza contare quelle di origine agricola, generate nei processi di produzione, né gli scarti del pescato rigettato a mare. In un’informativa sui rifiuti alimentari, la stessa Fao segnala che nel 2007 la terra coltivata per generare sprechi era di 1,4 miliardi di ettari, il 28% della superficie coltivabile a livello mondiale, proprio mentre sta crescendo la pressione su queste risorse a fini non alimentari, cioè per speculazioni finanziarie o per produrre agrocombustibili.
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Seminare avvenire: orticoltori di tutta Europa unitevi
E’ nata, ufficialmente, la Libera Repubblica degli Orti. Si estende dal Piemonte alla Provenza, lungo la frontiera tra Italia e Francia, dalle Alpi fino al Mediterraneo. E’ popolata di melanzane, peperoni, cavolfiori, fagioli, meloni. Non sono prodotti qualsiasi: sono antiche varietà locali, messe in salvo dai loro agricoltori-custodi. Obiettivo: preservare la biodiversità che arricchisce i territori e i consumatori. «Si tratta di specie autoctone, di grande qualità, selezionate nel corso dei decenni e ben adattatesi al clima delle loro zone», dicono Vianney Le Pichon e Massimo Pinna, sviluppatori del progetto europeo “Una rete per le biodiversità transfrontaliere”. Il network ha aggregato decine di coltivatori-pionieri e li ha messi in contatto: oggi i loro saperi sono condivisi, e i semi dei rispettivi ortaggi – italiani e francesi – fanno parte di una sorta di “banca” e sono a disposizione di chiunque voglia impegnarsi a propagarli, seminandoli nel proprio orto, in barba ai diktat sempre più invadenti che favoriscono la grande distribuzione a vantaggio delle varietà industriali, che puntano tutto sulla resa a scapito della qualità.Piccolo è bello: mai stato più vero. «Da parte nostra – dice Marie Beysson, giovane coltivatrice di peperoni nella zona del Vaucluse – si tratta di offrire ai consumatori un’alternativa valida, permettendo loro di assaggiare sapori diversi». Fa eco il conterraneo Thierry Varis: «Rinunciare agli ibridi e puntare sui semi autoprodotti significa scommettere sul valore del gusto e della genuinità». Filiere corte, chilometri zero, economia locale dei territori. Volendo, sovranità alimentare. E riconversione ecologica del sistema produttivo. Decrescita virtuosa: se ad essere tagliati sono gli sprechi (trasporti, carburante, energia) ci guadagnano tutti. Il video “Seminare futuro”, che documenta il ciclo vitale del progetto, offre un piccolo affresco di umanità resistente, pienamente consapevole del difficile momento mondiale. «Noi teniamo duro – taglia corto Alberto Lombardo, dalla valle di Susa – perché la salvaguardia del territorio non ha prezzo, e la piccola agricoltura locale resta un baluardo».La pensa così anche Eraldo Dionese, agricoltore-poeta delle Langhe, con all’attivo libri di versi pubblicati da Vallecchi. Eraldo è un “mago” dei fagioli: i suoi “scozzesi” vanno a ruba, contesi dai gruppi d’acquisto solidale. Dice: «Il mercato ci ha abituati a “comprare con gli occhi”, trascurando gli ortaggi più rari e più validi: bisogna impegnarsi a farli sopravvivere, bisogna crederci». Il progetto – presentato nel sito ufficiale – è anche una piccola narrazione di ritrovamenti fortunati. «Lavorando negli impianti vinicoli di Gigondas, a nord di Avignone – racconta Françoise Genies – un giorno mio marito si è imbattuto in un pomodoro particolarissimo, assolutamente delizioso e sconosciuto: l’ho recuperato, e ora è diffuso in diverse zone del Vaucluse, per la felicità dei consumatori». Il paniere della “rete transfrontaliera” trabocca di delizie poco note: la cipolla piatta di Leinì, il prelibato ravanello di Moncalieri, il pisello “quarantin” di Casalborgone, l’insalatina invernale di Castagneto Po che cresce anche sotto la neve.Sul versante francese si segnalano varietà rare come la lattuga sanguigna, coltivata dai suoi agricoltori-custodi sulle colline di Saignon in una sorta di campo sperimentale per le biodiversità orticole, coordinato da Jean-Luc Danneyrolles e Hervé Coullet. Ci sono melanzane locali, pomodori-cachi, peperoncini della Costa Azzurra e peperoni come quello di Lagnes, recuperati grazie alle risorse genetiche di un istituto come l’Inra e ora al centro di un vasto programma di reintroduzione, per dare vita a una filiera locale in grado di realizzare sul posto anche la trasformazione del prodotto. Piccoli passi, ma significativi, partendo dalle verdure di stagione, che grazie all’impegno degli agricoltori-custodi stanno tornando stabilmente sui mercati locali. «E sono tutti prodotti rustici, robusti», assicura Vianney Le Pichon. Ortaggi conservati per generazioni dalla sapienza contadina, oggi trasferita a quelli che vengono chiamati “seed savers”.Orticoltori di tutta Europa unitevi. Il momento è propizio: sotto i colpi della crisi economica, cresce ovunque il ritorno alla passione per l’orto, come dimostra anche il proliferare degli orti urbani nelle grandi città. Il progetto transfrontaliero, fondato sull’incontro sistematico tra italiani e francesi, lascia intravedere un germe di futuro, un possibile modello socio-economico alternativo e pieno di vantaggi: «C’è più autonomia per gli agricoltori, che scelgono di coltivare i prodotti che preferiscono», dice Massimo Pinna, «e al tempo stesso più scelta per i consumatori, a cui si offrono varietà locali e genuine». Un modello da replicare: condividendo i suoi saperi sulla coltivazione del proprio prodotto, ogni singolo agricoltore più aiutarlo a sopravvivere e diffondersi, scongiurando l’estinzione. «Il nostro nemico infatti è l’erosione genetica, che impoverisce il patrimonio della biodiversità europea», dice Antonio Balbo, di Leinì. «Coltivare ortaggi locali – insiste Alberto Lombardo – significa anche fare cultura, perché dietro di essi c’è sempre l’umanità».C’è da augurarsi che la “rete delle biodiversità” valichi altri confini europei, sviluppando un’alleanza ecologica e sostenibile fra territori, contadini, consumatori. Del resto, le vie dei semi sono infinite: «Ho recuperato un fagiolo in via di estinzione, il “crochet di Nizza”, grazie a un’appassionata italiana che ho incontrato casualmente a una fiera», racconta Arnaud Dauvillier, agricoltore a Sisteron nella valle della Durance. «Io invece ho già provato a piantare nel mio terreno, con ottimi risulati, i semi che ho ricevuto dai colleghi italiani: sono prodotti come il cavolfiore di Moncalieri e il peperone di montagna», racconta Sylvain Martin, che riesce a coltivare ottimi ortaggi in alta montagna, nel parco nazionale francese degli Écrins. Loris Leali, originario del lago di Garda, si è trasferito in Provenza e ha impiantato un’azienda biologica sulle alture che sovrastano Nizza, a Massoins, nella valle del Var: «Spero che domani i semi recuperati da questo progetto possano diventare patrimonio comune», dice. «Abbiamo bisogno di conoscerci, di essere uniti e solidali, di scambiarci saperi». Anche questa è Europa, sebbene non parli la lingua fredda di Bruxelles.E’ nata, ufficialmente, la Libera Repubblica degli Orti. Si estende dal Piemonte alla Provenza, lungo la frontiera tra Italia e Francia, dalle Alpi fino al Mediterraneo. E’ popolata di melanzane, peperoni, cavolfiori, fagioli, meloni. Non sono prodotti qualsiasi: sono antiche varietà locali, messe in salvo dai loro agricoltori-custodi. Obiettivo: preservare la biodiversità che arricchisce i territori e i consumatori. «Si tratta di specie autoctone, di grande qualità, selezionate nel corso dei decenni e ben adattatesi al clima delle loro zone», dicono Vianney Le Pichon e Massimo Pinna, sviluppatori del progetto europeo “Una rete per le biodiversità transfrontaliere”. Il network ha aggregato decine di coltivatori-pionieri e li ha messi in contatto: oggi i loro saperi sono condivisi, e i semi dei rispettivi ortaggi – italiani e francesi – fanno parte di una sorta di “banca” e sono a disposizione di chiunque voglia impegnarsi a propagarli, seminandoli nel proprio orto, in barba ai diktat sempre più invadenti che favoriscono la grande distribuzione a vantaggio delle varietà industriali, che puntano tutto sulla resa a scapito della qualità.
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Sole e vento non bastano: le rinnovabili sono un’illusione
Rinnovabili sì, ma anche convenienti? Purtroppo no, risponde Gail Tverberg, citando recenti studi internazionali: sole e vento non potranno mai sostituire petrolio, carbone e gas. E inoltre – altra sorpresa – l’attuale produzione industriale dei nuovi dispositivi energetici, come centrali eoliche e pannelli solari e fotovoltaici, viene sostenuta essenzialmente con l’energia fornita dal carbone, e con procedure altamente inquinanti. In altre parole, non è affatto certo che le “rinnovabili intermittenti” possano davvero ridurre le emissioni di anidride carbonica. Eccessiva, secondo Tverberg, l’aspettativa creata sull’energia verde: «Dopo sviariati anni in cui si è cercato di aumentare l’eolico e il solare fotovoltaico, nel 2012 l’eolico ammonta a poco meno dell’1% della fornitura mondiale di energia. Il solare a meno dello 0,2% dell’energia globale. Sarebbero necessari sforzi enormi per raggiungere il 5%». Grande problema: «L’eolico e il solare fotovoltaico tendono a essere più cari rispetto ad altri modi di generazione dell’elettricità».Se si incrementano le rinnovabili, scrive Tverberg su “Our Finite World” in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, le emissioni di CO2 aumentano. «Una delle ragioni è che questo fa incrementare l’economia cinese, grazie alle nuove attività necessarie per la produzione di turbine eoliche e pannelli solari, e per l’estrazione delle terre rare utilizzate in questi impianti. I benefici che la Cina ha dalle vendite relative alle rinnovabili sono tanti, e così potrà costruire nuove case, strade, scuole, e imprese per servire le nuove produzioni». Ma in Cina «la stragrande maggioranza della produzione viene fatta col carbone». La Cina è al centro della produzione mondiale delle rinnovabili, proprio per il fatto che usa il carbone, tuttora molto economico (e molto inquinante) come fonte energetica principale. «Le celle solari al silicone necessitano della cottura della roccia silicea in forni che superano i 3000 gradi, un qualcosa che può essere fatto a basso costo, col carbone».Rilevante il problema dell’inquinamento: «Se dovessimo incrementare l’eolico e il fotovoltaico di un fattore 10 (così da poter alimentare il 12% della fornitura mondiale, invece dell’1,2%) avremmo bisogno di una quantità gigantesca di terre rare e di altri minerali inquinanti, tra cui l’arsenide di gallio, il diselenide del rame, dell’indio e del gallio, e il telluride di cadmio, utilizzati nelle sottili pellicole fotovoltaiche». Sia le turbine eoliche che il solare fotovoltaico utilizzano, per la loro produzione, questi metalli speciali che vengono soprattutto dalla Cina. Le attività minerarie e la lavorazione di queste “terre rare” generano un’enorme quantità di “sottoprodotti radioattivi e pericolosi”. Nelle zone della Cina in cui vengono estratti questi minerali rari, la terra e le acque sono sature di sostanze tossiche, e ciò rende impossibile la coltivazione. E non possiamo aspettarci che la Cina si tenga per sé tutto questo inquinamento, osserva Tverberg: anche il resto del mondo avrà bisogno di produrre questi materiali tossici.«È probabile che molti paesi introdurranno rigidi controlli ambientali per avviare queste estrazioni. Questi controlli richiederanno un uso ancor maggiore di energia derivante dalle fonti fossili. Se anche i problemi ambientali verranno tenuti a freno, il maggiore utilizzo di fonti fossili farebbe probabilmente alzare le emissioni di CO2, oltre ai prezzi dell’eolico e del solare fotovoltaico». Sempre secondo Tverberg, viene fatta molta confusione sul fatto che l’eolico e il solare fotovoltaico possano davvero essere dei sostituti. «Possono sostituire l’elettricità, o sostituiscono il petrolio che produce elettricità? I costi del petrolio sono di solito solo una piccola parte dei costi della fornitura elettrica, e per questo è difficile che le rinnovabili possano raggiungere la parità di costo se dovessero solo sostituire i costi petroliferi». Ad esempio, «l’elettricità non può alimentare le auto di oggi, e non alimenterà trattori, o macchinari per l’edilizia, o velivoli. E anche se avessimo più elettricità, ciò non risolverebbe il nostro problema col petrolio».Un guaio innanzitutto economico: «I consumatori non possono permettersi elettricità ad alti costi, senza che il proprio livello di vita precipiti», dal momento che «gli stipendi non aumentano quando l’energia sale di prezzo, e quindi il reddito disponibile viene colpito duramente su tutti e due i fronti», sia per le famiglie che per lo Stato, sotto forma di tasse. Gli alti costi delle fonti alternative – sole e vento – fanno anche sì che «le merci destinate all’esportazione siano meno competitive sul mercato globale», indebolendo l’economia dei paesi ecologicamente “virtuosi”. Inoltre, se il vento in sé è assolutamente “rinnovabile”, non necessariamente hanno vita lunga gli impianti che lo sfruttano: una torre eolica funziona per 20-25 anni (contro i 40 delle centrali a carbone, a gas o nucleari) ma le turbine “lavorano” senza problemi solo alcuni anni, poi necessitano di costosa manutenzione, che nelle centrali off-shore richiede l’impiego di elicotteri.L’alto costo delle rinnovabili contraddice la storia dello sviluppo degli ultimi secoli, basato sulla disponibilità di energia a basso costo (carbone, petrolio e gas). «Cercare di sostituire un’energia economica con una costosa è come cercare di far andare l’acqua in salita: incrementare le rinnovabili potrebbe far avvicinare il collasso per i paesi che si stanno sempre più affidando a queste fonti energetiche». Per contro, sappiamo bene che il modello della “crescita” illimitata sta rendendo drammatica la crisi ecologica e climatica del pianeta. Che fare? Primo, non aspettarsi miracoli dalle fonti rinnovabili: «Anche se molte persone ci hanno fatto credere che l’eolico e il solare fotovoltaico risolveranno tutti i nostri problemi, tanto più si osserva da vicino la questione, tanto più diventa chiaro che l’eolico e il solare fotovoltaico, se aggiunti alla rete elettrica, sono parte del problema e non una soluzione». Secondo Tverberg, l’unica vera alternativa è l’abbandono dell’attuale modello di sviluppo, non importa con quale fonte energetica sia sostenuto. E quindi: «andare in direnzione di un’agricoltura locale, con i semi più adatti zona per zona», tagliando i trasporti. Riconvertire l’economia, impiegando disoccupati in agricoltura. E finanziare la ricerca, per rendere la terra più produttiva nel lungo termine. In altre parole: fare decrescita: cioè produrre meno, tagliando sprechi e inquinamento.Rinnovabili sì, ma anche convenienti? Purtroppo no, risponde la scienziata Gail Tverberg, citando recenti studi internazionali: sole e vento non potranno mai sostituire petrolio, carbone e gas. E inoltre – altra sorpresa – l’attuale produzione industriale dei nuovi dispositivi energetici, come centrali eoliche e pannelli solari e fotovoltaici, viene sostenuta essenzialmente con l’energia fornita dal carbone, e con procedure altamente inquinanti. In altre parole, non è affatto certo che le “rinnovabili intermittenti” possano davvero ridurre le emissioni di anidride carbonica. Eccessiva, secondo Tverberg, l’aspettativa creata sull’energia verde: «Dopo sviariati anni in cui si è cercato di aumentare l’eolico e il solare fotovoltaico, nel 2012 l’eolico ammonta a poco meno dell’1% della fornitura mondiale di energia. Il solare a meno dello 0,2% dell’energia globale. Sarebbero necessari sforzi enormi per raggiungere il 5%». Grande problema: «L’eolico e il solare fotovoltaico tendono a essere più cari rispetto ad altri modi di generazione dell’elettricità».
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Murgia: Sardegna libera, togliamo le basi alla guerra
Durante il dopoguerra, mentre tutti i comuni costieri sardi tendevano a raddoppiare la popolazione, il comune di Teulada la vedeva dimezzare, nonostante avesse alcune delle insenature più belle del Mediterraneo e una pianura nota come il Giardino, settemila fertilissimi ettari di paradiso agrario oggi ridotti a una landa devastata dai cingoli. I terreni furono espropriati e in molti casi ottenuti anche con l’inganno, quando ai contadini fu promesso – intanto che venivano caricati sui camion – che sui loro fondi sarebbe stata fatta la riforma agraria. “Piccola pesca”, un film di Enrico Pitzianti, racconta bene quel che rimane di questa piccola deportazione sconosciuta. Pino Cabras racconta così uno dei maggiori drammi della Sardegna: la cessione di un’enorme porzione di territorio che, dietro all’anonima formula della “servitù militare”, nasconde una geografia dell’orrore che oggi l’isola – con la candidatura della scrittrice Michela Murgia alle elezioni regionali del 16 febbraio – vorrebbe definitivamente archiviare.Si tratta di decine di migliaia di chilometri di costa, che si traducono in decine di migliaia di ettari di terreno. «Sono le superfici sottratte alla Sardegna per le attività militari, in una misura di gran lunga superiore al resto dei territori della Repubblica Italiana e senza paragoni in Europa», accusa Cabras, esponente di “Alternativa” e ora candidato nella lista “Comunidades”, per la coalizione “Sardegna Possibile” guidata dalla Murgia. «I poligoni militari dell’isola, oltre ai 14.000 ettari di servitù, occupano 24.000 ettari di demanio». Un record poco inviabile: «In tutte le altre regioni messe insieme si raggranellano appena 16.000 ettari». La Sardegna ospita il 60% dei poligoni gestiti dalle forze armate italiane. «La percentuale degli ordigni esplosi nelle esercitazioni sale all’80%, senza contare le esercitazioni di forze armate straniere».Per Cabras, «sono numeri da paese occupato». E gli effetti negativi non riguarano solo i poligoni: «Le polveri inquinanti viaggiano. Lo sa il vento. E in un paese occupato la regola è semplice: qui possono sperimentare in segreto ogni tipo di arma letale, affittando a caro prezzo le strutture». La verità: «Qui rimangono i veleni, ma i profitti volano via, altrove». I cosiddetti indennizzi? «Sono spiccioli, che d’ora in poi dovremo considerare un insulto». “Invasione” militare e vita civile: convivenza impossibile. Fino al 2010, Cabras ha fatto parte del comitato paritetico sulle servitù militari, un tavolo istituzionale Stato-Regione per tentare di armonizzare l’invadenza delle basi col riassetto del territorio. «Mi son reso conto che in Sardegna erano esigenze inconciliabili: troppe le pretese dei militari, e troppo il loro potere, mentre erano senza schiena i partiti sardi». Enorme l’impatto economico e ambientale: aree a perdita d’occhio e tutte “off limits”, sparuti controlli sui rischi ecologici, superfici sottratte ad attività economiche, popolazioni non coinvolte, patti segreti e accordi pubblici mai rispettati.Massimo punto dolente, il disastro ambientale attorno al famigerato poligono di Quirra, sospettato di diffondere polveri radioattive e tumori. Emerge dalle inchieste in corso: «Non c’è solo un problema di giustizia, ma una vera e propria emergenza». Quando la Germania fu riunificata, ricorda Cabras, ottenne un programma comunitario per la riconversione economica e sociale delle aree dipendenti dalle produzioni e dalle presenze militari. «Si trattava di vasti sistemi costruiti decennio dopo decennio, e furono riconvertiti in un tempo ragionevolmente breve, con consistenti risorse non solo nazionali. Perché internazionali erano state le cause di quel prolungato impatto militare». In un altro emisfero, a Portorico, la dismissione di un grande poligono ha comportato la creazione di un Fondo da centinaia di milioni di dollari. «Qualcosa di simile, e certamente molto più in grande, serve anche per la Sardegna, da subito».La chiusura della base per sommergibili nucleari Usa alla Maddalena «rappresenta il modo in cui non dovrebbe realizzarsi una vera riconversione». Caduta l’Urss, «sembrava più facile chiudere qualche base e allontanarci dall’Apocalisse nucleare». Viceversa, «la pressione militare non si allenta». Perché accade tutto questo? «È una catena lunga di fatti e luoghi che va dal Mediterraneo all’Asia centrale, fra guerre, disordini, nuovi posizionamenti geopolitici. Le basi Usa nel Vicino e Medio oriente sono cresciute anno per anno, la pressione sulla Russia è aumentata sempre di più, sin dentro il cuore dell’Asia, fino a un passo dal gigante risvegliato, la Cina, a sua volta avvisata che la pressione crescerà anche per essa». Per contro, Russia e Cina «danno segno di rispondere con un impressionante aumento delle spese militari e il rafforzamento della loro integrazione militare nella Shanghai Cooperation Organization». Il fatto però è che «il dio della guerra si vede scavare molta terra sotto i piedi dal dio del debito: gestire un impero costa, e le enormi spese militari stridono con i tagli in altri settori». La guerra costa troppo, e quindi «è il momento storico giusto per cambiare il posto della Sardegna nel mondo, a partire dalla funzione militare».I candidati di Michela Murgia si sono confrontati con gli attivisti che da anni si battono contro le basi e le servitù militari in Sardegna, nonché con i familiari delle vittime della “Sindrome di Quirra”. Risultato, un documento dal titolo esplicito: “La Sardegna toglie le basi alla guerra”. Il piano è pronto. Se Michela Murgia diventa presidente della Regione, la Sardegna – leggi alla mano – chiede la sospensione immediata delle attività militari nelle quali si sono registrate patologie. Poi convoca finalmente una commissione indipendente internazionale per quantificare i danni economici, sociali, ambientali, sanitari e culturali. Modalità da paese civile: la Regione si impegna a tutelare la cittadinanza anche con campagne informative sui rischi, e intanto apre una vertenza con le istituzioni italiane e internazionali per bonifiche, dismissioni e riconversioni. Infine, la Regione dovrà gestire i fondi per la bonifica dovuti dall’inquinatore attraverso la creazione di una filiera integrata per nuove opportunità economiche.In particolare, sottolinea Cabras, è fondamentale la realizzazione di un “audit” sui danni «accumulati in sessant’anni», così da individuare anche un quadro di reati da perseguire. «Pochi sanno che perfino gli stessi regolamenti Nato prescrivono che si bonifichino le aree interessate dopo ogni esercitazione. In Sardegna non sono mai stati applicati, generando un cumulo abnorme di bonifiche mai fatte». Si tratta di un fatto colossale, di portata internazionale. «Già da solo basterebbe a svelare l’insensibilità e la complicità criminale di intere classi dirigenti italiane, molto attente a piazzare nelle classi dirigenti sarde un solido sistema collaborazionista, a sua volta attento a spegnere, annacquare, diluire le proteste». Anche l’ultimo punto del programma merita molta attenzione: i progetti di recupero, riconversione e valorizzazione di siti militari dismessi. Sarebbero assegnati a vantaggio di imprese con piani coerenti e per finalità turistico-ricreative. Poi infrastrutture utili, riassetto del paesaggio, riqualificazione del tessuto urbano e ambientale.L’obiettivo è strategico: diversificare le attività economiche nelle zone dipendenti dal settore difesa, riconvertire l’economia e agevolare le imprese sane. «Sono impegni che può perseguire soltanto una Sardegna governata senza gli ingombri dei politici appiattiti sulle esigenze degli occupanti militari», insiste Cabras. Vero, qualche attivista “anti-basi” è finito nelle liste di Ugo Cappellacci e Francesco Pigliaru, ma resterà deluso: «Avrà una sorta di diritto di tribuna che consentirà grandi declamazioni in materia, ma in mezzo a un deserto», perché in realtà «non sposterà di un centimetro le coalizioni di Berlusconi e Renzi, che rimangono irremovibili macchine atlantiste, obbedienti agli ordini della Nato, e del tutto indifferenti ai nostri diritti». L’unica novità potrà venire dalla forza che acquisirà lo schieramento che si raccoglie intorno alla candidatura alternativa, quella di Michela Murgia, apprezzata autrice di besteller italiani come “Accabadora” e “Il mondo deve sapere”, da cui Virzì ha tratto il film “Tutta la vita davanti”. «La Murgia – scrive Angelo Guglielmi – è riuscita a sciogliere in poesia i materiali della tradizione senza imbolsirli». Ora siamo all’ennesima prova della verità: e a parlare saranno i sardi. «Sono nata in Sardegna – dice lei – e per quanti indirizzi abbia cambiato in questi anni, dentro non ho mai smesso di abitarla, sognandola indipendente in ogni accezione del termine». Indipendente, libera dalla “servitù militare” che la opprime.Durante il dopoguerra, mentre tutti i comuni costieri sardi tendevano a raddoppiare la popolazione, il comune di Teulada la vedeva dimezzare, nonostante avesse alcune delle insenature più belle del Mediterraneo e una pianura nota come il Giardino, settemila fertilissimi ettari di paradiso agrario oggi ridotti a una landa devastata dai cingoli. I terreni furono espropriati e in molti casi ottenuti anche con l’inganno, quando ai contadini fu promesso – intanto che venivano caricati sui camion – che sui loro fondi sarebbe stata fatta la riforma agraria. “Piccola pesca”, un film di Enrico Pitzianti, racconta bene quel che rimane di questa piccola deportazione sconosciuta. Pino Cabras racconta così uno dei maggiori drammi della Sardegna: la cessione di un’enorme porzione di territorio che, dietro all’anonima formula della “servitù militare”, nasconde una geografia dell’orrore che oggi l’isola – con la candidatura della scrittrice Michela Murgia alle elezioni regionali del 16 febbraio – vorrebbe definitivamente archiviare.
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Noi ex cittadini, ora sudditi del Trattato Transatlantico
C’era una volta lo Stato di diritto. Con il Ttip, il Trattato Transatlantico in via di approvazione semi-clandestina da parte degli Usa e dell’Unione Europea, nessun governo avrà più il potere di tutelare liberamente i diritti dei cittadini: scuola, sanità, ambiente, economia, sicurezza alimentare. L’ultima parola spetterà a tribunali speciali, chiamati a tutelare gli interessi del business contro quelli del cittadino. Allo Stato “colpevole” di difendere il suo popolo, con leggi a garanzia del lavoro e del welfare pubblico, non resterà che pagare salatissime sanzioni. E’ chiaramente eversivo il carattere del super-trattato che potrebbe entrare in vigore tra due anni, scritto sotto dettatura delle maggiori multinazionali e delle grandi lobby americane ed europee, col placet dell’Unione Europea. In pratica, a diventare legge – contro l’interesse pubblico dei cittadini – sarà il profitto dei “padroni dell’universo”. Un super-diktat, il loro, che sembra voler azzerare in un colpo solo due secoli di democrazia occidentale.I nuovi “tribunali” orwelliani dotati di poteri speciali, accusa Lori Wallach su “Le Monde Diplomatique” in un intervento ripreso da “Micromega”, riconosceranno anche il diritto del capitale ad acquistare sempre più terre, risorse naturali, strutture, fabbriche, e senza alcuna contropartita: le multinazionali non avranno alcun obbligo verso gli Stati e potranno avviare delle cause dove e quando vorranno. Per capire quello che succederà basta sfogliare i giornali: società europee hanno già avviato contenziosi legali contro l’aumento del salario minimo in Egitto o contro la limitazioni delle emissioni tossiche in Perú, grazie alla protezione di trattati come il Nafta. Altro esempio: il gigante delle sigarette Philip Morris, contrariato dalla legislazione anti-tabacco dell’Uruguay e dell’Australia, ha portato i due paesi davanti a un tribunale speciale. E il gruppo farmaceutico americano Eli Lilly intende farsi giustizia contro il Canada, “colpevole” di aver varato un sistema di brevetti che rende alcuni medicinali più accessibili. E ancora: il fornitore svedese di elettricità Vattenfall esige diversi miliardi di euro dalla Germania per la sua “svolta energetica”, che norma più severamente le centrali a carbone e promette un’uscita dal nucleare.«Non ci sono limiti alle pene che un tribunale può infliggere a uno Stato a beneficio di una multinazionale», continua Lori Wallach. Un anno fa, l’Ecuador si è visto condannato a versare la somma record di 2 miliardi di euro a una compagnia petrolifera. E anche quando i governi vincono il processo, essi devono farsi carico delle spese giudiziarie e di varie commissioni, che ammontano mediamente a 8 milioni di dollari per caso, dilapidati a discapito del cittadino. «Calcolando ciò, i poteri pubblici preferiscono spesso negoziare con il querelante piuttosto che perorare la propria causa davanti al tribunale». Lo ha appena fatto il Canada, «abrogando velocemente il divieto di un additivo tossico utilizzato dall’industria petrolifera». A partire dal 2000, il numero di questioni sottoposte ai tribunali speciali è decuplicato, creando un fiorente vivaio di consulenti finanziari e avvocati d’affari. E’ il vivaio in cui sguazzano le super-lobby dei poteri forti, come il Trans-Atlantic Business Dialogue. Le stesse che dettano le loro regole – da anni – alla Commissione Europea, la quale poi le trasforma puntualmente in direttive comunitarie.Creata nel 1995 con il patrocinio della Commissione di Bruxelles e del ministero del commercio Usa, la super-lobby Tabd non è altro che «un raggruppamento di ricchi imprenditori», impegnato in un “dialogo” «altamente costruttivo» tra le élite economiche dei due continenti, l’amministrazione di Washington e i commissari di Bruxelles. Il Tabd «è un forum permanente che permette alle multinazionali di coordinare i loro attacchi contro le politiche di interesse generale che restano ancora in piedi sulle due coste dell’Atlantico». Il suo obiettivo, pubblicamente dichiarato, è di eliminare quelle che definisce come «discordie commerciali» (trade irritants), vale a dire di operare sui due continenti secondo le stesse regole e senza interferenze da parte dei poteri pubblici. Di fatto, archiviati i tradizionali strumenti di pressione, le super-lobby oggi si apprestano a ricattare gli Stati con minacce estorsive, dettando direttamente le nuove leggi. La Camera di Commercio Usa e la potente lobby “Business Europe”, ovvero «due tra le più grandi organizzazioni imprenditoriali del pianeta», hanno espressamente richiesto ai negoziatori del Ttip di riunire attorno a un tavolo di lavoro un campionario di grossi azionisti e di responsabili politici affinché questi «redigano insieme i testi di regolamentazione» che avranno successivamente forza di legge negli Stati uniti e in Unione Europea.Di fatto, aggiunge Lori Wallach, le multinazionali mostrano una notevole franchezza nell’esporre le loro intenzioni: sugli Ogm, ad esempio, la Monsanto auspica che «il baratro che si è scavato tra la deregolamentazione dei nuovi prodotti biotecnologici negli Stati uniti e la loro accoglienza in Europa» sia presto colmato, proprio grazie al Trattato Transatlantico che imporrebbe agli europei il loro catalogo di organismi geneticamente modificati. E l’offensiva non è meno vigorosa sul fronte della privacy. La Coalizione del commercio digitale (Digital Trade Coalition, Dtc), che raggruppa industriali del Net e del hi-tech, preme sui negoziatori del Ttip per togliere le barriere che impediscono ai flussi di dati personali di riversarsi liberamente dall’Europa verso gli Stati Uniti. E l’Us Council for International Business (Uscib), un gruppo di società che ha massicciamente rifornito la Nsa di dati personali, «l’accordo dovrebbe cercare di circoscrivere le eccezioni, come la sicurezza e la privacy, al fine di assicurarsi che esse non siano ostacoli cammuffati al commercio».Anche le norme sulla qualità nell’alimentazione sono prese di mira. L’industria statunitense della carne vuole ottenere la soppressione della regola europea che vieta i polli disinfettati al cloro. All’avanguardia di questa battaglia, il gruppo “Yum!”, proprietario della catena di fast food Kentucky Fried Chicken (Kfc), può contare sulla forza d’urto delle organizzazioni imprenditoriali. Un gruppo di pressione come l’Istituto Americano della Carne, deplora «il rifiuto ingiustificato [da parte di Bruxelles] delle carni addizionate di beta-agonisti, come il cloridrato di ractopamina», un medicinale utilizzato per gonfiare il tasso di carne magra di suini e bovini. A causa dei rischi per la salute degli animali e dei consumatori, la ractopamina è stata bandita in 160 paesi, tra cui gli stati membri dell’Unione Europea, la Russia e la Cina. Per la filiera statunitense del suino, invece, il divieto di impiegare quella sostanza «costituisce una distorsione della libera concorrenza a cui il Ttip deve urgentemente porre fine». Avvertono i produttori americani di suino: «Non accetteremo altro risultato che non sia la rimozione del divieto europeo della ractopamina».Nel frattempo, dall’altra parte dell’Atlantico, gli industriali raggruppati in “Business Europe”, denunciano le «barriere che colpiscono le esportazioni europee verso gli Stati uniti, come la legge americana sulla sicurezza alimentare». Dal 2011, essa autorizza infatti i servizi di controllo a ritirare dal mercato i prodotti d’importazione contaminati. Anche in questo caso, i negoziatori del Ttip sono pregati di fare tabula rasa. Si ripete lo stesso con i gas a effetto serra. L’organizzazione “Airlines for America” (A4A), braccio armato dei trasportatori aerei statunitensi, ha steso una lista di «regolamenti inutili che portano un pregiudizio considerevole alla [loro] industria» e che il Ttip, ovviamente, ha la missione di cancellare. Al primo posto di questa lista compare il sistema europeo di scambio di quote di emissioni, che obbliga le compagnie aeree a pagare per il loro inquinamento a carbone. Bruxelles ha provvisoriamente sospeso questo programma; A4A esige la sua soppressione definitiva in nome del «progresso». Se nessuno fermerà il Trattato Transatlantico, il destino della nostra civiltà è praticamente segnato.C’era una volta lo Stato di diritto. Con il Ttip, il Trattato Transatlantico in via di approvazione semi-clandestina da parte degli Usa e dell’Unione Europea, nessun governo avrà più il potere di tutelare liberamente i diritti dei cittadini: scuola, sanità, ambiente, economia, sicurezza alimentare. L’ultima parola spetterà a tribunali speciali, chiamati a tutelare gli interessi del business contro quelli del cittadino. Allo Stato “colpevole” di difendere il suo popolo, con leggi a garanzia del lavoro e del welfare pubblico, non resterà che pagare salatissime sanzioni. E’ chiaramente eversivo il carattere del super-trattato che potrebbe entrare in vigore tra due anni, scritto sotto dettatura delle maggiori multinazionali e delle grandi lobby americane ed europee, col placet dell’Unione Europea. In pratica, a diventare legge – contro l’interesse pubblico dei cittadini – sarà il profitto dei “padroni dell’universo”. Un super-diktat, il loro, che sembra voler azzerare in un colpo solo due secoli di democrazia occidentale.
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Contro il popolo italiano: golpisti, da Roma a Bruxelles
«Colpo di Stato». Giulietto Chiesa è esplicito: «Se qualcuno ha un termine più adatto per descrivere questa situazione, lo dica». Legge elettorale, la “porcata” di Renzi e Berlusconi, ancora con liste bloccate e controllate dai partiti, senza possibilità di indicare preferenze. «Questa legge che si sta costruendo è un vero e proprio tentativo di privare gli italiani di una rappresentanza reale», anche se la Consulta, la Corte Costituzionale, ha appena espresso un giudizio chiarissimo, in favore del sistema proporzionale. Eppure, Pd e Forza Italia vogliono il maggioritario verticistico, con parlamentari “nominati” e candidati imposti dalle segreterie. Tutto questo, grazie anche a Napolitano: «Abbiamo un presidente della Repubblica che consente – approva, sollecita – delle cose illegali». Ovvero: «Si sta utilizzando un Parlamento illegale, costruito contro il popolo italiano, per fare un’altra legge che sarà contro il popolo italiano». Attenzione: “lo vuole l’Europa”, si potrebbe dire. In effetti è così: l’attuale assetto europeo teme la democrazia.«Quando è nata l’Europa – ricorda Giulietto Chiesa ai microfoni di “Siracusa Oggi” – c’era l’idea di fare un nuovo Stato – un vero e proprio nuovo Stato, una conferedazione – in pace, che non aveva precenti nella storia degli uomini: mai era accaduto che un paese si formasse con il consenso. Bene, questa Europa non c’è più, è stata cancellata». Parlano i fatti, a cominciare dalle carte: «Ci sono due documenti-chiave, il Trattato di Maastricht e il Trattato di Lisbona, che negano questa Europa. E invece pensano a un’Europa in un cui i più forti diventano ancora più forti, e i più deboli vengono abbandonati a se stessi. E i più deboli siamo noi: Grecia, Italia, Spagna, Portogallo, Irlanda». Domanda: a chi serve quest’Europa indebolita e azzoppata dalla crisi? Sappiamo che gli Usa si stanno concentrando sul Pacifico, per fronteggiare l’avanzata economica e geopolitica della Cina. Sempre gli Stati Uniti puntano a lacerare l’Ucraina, per poi spingere l’avamposto Nato fino ai confini con la Russia. Tutto questo ci conviene? «La mia risposta è no», dice Giulietto Chiesa. «Stati Uniti ed Europa non hanno interessi coincidenti».Prima ancora di un’Italia sovrana, sostiene il fondatore del laboratorio politico “Alternativa”, dobbiamo avere un’Europa sovrana. «Significa che dobbiamo passare da questa società, che è insostenibile, a una società sostenibile – che è possibile». Per farlo, però, «occorre una strategia politica di transizione». Che punti, prima di tutto, ad assicurare all’Europa le risorse primarie di cui ha bisogno. «Alle nostre frontiere abbiamo la Russia: 9 fusi orari, il più grande paese del mondo, che ha tutte le risorse energetiche e minerarie, domani anche alimentari. Ma perché non facciamo un patto di cooperazione strategica con la Russia?». Alternativa che l’establishment filo-atlantico di Bruxelles non prende neppure in considerazione, per ora. Ecco perché sono potenzialmente decisive le elezioni europee di maggio: con l’operazione Tsipras, liste civiche a sostegno del leader greco di Syriza come candidato comune alla presidenza della Commissione Europea, la musica potrebbe cambiare. «A giugno potremmo avere in Europa un gruppo di 60-70 deputati in grado di costituire un baluardo per aprire questo tema. Io credo che sia possibile. Se l’Italia si presenta in Europa e chiede di contare, noi saremo molto più forti di quanto siamo oggi».«Colpo di Stato». Giulietto Chiesa è esplicito: «Se qualcuno ha un termine più adatto per descrivere questa situazione, lo dica». Legge elettorale, la “porcata” di Renzi e Berlusconi, ancora con liste bloccate e controllate dai partiti, senza possibilità di indicare preferenze. «Questa legge che si sta costruendo è un vero e proprio tentativo di privare gli italiani di una rappresentanza reale», anche se la Consulta, la Corte Costituzionale, ha appena espresso un giudizio chiarissimo, in favore del sistema proporzionale. Eppure, Pd e Forza Italia vogliono il maggioritario verticistico, con parlamentari “nominati” e candidati imposti dalle segreterie. Tutto questo, grazie anche a Napolitano: «Abbiamo un presidente della Repubblica che consente – approva, sollecita – delle cose illegali». Ovvero: «Si sta utilizzando un Parlamento illegale, costruito contro il popolo italiano, per fare un’altra legge che sarà contro il popolo italiano». Attenzione: “lo vuole l’Europa”, si potrebbe dire. In effetti è così: l’attuale assetto europeo teme la democrazia.
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Crescita finita per sempre, il denaro non è la soluzione
«Stagnazione secolare», la chiama – di fronte alla platea del Fmi – l’economista americano Larry Summers, già segretario al Tesoro: nessuna speranza che l’economia dell’Occidente possa davvero tornare a crescere. E’ finita – o sta per finire – la “convenienza economica” del capitalismo, basato sul consumo di merci industriali prodotte a basso costo. Secondo Mauro Bonaiuti, autore del saggio “La grande transizione”, «la notizia è ufficiale: l’età della crescita potrebbe essere davvero finita e parlarne non è più eresia». Il declino delle economie occidentali avanzate è ormai in corso, ammette lo stesso Summers, osservando la crisi degli ultimi anni: dato che i flussi finanziari ormai sorreggono il sistema produttivo, il collasso della finanza del 2007 ha comportato una sostanziale paralisi. Ma – questa è la notizia – quando lo choc è stato superato, non c’è stata nessuna vera ripresa.Paul Krugman se lo spiega così: le trasformazioni strutturali del sistema producono stabilmente disoccupazione. Il che significa che, per “convincere” le imprese ad assumere, bisognerà fornirle di denaro a costo zero, senza neppure obbligarle a restituirlo tutto. Secondo Summers e Krugman, ormai le imprese si aspettano che il valore di ciò che producono sia inferiore al costo di produzione: dovrebbero lavorare in perdita, sostenute dalla finanza pubblica? «Potrebbe sembrare un problema innanzitutto delle imprese – obietta Bonaiuti in un post ripreso da “Come Don Chisciotte” – se non fosse che viviamo ormai in una “società di mercato” e dunque i redditi, nelle loro diverse forme, e con essi la nostra vita materiale in quasi ogni sua forma, dipendono ormai interamente dalla possibilità che la macchina economica continui a funzionare».Per Bonaiuti, «qualcosa di potenzialmente molto pericoloso si intravede in questa rappresentazione del prossimo futuro», dal momento che «la possibilità di realizzare investimenti profittevoli è infatti la molla fondamentale dell’attività capitalistica». Per cui, «dire che per convincere gli imprenditori ad investire sarà necessario offrire loro tassi di interesse negativi, sostenendo inoltre che questo non è uno spiacevole e temporaneo inconveniente ma “un inibitore sistemico dell’attività economica”, significa riconoscere implicitamente che il capitalismo è ormai un sistema entrato nel reparto geriatrico e che per mantenerlo attivo è necessario offrirgli dosi di droga finanziaria almeno costanti (ma di fatto crescenti)».Krugman è esplicito: ora sappiamo che l’espansione del 2003-2007 «era sostenuta da una bolla speculativa», e «lo stesso si può dire della crescita della fine degli anni ‘90», legata alla bolla della new-economy. Persino la crescita degli ultimi anni dell’amministrazione Reagan «fu guidata da un’ampia bolla nel mercato immobiliare privato». Conclusione chiara: «Senza speculazione finanziaria non c’è più crescita». E lo stesso Summers avverte che i provvedimenti presi per regolamentare i mercati finanziari potrebbero essere controprocenti, rendendo ancora più alti i costi di finanziamento per le imprese. Uno scenario «estremante serio e foriero di conseguenze», osserva Bonaiuti, secondo cui la tradizionale ricetta keynesiana – sostenere la domanda con maggiore spesa pubblica – potrebbe non funzionare più, se (a monte) il sistema si è davvero inceppato.Per Krugman «si potrebbe ricostruire l’intero sistema monetario, eliminare la carta moneta e pagare tassi di interesse negativi sui depositi». E quindi: esporre i cittadini (costretti a transazioni solo digitali) al rischio del prelievo forzoso sui propri conti correnti. Se queste sono le idee del “liberale” Krugman, «per far fronte all’incapacità ormai cronica del capitalismo di crescere», per Bonaiuti «non è difficile immaginare cosa, a partire dalla stessa lettura della realtà, potrebbe venire in mente a chi, per tradizione, ha sempre auspicato risposte tecnocratiche e autoritarie alle crisi del capitalismo». Una volta imbracciata questa logica, è evidente che «tutto si giustifica», e quindi «anche le normali libertà, come quella di decidere come e dove impiegare i propri risparmi, divengono sacrificabili sull’altare di qualche punto percentuale di Pil». La prospettiva è chiara: «Tutti, volenti o nolenti, credendoci o meno, si dovrà partecipare al nutrimento forzoso – per via finanziaria – della macchina capitalista», nell’epoca dei “rendimenti decrescenti”. «Il tutto è tanto più serio in quanto ci troviamo di fronte non ad una crisi congiunturale, per quanto grave, ma ad un processo di rallentamento strutturale e, sopratutto, progressivo».La spirale, secondo Bonaiuti, è irrimediabile: tornare al passato è ormai semplicemente impossibile. «Per quanto affidato alla finanza, un ritorno della crescita significa nuove risorse naturali da utilizzare, prodotti da vendere per poi gettare rapidamente». E tutto «per tenere in movimento – da una bolla speculativa all’altra – la macchina economica globale». Il rilancio è un miraggio, perché ormai il contesto è completamente mutato rispetto all’età della crescita: «Dove possiamo oggi costruire case o infrastrutture per rilanciare occupazione e consumi? Dove trovare nuove risorse energetiche e materie prime a buon mercato? Come creare nuovi consumatori offrendo loro modelli di vita capaci di trasformare in pochi anni intere società?».Le economie capitalistiche avanzate «sono entrate già da quarant’anni in una fase di rendimenti decrescenti», dice Bonaiuti. E questo «non dipende solo dalla riduzione nella produttività degli investimenti delle multinazionali». Siamo di fronte a un fenomeno di ben più vasta portata: si sta riducendo la produttività dell’energia, dell’estrazione mineraria, dell’innovazione, delle rese agricole, dell’efficienza dell’attività della pubblica amministrazione (sanità, ricerca, istruzione), e si riduce la produttività di un’economia non più industriale ma fondata sui servizi. «Si tratta di un fenomeno evolutivo, e dunque incrementale». I “rendimenti decrescenti”, inoltre, «non comportano solo una riduzione dei rendimenti dell’attività economica», quanto piuttosto «un generale aumento del malessere sociale», e questo «a causa dell’aumento di svariati costi, di natura sociale ed ambientale, legati sopratutto alla crescente complessità della mega-macchina tecno-economica, che ricadono come “esternalità” sulle famiglie e sulle comunità e che non rientrano nel calcolo degli indici economici».Ecco perché «occorrerà dunque ragionare in termini ben più ampi, non solo in termini di Pil, ma della capacità delle politiche di generare benessere e occupazione stabili (e in condizioni di sostenibilità ecologica e non solo economica)». Se i sostenitori dello status quo – sia neoliberisti che keynesiani – ormai ammettono la “fine della crescita”, «non sono disposti a riconoscere che le loro proposte per tenere in vita il sistema sono ormai entrate in rotta di collisione con la libertà democratica (oltre che, da tempo, con la sostenibilità ecologica)». Occupazione, giustizia sociale, tutela dell’ambiente. «Il passaggio non traumatico dalla “grande stagnazione” ad una società sostenibile – conclude Bonaiuti – richiede un ripensamento ben più profondo e radicale dei valori e delle regole di funzionamento della nostra società, una “grande transizione” che si lasci alle spalle questo modello economico e i problemi – sociali, ecologici, economici – creati dall’ineliminabile dipendenza del capitalismo dalla crescita».«Stagnazione secolare», la chiama – di fronte alla platea del Fmi – l’economista americano Larry Summers, già segretario al Tesoro: nessuna speranza che l’economia dell’Occidente possa davvero tornare a crescere. E’ finita – o sta per finire – la “convenienza economica” del capitalismo, basato sul consumo di merci industriali prodotte a basso costo. Secondo Mauro Bonaiuti, autore del saggio “La grande transizione”, «la notizia è ufficiale: l’età della crescita potrebbe essere davvero finita e parlarne non è più eresia». Il declino delle economie occidentali avanzate è ormai in corso, ammette lo stesso Summers, osservando la crisi degli ultimi anni: dato che i flussi finanziari ormai sorreggono il sistema produttivo, il collasso della finanza del 2007 ha comportato una sostanziale paralisi. Ma – questa è la notizia – quando lo choc è stato superato, non c’è stata nessuna vera ripresa.
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Ttip, fuorilegge Stati e diritti: vogliono ucciderci così
«Negoziato in segreto, questo progetto fortemente sostenuto dalle multinazionali permetterebbe loro di citare in giudizio gli Stati che non si piegano alle leggi del liberismo». Si chiama Trattato Transatlantico ed è l’uragano devastante che minaccia il futuro degli europei, o quel che ne resta. All’allarme – da più parti lanciato nei mesi scorsi – si associa ora anche Lori Wallach, direttrice del Public Citizen’s Global Trade Watch, prestigioso osservatorio indipendente di Washington. «Possiamo immaginare delle multinazionali trascinare in giudizio i governi i cui orientamenti politici avessero come effetto la diminuzione dei loro profitti? Si può concepire il fatto che queste possano reclamare – e ottenere! – una generosa compensazione per il mancato guadagno indotto da un diritto del lavoro troppo vincolante o da una legislazione ambientale troppo rigorosa? Per quanto inverosimile possa apparire, questo scenario non risale a ieri».Le fondamenta di questo trattato clamorosamente eversivo – il grande business che emana i propri diktat non più di nascosto, attraverso le lobby e i politici compiacenti, ma ormai alla luce del sole, e addirittura per legge – comparivano già a chiare lettere nel progetto di accordo multilaterale sugli investimenti (Mai) negoziato segretamente tra il 1995 e il 1997 dai 29 stati membri dell’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, come ricorda la Wallach in un intervento su “Le Monde Diplomatique”, il giornale che divulgò la notizia in extremis, sollevando un’ondata di proteste senza precedenti, fino a costringere i suoi promotori ad accantonare il progetto. Quindici anni più tardi, scrive oggi Lori Wallach sempre sul giornale francese, in un intervento ripreso da “Micromega”, la grande “trappola” fa il suo ritorno in pompa magna, sotto nuove sembianze.L’accordo di partenariato transatlantico (Ttip), negoziato a partire dal luglio 2013 tra Usa e Ue – accordo che dovrebbe concludersi entro due anni – non è che una versione aggiornata del Mai. Prevede infatti che «le legislazioni in vigore sulle due coste dell’Atlantico si pieghino alle regole del libero scambio» stabilite dalle corporations, «sotto pena di sanzioni commerciali per il paese trasgressore, o di una riparazione di diversi milioni di euro a favore dei querelanti». Se dovesse entrare in vigore, aggiunge Lori Wallach, «i privilegi delle multinazionali avrebbero forza di legge e legherebbero completamente le mani dei governanti». Impermeabile alle alternanze politiche e alle mobilitazioni popolari, il trattato «si applicherebbe per amore o per forza, poiché le sue disposizioni potrebbero essere emendate solo con il consenso unanime di tutti i paesi firmatari». Ciò riprodurrebbe in Europa «lo spirito e le modalità del suo modello asiatico», ovvero l’Accordo di Partenariato Transpacifico (Trans-pacific partnership, Tpp), attualmente in corso di adozione in 12 paesi dopo essere stato fortemente promosso dagli ambienti d’affari.«In virtù di numerosi accordi commerciali firmati da Washington, 400 milioni di dollari sono passati dalle tasche del contribuente a quelle delle multinazionali a causa del divieto di prodotti tossici, delle normative sull’utilizzo dell’acqua, del suolo o del legname». Sotto l’egida di questi stessi trattati, le procedure attualmente in corso – nelle questioni di interesse generale come i brevetti medici, la lotta all’inquinamento e le leggi sul clima e sulle energie fossili – fanno schizzare le richieste di danni e interessi a 14 miliardi di dollari. Il Ttip «aggraverebbe ulteriormente il peso di questa estorsione legalizzata». Basta osservare gli attori sul terreno: negli Usa sono presenti 3.300 aziende europee con 24.000 filiali, ciascuna delle quali può ritenere di avere buone ragioni per chiedere, un giorno o l’altro, riparazione per un “pregiudizio commerciale”. Dal canto loro, i paesi dell’Unione Europea si vedrebbero esposti a un rischio finanziario ancora più grande, sapendo che 14.400 compagnie statunitensi dispongono in Europa di una rete di 50.800 filiali. In totale, sono 75.000 le società che potrebbero gettarsi nella caccia ai tesori pubblici.Gli accordi-capestro per Atlantico e Pacifico «formerebbero un impero economico capace di dettare le proprie condizioni al di fuori delle sue frontiere: qualunque paese cercasse di tessere relazioni commerciali con gli Stati uniti e l’Unione Europea si troverebbe costretto ad adottare tali e quali le regole vigenti all’interno del loro mercato comune». E dato che i proponenti «mirano a liquidare interi compartimenti del settore non mercantile», i negoziati si svolgono a porte chiuse. Le delegazioni statunitensi contano più di 600 consulenti delegati dalle multinazionali, che dispongono di un accesso illimitato ai documenti preparatori. «Nulla deve sfuggire. Sono state date istruzioni di lasciare giornalisti e cittadini ai margini delle discussioni: essi saranno informati in tempo utile, alla firma del trattato, quando sarà troppo tardi per reagire». Vana la protesta della senatrice Elizabeth Warren, secondo cui «un accordo negoziato senza alcun esame democratico non dovrebbe mai essere firmato».L’imperiosa volontà di sottrarre il cantiere del trattato all’attenzione del pubblico si comprende facilmente, aggiunge la Lori Wallach: «Meglio prendere tempo prima di annunciare al paese gli effetti che esso produrrà a tutti i livelli: dal vertice dello Stato federale fino ai consigli municipali passando per i governatorati e le assemblee locali, gli eletti dovranno ridefinire da cima a fondo le loro politiche pubbliche per soddisfare gli appetiti del privato nei settori che in parte gli sfuggono ancora». Nulla sfugge alle fauci dei super-privatizzatori: sicurezza degli alimenti, norme sulla tossicità, assicurazione sanitaria, prezzo dei medicinali, libertà della rete, protezione della privacy, energia, cultura, diritti d’autore, risorse naturali, formazione professionale, strutture pubbliche, immigrazione. «Non c’è una sfera di interesse generale che non passerà sotto le forche caudine del libero scambio istituzionalizzato». Fine della democrazia: «L’azione politica degli eletti si limiterà a negoziare presso le aziende o i loro mandatari locali le briciole di sovranità che questi vorranno concedere loro».È già stipulato che i paesi firmatari assicureranno la «messa in conformità delle loro leggi, dei loro regolamenti e delle loro procedure» con le disposizioni del trattato. Non vi è dubbio che essi vigileranno scrupolosamente per onorare tale impegno. In caso contrario, potranno essere l’oggetto di denunce davanti a uno dei tribunali appositamente creati per arbitrare i litigi tra investitori e Stati, e dotati del potere di emettere sanzioni commerciali contro questi ultimi. «L’idea può sembrare inverosimile: si inscrive tuttavia nella filosofia dei trattati commerciali già in vigore». Lo scorso anno, l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), ha condannato gli Stati Uniti per le loro scatole di tonno etichettate “senza pericolo per i delfini”, per l’indicazione del paese d’origine sulle carni importate, e ancora per il divieto del tabacco aromatizzato alla caramella, dal momento che tali misure di tutela sono state considerate degli ostacoli al libero scambio. Il Wto ha inflitto anche all’Unione Europea delle penalità di diverse centinaia di milioni di euro per il suo rifiuto di importare Ogm come quelli della Monsanto, che finanziò l’elezione di Obama.«La novità introdotta dal Ttip e dal Tpp – osserva Lori Wallach – consiste nel permettere alle multinazionali di denunciare a loro nome un paese firmatario la cui politica avrebbe un effetto restrittivo sulla loro vitalità commerciale». Sotto un tale regime, «le aziende sarebbero in grado di opporsi alle politiche sanitarie, di protezione dell’ambiente e di regolamentazione della finanza», reclamando danni e interessi davanti a tribunali extragiudiziari. «Composte da tre avvocati d’affari, queste corti speciali rispondenti alle leggi della Banca Mondiale e dell’Onu «sarebbero abilitate a condannare il contribuente a pesanti riparazioni qualora la sua legislazione riducesse i “futuri profitti sperati” di una società». Questo sistema, che oppone le industrie agli Stati, sembrava essere stato cancellato dopo l’abbandono del Mai nel 1998, ma è stato «restaurato di soppiatto» nel corso degli anni. Di fatto, l’adozione del super-trattato riduce in schiavitù le istituzioni pubbliche, per le quali i cittadini votano, affidando ad esse il compito di governare il proprio paese. Con le mostruose norme in via di approvazione semi-clandestina, i poteri pubblici dovranno mettere mano al portafoglio se la loro legislazione ha per effetto la riduzione del valore di un investimento, anche quando questa stessa legislazione si applica alle aziende locali. In altre parole: la civiltà democratica finisce qui.«Negoziato in segreto, questo progetto fortemente sostenuto dalle multinazionali permetterebbe loro di citare in giudizio gli Stati che non si piegano alle leggi del liberismo». Si chiama Trattato Transatlantico ed è l’uragano devastante che minaccia il futuro degli europei, o quel che ne resta. All’allarme – da più parti lanciato nei mesi scorsi – si associa ora anche Lori Wallach, direttrice del Public Citizen’s Global Trade Watch, prestigioso osservatorio indipendente di Washington. «Possiamo immaginare delle multinazionali trascinare in giudizio i governi i cui orientamenti politici avessero come effetto la diminuzione dei loro profitti? Si può concepire il fatto che queste possano reclamare – e ottenere! – una generosa compensazione per il mancato guadagno indotto da un diritto del lavoro troppo vincolante o da una legislazione ambientale troppo rigorosa? Per quanto inverosimile possa apparire, questo scenario non risale a ieri».
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Gallino: il totalitarismo dell’Ue sarà la nostra rovina
La nostra stagnazione economica durerà anni: serve una trasformazione politica e un altro paradigma per il benessere e l’occupazione. Se 2013 la Cina è cresciuta del 7,7% (e nel 2014 il suo Pil sarà all’8,2%), l’Europa – Italia in primis – resterà al palo, mentre gli Usa arriveranno a +2,9%. Per Luciano Gallino, però, la situazione degli Stati Uniti non è affatto quella che si dipinge: «L’attuale presidente della Fed, Ben Bernanke, ha detto che ormai il tasso di disoccupazione è un parametro poco rappresentativo. Infatti la disoccupazione effettiva, che comprende sia gli “scoraggiati” o i part-time che vorrebbero lavorare a tempo pieno, è molto più elevata di quanto sembri». La differenza tra noi e loro? Presto detto: grazie alla moneta sovrana, «gli Stati Uniti hanno potuto permettersi di pompare migliaia di miliardi di dollari nell’economia», anche se poi «i risultati sono stati abbastanza modesti», dal momento che lo stimolo monetario «è risultato meno efficace sull’occupazione di quanto si creda», anche perché molto del denaro emesso non è stato investito in posti di lavoro.Sul mercato del lavoro sono entrate quindi meno persone di quelle stimate, quindi il tasso di disoccupazione è più alto, mentre oltre 100 milioni di persone vivono in condizioni di povertà: per proteggerle non basta nemmeno il salario minimo che Obama intende aumentare a 10 dollari all’ora. «Il salario è fermo ai livelli del 1978, il che vuol dire meno reddito per le famiglie che hanno dovuto mettere al lavoro tutti, nonni e figli compresi», sostiene Gallino in un’inervista realizzata da Roberto Ciccarelli per “Doppiozero” e ripresa da “Megachip”. L’ex segretario Usa al Tesoro, Lawrence Summers, parla addirittura di «stagnazione secolare». Colpa della globalizzazione, delle nuove tecnologie e delle delocalizzazioni. «Ciò ha portato al paradosso per cui gli Usa contribuiscono alla crescita della Cina ma non alla propria». La stagnazione è devastante in Europa, dove allarga le diseguaglianze in tutti i suoi paesi. «Non si dice mai che in Germania esiste una parte della popolazione che ha inflitto costi umani e sociali elevati alla maggioranza e ne prende grandi vantaggi». In questo meccanismo, continua Gallino, ha influito negativamente sui bilanci degli altri paesi l’eccesso dell’export tedesco.Per Gallino, l’euro rappresenta l’incubo numero uno. «È nato con gravi difetti e resta una moneta straniera. È una cosa da pazzi, non succede in nessun posto al mondo. Avere una moneta meno rigida aiuterebbe molto». Il sociologo torinese teme però che dalla trappola dell’Eurozona non sia così facile uscire: «Il marco sarebbe rivalutato del 40%, milioni di contratti tra enti privati e pubblici dovrebbero essere ridiscussi. Ci vorrebbero 20 anni per farlo, entreremmo in una spirale drammatica». L’aspetto più inquietante è che la moneta unica rappresenta in Europa lo strumento operativo principale del “totalitarismo neoliberista”, quello delle politiche di rigore, concepite per rendere gli Stati incapaci di proteggere i cittadini, impedendo loro di promuovere l’occupazione attraverso un impiego strategico degli investimenti pubblici. «Queste politiche sono un suicidio programmato, ben venga qualunque intervento per allieviarne le conseguenze». E se sull’euro c’è scritto “chi tocca, muore”, si può cominciare dalla politica: e cioè costringendo Bruxelles (e la Bce) a invertire la rotta, allargando i cordoni della borsa.Uscire dalla recessione col rilancio della produzione e dei consumi di massa come nel “trentennio glorioso” tra il 1945 e 1973? «Lo pensano i governanti e alcuni economisti che hanno sempre in mente il modello che ha provocato la crisi: produrre di più tagliando il costo del lavoro, i salari, aumentando la precarietà». Gallino non crede a questa prospettiva. Inoltre, se mai avvenisse, un nuovo “miracolo economico” sarebbe «un vero disastro», perchè la crisi «non è solo finanziaria o produttiva, è anche evidentemente una crisi ecologica che produce la desertificazione del pianeta, distrugge risorse che hanno impiegato migliaia di anni per accumularsi». In più «rischiamo di essere seppelliti dai rifiuti, uno dei problemi provocati dall’esplosione nel 2007 del modello produttivo, come dimostra la Campania, che è un caso esemplare di quanto sta accadendo».L’Ocse avverte che la crescita tornerà, ma non produrrà nuova occupazione stabile. Senza considerare che i milioni di posti fissi bruciati nella crisi sono irrecuperabili. Che fare, allora? «Bisogna ridiscutere i trattati europei e modificare lo statuto della Banca Centrale Europea, innanzitutto». La legislazione europea è infatti soffocante: le 300.000 leggi in vigore in Italia (come le 9-10.000 esistenti in Francia e in Germania) sono all’80% ispirate e comunque vincolate alle direttive europee. «Se non si passa di lì, penso che sia molto difficile fare politiche economiche che non siano quelle sconsiderate fatte negli ultimi tre anni: i governi continueranno a battere i tacchi e a firmare qualsiasi cosa che Bruxelles, la Bce o l’Fmi gli propongono». Gallino trova «scandaloso» che sia il Trattato di Maastricht che lo statuto della Bce «ignorino quasi del tutto il problema della nostra epoca: la creazione di occupazione».L’articolo 123 del Trattato Ue vieta alla Bce di concedere scoperti di conto o qualsiasi forma di facilitazione creditizia alle amministrazioni statali: è un divieto unico tra le banche centrali esistenti sul pianeta, un’altra assurdità del trattato. È difficile modificarlo, a causa della contrarietà dei tedeschi. Ed è «curioso» notare che questo stesso articolo non vieta alla Bce l’acquisto dei titoli sul mercato secondario, cosa che la Bce ha fatto tra il 2010 e il 2011 quando acquistò 218 miliardi di titoli di Stato, di cui 103 italiani. «Se lo si volesse usare, la Bce potrebbe prestare miliardi di euro in cambio dell’impegno di un piano industriale che preveda l’assunzione netta di nuova manodopera». Invece, Draghi «ha prestato mille miliardi alle banche senza porre condizioni», e in più «si è reso ridicolo quando ha ammesso di non avere la minima idea di cosa ne abbiano fatto le banche». In realtà quei soldi sono stati usati per scambi bancari o per acquistare titoli. Meno di un terzo sono andati alle imprese, ma anche in questo caso senza porre condizioni.«Senza risorse – sottolinea Gallino – le politiche contro la disoccupazione fatta dal nostro governo, come da tutti quelli europei, sono pannicelli caldi rispetto ai 26 milioni di disoccupati e ai 100 milioni a rischio di povertà in Europa». Molti economisti, tra cui quelli della Banca Mondiale, ritengono ormai che il Pil non sia più l’unico indicatore per misurare la salute dell’economia, e propongono altri indicatori per valutare il tasso di sviluppo umano. «Cambiare paradigma produttivo non implica solo cambiare indicatori, comporta una trasformazione politica». In questa fase, però, «mancano le premesse politiche per realizzarla». Per Gallino, i discorsi che i governi europei fanno sull’economia, in Italia come in Germania, «sono di un’ottusità incomparabile». Ovvero: «Vanno tutti in direzione contraria a quello che bisogna fare, e di certo non servono per riformare la finanza, mutare il modello produttivo e operare una transizione di milioni di lavoratori verso nuovi settori ad alta intensità di lavoro», cioè green economy, ricerca, alimentazione, beni culturali, manutenzione idrogeologica del territorio. «La crisi deve essere affrontata in tutti gli aspetti e non solo su quello finanziario e produttivo. Purtroppo la discussione pubblica è a zero».La nostra stagnazione economica durerà anni: serve una trasformazione politica e un altro paradigma per il benessere e l’occupazione. Se 2013 la Cina è cresciuta del 7,7% (e nel 2014 il suo Pil sarà all’8,2%), l’Europa – Italia in primis – resterà al palo, mentre gli Usa arriveranno a +2,9%. Per Luciano Gallino, però, la situazione degli Stati Uniti non è affatto quella che si dipinge: «L’attuale presidente della Fed, Ben Bernanke, ha detto che ormai il tasso di disoccupazione è un parametro poco rappresentativo. Infatti la disoccupazione effettiva, che comprende sia gli “scoraggiati” o i part-time che vorrebbero lavorare a tempo pieno, è molto più elevata di quanto sembri». La differenza tra noi e loro? Presto detto: grazie alla moneta sovrana, «gli Stati Uniti hanno potuto permettersi di pompare migliaia di miliardi di dollari nell’economia», anche se poi «i risultati sono stati abbastanza modesti», dal momento che lo stimolo monetario «è risultato meno efficace sull’occupazione di quanto si creda», anche perché molto del denaro emesso non è stato investito in posti di lavoro.
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Via i parassiti della finanza, e avremo ancora un futuro
Il principale processo storico che sta segnando il nuovo secolo, cioè lo spostamento del baricentro geopolitico dall’Atlantico al Pacifico, condanna l’Europa a diventare sempre più periferica. La crescente proiezione internazionale di una Cina punta chiaramente a diventare potenza navale oltreché commerciale, in Estremo Oriente ma anche in direzione dell’Africa e del Medio Oriente. Questo impegnerà direttamente gli Usa e li obbligherà ad una scelta fondamentale: Cina o ancora Giappone, come alleati strategici? Certo, Russia e India non staranno a guardare. E’ questo lo scenario nel quale Gaetano Colonna invita ad analizzare la grande crisi che sta travolgendo l’Eurozona. Se il vecchio continente perde terreno nel forziere petrolifero mediorientale, l’influenza cinese continua a crescere in teatri strategici per gli Stati Uniti, dall’Iran al Pakistan fino al continente nero, che rappresenta un’enorme riserva di materie prime e terre coltivabili.Di conseguenza, osserva Colonna su “Clarissa”, torna alla ribalta il ruolo del Mediterraneo: decisivo snodo geografico e culturale tra Africa, Vicino Oriente ed Europa, il “mare nostrum” «diverrà, se possibile, ancora più rilevante di quanto non lo sia già stato dalla fine del XIX secolo, quale linea di comunicazione vitale per gli imperi anglosassoni, oltreché frontiera fra il Nord ed il Sud del mondo». Di recente, il protagonismo neo-coloniale della Francia (appoggiato da Usa e Israele) ha relegato l’Italia a «alla semplice condizione di piattaforma logistica dei grandi alleati occidentali». Ma se l’Occidente deve comunque fare il conti con la Cina, questo influisce anche sul nuovo ruolo della Russia di Putin, la cui condizione ricorda quella dell’impero zarista di cent’anni fa, schiacciato a oriente dalla potenza giapponese e ad occidente dall’impero germanico.Oggi, riconosce Colonna, la politica estera russa ha costruito un asse preferenziale con la Cina, dato che in Occidente la pressione della Nato e degli Usa non si è minimamente allentata, né l’Unione Europea ha saputo smarcarsi dalla vecchia politica atlantica ereditata dalla guerra fredda. Smaltita la «passeggera ubriacatura filo-occidentale» del disastroso governatorato di Eltsin, «pur non perseguendo più una politica da superpotenza» la Russia post-sovietica «non rinuncia al suo ruolo di grande potenza sullo scenario mondiale», e per questo non rinuncia «ad una propria forte capacità militare, in grado di tutelare i propri fondamentali interessi strategici». Ora, alla luce della nuova gravitazione del mondo sull’Oceano Pacifico, si tratta di vedere se la Russia di Putin «seguirà la propria vocazione asiatica oppure quella europea».E’ davvero singolare, osserva Colonna, che l’Europa «continui a seguire pedissequamente i desiderata americani, rivolti ad isolare la Russia sul piano internazionale, invece di perseguire una propria assai più realistica politica di avvicinamento ed integrazione con il grande paese che costituisce la sola efficace copertura del nostro continente rispetto a qualsiasi ambizione cinese». Ma il peggio è in assoluto l’Italia: ancora una volta, il nostro paese si “scopre” collocato – dalla geografia e dalla storia – al crocevia delle forze da cui dipende il futuro del pianeta, ma le classi dirigenti italiane non se ne sono accorte. In loro c’è una «evidente mancanza di coscienza» dell’importanza geopolitica dello Stivale. E questo è «uno dei fattori più gravi e preoccupanti della nostra attuale condizione storica». Colonna la definisce «devastante pochezza» di uomini «privi di un sentire vivamente operante e non retorico per la patria». Mezzi uomini, «colpevolmente ignari delle prove che anche l’Italia si troverà presto a dover affrontare».Là fuori, infatti, impazza la grande crisi: ci si muove tra macerie economiche, provocate dall’oligarchia finanziaria che ha devastato la “democrazia del lavoro”. «La lezione del 2007-2008 non è stata compresa: basterebbe questa affermazione per definire lo scenario dell’economia mondiale dei prossimi mesi e anni», sostiene Colonna. «I grandi centri finanziari mondiali, che elaborano le strategie sistemiche dell’economia mondiale, dimostrano di non volere e di non potere rinunciare all’orientamento speculativo che è insieme all’origine della crisi che ha investito il sistema-mondo nell’ultimo quinquennio». Questa avidità cieca è anche «il fondamento stesso del potere dei “padroni dell’universo”, come questi oligarchi amano definirsi». Lo dimostra il fatto che «nessuna delle regolamentazioni statunitensi o europee ha affrontato le tre questioni che avrebbero dovuto essere preliminari all’adozione di qualsiasi modalità di risoluzione della crisi». Ovvero: paradisi fiscali, finanza speculativa fuori controllo e agenzie di rating che si fingono soggetti terzi, ma sono in realtà pilotati e pienamente complici dei grandi speculatori.L’Occidente ha risposto in un solo modo, cioè tutelando i monopolisti del crimine finanziario: negli Usa coi salvataggi delle banche “troppo grandi per fallire”, tenute in piedi coi dollari della Fed, e in Europa spremendo senza pietà paesi interi, con super-tasse e tagli selvaggi alla spesa vitale, cioè “fiscalizzando” le rovinose perdite del sistema finanziario internazionale, il cui conto viene fatto pagare ai lavoratori. Nessuna alternativa in campo, finora, «per il semplice fatto che, da oltre mezzo secolo, sono i centri finanziari mondiali a condizionare gli Stati-nazione dell’Occidente, grazie alla formazione di una vera e propria classe dirigente internazionale che occupa con continuità le posizioni chiave, indipendentemente dalle alternanze di governo e dalle competizioni elettorali». Classe dirigente «cui viene affidata la puntuale esecuzione di strategie economiche, monetarie e legislative costruite a livello globale». Si tratta di «una vera e propria oligarchia economico-politica internazionale, che ha progressivamente svuotato di significato la democrazia parlamentare occidentale», visto che il popolo è stato privato della sua prerogativa essenziale (la sovranità) e anche della sua principale forza politica (il lavoro).La finanziarizzazione dell’economia ha infatti trasformato i sistemi industriali, togliendo al lavoro ogni potere contrattuale: dagli anni ’80 la finanza controlla le aziende, i cui pacchetti azionari sono diventati “merce” sui mercati finanziari mondiali, distogliendo il management dall’economia reale, cioè strategie produttive e commerciali. Conseguenza: progetti dalla vita sempre più breve, anziché investimenti, ricerca e sviluppo. Da parte della proprietà industriale, si è così «accentuata la tendenza a servirsi degli utili per entrare nel grande gioco finanziario, piuttosto che reinvestire nel futuro delle imprese». Per questo, oggi, i grandi gruppi bancari «preferiscono investire i generosi aiuti ottenuti a spese della collettività nell’acquisto di titoli di Stato piuttosto che nel credito alle Pmi». E il peggio è che tutto questo è avvenuto nel silenzio generale della politica, incapace di elaborare un’alternativa «ai dogmi dell’economia speculativa».Risultato: «Si è persa l’occasione per prendere coraggiosamente atto della crisi come di un evento globale e non contingente, esigendo quindi, da parte delle classi dirigenti, un radicale mutamento di rotta». Pre-condizione: l’emancipazione dell’economia reale. «Imprenditori, lavoratori e consumatori» dovrebbero cioè liberarsi «dal controllo dell’oligarchia finanziaria e dalla strumentalizzazione politica dei partiti», prendendo il mano «istituzioni autonome dell’economia reale», in grado di «esigere il controllo, per esempio, della moneta e del credito». Inoltre, la crescente consapevolezza dei “limiti allo sviluppo” «impone anch’essa che le forze dell’economia reale, piuttosto che rincorrere le asticelle statistiche della “ripresa”, si impegnino a riorganizzare la produzione», in tutti i campi: energia, tecnologia, servizi, beni di largo consumo. Servono «prodotti a basso impatto, recuperabili, di elevata qualità e durata». In sostanza, per Colonna, serve una nuova alleanza strategica: imprenditori, lavoratori e consumatori devono accordarsi per sconfiggere la finanza parassitaria, e quindi «liberare l’economia dal peso congiunto del debito e della speculazione, realizzando quella democrazia del lavoro senza la quale la democrazia politica è ormai divenuta un guscio vuoto».Il principale processo storico che sta segnando il nuovo secolo, cioè lo spostamento del baricentro geopolitico dall’Atlantico al Pacifico, condanna l’Europa a diventare sempre più periferica. La crescente proiezione internazionale di una Cina punta chiaramente a diventare potenza navale oltreché commerciale, in Estremo Oriente ma anche in direzione dell’Africa e del Medio Oriente. Questo impegnerà direttamente gli Usa e li obbligherà ad una scelta fondamentale: Cina o ancora Giappone, come alleati strategici? Certo, Russia e India non staranno a guardare. E’ questo lo scenario nel quale Gaetano Colonna invita ad analizzare la grande crisi che sta travolgendo l’Eurozona. Se il vecchio continente perde terreno nel forziere petrolifero mediorientale, l’influenza cinese continua a crescere in teatri strategici per gli Stati Uniti, dall’Iran al Pakistan fino al continente nero, che rappresenta un’enorme riserva di materie prime e terre coltivabili.
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Ortaggi vietati, sul nostro cibo l’ultimo diktat dell’Ue
Semi proibiti e nuovi vincoli per l’orticoltura. L’11 dicembre è scaduto il termine che i deputati del Parlamento Europeo avevano per presentare emendamenti al testo con il quale la Commissione di Barroso intende introdurre una nuova regolamentazione per il mercato delle sementi. Un testo molto criticato dalle associazioni che raccolgono le realtà contadine di base che si battono per un’agricoltura sostenibile, per la libera circolazione dei semi e per la preservazione della biodiversità. Il nuovo regolamento, infatti, punta a sostituire 12 precedenti direttive europee. Secondo l’associazione europea “Seed Freedom”, sono in arrivo «condizioni ancora più limitative e ulteriore standardizzazione delle sementi». Lo scambio dei semi «conoscerà nuove restrizioni». Conseguenza: «Ciò che costituisce la base del nostro cibo diventerà parte di regole di mercato». Per le varietà locali, gli ortaggi rari e i frutti antichi, il nuovo regolamento «significherà barriere burocratiche ed economiche che saranno molto difficili da oltrepassare», mentre «diventerà più complicato anche l’accesso alle varietà biologiche».Probabilmente, spiega Giovanni Fez su “Il Cambiamento”, la commissione agricoltura del Parlamento voterà sul testo a gennaio 2014 e qualche mese dopo ci sarà la votazione in plenaria prima che venga adottata la decisione definitiva dal Consiglio d’Europa. “Seed Freedom” chiama quindi a raccolta tutti i cittadini affinché facciano pressione sulle istituzioni europee per non far passare il testo così com’è stato redatto: «Con queste modalità spesso si arriva ad ignorare la salute pubblica, la biodiversità e gli aspetti etici della produzione alimentare e degli interessi comuni». E’ in pericolo anche l’economia locale dei territori, quella delle filiere corte. «Chi si prenderà a cuore gli interessi della società civile, dei cittadini, degli agricoltori biologici e dei consumatori?». Attenzione: «L’uniformità genetica delle sementi non potrà mai risolvere il problema della fame nel mondo; in molti casi questi semi non riescono ad adattarsi alle condizioni locali e hanno bisogno di grandi quantità di pesticidi e fertilizzanti». Al contrario, «l’agricoltura biologica, biodinamica e tradizionale cerca di sviluppare varietà che diano risposte alle esigenze del luogo e che si adattino alle condizioni specifiche per produrre in maniera sostenibile».Lo dimostra un recente progetto co-finanziato dalla stessa Unione Europea attraverso il programma Alcotra (cooperazione franco-italiana), che in due anni ha creato “una rete per le biodiversità transfrontaliere”, varietà locali di ortaggi tradizionalmente coltivati in Piemonte e in Provenza, grazie all’impegno di agricoltori-custodi che hanno salvaguardato le specie, scongiurandone l’estinzione. Può apparire un impegno hobbystico, ma non lo è: la lotta contro l’erosione genetica degli ortaggi garantisce un’offerta più ampia verso il consumatore locale, fatta di prodotti veramente a chilometri zero, con un taglio netto al costo dei trasporti e all’impatto negativo – anche ecologico – della grande distribuzione, a tutto vantaggio delle economie locali e degli stessi consumatori, a cui si offrono prodotti sani, di stagione, coltivati senza pesticidi. A coordinare il progetto sono stati centri di ricerca francesi come il Grab di Avignone (agricoltura biologica) e la stessa Aiab, associazione italiana per l’agricoltura biologica. Obiettivo del progetto: il libero scambio di semi tra contadini italiani e francesi, per mettere al riparo – una volta per tutte – l’immensa ricchezza costituita dalla biodiversità coltivata negli orti.In Italia a battersi per la modifica del testo di Bruxelles è ora la Rete Semi Rurali. «La revisione attuata dalla Commissione Europea deve tenere in considerazione quegli agricoltori e quei cittadini-consumatori che, ad oggi, sono stati dimenticati dalla legislazione». Infatti, «chi cerca varietà locali, tradizionali, non uniformi o con particolari caratteristiche organolettiche o qualitative non può trovarle sul mercato, a causa di una legislazione troppo restrittiva». Inoltre, la nuova normativa sementiera «deve rispettare gli obblighi internazionali firmati dall’Unione Europea e in particolare il trattato Fao sulle risorse genetiche agricole per l’alimentazione e l’agricoltura, favorendo l’uso sostenibile della diversità agricola, tutelando i diritti degli agricoltori e garantendo l’accesso facilitato per fini di ricerca e sperimentazione alle varietà commercializzate». Le grandi lobby del cibo, comprese le multinazionali degli Ogm, vedono la sovranità alimentare dei territori come fumo degli occhi. Il guaio è che Bruxelles si limita a prendere ordini da loro. Non resta che una mobilitazione per tentare di sbarrare la strada a chi vuole cancellare la concorrenza locale al grande business. Ora, riassume “Il Cambiamento”, i prossimi mesi saranno decisivi: dopo la tappa di gennaio «ci si giocherà veramente tanto, perché non dimentichiamolo: chi controlla i semi, controlla il cibo e quindi la vita».Semi proibiti e nuovi vincoli per l’orticoltura. L’11 dicembre è scaduto il termine che i deputati del Parlamento Europeo avevano per presentare emendamenti al testo con il quale la Commissione di Barroso intende introdurre una nuova regolamentazione per il mercato delle sementi. Un testo molto criticato dalle associazioni che raccolgono le realtà contadine di base che si battono per un’agricoltura sostenibile, per la libera circolazione dei semi e per la preservazione della biodiversità. Il nuovo regolamento, infatti, punta a sostituire 12 precedenti direttive europee. Secondo l’associazione europea “Seed Freedom”, sono in arrivo «condizioni ancora più limitative e ulteriore standardizzazione delle sementi». Lo scambio dei semi «conoscerà nuove restrizioni». Conseguenza: «Ciò che costituisce la base del nostro cibo diventerà parte di regole di mercato». Per le varietà locali, gli ortaggi rari e i frutti antichi, il nuovo regolamento «significherà barriere burocratiche ed economiche che saranno molto difficili da oltrepassare», mentre «diventerà più complicato anche l’accesso alle varietà biologiche».