Archivio del Tag ‘agricoltura’
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Berlino ci divora barando, come ha fatto con la Germania Est
Verso la fine della II Guerra Mondiale gli Usa avevano un piano, il Piano Morgenthau (poi non eseguito per ovvie ragioni connesse alla guerra fredda), per eliminare dopo la guerra tutte le industrie tedesche, facendo della Germania un paese puramente agricolo. Il mezzo per ottenere ciò era semplice: imporre alla Germania l’unione monetaria con gli Usa, la cui moneta era allora molto forte: il prezzo delle merci tedesche si sarebbe moltiplicato e le aziende avrebbero chiuso, non potendo più esportare, e l’industria yankee avrebbe preso i suoi mercati e i suoi assets migliori gratis o quasi. Gli Stati Uniti non fecero questo alla Germania dopo la sua resa, però la Germania Ovest lo fece poi alla Germania Est negli anni ’90. E ora lo fa all’Italia. Oramai è stato acquisito: essendosi inchiodata a un cambio elevato e fisso – elevato sia rispetto agli altri paesi dell’Eurozona, che rispetto agli altri – e non potendo più svalutare la moneta per mantenersi competitiva sui mercati internazionali, l’Italia, per restare competitiva e limitare la sua deindustrializzazione, ha dovuto svalutare i lavoratori, riducendo i salari/redditi, tassandoli di più, tagliando e differendo le pensioni.Ma la riduzione dei redditi ha automaticamente causato il crollo della domanda interna e della capacità della gente di pagare i debiti già contratti, quindi un crollo degli incassi di chi produce per il mercato interno e un’impennata delle insolvenze e dei fallimenti. La riduzione dei salari viene in parte compensata con ammortizzatori sociali finanziati con più tasse e contributi, in parte scaricando i disoccupati e i sottoccupati sui risparmi della famiglia e sulle pensioni dei genitori o dei nonni. Tutto ciò sta consentendo una parziale conservazione dell’industria e dei mercati esteri, ma, abbisognando di drenare risparmi e andando a colpire il settore immobiliare (quello che innesca le fasi di espansione e di contrazione), non può tirare avanti ancora a lungo. Inoltre, i vincoli di bilancio, il limite del 3% al deficit sul Pil, la botta dei trasferimenti al Meccanismo Europeo di Stabilità (57 miliardi), la connessa ascesa della pressione fiscale, fa chiudere o emigrare le aziende. Emigrano anche tecnici, professionisti, capitali. Questi sono i risultati dei “compiti a casa”.Sostanzialmente, la recessione è guidata da una costante sottrazione di liquidità voluta politicamente da Berlino via Draghi, che garantisce di fare tutto ciò che serve per sostenere i debiti pubblici, ma a condizione che si facciano quei compiti a casa, ossia che si demolisca l’economia e la si doni a un capitalismo di conquista, apolide e antisociale. Tutti questi meccanismi operano costantemente, appunto come meccanismi, e giorno dopo giorno demoliscono l’Italia e la rendono dipendente, sottomessa, povera rispetto alla Germania. Un po’ più di flessibilità e un po’ meno di spread o un po’ più di spesa e inflazione in Germania non risolverebbero quanto sopra, non fermerebbero la macchina della deindustrializzazione, anche se Renzi cerca di distogliere da ciò l’attenzione attirandola su di sé con la sua azione frenetica e inconcludente (se non nel male). Non la fermerebbe nemmeno un aumento della domanda interna, perché questo si dirigerebbe verso beni di importazione, avvantaggiati dalla forza dell’euro.E poi ci sono gli utili tromboni dell’europeismo idealista, che evocano le favole moralistiche di Spinelli e soci per coprire una realtà di scontro di interessi oggettivamente contrapposti, di sopraffazioni spietate, di colonizzazione. Sarebbe molto utile, a coloro che cercano di tutelare gli interessi italiani in relazione alle politiche europee e monetarie della Germania attuale, a coloro che trattano questi temi nelle sedi europee e nazionali, conoscere come il grande capitale privato tedesco occidentale, durante il processo di riunificazione della Germania iniziato nel 1989, usò una serie di mezzi, alcuni dei quali terroristici, altri formalmente criminali, per impadronirsi delle aziende, dei beni immobili, delle risorse naturali, dei mercati della Germania Orientale senza pagare o quasi, espropriandone la popolazione che era giuridicamente proprietaria di questi assets, e trasferendo i costi dell’operazione a carico dei conti pubblici, ossia dei contribuenti della Germania Occidentale nonché a carico dei lavoratori della Germania Orientale, di cui persero il posto di lavoro circa 2 milioni e mezzo, su circa 16 milioni di abitanti.E’ tutto descritto nel recentissimo saggio di Vladimiro Giacché “Anschluss”. Queste cose vanno sapute per poterle sbattere sul muso a Merkel, Schäuble, Katainen, smascherando i loro veri fini, quando si mettono a predicare i compiti da fare a casa, mentre dovrebbero finire davanti a una Norimberga finanziaria assieme ai loro mandanti. I metodi usati per depredare la Germania Orientale furono molteplici, iniziando con la creazione di allarme default della Germania Est, nella prima fase, in tutto analogo a quello che i banchieri tedeschi scatenarono nel 2011 contro il Btp per sostituire Berlusconi con un premier che li servisse bene. E anche: l’imposizione di un’unione monetaria con cambio uno a uno tra marco orientale e marco tedesco per le partite correnti, che determinò di punto in bianco la quadruplicazione dei prezzi delle merci della Germania Orientale, con la conseguente perdita dei mercati in favore di aziende concorrenti della Germania Occidentale, e naturalmente la chiusura delle imprese orientali con massicci licenziamenti.Poi il sistematico ricorso al falso in bilancio per far apparire irrecuperabili molte aziende sane della Germania orientale, onde poterle comperare a costo nullo o quasi; quindi la rimozione dei pochi funzionari onesti, che rifiutavano di dichiarare il falso; l’imposizione delle “regole di mercato” – in realtà, della potenza economica e politica – onde occupare i mercati della Germania Orientale con merci di produzione occidentale e così favorire le aziende che producevano queste merci a danno della produzione locale; la costante collaborazione del governo federale (Kohl) con gli avidi criminali del grande capitale – e l’autorevole appoggio di… Jean Claude Juncker! Eh sì, le “integrazioni” sono sempre, nella realtà, business sfrenato e disumano, ora come allora. La Germania fa le integrazioni col disintegratore. L’agenzia fiduciaria incaricata della vendita dei beni del popolo della Germania Orientale, la Treuhandanstalt, un veicolo per realizzare questi fini e, in luogo di concludere la suggestione con un utile netto derivato dalla vendita-privatizzazione dei beni pubblici orientali, produsse un buco di oltre 1 miliardo di marchi, sicché i cittadini orientali, ciascuno dei quali aveva ricevuto l’assegnazione di una quota azionaria nell’agenzia fiduciaria del valore teorico di 40.000 marchi, alla fine dei conti non ricevettero nemmeno un pfennig per l’espropriazione dei beni popolari che avevano subito.Dopo il saccheggio, furono intentati processi penali e civili, indagini formali sull’operato dell’agenzia fiduciaria e su altre vicende relative all’annessione della Germania Orientale, ma, grazie all’opposizione del governo, all’inerzia del Parlamento, agli insabbiamenti giudiziari, al fatto che tutta la gestione della missione era stata impostata e imperniata su tecnocrati a bassa o nulla responsabilità e ad alta opacità, come gli attuali eurocrati, i processi e le indagini finirono nel nulla. Il profitto compera tutti i poteri dello Stato. Per contro, mentre il Pil della Germania Orientale crollava (-40,8% nei primi 2 anni, export -60%), quello della Germania Occidentale, grazie alle acquisizioni sottocosto di cui sopra, fece un balzo all’insù di circa il 7%. A dispetto della vulgata ufficiale, ancora oggi la Germania Orientale rimane un paese, un pezzo di paese, arretrato, che non ha agganciato la parte occidentale, che vive di trasferimenti posti a carico del contribuente occidentale, in quanto il deficit commerciale dell’Est è del 45% mentre quello del Meridione è solo il 12,5%: quindi la Germania orientale è messa molto peggio della cosiddetta Terronia. Ma, ovviamente, non è colpa sua, bensì effetto di una rapina assistita dal governo di Bonn, nell’interesse del capitalismo tedesco occidentale, e con la giustificazione pseudo-scientifica dell’ideologia del mercato e delle sue regole, in cui si nasconde il fatto che il mercato non è libero ma è l’arena di scontri e rapporti di forza e sopraffazione.Qualcosa del genere dell’unificazione tedesca del 1990 era già avvenuto in Italia, con la annessione del Sud, un’area complessivamente meno produttiva del Nord – annessione che aveva portato non a una convergenza delle due parti d’Italia, ma a una maggiore divergenza in termini di efficienza e produttività e competitività, in quanto il Nord attraeva e distoglieva capitali e competenze dal Sud, che quindi si deindustrializzava e si votava a diventare o restare un’area agricola e marginale. Analoga operazione sta avvenendo oggi sotto il pretesto della unificazione europea e della unione monetaria, ossia dell’euro. La Germania entrò nell’euro a condizione che vi entrasse d’Italia, l’altro paese ad alta capacità manifatturiera. Perché? Perché se l’Italia fosse rimasta fuori avrebbe fatto una forte concorrenza alla Germania, mentre per contro l’euro avrebbe alzato il corso della valuta italiana e abbassato il corso della valuta tedesca, in tal modo favorendo le esportazioni tedesche soprattutto entro l’unione monetaria europea e limitando quelle italiane, che diventavano meno competitive.Così è avvenuto: contrariamente alla quasi totalità dei paesi dell’Eurozona, in cui la quota manifatturiera del Pil è calata fortemente, la Germania, con l’euro, ha avuto un aumento di circa il 25% di questa quota, dovuto soprattutto ad esportazioni nei mercati dei paesi partners dell’Eurozona, ossia dovuta a quote di mercato sottratte ad essi. Esportazioni che i banchieri tedeschi hanno sostenuto facendo prestiti e investimenti verso i paesi euro-deboli, Grecia e Spagna in testa, ben sapendo che prima o poi quei paesi non sarebbero riusciti a sostenere le scadenze di pagamento – anche poiché i loro conti erano stati truccati ad hoc – e che, a qual punto, sarebbe scoppiata quella crisi che ha poi in effetti consentito alla Germania di imporre le sue regole, i suoi interessi e i suoi uomini al potere, grazie al suo controllo sulla Bce, e a costringere altri paesi, Italia in testa, a svenarsi per prestare a Spagna, Grecia, Portogallo e Irlanda i soldi necessari a realizzare i loro lucri usurari e fraudolenti.Anche se a molti può venire il pensiero che il vero compitino da fare a casa sia liberarsi della Germania una volta per sempre, quanto sopra descritto non va letto e presentato in chiave nazionalistica, ossia come una colpa della popolazione tedesca – sostanzialmente inconsapevole – bensì in chiave di guerra di classe, perché, sotto mentite spoglie ideologiche, è una campagna di conquista del capitalismo finanziario a spese della popolazione generale. L’Italia ha un’arma negoziale molto potente nei confronti della Germania: minacciare di uscire dall’Eurosistema (cosa che farebbe saltare l’euro e condannerebbe la Germania a una rivalutazione monetaria fortissima, che metterebbe fuori mercato le sue produzioni e in ginocchio la sua economia). Non usare quest’arma e lasciare che il paese sia fatto a pezzi giorno dopo giorno, è un delitto capitale. Ai governanti italiani che, facendo finta di non vedere la realtà, hanno collaborato e collaborano a questo disegno a danno di tutti noi, vorrei chiedere: lo fate perché minacciati, perché ricattati, o perché pagati? Quanto?(Marco Della Luna, “Euro-Anschluss, il fantasma di Morgenthau”, dal blog di Della Luna del 17 ottobre 2014).Verso la fine della II Guerra Mondiale gli Usa avevano un piano, il Piano Morgenthau (poi non eseguito per ovvie ragioni connesse alla guerra fredda), per eliminare dopo la guerra tutte le industrie tedesche, facendo della Germania un paese puramente agricolo. Il mezzo per ottenere ciò era semplice: imporre alla Germania l’unione monetaria con gli Usa, la cui moneta era allora molto forte: il prezzo delle merci tedesche si sarebbe moltiplicato e le aziende avrebbero chiuso, non potendo più esportare, e l’industria yankee avrebbe preso i suoi mercati e i suoi assets migliori gratis o quasi. Gli Stati Uniti non fecero questo alla Germania dopo la sua resa, però la Germania Ovest lo fece poi alla Germania Est negli anni ’90. E ora lo fa all’Italia. Oramai è stato acquisito: essendosi inchiodata a un cambio elevato e fisso – elevato sia rispetto agli altri paesi dell’Eurozona, che rispetto agli altri – e non potendo più svalutare la moneta per mantenersi competitiva sui mercati internazionali, l’Italia, per restare competitiva e limitare la sua deindustrializzazione, ha dovuto svalutare i lavoratori, riducendo i salari/redditi, tassandoli di più, tagliando e differendo le pensioni.
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Massacro sociale europeo: i nazisti erano meno subdoli
Quattro milioni e 68.250 persone, in Italia, costrette a chiedere aiuto per mangiare nel 2013, con un aumento del 10% cento sull’anno precedente. Lo ha calcolato la Coldiretti, sulla base della relazione che riguarda il “Piano di distribuzione degli alimenti agli indigenti” realizzato dall’Agea, l’agenzia per le erogazioni in agricoltura, in riferimento ai dati Istat sulle famiglie senza redditi da lavoro. Numero approssimato per difetto: tiene conto soltanto di chi ha chiesto aiuto attraverso canali più o meno ufficiali, trascurando chi si è rivolto a famiglie, genitori e amici. «Se mettessimo in fila quelle persone, dando a ciascuna soltanto mezzo metro di spazio, si formerebbe una fila che parte da Reggio Calabria e finisce a Bruxelles», scrive “Come Don Chisciotte”. Bruxelles, cioè la città «in cui ha sede il meccanismo di dominazione tirannica basato sullo smantellamento delle istituzioni democratiche e sull’impoverimento generalizzato che si definisce Unione Europea».«Facciamo ora uno sforzo più grande, e immaginiamo di prendere non solo gli italiani che grazie ai destini magnifici e progressivi dell’Europa reale hanno dovuto calpestare la propria dignità per avere un piatto di minestra, ma quelli di tutti i paesi che aderiscono all’Ue, ridotti in miseria dalla moneta unica. A quel punto – continua il blog – il continente che un tempo possedeva il più avanzato e inclusivo sistema di welfare, e per questo era universalmente stimato e rispettato come quello in cui la sua civiltà millenaria si esprimeva al livello più alto, si vedrebbe attraversato in ogni direzione da file di diseredati, lunghe migliaia e migliaia di chilometri». Se i progetti grandiosi della Ue, come i cosiddetti corridoi ferroviari trans-europei ad alta velocità che avrebbero dovuto attraversare il continente sono rimasti in gran parte sulla sulla carta, in compenso «l’Europa reale ha realizzato file ancora più lunghe di poveri, disoccupati e affamati». Statistica: «Solo la più sanguinosa delle guerre, quella combattuta dal 1939 al 1945, è stata capace di produrre qualcosa di simile. Malgrado le armi convenzionali non siano finora entrate in gioco, le conseguenze della moneta unica sono di entità simile a quelle proprie di un evento bellico di tale portata».Come ormai sostengono diverse fonti autorevoli, negli Stati che dovrebbero essere affratellati dai trattati di unione si sta effettivamente combattendo una guerra, anche se non con i mezzi corazzati, ma con gli strumenti della finanza. «Che sono forse più micidiali, essendo capaci di produrre danni ancora maggiori». Tutto questo per che cosa? «Per dare soddisfazione alla patologia di accumulazione compulsiva di un branco di oligarchi, e il doveroso compenso ai politici non eletti da nessuno al loro servizio», e anche «per il prestigio politico da essi speso nella realizzazione del più micidiale strumento di devastazione sociale e istituzionale oggi conosciuto, quello che risponde al nome di Euro». Di fronte a un disastro simile, «causato deliberatamente», il capo del terzo “governo fantoccio” che si succede in Italia in poco più di due anni, Matteo Renzi, «non trova di meglio che rispondere con l’elemosina degli 80 euro», che dovranno essere ripagati «mediante misure più costose e permanenti, come al solito a spese dei redditi medio-bassi».“L’elemosina” va comunque a chi ha già una busta paga, per quanto misera: viceversa, «chi non ha niente, ovvero il milione e più di famiglie che non percepiscono reddito da lavoro alcuno, sempre certificato dall’Istat, niente avrà». Questo, «in base alla logica consolidata negli anni che prevede di abbandonare al proprio destino la fascia dei più bisognosi, di giorno in giorno più ampia: se non si ha nulla, nulla si ha da pretendere e tantomeno da offrire». E’ la politica sociale «dei partiti di falsa sinistra, da decenni intenta alla spoliazione e all’impoverimento generalizzato dei ceti subalterni». Quei partiti, secondo “Come Don Chisciotte”, «hanno definitivamente sancito l’assenza di qualunque volontà di porre un benché minimo rimedio alle conseguenze delle loro politiche scellerate», ossia «l’essersi messi al servizio delle élite per eseguire le politiche più oltranziste della destra finanziaria», il capitalismo assoluto. «Si perviene così a una forma di dissociazione dalla realtà in base a ordini superiori, quelli provenienti dai vertici del partito, che a prima vista potrebbe apparire patetica ma in realtà è ignobile e vergognosa», perché «se si agisce in modo tale da favorire l’aggravarsi delle condizioni generali, oltretutto su mandato di poteri esterni al proprio paese», allora «ci si assumono responsabilità enormi». .“Come Don Chisciotte” traccia un parallelo tra «l’attività ademocratica e antisociale della politica attuale» e il comportamento dei magnate degli inizi del secolo scorso, come Rockefeller: «Per il loro arricchimento personale, e migliorare la competitività della propria impresa, non hanno esitato a ordinare che donne e bambini fossero trucidati: erano le famiglie dei lavoratori impiegati nelle miniere del Colorado che chiedevano condizioni di vita meno disumane». Gli autori della restaurazione iper-capitalistica e della conseguente macelleria sociale oggi in atto sono «come nazisti e moderni Mengele». “Nazista” è parola assurta a sinonimo universale della crudeltà peggiore e della negazione per il valore e l’intangibilità della vita umana: nel mondo occidentale, si viene ammaestrati fin dalla più tenera età a riconoscere il nazismo come il male assoluto per definizione. Ma i “nazisti” di oggi si riparano dietro al “frame” della persuasione occulta: il sangue non si vede, la strage non viene percepita subito. Perfino gli esiti quotidiani del disastro-Europa «diventano controversi e di interpretazione incerta, malgrado ciascuno si ritrovi con meno soldi in tasca e un potere d’acquisto ridotto ai minimi termini», la prole disoccupata o precaria.La potente manipolazione mediatica rende gli individui incapaci di stabilire «persino il più elementare legame di causa ed effetto». Eppure, il «massacro sociale odierno» va oltre il nazismo, secondo “Come Don Chisciotte”: «Infatti il nazismo, come tutte le altre dittature dello scorso secolo, in primo luogo agiva in nome e per conto del proprio Stato o parte di esso, sia pure con metodi condannevoli. La classe politica di oggi, invece, opera su mandato di poteri esterni, dei quali si è fatta collaborazionista, o meglio fantoccio». Soprattutto, «il nazismo riconosceva la propria natura e non aveva problemi a palesarla». Viceversa, «i moderni sgherri dell’assolutismo iper-capitalista si mascherano vilmente dietro le loro teorie deliranti», palesemente insostenibili ma «ripetute fino a renderle i dogmi su cui si basa il lavaggio del cervello di massa». E questo avviene «dietro la facciata delle istituzioni democratiche che nel frattempo hanno provveduto a sovvertire, svuotandole del loro contenuto originario, con lo scopo di trasformarle negli strumenti atti a giungere agli obiettivi di dominazione assoluta che si sono prefissi».Si adotta questo modello, oggi, grazie alla consapevolezza «che proprio l’essersi palesate in quanto tali è stato il primo punto debole di quelle dittature», all’epoca «finanziate molto generosamente dalle banche controllate da chi oggi persegue il disegno di dominazione globale». Proprio «la necessità di tenere nascosto quel disegno, per non renderlo riconoscibile fino al suo compimento definitivo, sta a testimoniare il valore che chi lo ha attuato è il primo ad attribuirgli: il che equivale a una piena e inappellabile confessione di colpevolezza». In più, le guerre di allora erano dichiarate e combatture alla luce del sole. «I tiranni di oggi invece muovono guerre invisibili ma ancora più micidiali, che sovente hanno per vittima il loro stesso Stato». Se e quando il popolo se ne accorge, «è troppo tardi per rimediare». Per di più, «la tirannide attuale ritiene di poter fare a meno di una qualsiasi base di consenso che non sia quella dell’1%, cosa che le permette di colpire indiscriminatamente qualunque ceto sociale e di porsi come obiettivo la distruzione totale di tutto ciò che possa essere assimilato a una qualche forma di welfare». Al contrario, «le dittature storiche ricercavano comunque un consenso, il che le portava a realizzare opere di valore sociale, sia pure per motivi demagogici e inserite nel contesto delle loro politiche totalitarie».Per “Come Come Don Chisciotte”, dunque, «definire nazisti gli autori dell’odierno massacro sociale è fuorviante, ma soprattutto riduttivo». Il perché ce lo spiega George Orwell, nel suo capolavoro “1984”, in cui denuncia i problemi di percezione indotti dalla manipolazione linguistica, un deficit cognitivo che porta al blackout mentale e all’incapacità di articolare un’autodifesa fondata sul pensiero critico. «Assieme alla negazione sistematica della realtà e alla riscrittura altrettanto sistematica del passato, proprio questo va a costituire l’architrave dell’ordinamento tirannico descritto dallo scrittore inglese, cui non a caso la realtà di oggi rassomiglia in maniera sempre più evidente». E’ urgente che «qualche intellettuale di buona volontà si sforzi per coniare un neologismo», un termine «che condensi in sé tutta l’enorme e inedita carica di vile malvagità insita nel disegno restaurativo dell’assolutismo capitalista e dei suoi esecutori», in modo da incidere nell’immaginario comune. «Fino ad allora non sarà possibile far sì che l’opinione pubblica si renda conto fino in fondo di quanto sta avvenendo».Quattro milioni e 68.250 persone, in Italia, costrette a chiedere aiuto per mangiare nel 2013, con un aumento del 10% cento sull’anno precedente. Lo ha calcolato la Coldiretti, sulla base della relazione che riguarda il “Piano di distribuzione degli alimenti agli indigenti” realizzato dall’Agea, l’agenzia per le erogazioni in agricoltura, in riferimento ai dati Istat sulle famiglie senza redditi da lavoro. Numero approssimato per difetto: tiene conto soltanto di chi ha chiesto aiuto attraverso canali più o meno ufficiali, trascurando chi si è rivolto a famiglie, genitori e amici. «Se mettessimo in fila quelle persone, dando a ciascuna soltanto mezzo metro di spazio, si formerebbe una fila che parte da Reggio Calabria e finisce a Bruxelles», scrive “Come Don Chisciotte”. Bruxelles, cioè la città «in cui ha sede il meccanismo di dominazione tirannica basato sullo smantellamento delle istituzioni democratiche e sull’impoverimento generalizzato che si definisce Unione Europea».
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Un Piano Marshall: per salvare la Terra, non le banche
Troviamo miliardi per qualsiasi cosa – banche, antiterrorismo – tranne che per il futuro della Terra. «Ho negato il cambiamento climatico più a lungo di quanto mi piaccia ammettere», dichiara Naomi Klein, citando la relazione 2014 dell’Associazione Americana per l’Avanzamento della Scienza, la più importante al mondo. Il problema? Molti di noi non sospettano che, oltre un certo limite, il cambiamento climatico – gas serra e innalzamento del mare – potrebbe precipitare a velocità esponenziale: «Spingere le temperature globali oltre determinate soglie potrebbe innescare dei cambiamenti bruschi, imprevedibili e potenzialmente irreversibili, dagli effetti massicci, dirompenti e su larga scala». A quel punto, anche senza ulteriori incrementi di CO2, alcuni processi potenzialmente inarrestabili si sarebbero già messi in moto: «Possiamo pensare a questo effetto come a quello dell’improvvisa rottura dei freni o dello sterzo di un’auto, quando non possiamo più controllare né il problema né le sue conseguenze».«Sapevo che stava avvenendo, sicuro», ammette la Klein in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, «ma sono rimasta piuttosto sul vago riguardo i dettagli, e ho anche scremato la maggior parte delle notizie, soprattutto quelle veramente spaventose». Molti «si impegnano nella negazione del cambiamento climatico», oppure si limitano a un allarme episodico. «Prendiamo atto del problema, ma poi raccontiamo a noi stessi delle storie confortanti su quanto gli esseri umani siano intelligenti, e che presto realizzeremo un qualche miracolo tecnologico che ci permetterà di “succhiare” tranquillamente il carbonio dai cieli, o di abbassare magicamente il calore del sole». Oppure ci concentriamo innanzitutto sullo sviluppo economico, «come se avere in tasca un paio di dollari in più possa fare molta differenza quando la nostra città sarà sott’acqua». Non ci occupiamo del problema, «anche se sappiamo che nessuno è al sicuro, e i più deboli meno di tutti». Cambiare stile di vita? Utile, ma non basta.Conosciamo il pericolo, ormai, ma restiamo passivi: «Sappiamo che, se permettiamo alle emissioni di continuare a crescere anno dopo anno, le variazioni climatiche finiranno con il cambiare tutto il nostro mondo». Apocalisse: «Le principali città saranno molto probabilmente sommerse dall’acqua, antiche culture saranno inghiottite dai mari, e c’è una probabilità molto alta che i nostri figli debbano trascorrere gran parte della loro vita in fuga da feroci tempeste e siccità estreme». Eppure, esitiamo: nessuna reazione, «come se non avessimo a che fare con una vera e propria crisi». Preferiamo «continuare a negare a noi stessi quanto in realtà siamo impauriti». Per noi, super-consumatori, «si tratta di dover cambiare il modo in cui viviamo, il funzionamento delle nostre economie e anche le storie che raccontiamo riguardo il nostro ruolo sulla Terra». La buona notizia? «E’ che molti di questi cambiamenti sono decisamente di tipo non-catastrofico», ma succede di scoprirlo in ritardo.Naomi Klein ricorda che nell’aprile 2009 conobbe al Wto di Ginevra la giovane Angelica Navarro Llanos, ambasciatrice della Bolivia, «un paese povero, dal piccolo budget internazionale». La Navarro Llanos aveva da poco assunto il portafoglio del clima. «Durante il pranzo in un ristorante cinese vuoto, mi spiegò (usando le bacchette per fare un grafico sull’andamento globale delle emissioni) che vedeva nel cambiamento climatico una terribile minaccia per il suo popolo, ma anche un’opportunità. Ci vedeva una minaccia per ovvie ragioni: la Bolivia è straordinariamente dipendente dai ghiacciai per l’acqua potabile e per l’irrigazione, e quelle bianche montagne innevate che sovrastano la sua capitale stavano diventando di color grigio e marrone ad un ritmo allarmante. L’opportunità, disse la Navarro Llanos, stava invece nel fatto che paesi come il suo non avevano dato quasi alcun contribuito all’impennata delle emissioni, e adesso erano in grado di dichiarare se stessi “creditori climatici”. Potevano rivendicare soldi e supporto tecnologico dai grandi “paesi inquinatori” sia per coprire i costi che dovevano affrontare per i disastri legati al clima, che per potersi sviluppare lungo un percorso energetico “verde”».Alle Nazioni Unite, la Navarro Llanos aveva messo sul tavolo la questione di questa tipologia di “trasferimento di ricchezza”: «Milioni di persone che vivono su piccole isole, in paesi meno sviluppati o senza sbocco sul mare, così come alcune vulnerabili comunità del Brasile, dell’India e della Cina – disse – soffrono per gli effetti di un problema a cui non hanno dato alcun contributo». Se vogliamo ridurre le emissioni nel corso del prossimo decennio, continuò all’Onu la diplomatica boliviana, «abbiamo bisogno della più grande mobilitazione di massa mai avvenuta nella storia». Letteralmente: «Abbiamo bisogno di un Piano Marshall per la Terra». Questo piano «deve mobilitare dei finanziamenti e dei trasferimenti di tecnologia di dimensioni senza precedenti. Per garantire la riduzione delle emissioni e allo stesso tempo un miglioramento della qualità della vita, queste tecnologie devono essere rese disponibili ad ogni paese. Abbiamo a disposizione solo un decennio».Naturalmente un Piano Marshall per la Terra costerebbe centinaia, se non migliaia di miliardi di dollari, precisa Naomi Klein. E qualcuno potrebbe aver pensato che il suo costo avrebbe reso questa proposta fallita in partenza: era il 2009, e la crisi finanziaria globale era in pieno svolgimento. «Ma la logica distruttiva dell’austerità – passando dai banchieri alle persone sotto forma di licenziamenti nel settore pubblico, di chiusura delle scuole e via dicendo – non era ancora stata normalizzata». Invece di rendere meno plausibili le idee della Navarro Llanos, la crisi ha avuto l’effetto opposto: «Tutti avevamo appena visto che migliaia di miliardi di dollari venivano usati in quella specie di “Piano Marshall” concepito per soccorrere il settore finanziario, quando le nostre élites decisero di “dichiarare la crisi”. Se fosse stato permesso alle banche di fallire – ci fu detto – sarebbe crollato anche il resto dell’economia». Era una questione di sopravvivenza collettiva, sicché il denaro doveva essere trovato a tutti i costi. E solo pochi anni prima, aggiunge la Klein, la stessa operazione di mobilitazione finanziaria era stata realizzata di corsa, dopo l’11 Settembre, per «costruire uno “Stato di polizia”» in risposta alla minaccia terroristica.Banche e attentati valgono bene un super-sacrificio, mentre il clima no: «Il cambiamento climatico non ha mai ricevuto un trattamento da “tempo di crisi” da parte dei nostri leader, nonostante che il rischio di distruggere la vita delle persone sia di gran lunga maggiore del crollo di una qualche banca o di un paio di grattacieli», scrive Naomi Klein. «Il taglio delle emissioni di gas serra, che gli scienziati ci dicono sia assolutamente necessario per ridurre in modo considerevole il rischio di una catastrofe, è trattato più che altro come un gentile suggerimento, un qualcosa che può essere rimandato praticamente a tempo indeterminato». Errore fatale. Sappiamo benissimo che «quello che viene dichiarato in “stato di crisi” è una mera espressione del potere, e non una priorità che deriva dalla gravità del problema». E noi? «Non dobbiamo essere solo spettatori di tutto questo: i politici non sono gli unici ad avere il potere di dichiarare una crisi. Anche i movimenti di massa, costituiti da persone normali, possono dichiararne una».Troviamo miliardi per qualsiasi cosa – banche, antiterrorismo – tranne che per il futuro della Terra. «Ho negato il cambiamento climatico più a lungo di quanto mi piaccia ammettere», dichiara Naomi Klein, citando la relazione 2014 dell’Associazione Americana per l’Avanzamento della Scienza, la più importante al mondo. Il problema? Molti di noi non sospettano che, oltre un certo limite, il cambiamento climatico – gas serra e innalzamento del mare – potrebbe precipitare a velocità esponenziale: «Spingere le temperature globali oltre determinate soglie potrebbe innescare dei cambiamenti bruschi, imprevedibili e potenzialmente irreversibili, dagli effetti massicci, dirompenti e su larga scala». A quel punto, anche senza ulteriori incrementi di CO2, alcuni processi potenzialmente inarrestabili si sarebbero già messi in moto: «Possiamo pensare a questo effetto come a quello dell’improvvisa rottura dei freni o dello sterzo di un’auto, quando non possiamo più controllare né il problema né le sue conseguenze».
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Ebola, i Marines si installano tra petrolio, oro e diamanti
Si scrive Ebola, ma si legge Business. Metalli preziosi, materie prime, terre rare. Grazie allo stato d’emergenza proclamato per la temutissima epidemia – in realtà assai meno letale delle altre patologie di massa che straziano l’Africa – gli Stati Uniti installano in Liberia, al crocevia delle maggiori ricchezze del continente nero, la nuova task force di Africom, il comando speciale delle forze armate statunitensi creato per contendere alla Cina il controllo sulle grandi risorse africane. Nulla di ciò, ovviamente, traspare dalla retorica di Obama, secondo cui i 3.000 soldati agli ordini del generale Darryl Williams, collegati con un centro logistico in Senegal e pronti a vigilare con funzioni di «comando e controllo» sugli ospedali da campo, dimostrano che solo l’America ha «la capacità e volontà di mobilitare il mondo contro i terroristi dell’Isis», di «chiamare a raccolta il mondo contro l’aggressione russa», oltre che di «contenere e debellare l’epidemia di Ebola», definita «senza precedenti», visto che «si sta diffondendo in maniera esponenziale in Africa occidentale».Anche se la possibilità che l’ebola si propaghi negli Stati Uniti è estremamente bassa, scrive Manlio Dinucci sul “Manifesto”, in un articolo ripreso da “Contropiano”, in Africa occidentale l’epidemia avrebbe già provocato la morte di «oltre 2.400 uomini, donne e bambini». Evento certamente tragico ma comunque limitato, osserva Dinucci, se lo si rapporta al fatto che l’Africa occidentale ha circa 350 milioni di abitanti e l’intera regione subsahariana quasi 950 milioni. «Ogni anno muore per l’Aids nella regione oltre un milione di adulti e bambini», senza contare che «la malaria provoca ogni anno oltre 600.000 morti, per la maggior parte tra i bambini africani», e inoltre «nell’Africa subsahariana e nell’Asia meridionale la diarrea uccide ogni anno circa 600.000 bambini, oltre 1.600 al giorno, di età inferiore ai 5 anni». Sono “malattie della povertà”, dovute alla sottoalimentazione e alla malnutrizione, alla mancanza di acqua potabile, alle cattive condizioni igienico-sanitarie in cui vive la popolazione povera, che (secondo i dati della stessa Banca Mondiale) costituisce il 70% di quella totale, di cui il 49% si trova in condizioni di povertà estrema.«La campagna di Obama contro l’Ebola appare quindi strumentale», scrive Dinucci. «L’Africa occidentale, dove il Pentagono installa un proprio quartier generale con la motivazione ufficiale della lotta all’Ebola, è ricchissima di materie prime: petrolio in Nigeria e Benin, diamanti in Sierra Leone e Costa d’Avorio, fosfati in Senegal e Togo, caucciù, oro e diamanti in Liberia, oro e diamanti in Guinea e Ghana, bauxite in Guinea». Inoltre, «le terre più fertili sono riservate alle monocolture di cacao, ananas, arachidi e cotone, destinate all’esportazione», mentre «la Costa d’Avorio è il maggiore produttore mondiale di cacao». Beninteso: «Dallo sfruttamento di queste grandi risorse poco o nulla arriva alla popolazione, dato che i proventi vengono spartiti tra multinazionali ed élite locali, che si arricchiscono anche con l’esportazione di legname pregiato con gravi conseguenze ambientali dovute alla deforestazione».Gli interessi delle multinazionali statunitensi ed europee, continua Dinucci, sono però messi in pericolo dalle ribellioni popolari come quella nel delta del Niger, provocata dalle conseguenze ambientali e sociali dello sfruttamento petrolifero. Soprattutto, sul business euro-atlantico incombe la crescente concorrenza della Cina, «i cui investimenti sono per i paesi africani molto più utili e vantaggiosi». Così, proprio «per mantenere la propria influenza nel continente», gli Usa hanno costituito nel 2007 l’Africom: «Dietro il paravento delle operazioni umanitarie», l’African Command «recluta e forma nei paesi africani ufficiali e forze speciali locali, attraverso centinaia di attività militari». Importante base per queste operazioni è Sigonella, «dove è stata dispiegata una task force del corpo dei Marines». Dotata di convertiplani “Osprey”, la forza speciale «invia a rotazione squadre in Africa, in particolare in quella occidentale». Proprio dove inizia ora la campagna di Obama “contro l’Ebola”.Si scrive Ebola, ma si legge Business. Metalli preziosi, materie prime, terre rare. Grazie allo stato d’emergenza proclamato per la temutissima epidemia – in realtà assai meno letale delle altre patologie di massa che straziano l’Africa – gli Stati Uniti installano in Liberia, al crocevia delle maggiori ricchezze del continente nero, la nuova task force di Africom, il comando speciale delle forze armate statunitensi creato per contendere alla Cina il controllo sulle grandi risorse africane. Nulla di ciò, ovviamente, traspare dalla retorica di Obama, secondo cui i 3.000 soldati agli ordini del generale Darryl Williams, collegati con un centro logistico in Senegal e pronti a vigilare con funzioni di «comando e controllo» sugli ospedali da campo, dimostrano che solo l’America ha «la capacità e volontà di mobilitare il mondo contro i terroristi dell’Isis», di «chiamare a raccolta il mondo contro l’aggressione russa», oltre che di «contenere e debellare l’epidemia di Ebola», definita «senza precedenti», visto che «si sta diffondendo in maniera esponenziale in Africa occidentale».
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Scie, metalli, filamenti, piogge: stanno irrorando il cielo
Qualcuno sta “coltivando” il cielo. Lo dimostrano le anomalie climatiche e i residui che piovono a terra. Ne è convinto l’ingegner Paolo Broggia: ormai, dice, la realtà supera largamente qualsiasi ipotesi fantascientifica. Inoltre, i “coltivatori” dell’aria lasciano tracce quotidiane: «Se osservassimo i nostri cieli più attentamente, vedremmo attività aeronautiche non ufficiali, cioè non legate a transiti di aerei di linea, che rilasciano delle sostanze visibili che si disperdono dopo qualche minuto, a volte dopo ore. Probabilmente si tratta di droni, che quotidianamente “spazzolano” il cielo come una griglia “a scacchi”: ormai non c’è zona dell’Italia (e dell’Europa) che non sia irrorata». Droni, dunque, perché solo velivoli senza pilota potrebbero reggere al millimetro «la estrema ripetitività delle rotte, stressanti e pericolose per esseri umani in carne e ossa: infatti, nel ripassare nelle precedenti scie, in cabina entrerebbe l’aria proveniente dall’esterno, inquinata dello stesso materiale rilasciato dallo scarico». Che cosa spruzzano? «Qualunque cosa, a giudicare dalle analisi dell’acqua piovana».Sembra proprio che dal cielo stia venendo giù di tutto, scrive Broggia su “Megachip”: nell’aria si registra infatti la presenza di «metalli pesanti, polimeri, batteri, sostanze non classificate». Attenzione: ci sono anche «i fili che cadono dal cielo, imitazioni quasi perfette delle ragnatele, ma di lunghezze spropositate». Vietato confondersi: «Se fossero di un vero ragno volante (il fenomeno è quello dello “spider ballooning”), questo dovrebbe essere grande più di 100 metri». Inoltre, «le vere ragnatele non vengono attratte da un potente magnete, come invece sembra accadere a questi fili». Sul web si trovano tracce di un esperimento condotto nel 2011 dall’università di San Diego, in California. Il test fornisce la misura dell’impegno teorico: «Considerando l’intero territorio italiano formato da tanti quadrati di 100 chilometri di lato, in totale abbiamo solo 30 quadrati. Ipotizzando 2 droni che lavorino per ciascun quadrato, con appena 60 droni si potrebbe coprire una nazione intera, con tutti i suoi abitanti, piante, falde acquifere, eco-sistemi». Presso i centri radar aeronautici italiani, continua Broggia, «i controllori di volo sono consapevoli di questo enorme movimento di velivoli, ma lo ignorano. O non danno spiegazioni se interpellati».Già nel 1957, chiarisce “Megachip”, si studiava tecnicamente la possibilità di controllare la grandine per evitare la distruzione delle colture, per esempio in Piemonte: due fisici, Barla e Barbero, nel “Giornale di Geofisica” parlano di «nuclei di condensazione prodotti da ossidi radioattivati», e descrivono «teoria ed esperimenti per attivare artificialmente dei nuclei di molecole di acqua usando ossidi di alluminio e campi elettromagnetici». Gli italiani, conferma Broggia, sono sempre stati molto attivi in questo campo: si citano sperimentazioni nei dintorni di Roma e in Sardegna, pubblicazioni su riviste scientifiche internazionali e brevetti industriali registrati negli Usa (molti materiali sono presenti nel portale “No Geoingegneria”). E in un documento del 1963, il generale Antonio Serra, capo del servizio meteorologico dell’aeronautica, cita una collaborazione svolta con una azienda americana «per provocare la pioggia», attività condotta con fondi pubblici, per la precisione col sostegno della Cassa del Mezzogiorno e della Regione Sardegna. Si trattò di «un terzo ciclo di esperienze di nucleazione artificiale dell’atmosfera, il più lungo finora condotto in Italia», scrive il generale Serra nel ‘63.Un esperimento fondamentale, dunque, «affidato alla società americana “Weather Researches Development Corporation”». Positivo l’esito: l’autore si dichiara «molto fiducioso sui progressi tecnici migliorativi, per risolvere tutti i problemi legati alla siccità». Trent’anni dopo, nel 1994, il governo italiano ha promulgato addirittura una legge, la numero 36 del 5 gennaio, che prevede la creazione regolare di piogge artificiali per sconfiggere la siccità. Si intitola: “Disposizioni in materia di risorse idriche”. L’articolo 2, comma 2, conferma l’adozione del «regolamento per la disciplina delle modificazioni artificiali della fase atmosferica del ciclo naturale dell’acqua». Due anni dopo, continua Paolo Broggia, viene pubblicato un documento di ricerca aerospaziale, proveniente dai militari Usa, “Weather as a Force Multiplier: Owning the Weather in 2025”. Letteralmente: il clima come moltiplicatore di forze: possedere il controllo del clima entro il 2025. «In questo raccapricciante documento – scrive Broggia su “Megachip” – viene enunciata la possibilità tecnica di poter controllare localmente il clima, allo scopo di avere vantaggi sul nemico e renderlo più vulnerabile, con tanto di tabelle, grafici, metodologie. Evidentemente – aggiunge l’ingegnere – venivano ritenute molto significative le esperienze del Vietnam, dove gli Usa sono riusciti a usare con successo la geoingegneria allagando con abbondanti piogge i campi dei Vietcong».Il resto è cronaca, ormai quasi quotidiana: clima “impazzito”, alluvioni, “bombe d’acqua”. E’ sempre più frequente, precisa Broggia, la comparsa di brevetti nel settore, specie «sull’uso dei campi elettromagnetici per far interagire a comando le particelle rilasciate dagli aerei, in forma di additivi nei carburanti». Si moltiplicano ormai le conferenze su “geoengineering” e “climate engineering”, la geo-ingegneria del clima. Nuove direttrici di ricerca, quindi, che si sono affacciate nelle comunità scientifiche internazionali, monopolizzando l’attenzione e apportando nuove risorse economiche. È inoltre nato l’Ipcc, il panel dell’Onu sui cambiamenti climatici, una struttura «che potrebbe legittimare l’uso della geoingegneria», ma ovviamente con le solite cautele verso i mezzi di informazione: «Se si va a dire a questi scienziati che stanno già facendo la geoingegneria, essi negano inorriditi». Così, dobbiamo rassegnarci alle “stranezze” del clima. Per esempio quella «pioggerellina sottile, fina-fina, come quelle londinesi». Pioggerelline «insolitamente frequenti in Italia», ormai, così come «le piogge torrenziali e le conseguenti alluvioni», con chicchi di grandine «grandi come arance».Non solo: ultimamente si registra addirittura «la presenza di formazioni di alghe», praticamente «incredibili da trovare nelle zone di campagna interne, molto lontane dalle coste». Strano clima, appunto: con aria «più secca di quella del deserto, come nel 2012 in Italia». E poi, le strane patologie che colpiscono le piante ornamentali, quelle d’appartamento: malattie «da attribuire a qualcosa di strano, mai visto». E il sole, lassù, sempre più pallido. Al punto che «i pannelli fotovoltaici stanno generando sempre meno elettricità rispetto all’anno precedente». Se poi si fa un “mineral test”, nelle analisi risultano«eccessi di alluminio e piombo», come è capitato allo stesso Broggia e ai suoi vicini di casa. Inutile che ci prendano in giro, conclude l’ingnegnere: non potranno negare all’infinito. Stanno davvero irrorando il nostro cielo, sperando di “possedere il clima”. Arma cosmica, sia per l’economia che per la guerra. La speranza? «La Natura è grande, in ogni caso. I suoi eterni elementi riusciranno a raggiungere una coerenza per reagire opportunamente a questa fonte di inquinamento». La cui esistenza, peraltro, nessun governo ammette ancora.Qualcuno sta “coltivando” il cielo. Lo dimostrano le anomalie climatiche e i residui che piovono a terra. Ne è convinto l’ingegner Paolo Broggia: ormai, dice, la realtà supera largamente qualsiasi ipotesi fantascientifica. Inoltre, i “coltivatori” dell’aria lasciano tracce quotidiane: «Se osservassimo i nostri cieli più attentamente, vedremmo attività aeronautiche non ufficiali, cioè non legate a transiti di aerei di linea, che rilasciano delle sostanze visibili che si disperdono dopo qualche minuto, a volte dopo ore. Probabilmente si tratta di droni, che quotidianamente “spazzolano” il cielo come una griglia “a scacchi”: ormai non c’è zona dell’Italia (e dell’Europa) che non sia irrorata». Droni, dunque, perché solo velivoli senza pilota potrebbero reggere al millimetro «la estrema ripetitività delle rotte, stressanti e pericolose per esseri umani in carne e ossa: infatti, nel ripassare nelle precedenti scie, in cabina entrerebbe l’aria proveniente dall’esterno, inquinata dello stesso materiale rilasciato dallo scarico». Che cosa spruzzano? «Qualunque cosa, a giudicare dalle analisi dell’acqua piovana».
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La guerra che nessuno voleva, proprio come nel 1914
Un secolo è trascorso dalla Prima Guerra Mondiale, quella che alcuni definiscono la Grande Guerra e ancora pochi qualificano come dovrebbe: il grande massacro dei popoli europei. Per il grande storico Eric Hobsbawn è stata l’inizio del Secolo Breve. Per noi è stata la fine della Belle Epoqe, cioè della prima grande globalizzazione capitalista del pianeta che si concluse proprio con la guerra mondiale del 1914-18. Eppure, anche alla luce della retorica che imperversa in Europa, è difficile guardare alla Prima Guera Mondiale solo come passato, come fatto storico. La realtà di oggi ci consegna innumerevoli segnali che confermano che, se è vero che la storia non si ripete, “a volte fa rima”, come scrisse Mark Twain. La Prima Guerra Mondiale, in Europa, fu scatenata quasi per sbaglio da imperi e potenze riluttanti a scannarsi fra loro. Avrebbero preferito che si combattesse solo nelle colonie, lontano dai confini o dalle città europee ma la pallina sul piano inclinato prese la corsa e non si fermò più fino a quando non cominciarono le cannonate sui confini europei.Eppure il XX Secolo era cominciato alla grande per le maggiori potenze imperialiste dell’epoca. Tutte insieme (praticamente le stesse che compongono oggi il G8, escluso il Canada) mandarono i loro soldati a reprimere la rivolta dei Boxer in Cina nel 1900. Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania, Russia, Italia e Giappone si spartirono le spoglie della Cina alle prese con il declino dell’impero. Porti, concessioni commerciali, ferrovie, terre arricchirono il bottino dei grandi gruppi capitalisti europei e statunitensi che vivevano con euforia la fase di sviluppo imperialista. Il mercati mondiali erano a loro completa disposizione attraverso le colonie, i protettorati, le “concessioni per 99 anni” di snodi commerciali e geografici strategici.Tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento la corsa alle colonie era stata impetuosa. Oltre all’espansione delle colonie di Francia e Gran Bretagna in Africa e Asia, perfino un piccolo paese come il Belgio si era pappato come colonia un gigantesco paese africano ricco di miniere come il Congo. La Spagna aveva messo le mani sul Marocco spartendoselo con la Francia. E l’Italietta si era fatta avanti nel Corno d’Africa e poi in Libia, prendendosi le colonie che alimentarono la mistificazione dell’Impero. In Asia i britannici spodestavano definitivamente gli olandesi, mentre la Russia zarista e il Giappone, potenza emergente, già nel 1905 si scannarono per prendersi la Corea. Ma in Africa i britannici prima si erano presi le terre sudafricane dei coloni olandesi (i Boeri) e poi avevano cominciato a contrastare l’invadenza delle colonie tedesche. Il Kaiser la vedeva lunga e nella famosa ferrovia che doveva portare da Baghdad all’Arabia Saudita, l’imperialismo tedesco si proiettava in Medio Oriente attraverso quello che – all’epoca – era l’indicatore dello sviluppo capitalistico: i chilometri di ferrovie.La Belle Epoqe vedeva le Borse crescere, i profitti aumentare e il capitale finanziario prendere solidamente nelle proprie mani il controllo su quello legato all’industria e all’agricoltura. Le colonie fornivano materie prime a prezzi stracciati e, ospitando gli investimenti occidentali, consentivano a loro volta una valorizzazione dei capitali investiti con ritorni stellari. Ma la Belle Epoqe della prima globalizzazione capitalista del mondo a un certo punto è finita, ha dovuto fare i conti con la crisi e il crollo della valorizzazione dei capitali investiti, e il piano inclinato che ha portato alla guerra ha visto la pallina cominciare a muoversi, prima lentamente poi più velocemente. Come è noto le maggiori potenze imperialiste non volevano combattersi apertamente. Nella peggiore delle ipotesi concordavano nello spartirsi le spoglie del declinante impero ottomano in Medio Oriente o nel ridefinire i confini sulle loro colonie africane.Le loro economie erano integrate. I magnati francesi, tedeschi, inglesi, austriaci e russi commerciavano, collaboravano o competevano dentro il “libero mercato”. Le dinastie che reggevano monarchie e imperi europei erano imparentate tra loro. Si incontravano ai matrimoni e agli anniversari e bevevano gli stessi champagne. L’accaparramento delle colonie e delle risorse avrebbe dovuto bastare a soddisfare gli appetiti di tutti. Ma gli avvenimenti presero una piega che nessuno voleva. L’attentato di Sarajevo da parte di un indipendentista serbo – Gavrilo Princip – contro il Granduca d’Austria Ferdinando non aveva di per sé la forza di un casus belli adeguato a scatenare una grande guerra totale. Eppure la rottura era lì a un passo. Le false e vere notizie sulle mobilitazioni di truppe sui confini europei dell’est e dell’ovest innescavano contromisure e contromanovre reciproche. I ministri furono via via sostituiti dai “tecnici” (in questo caso i militari). Le previsioni su costi e benefici passarono dalla lunghezza delle ferrovie o degli investimenti a quelli bellici.Le alleanze tra le varie potenze cambiavano di geometria. L’Italia stava con Austria e Germania, ma nel 1915 entrò in guerra insieme a Francia e Gran Bretagna contro i suoi ex alleati. In un certo senso ebbe una grande responsabilità nello scoppio della guerra a causa dell’invasione della Libia nel 1911 a danno dell’impero ottomano. L’avventurismo e le scommesse sulle mancate o parziali reazioni a questa o quella provocazione – come l’invasione della Serbia da parte dell’Austria o l’invasione della Libia tre anni prima – alzarono la soglia della tensione e dei fatti compiuti dai quali diventava poi difficile recedere senza perdere faccia e prestigio. La posizione più difficile era quella dell’imperialismo maggiore ma avviato al declino: la Gran Bretagna.La guerra che nessuno voleva fare cominciò ufficialmente nel 1914 e si concluse – di fatto – nel 1945. Il capitalismo arrivato alla sua fase suprema, l’imperialismo, non aveva trovato altra soluzione alla sua crisi iniziata con la fine della globalizzazione della Belle Epoqe ed esplosa con la Grande Crisi degli anni Trenta. Fu un evento scatenante della storia che ne innescò un altro, per noi di estrema importanza, la Rivoluzione d’Ottobre e la nascita del primo Stato socialista del mondo. Ma i dirigenti che resero possibile il socialismo non commisero affatto l’errore di schierarsi con l’una o l’altra potenza in campo, anzi dichiararono apertamente “guerra alla guerra” denunciandone il carattere imperialista e la natura di grande massacro dei popoli.Fin qui la storia. Ma questo scenario del passato è già domani. Gli apprendisti stregoni dell’imperialismo – statunitense ed europeo soprattutto – hanno nuovamente inclinato il piano già nei primissimi anni di questo XXI Secolo. Lo scenario di guerre, instabilità, provocazioni, escalation che dall’Ucraina al Medio Oriente all’Africa circonda l’Europa, è strettamente connesso alla crisi, alla fine della seconda globalizzazione capitalista del pianeta e alla ripresa della competizione globale tra poli imperialisti e nuove potenze capitaliste, declinanti o emergenti che siano. L’epoca delle facili guerre asimmetriche contro Stati immensamente più deboli sta finendo. Prima se ne prende coscienza, si avvia la mobilitazione per fermare la tendenza alla guerra e si mettono in campo alternative, meglio è.(Sergio Cararo, “Le guerra degli imperi riluttanti”, da pubblicato da “Contropiano” il 17 settembre 2014, alla vigilia della conferenza organizzata a Roma dalla Rete dei Comunisti, con Giuseppe Aragno, Giorgio Gattei e Mauro Casadio, quest’ultimo coautore di “Clash. Scontro tra potenze”, scritto dieci anni fa insieme a James Petras e Luciano Vasapollo: un libro che ha anticipato di molto gli scenari che abbiamo oggi sotto gli occhi).Un secolo è trascorso dalla Prima Guerra Mondiale, quella che alcuni definiscono la Grande Guerra e ancora pochi qualificano come dovrebbe: il grande massacro dei popoli europei. Per il grande storico Eric Hobsbawn è stata l’inizio del Secolo Breve. Per noi è stata la fine della Belle Epoqe, cioè della prima grande globalizzazione capitalista del pianeta che si concluse proprio con la guerra mondiale del 1914-18. Eppure, anche alla luce della retorica che imperversa in Europa, è difficile guardare alla Prima Guera Mondiale solo come passato, come fatto storico. La realtà di oggi ci consegna innumerevoli segnali che confermano che, se è vero che la storia non si ripete, “a volte fa rima”, come scrisse Mark Twain. La Prima Guerra Mondiale, in Europa, fu scatenata quasi per sbaglio da imperi e potenze riluttanti a scannarsi fra loro. Avrebbero preferito che si combattesse solo nelle colonie, lontano dai confini o dalle città europee ma la pallina sul piano inclinato prese la corsa e non si fermò più fino a quando non cominciarono le cannonate sui confini europei.
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Ciao America, in 13 anni da Washington soltanto disastri
Il declino degli Stati Uniti sta ormai galoppando, anche se i media raccontano che l’America avrebbe ritrovato salute economica e fiorente mercato del lavoro. Dicono anche che gli Usa si siano dotati di un futuro energetico veramente roseo e che continuino a essere un modello per l’Europa e per il mondo. Certo, gli indici di Borsa sono alle stelle, ma questo non significa che una società e un’economia siano uscite dalla crisi: il record, si legge su “Leap 2020”, è l’effetto della politica monetaria dei “soldi facili” praticata dalla Fed, mentre gli investitori «non trovano altri investimenti che non siano quelli sui sopravvalutati titoli azionari e sull’ingannevole finanza innovativa». L’America? E’ in bilico: «La smisurata arroganza di una nazione che considera se stessa “il paese di Dio”, la “numero uno” su tutte le cose di questo mondo, l’araldo di tutti i valori dell’umanità, sta spingendo gli Stati Uniti verso un abisso». Lo conferma la geopolitica: caos totale in Medio Oriente, dopo 13 anni di impegno militare diretto. Per non parlare della folla sfida lanciata alla Russia in Ucraina.La crisi ucraina, continua “Leap 2020”, ha le sue radici nella politica americana basata sul “contenimento della Russia”, che risale a un telegramma inviato da George Kennan, ambasciatore a Mosca, il 22 febbraio 1946. Kennan esprimeva la convinzione che, sul lungo termine, la pace con la Russia sarebbe stata impossibile, perché quel paese stava ancora cercando di ampliare la sua sfera d’influenza. Ora, «sarebbe profondamente preoccupante se chi è al potere a Washington non fosse in grado di cogliere la differenza tra l’Unione Sovietica sotto Stalin e la Russia di oggi sotto Putin», sopravvissuta al crollo dell’Urss e alle amputazioni territoriali, strategiche e demografiche. Inoltre, l’economia di Mosca «fu notevolmente compromessa dal programma “riformatore” del Fmi ispirato dagli Stati Uniti, che le fece perdere gran parte della sua ricchezza nazionale, con le famigerate privatizzazioni riservate alla nascente “classe degli oligarchi”». Oggi la Russia è circondata, «sia dall’alleanza militare avversa (la Nato, che si era fortemente ampliata) che dal blocco economico europeo, presente finanche all’interno del suo stesso ex territorio, il Baltico».L’obiettivo del “contenimento” in versione 2014 è legato essenzialmente a motivazioni di tipo economico: «L’aspirazione dei funzionari americani è quella di aprire l’Ucraina ai prodotti americani, di impossessarsi del suo immenso patrimonio agricolo (la speculazione si sta gettando sul settore alimentare) e delle sue grandi società, e di aprire infine il mercato energetico europeo al gas ed al petrolio di scisto americano». Ma gli Usa, sostiene “Leap 2020”, non dispongono neppure dei mezzi militari per un confronto con Putin. E scontano ancora tutti i fallimenti a catena degli ultimi 13 anni: «L’Afghanistan continua a essere destabilizzato ed è ancora il primo produttore di oppio al mondo, in Iraq l’autorità del governo centrale è implosa, mentre in Siria la lotta contro il dittatore Assad (che è ancora al potere) ha generato un nemico ancor più feroce, l’Isis». Morale: «Tutto ciò a cui i funzionari americani hanno dato inizio, negli ultimi tredici anni, si è trasformato in un disastro». E il conto è salato: da 4 a 6 miliardi di dollari, secondo gli analisti di Harvard, solo nel 2014.«Ormai da molti anni gli Stati Uniti non sono più la superpotenza in grado di risolvere qualsiasi problema attraverso una campagna militare», sostiene “Leap 2020”. «La causa è da ricercare innanzitutto nello squilibrio tra ambizione e sforzo, e subito dopo nella mancanza di risorse: e visto che il potere globale degli Stati Uniti è stato costruito sul potere militare, questo paese è ormai solo l’ombra di quello che era stato». Non è sorprendente, quindi, che il governo americano abbia riscoperto l’utilità della Nato per muovere le sue pedine in Ucraina: «Ha messo in atto un’enorme pressione sui governi dei paesi membri, perché essi aumentino il loro budget militare, ma l’esito è stato abbastanza incerto». L’obiettivo di effettuare nuove spese militari per un importo pari al 2% del Pil di ogni singolo paese, in effetti, è stato spalmato su un periodo che arriva fino al 2024. La Germania, inoltre, ha ulteriormente ridimensionato il proprio impegno. E la decisione di creare una forza d’attacco rapido, composta da 3.000-5.000 soldati, «impallidisce davanti ad un esercito russo pari a 1,15 milioni di soldati e a 2 milioni di riservisti pronti a combattere». La forza Nato, inoltre, avrebbe solo un equipaggiamento leggero, «in ossequio all’idea, veramente geniale, che tutto ciò permetterà ai soldati di schivare più facilmente i 6.500 carri armati russi».Nel confronto con la Russia, secondo “Leap 2020” la Nato «è come un’ape davanti a un orso», prova del fatto che «i funzionari americani hanno perso qualsiasi senso della realtà». Così, «il “colpo di stato” orchestrato dall’Occidente ha fatto perdere legittimità al governo centrale ucraino nei riguardi della popolazione di lingua russa, e ha quindi aperto la strada all’acquisizione dell’Ucraina Orientale da parte della Russia, probabilmente sotto forma di un’ampia autonomia all’interno di uno Stato Federale Ucraino, sottoposto ad una forte influenza russa». Analogamente a quanto già avvenuto in Medio Oriente, la politica e il comportamento del governo degli Stati Uniti, «basati sull’infallibilità delle strategie e sull’onnipotenza dell’America», hanno gettato nel caos un’intera regione, rafforzando in fin dei conti «le forze che si opponevano agli Stati Uniti».Il declino degli Stati Uniti sta ormai galoppando, anche se i media raccontano che l’America avrebbe ritrovato salute economica e fiorente mercato del lavoro. Dicono anche che gli Usa si siano dotati di un futuro energetico veramente roseo e che continuino a essere un modello per l’Europa e per il mondo. Certo, gli indici di Borsa sono alle stelle, ma questo non significa che una società e un’economia siano uscite dalla crisi: il record, si legge su “Leap 2020”, è l’effetto della politica monetaria dei “soldi facili” praticata dalla Fed, mentre gli investitori «non trovano altri investimenti che non siano quelli sui sopravvalutati titoli azionari e sull’ingannevole finanza innovativa». L’America? E’ in bilico: «La smisurata arroganza di una nazione che considera se stessa “il paese di Dio”, la “numero uno” su tutte le cose di questo mondo, l’araldo di tutti i valori dell’umanità, sta spingendo gli Stati Uniti verso un abisso». Lo conferma la geopolitica: caos totale in Medio Oriente, dopo 13 anni di impegno militare diretto. Per non parlare della folla sfida lanciata alla Russia in Ucraina.
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Wall Street, gli amici nazisti e il solito bersaglio: la Russia
Criminali, bugiardi, complici. Non ci fa una bella figura, l’ipocrita Occidente, nemmeno rileggendo la Seconda Guerra Mondiale: furono americani e inglesi a scommettere su Hitler. Ne finanziarono l’ascesa in modo decisivo, incaricandolo – già allora – di una missione che ossessiona gli anglosassoni: colpire la Russia e affondarla. Lo ricorda Yuriy Rubtsov, alla luce degli attuali drammatici sviluppi in Ucraina: «I denti del drago devono essere conficcati ancora una volta nella carne viva dell’Europa», come già fu in passato. Lo conferma «la storia segreta dei rapporti fra Wall Street e la Germania nazista». Storia che nessuno ha voglia di rievocare, e che fu seppellita dalla solennità del Processo di Norimberga, che inchiodava la Germania sconfitta come unica colpevole, senza alleati atlantici. Se oggi sono in molti a definire “nazista” il golpe di Kiev costruito dagli Usa utilizzando l’estrema destra ucraina, Rubtsov chiarisce: «Per quanto ne sappiamo, l’Ucraina di oggi non può essere paragonata alla Germania di Hitler». Ma attenzione: «Non dimentichiamo che la folle corsa del nazismo ebbe inizio da uno sconosciuto caporale che predicava xenofobia e vendetta».L’altra verità, fondamentale, è che quel caporale non sarebbe andato molto lontano, senza i suoi amici d’oltreoceano. «E’ un “segreto di pulcinella” il fatto che Hitler sia stato sostenuto dagli Stati Uniti», scrive Rubtsov in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”. «La penetrazione commerciale e finanziaria statunitense, e in particolare la cooperazione con l’industria bellica tedesca, è stata fin dall’inizio molto significativa». Nel 1933, l’anno del boom elettorale nazista, «gli Stati Uniti controllavano alcuni settori-chiave dell’economia tedesca, ma anche diverse grandi banche, come ad esempio la Deutsche Bank e la Dresdner Bank». Le grandi imprese cominciarono a fidarsi di Hitler, continua Rubtsov. E molti fondi esteri presero ad affluire in quel paese. Per esemoio, grazie alle donazioni del gruppo di Fritz Thyssen, che comprendeva la “Vereinigte Stahlwerke Ag” e la “Interessen-Gemeinschaft Farbenindustrie Ag”. E poi i soldi del magnate dell’industria mineraria Emil Kirdorf. Risultato: 6,4 milioni di tedeschi votarono per Hitler. Non sapevano, però, quanto denaro gli angloamericani avessero investito nel futuro del loro capo.L’economista Hjalmar Schacht, banchiere e politico liberale, nonché co-fondatore nel 1918 del “Partito Democratico Tedesco”, diventò il collegamento fra l’industria tedesca e gli investitori stranieri, ricorda Rubtsov. A quel punto, «anche il mondo commerciale e bancario britannico cominciò a canalizzare importanti donazioni verso il partito nazista: il 4 gennaio 1932 Montague Norman, governatore della Banca d’Inghilterra dal 1920 al 1944, incontrò Hitler e il cancelliere tedesco Franz von Papen, per stringere un accordo segreto volto al finanziamento di quel partito». Alla fatidica riunione erano rappresentati anche gli Stati Uniti, coi fratelli Dulles, anche se «gli storici occidentali evitano di menzionare questa circostanza», accusa Rubtsov. John Foster poi segretario di Stato, suo fratello Allen direttore della Cia. «Erano due avvocati politicamente collegati a Wall Street, servi di quelle corporations che hanno gettato gli Stati Uniti nella guerra invisibile che ha forgiato il mondo di oggi. Negli anni ‘50, in piena guerra fredda, proprio i due fratelli Dulles, immensamente potenti, guidarono gli Stati Uniti in una lunga serie di avventure all’estero, i cui effetti stanno ancora scuotendo il mondo».Nel ‘33, continua Rubtsov, il nuovo governo tedesco fu trattato molto favorevolmente dai circoli dominanti degli Usa e del Regno Unito: «Non casualmente le democrazie occidentali tacquero, quando Berlino si rifiutò di pagare le riparazioni di guerra», relative al primo conflitto mondiale. Lo stesso Schacht, divenuto presidente della Reichsbank e ministro dell’economia, il 30 maggio di quell’anno andò negli Stati Uniti per incontrare il presidente Roosevelt e i principali banchieri di Wall Street. Alla Germania fu concesso un credito pari ad 1 miliardo di dollari. Un mese dopo, durante una visita al banchiere centrale di Londra, Montague Norman, Schacht chiese un prestito aggiuntivo pari a 2 miliardi di dollari, nonché la riduzione e l’eventuale cessazione del pagamento dei vecchi prestiti. «I nazisti ottennero, in conclusione, qualcosa che i precedenti governi avevano chiesto invano». E nell’estate del 1934 la Gran Bretagna firmò l’“Anglo-German Transfer Agreement”, che diventò uno dei princìpi fondamentali della politica britannica nei riguardi del Terzo Reich. Negli anni successivi il Regno Unito diventò il primo partner commerciale della Germania: la “Banca Schroeder” divenne l’agente principale per gli affari fra Berlino e Londra, e nel 1936 la sua filiale di New York si fuse nella Holding Rockefeller, per creare la banca d’investimento “Schroeder, Rockfeller e Co.”, che il “New York Times” descrisse come «il perno economico-propagandistico dell’asse Berlino-Roma».Già nell’agosto del ‘36 Hitler aveva redatto un “Memorandum Segreto”, dei cui contenuti solo pochi alti dirigenti nazisti erano a conoscenza. Il memorandum, scrive Rubtsov, stabiliva che entro quattro anni la Germania avrebbe dovuto dotarsi di forze armate pronte al combattimento. Di conseguenza, l’economia tedesca avrebbe dovuto mobilitarsi per supportare l’imminente sforzo bellico. Di qui l’annuncio, a Norimberga, del “Piano Quadriennale” di investimenti strategici. «Il credito estero costituiva la base finanziaria necessaria», quindi «tutto ciò non aveva sollevato il minimo allarme»: il Terzo Reich si stava semplicemente preparando a fare il “lavoro” per il quale era stato profumatamente pagato. «Nel mese di agosto del 1934 il gigante petrolifero americano Standard Oil acquistò 730.000 ettari di terreno in Germania, per costruirci delle grandi raffinerie di petrolio, per rifornire di carburante i nazisti. Allo stesso tempo altre corporations statunitensi rifornirono la Germania delle più moderne attrezzature per la costruzione di aerei civili, che in realtà davano copertura alla produzione di aerei militari».La Germania, aggiunge Rubtsov, fu in grado di utilizzare un gran numero di brevetti provenienti da società americane, tra le quali la Pratt & Whitney, la Douglas e la Bendix Corporation. «Il bombardiere “Junkers-87”, ad esempio, fu costruito utilizzando esclusivamente delle tecnologie americane». Così, quando la guerra scoppiò, «i monopoli americani si attaccarono alla vecchia e buona regola del “niente di personale, si tratta solo di affari”». Nel 1941, quando la Seconda Guerra Mondiale era ormai in pieno svolgimento, «gli investimenti americani nell’economia tedesca furono pari a 475 milioni di dollari dell’epoca: la Standard Oil, da sola, aveva investito 120 milioni di dollari, la General Motors 35 milioni, la Itt 30 milioni, la Ford 17,5 milioni». Quali motivazioni aveva l’Occidente per far crescere la forza della Germania nazista? «L’obiettivo era quello di far dirigere Hitler ad Est, verso l’invasione tedesca della Russia. La conquista dello “spazio vitale” costituiva, per Hitler ed il resto dei nazionalsocialisti, il più importante obiettivo di politica estera».Al suo primo incontro con i principali generali e ammiragli del Reich, il 3 febbraio 1933, Hitler parlò infatti della «conquista dello spazio vitale» a Est e della spietata «germanizzazione» come dei due «obiettivi finali» della sua politica estera. Per Hitler, la terra che avrebbe fornito sufficiente “spazio vitale” alla Germania era costituita dall’Unione Sovietica, che agli occhi di Hitler era un paese dotato di ricchi e vasti terreni agricoli, abitato da «slavi sub-umani» governati da una banda di «rivoluzionari ebrei», assetati di sangue ma grossolanamente incompetenti. Queste persone non erano “germanizzabili”, ma la loro terra sì. «Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, che si opponevano con fermezza alla crescita del comunismo sovietico, avevano tacitamente avallato la “conquista dello spazio vitale a Est” da parte di Hitler, che egli stesso aveva preannunciato nel “Mein Kampf”». Lo scrisse, Hitler, nel suo manifesto programmatico: «Vogliamo cominciare da dove abbiamo finito, sei secoli fa. Se fermiamo la perpetua marcia tedesca verso il Sud e l’Ovest dell’Europa, avremo sotto ai nostri occhi i paesi che si trovano ad Est». Quella era «la direzione della politica territoriale del futuro». Per chi non avesse capito: «Sia chiaro, comunque, che quando parliamo di “nuove terre” in Europa, parliamo soprattutto della Russia e dei paesi al confine orientale».A partire dal 1930, ricorda Rubtsov, i paesi occidentali attuarono verso la Germania una politica di “appeasement”, nel contesto generale costituito dalla piena cooperazione economica e finanziaria fra anglo-americani e Germania nazista, anche se Berlino si era appena ritirata dalla Società delle Nazioni e dalla conferenza di Ginevra sul disarmo mondiale. Da lì in poi, una sequenza ininterrotta di provocazioni e aggressioni. Prima la rioccupazione della Renania, smilitarizzata dopo il Trattato di Versailles. Poi l’annessione dell’Austria. «In nessun caso l’Occidente reagì». Nel 1937, il piano per invadere la Cecoslovacchia, pure protetta dal Patto di Monaco: subito dopo aver firmato l’accordo di non aggressione, insieme ad Arthur Neville Chamberlain, Edouard Daladier e Benito Mussolini, nel 1938 Hitler decise di marciare comunque su Praga e poi su Memel, il porto baltico che dal 1923 faceva parte della Lituania. Quindi nel marzo del 1939 l’ultimatum alla Polonia per ottenere il corridoio di Danzica, che divideva la Prussia Orientale dal resto della Germania. «Hitler era consapevole del fatto che nessuno, in Occidente, aveva intenzione di fermarlo: così, nell’aprile del 1939, ordinò segretamente che la Polonia doveva essere attaccata il successivo 1° settembre».Con l’occupazione della Cecoslovacchia, continua Rubtsov, il fine della politica di Hitler diventò il classico “segreto di pulcinella” anche per i politici e i diplomatici meno lungimiranti. Tutti sapevano che l’Unione Sovietica accarezzava la speranza di poter costruire un sistema di sicurezza collettivo in Europa. Mosca «riuscì a dar inizio, in effetti, a dei colloqui con Londra e Parigi, per la creazione di un’efficace alleanza in grado di contrastare l’aggressore. Ma quei colloqui rivelarono che i partner occidentali erano piuttosto riluttanti ad ostacolare la politica espansionistica di Hitler verso l’Oriente». Lo conferma il britannico Sir Alexander Cadogan, sottosegretario agli esteri: «Riferì in seguito che Chamberlain avrebbe preferito dimettersi (dalla premiership), piuttosto che stringere un accordo con i sovietici». Quando Hitler fece esplodere la Seconda Guerra Mondiale invadendo la Polonia, i leader occidentali preferirono puntare il dito contro l’accordo difensivo che Berlino appena firmato con Mosca. «Supportati dal coro della propaganda, dissero che la colpa per aver scatenato la guerra non era da attribuire alla politica di “appeasement” portata avanti dai paesi occidentali, ma piuttosto al “patto di non aggressione” fra l’Urss e la Germania».«Nonostante fossero chiaramente sulla strada che portava alla Seconda Guerra Mondiale – continua Rubtsov – né Londra, né Washington, né Parigi vollero lasciar spazio alla verità, in relazione a quegli eventi storici». Domanda: «Com’è possibile che questi paesi abbiano firmato il verdetto del “Processo di Norimberga”, che ha giudicato la Germania colpevole di crimini molto gravi (aver violato il “diritto internazionale” e le “leggi di guerra”), senza riconoscere chi c’era dietro alla Germania nazista?». In realtà, «le élites politiche e finanziarie degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e della Francia erano direttamente coinvolte nella promozione del regime nazista: hanno incitato Hitler a muoversi verso Est». Di fatto, «l’Occidente non ha mai riconosciuto la proprie responsabilità per aver dato sostegno al regime di Hitler». E oggi, nel 2014, «sta facendo del suo meglio», ancora una volta, «per impedire il ritorno della Russia sulla scena mondiale». Nessun imbarazzo, nele capitali occidentali, per il nazismo e la xenofobia del regime di Kiev. Si preferisce «far circolare la storia, inventata da Washington e imposta all’Europa, dell’aggressione russa contro l’Ucraina». Un classico: «La Russia viene prima provocata e poi demonizzata, per coinvolgerla direttamente nel conflitto interno ucraino». Attenzione: «L’ulcera del nazismo, combinata con le spinte russofobiche, sta guadagnando slancio». Già in passato, gli apprendisti stregoni dell’Occidente non riuscirono più a controllare il mostro che avevano contribuito a creare. Oggi va forte lo slogan “l’Ucraina innanzitutto”, un sinistro remake del motto nazista “Deutschland über Alles”. «Il motto “Ukraine über Alles” viene costantemente utilizzato per giustificare i crimini commessi dalle forze ucraine in Novorossiya».Criminali, bugiardi, complici. Non ci fa una bella figura, l’ipocrita Occidente, nemmeno rileggendo la Seconda Guerra Mondiale: furono americani e inglesi a scommettere su Hitler. Ne finanziarono l’ascesa in modo decisivo, incaricandolo – già allora – di una missione che ossessiona gli anglosassoni: colpire la Russia e affondarla. Lo ricorda Yuriy Rubtsov, alla luce degli attuali drammatici sviluppi in Ucraina: «I denti del drago devono essere conficcati ancora una volta nella carne viva dell’Europa», come già fu in passato. Lo conferma «la storia segreta dei rapporti fra Wall Street e la Germania nazista». Storia che nessuno ha voglia di rievocare, e che fu seppellita dalla solennità del Processo di Norimberga, che inchiodava la Germania sconfitta come unica colpevole, senza alleati atlantici. Se oggi sono in molti a definire “nazista” il golpe di Kiev costruito dagli Usa utilizzando l’estrema destra ucraina, Rubtsov chiarisce: «Per quanto ne sappiamo, l’Ucraina di oggi non può essere paragonata alla Germania di Hitler». Ma attenzione: «Non dimentichiamo che la folle corsa del nazismo ebbe inizio da uno sconosciuto caporale che predicava xenofobia e vendetta».
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Il mondo produce beni, loro dollari. O così, o è guerra
Nel 1974 Richard Nixon strinse un accordo con l’Arabia Saudita, che potremmo definire come la più grande truffa nella storia degli Stati Uniti. In cambio di armi e di protezione, i sauditi avrebbero dovuto vendere il loro petrolio in dollari, che poi avrebbero dovuto di nuovo investire negli Stati Uniti. Si trattava di una questione di vita o di morte per il dollaro, in quel momento. Nixon aveva chiuso la finestra del sistema aureo tre anni prima, e ne era seguita una massiccia svalutazione del dollaro. Garantirsi che tutte le merci che venivano scambiate nel mondo e che sarebbero state commerciate in dollari, pagate in dollari, era l’unico sistema in grado di poter veramente puntellare il valore della valuta. Guardando indietro, fu una mossa strategica estremamente brillante. Il resto dell’Opec seguì lo stesso sistema e questo fu l’affare che ha determinato la supremazia finanziaria, politica e militare degli Stati Uniti per decenni. Erano nati i petrodollari.Oggi, il petrolio resta il bene largamente più commercializzato in tutto il mondo. E dato che tutte le nazioni acquistano o vendono petrolio, questo significa che ogni nazione deve possedere dei dollari. Però, per comodità, le banche estere, i governi e le banche centrali, anziché starsene sedute a controllare montagne di banconote, hanno preferito comprare dei buoni del Tesoro Usa, cioè hanno comprato un pezzetto del debito degli Stati Uniti. Ma questo significa anche che il governo degli Stati Uniti ha una scorta quasi illimitata di stranieri che vogliono impegnarsi e comprare i suoi dollari, i suoi debiti e il suo deficit. Tutto il resto del mondo deve faticare per produrre qualcosa: lavorano nei campi, fabbricano prodotti industriali, estraggono petrolio o gas dal terreno. Gli Stati Uniti, invece dal canto loro, stampano dollari. E poi usano questa carta per scambiarla con la roba che gli stranieri hanno prodotto e per la quale hanno dovuto lavorare veramente.E’ una truffa incredibile. Si sarebbe tentati di pensare che il governo degli Stati Uniti dovrebbe essere grato, e dovrebbe inviare almeno un cesto di frutta a tutti i paesi stranieri del mondo, trattandoli come amici a cui dare sempre il benvenuto. Ma non è questo, quello che fanno. In modo arrogante, il governo degli Stati Uniti dà ordini a tutte le banche del mondo che devono far riferimento all’Irs, buttano le bombe, mandano i droni e invadono paesi stranieri. Spiano sia i loro nemici che gli alleati, congelano i beni gestiti fuori dal sistema bancario Usa e multano le banche straniere che si permettono di fare affari con paesi “non graditi”. E’ una cosa incredibilmente stupida, è un comportamento che praticamente implora gli stranieri di abbandonare il sistema del dollaro e degli Stati Uniti. E questo sta cominciando ad accadere, proprio davanti ai nostri occhi.Gli Stati Uniti hanno dimostrato di essere disposti ad andare in guerra pur di sostenere questo sistema basato sui petrodollari (Saddam Hussein ebbe il sostegno delle Nazioni Unite nei primi anni 2000 per vendere il suo petrolio in euro, ma poco dopo… se n’era andato). Quindi il fatto che in questo momento si cominci a intravedere un certo rilassamento della situazione è molto preoccupante, particolarmente se si considera che il campo di battaglia è già pronto in Ucraina.(Simon Black, “L’ultima volta che è successo, gli Usa entrarono in guerra per “difendere” i loro interessi”, da “Sovereign Man” del 6 settembre 2014, tradotto da “Come Don Chisciotte”).Nel 1974 Richard Nixon strinse un accordo con l’Arabia Saudita, che potremmo definire come la più grande truffa nella storia degli Stati Uniti. In cambio di armi e di protezione, i sauditi avrebbero dovuto vendere il loro petrolio in dollari, che poi avrebbero dovuto di nuovo investire negli Stati Uniti. Si trattava di una questione di vita o di morte per il dollaro, in quel momento. Nixon aveva chiuso la finestra del sistema aureo tre anni prima, e ne era seguita una massiccia svalutazione del dollaro. Garantirsi che tutte le merci che venivano scambiate nel mondo e che sarebbero state commerciate in dollari, pagate in dollari, era l’unico sistema in grado di poter veramente puntellare il valore della valuta. Guardando indietro, fu una mossa strategica estremamente brillante. Il resto dell’Opec seguì lo stesso sistema e questo fu l’affare che ha determinato la supremazia finanziaria, politica e militare degli Stati Uniti per decenni. Erano nati i petrodollari.
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A cena con l’assassino: così il Ttip ci avvelena il menù
Meno sicurezza alimentare significa più veleni, e quindi più malattie. E’ il grande business del colosso agroalimentare che sta facendo la parte del leone nelle trattative segrete tra Usa e Ue per il Ttip, il Trattato Transatlantico sul commercio destinato a sconvolgere l’equilibrio europeo delle tutele, frutto di mezzo secolo di leggi e conquiste. In questa partita epocale, condotta a porte chiuse sulla testa di mezzo miliardo di europei, il giornalista indipendente inglese Colin Todhunter svela il ruolo decisivo dei grandi industriali del cibo, decisi a fare piazza pulita degli «ostacoli normativi inutili». In altre parole: vogliono «indebolire le condizioni lavorative, sociali, ambientali e le norme a tutela dei consumatori». L’idea è dell’“High Level Working Group on Jobs and Growth”, super-lobby tecnocratica euroatlantica che dichiara di occuparsi di “crescita”. Oltre al settore delle biotecnologie, i gruppi di pressione per raggiungere l’accordo includono Toyota, General Motors, l’industria farmaceutica, Ibm e la Camera di Commercio degli Stati Uniti, massima lobby americana. Ma la fetta più grossa sarà quella dell’industria del cibo.“Business Europe”, la principale organizzazione che rappresenta i datori di lavoro in Europa, presentò la propria strategia in un trattato economico e commerciale Ue-Usa nei primi mesi del 2012, ricorda Todhunter in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. I suoi “suggerimenti” furono ampiamente inclusi nella bozza di mandato dell’Ue. «L’accordo potrebbe autorizzare le società a sfidare legalmente una vasta gamma di regolamenti che esse non gradiscono». Il piano: «Guidare l’attività decisionale “sottobanco”, evitando in tal modo il controllo democratico e permettendo alle aziende di “tenere in ostaggio” i processi normativi». In pratica, l’Ue dovrebbe “riconoscere” le leggi Usa, che in fatto di tutela sono quasi inesistenti, specie in settori come l’agricoltura. «La lobby del cibo “Food and Drink Europe” ha richiesto l’agevolazione della presenza di un livello minimo di colture geneticamente modificate», oggi non autorizzate in Europa. «Ciò viene anche appoggiato dai giganti commerciali dei mangimi e dei cereali, tra cui Cargill, Bunge, Adm e la grande lobby agricola Copa-Cogeca».E il peggio è che «i negoziati per questo accordo sono avvolti nel mistero». Associazioni, sindacati e Ong? Tutti «estromessi, a favore di un agenda guidata dalle aziende». E’ il sintomo «dell’etica generale e delle pratiche dei burocrati e funzionari di Bruxelles», scrive Todhunter: se fosse approvato, il Ttip cementerebbe «la progressiva ristrutturazione delle economie a favore degli interessi delle élite». E l’altra pessima notizia – per la salute degli europei – è che «nessun settore ha esercitato più pressioni sulla Commissione Europea» di quello agroalimentare, attraverso il “Dg Trade”, cioè la direzione generale del commercio Ue. Secondo il Ceo, “Corporate Europe Observatory”, «le multinazionali del cibo, i commercianti agricoli e i produttori di sementi hanno avuto più contatti con il dipartimento» che non «i lobbisti della farmaceutica, della chimica, dell’industria finanziaria e delle auto messi insieme». Dei 560 incontri con le lobby che “Dg Trade” ha tenuto per preparare i negoziati, 520 (il 92%) sono stati con i lobbisti aziendali, mentre solo 26 (il 4%) con i gruppi di interesse pubblico. Per ogni incontro con un sindacato o gruppo di consumatori, ve ne sono stati 20 con le aziende e le federazioni industriali.Come rivela Pia Eberhardt, attivista per la parte commerciale nel Ceo, «“Dg Trade” ha attivamente coinvolto gli affaristi delle lobby nel redigere la posizione dell’Ue per il Ttip tenendo a bada i “fastidiosi” sindacalisti e altri gruppi di interesse pubblico». Risultato: nell’agenda «viene prima di tutto il business, che mette in pericolo molte conquiste per le quali le persone in Europa hanno a lungo lottato, dalle norme di sicurezza alimentare alla tutela dell’ambiente». E in prima fila, nell’assalto alle normative europee, c’è proprio l’industria dell’alimentazione. Lo conferma Nina Holland, attivista nel settore agroalimentare in ambito Ceo: «Le lobby del settore agroalimentare, come l’industria dei pesticidi, hanno fortemente dato una spinta ai loro programmi tramite i negoziati del Ttip con l’obiettivo di minare le vigenti normative alimentari dell’Ue. Strumenti commerciali come il “mutuo riconoscimento” e la “cooperazione regolamentare” rischiano di portare a un’erosione degli standard di sicurezza alimentare nel lungo periodo. L’industria sta anche cercando di utilizzare il Ttip per far deragliare importanti iniziative comunitarie come quella di affrontare il problema delle sostanze chimiche che alterano il sistema endocrino».Nella “grande abbuffata” ovviamente non mancano le telecomunicazioni e l’It (Information Technology), l’industria automobilistica, l’ingegneria e il settore chimico. A decidere, accanto agli statunitensi, sono soprattutto i colossi inglesi e tedeschi, rappresentati da “BusinessEurope” e dallo “European Service Forum”, una lobby a corredo di grandi società di servizi come Deutsche Bank e The City Uk. I dati, aggiunge Todhunter, rivelano poi che oltre il 30% (94 su 269) dei gruppi di interesse del settore privato che hanno esercitato pressioni sulla “Dg Trade” per il Ttip sono assenti dal Registro per la Trasparenza dell’Ue: tra questi, vi sono grandi aziende come Wal-Mart, Walt Disney, General Motors, France Telecom e Maersk. Alcune delle associazioni industriali che premono più duramente per il Ttip, come la Camera di Commercio degli Stati Uniti e “Transatlantic Business Council”, stanno esercitrando pressioni anche sotto il radar del registro delle lobby. E, a quanto pare, il boccone più grosso sarà quello che consentirà all’agribusiness di scegliere il nostro futuro menù, a scapito della qualità e della sicurezza di ciò che avremo nel piatto.Meno sicurezza alimentare significa più veleni, e quindi più malattie. E’ il grande business del colosso agroalimentare che sta facendo la parte del leone nelle trattative segrete tra Usa e Ue per il Ttip, il Trattato Transatlantico sul commercio destinato a sconvolgere l’equilibrio europeo delle tutele, frutto di mezzo secolo di leggi e conquiste. In questa partita epocale, condotta a porte chiuse sulla testa di mezzo miliardo di europei, il giornalista indipendente inglese Colin Todhunter svela il ruolo decisivo dei grandi industriali del cibo, decisi a fare piazza pulita degli «ostacoli normativi inutili». In altre parole: vogliono «indebolire le condizioni lavorative, sociali, ambientali e le norme a tutela dei consumatori». L’idea è dell’“High Level Working Group on Jobs and Growth”, super-lobby tecnocratica euroatlantica che dichiara di occuparsi di “crescita”. Oltre al settore delle biotecnologie, i gruppi di pressione per raggiungere l’accordo includono Toyota, General Motors, l’industria farmaceutica, Ibm e la Camera di Commercio degli Stati Uniti, massima lobby americana. Ma la fetta più grossa sarà quella dell’industria del cibo.
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Cabras: siam pronti anche noi alla macelleria della guerra?
Perché mai, domanda il giornalista, avete deciso di far sfilare i prigionieri di guerra? «E’ stata Kiev a dire che avrebbero marciato in parata a Donetsk il giorno 24. E così han fatto». Questa la terribile ironia che i difensori russofoni del Donbass aggredito dall’esercito ucraino esibiscono dopo aver respinto l’attacco. Avvertono: nessuna illusione sui cosiddetti dispersi dell’esercito regolare. «Le famiglie ricevono lettere che li dichiarano “dispersi in azione”. In realtà sono morti. Le autorità di Kiev lo fanno apposta. Centinaia e migliaia di morti in qualche decina di tombe». Il comandante russofono lo annuncia ufficialmente: «Ognuno sappia che se hai ricevuto una lettera che lo definisce “disperso in azione”, allora molto probabilmente tuo marito, fratello o figlio è stato ucciso». Il video è proposto da “Pandora Tv”, che presenta anche l’intera conferenza stampa del presidente del Donbass, Aleksandr Zakharchenko, tenutasi il 24 agosto nel pieno della controffensiva delle milizie ribelli, che hanno sbaragliato le meglio armate e più numerose forze del governo di Kiev.«Sarà l’Ucraina, sarà il richiamo bellico dell’anno quattordici, sarà che ormai le dichiarazioni di molti politici europei già annunciano la carneficina all’orizzonte», moltiplicando ogni giorno le nuove evocazioni di una guerra mondiale, ma intanto «cresce per molti una sensazione di pericolo», scrive Pino Cabras su “Megachip”. «Evocare è facile, ma essere davvero pronti all’anticamera dell’Apocalisse è un’altra cosa». Chi è davvero pronto per la guerra? Certo non i popoli europei: «Vivono in una bolla televisiva che fa loro sperare di essere ancora a lungo i consumatori che sono stati negli ultimi decenni. La cuccagna non è stata ancora smontata, perciò il ricordo dell’ultima guerra mondiale rimane annacquato. Gli europei medi – continua Cabras – non riescono più a immaginare la guerra come catastrofe. I telegiornali e i grandi quotidiani li ammaestrano all’isteria bellica, alla propaganda più sfacciata, alla russofobia, questo sì. Ma occultano l’idea che la distruzione possa entrare nelle loro case o sommergere intere coorti dei loro figli».Il peggio è che «nessun europeo medio ha saputo cosa è accaduto in Ucraina negli ultimi sei mesi, dal golpe in poi. Tanto meno sa cosa c’era prima. Né sa che il governo di Kiev ha martoriato la popolazione civile delle regioni orientali». L’europeo medio «ignora gli interessi predatori di quei capitalisti mafiosi che vorrebbero svuotare quelle regioni dei loro abitanti russofoni», non sa che «le forze di sicurezza ucraine sono in mano ad avventurieri imbevuti di ideologie naziste». E naturalmente «non sa nulla della Russia, non sa nulla di nulla: e si ritroverà nella guerra vasta che annuncia il neopresidente polacco del Consiglio Europeo, Donald Tusk (un burattino atlantista), e peggio di lui il ministro della difesa ucraino Gheletei, senza sapere ancora nulla». Certamente a scalpitare è Tusk, il regime dell’Ue è al guinzaglio di Washington, lo stesso Cameron sembra avere il dito sul grilletto. La Nato sembra abbozzare una frenata – su richiesta della Merkel, cioè dell’export tedesco danneggiato dalle sanzioni contro Mosca – ma intanto prepara una forza di pronto intervento per l’Est. In teoria, era pronta alla guerra anche la giunta golpista di Kiev, «ma in modo totalmente irresponsabile, con una tragica incapacità di valutare gli interessi dei russi e – di questi – la determinazione (cioè una prontezza reale) a pagare e infliggere il prezzo di una guerra vera».Quel che accade ora in Ucraina, dice Cabras, misura le reali dimensioni di queste diverse “prontezze”. Da un lato i popoli occidentali «anestetizzati dai loro media», popoli «che non hanno alcuna misura dei fatti», e in più il popolo ucraino «che si sorprende di dover subire una disfatta (in Italia si direbbe una Caporetto), come nel caso delle mamme e sorelle disperate che chiedono conto delle notizie di una brigata di 4.700 uomini, di cui sono tornati con le proprie gambe in appena 83». Queste famiglie «hanno appena riscoperto il concetto di “carne da cannone”», quello della Grande Guerra. «Sono le avanguardie delle mamme che ripeteranno la scena in tante altre lingue, anche da noi, nelle capitali in bancarotta dell’Europa ai comandi di Bruxelles e Francoforte». Dall’altro lato della barricata, ecco invece i militari del Donbass: «Colpisce la sicurezza e l’agghiacciante autorevolezza – in un dosaggio di gravitas e brutale ironia – con cui questi partigiani dei nostri giorni parlano di migliaia di vittime di guerra». La “gravitas” è quella che annuncia l’avvenuta strage dei militari mandati allo sbaraglio dagli aggressori incoraggiati dalla Nato. L’ironia è quella della sfilata dei prigionieri: a marciare (disarmati e sconfitti) il 24 agosto sono stati gli ucraini di Kiev, quelli che avevano annunciato con troppa fretta la conquista di Donesk, con tanto di parata dal sapore hitleriano.«Purtroppo, cari giornalisti, l’Occidente cerca di invaderci con una frequenza di 30-50 anni», dicono i resistenti dell’Est. «Ogni 30-50 anni la civiltà occidentale cerca di imporci la sua opinione e il suo modo di vivere. La Prima Guerra Mondiale, la Grande guerra patriottica, la guerra di Crimea prima ancora, e così via nelle profondità della storia. Come risultato, l’Occidente tradizionalmente ottiene la caduta di Berlino, di Parigi. L’Occidente arriva ogni 30-50 anni per ottenere ciò che si merita. Ora, nel 2014, sono un po’ in ritardo», ma il copione sembra lo stesso. Loro, sì, sono pronti alla guerra. Lo hanno dimostrato. E lo spiegano in modo chiarissimo: «Diremo a chiunque venga a farci del male sul nostro territorio: ci batteremo con le unghie e con i denti per la nostra patria. Kiev e l’Occidente hanno fatto un grosso sbaglio a risvegliarci. Noi siamo gente laboriosa. Mentre altri saltavano a Maidan per 300 grivne, la nostra gente era giù in miniera a estrarre carbone, a fondere metallo e a seminare le colture. Nessuno di noi ha avuto il tempo di saltare, eravamo impegnati a lavorare». Poi, quando li hanno presi a cannonate, si sono ribellati.«Quando un tizio che appena ieri lavorava con un martello pneumatico o guidava una mietitrebbia, oggi si trova alla guida di un carro armato o di un Grad, o a raccogliere un mitra, la linea è stata passata e non lo potete più fermare», dicono i militari dell’Est. «Quello che ha dovuto lasciare il proprio lavoro sa che combatterà fino alla fine e fino al suo ultimo respiro». E l’Occidente è pronto è combattere “fino all’ultimo respiro”? Certo non lo è la nuova Lady Pesc, Federica Mogherini, che si abbandona a dichiarazioni desolanti, del tipo: «Se non esiste più un partenariato strategico è per scelta di Mosca». Ovvero: nessuna autocritica ai piani alti dell’Ovest. «Ecco, Mogherini non è pronta», scrive Cabras. «Fa interamente sua tutta l’eredità della Nato e della Ue in questi anni di crisi internazionali, destabilizzazioni, aggressioni ed escalation: cioè un bilancio disastroso e criminale, dall’Iraq all’Afghanistan al dossier libico, alla Siria, e ora all’Ucraina».Il bilancio occidentale di questi anni? «Un caos funesto interamente imputabile alla lunga “guerra infinita” scatenata dalle capitali dell’atlantismo», subito dopo l’opaco super-attentato dell’11 Settembre. Lo stesso Cabras ricorda che, all’indomani della guerra-lampo nell’Ossezia del Sud attaccata dall’esercito georgiano armato da Bush e poi travolto dai russi, nel 2008 il “Times” ricordava le parole di Lord Salisbury, ministro degli esteri e primo ministro ai tempi dell’Impero Britannico», un uomo che «irradiò un potere globale immenso». Di fronte a proposte pericolose, in cui Londra minacciava seriamente altri paesi, Salisbury avrebbe guardato i suoi colleghi negli occhi, chiedendo semplicemente: «Siete davvero pronti a combattere? Altrimenti, non imbarcatevi in questa politica».Già: siete davvero pronti a combattere? «E’ la domanda giusta, quella che non vi hanno ancora fatto», osserva Cabras. «Nell’Europa politicamente desertificata dall’obbedienza alla Nato si continua ad agire come se la Russia fosse ancora oggi lo Stato esausto degli anni novanta, su cui si muoveva etilicamente Boris Eltsin e sul cui collo si stringeva il capestro del Fondo Monetario Internazionale. La situazione è completamente diversa, eppure si va lo stesso allo scontro. O si va proprio per questo, nel momento in cui i Brics picconano il Dollar Standard. E gli Usa non possono accettare un mondo multipolare in cui il dollaro non sia l’architrave». Allora, siamo pronti a combattere? La risposta la anticipano – a distanza – i comandanti militari dell’Est ucraino, che a questa guerra hanno già preso le misure. «Potete dirlo in giro: non svegliate la bestia», raccomandano. «Non fatelo, davvero. Finché c’è ancora la possibilità, lasciate che le madri risparmino i propri figli».Perché mai, domanda il giornalista, avete deciso di far sfilare i prigionieri di guerra? «E’ stata Kiev a dire che avrebbero marciato in parata a Donetsk il giorno 24. E così han fatto». Questa la terribile ironia che i difensori russofoni del Donbass aggredito dall’esercito ucraino esibiscono dopo aver respinto l’attacco. Avvertono: nessuna illusione sui cosiddetti dispersi dell’esercito regolare. «Le famiglie ricevono lettere che li dichiarano “dispersi in azione”. In realtà sono morti. Le autorità di Kiev lo fanno apposta. Centinaia e migliaia di morti in qualche decina di tombe». Il comandante russofono lo annuncia ufficialmente: «Ognuno sappia che se hai ricevuto una lettera che lo definisce “disperso in azione”, allora molto probabilmente tuo marito, fratello o figlio è stato ucciso». Il video è proposto da “Pandora Tv”, che presenta anche l’intera conferenza stampa del presidente del Donbass, Aleksandr Zakharchenko, tenutasi il 24 agosto nel pieno della controffensiva delle milizie ribelli, che hanno sbaragliato le meglio armate e più numerose forze del governo di Kiev.
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Renzi chi? Fa solo chiacchiere, a decidere sarà Draghi
Renzi chi? Sicuri che sia adatto a governare, in questa Italia in crisi profonda da ormai sei anni? Se lo domanda Lucia Annunziata, direttrice dell’“Huffington Post”, dando per scontata «la risposta da parte delle artiglierie dei Renzi-fan, diventati oggi così radicali e insultanti da far sembrare i grillini dei perfetti gentiluomini». Come se il Capo avesse «un dogma di “infallibilità”, una narrativa che passa da trionfo a trionfo, una vulgata del genere “durerà venti anni”, il mantra “a lui non c’è alternativa” ripetuto da amici e ancor più da nemici», in una sorta di sindrome di Fukuyama, l’autore della “fine della storia”, «presto smentito dalla storia stessa». Fuochi d’artificio a parte, un leader «dura tanto quanto è efficace la sua azione di governo». Dove sono i risultati di Renzi? «Il più atteso dei suoi provvedimenti, lo Sblocca Italia», è stato unanimemente giudicato «inferiore alle esigenze della drammatica situazione del paese». E’ vero che il premier «è in sella da soli sei mesi», ma «non è giustificabile la inadeguatezza del metodo con cui il premier si sta confrontando con le reali condizioni del paese».Il primo Consiglio dei ministri d’autunno? «La fotografia di un governo segnato dalla approssimazione amministrativa». Sul suo blog, la Annunziata parla di «vicende incredibili». Esempio: «Surreale il percorso della riforma della scuola. Non c’è nulla di meno serio di un premier che su un argomento così delicato per le famiglie e le decine di migliaia di lavoratori del settore, non lavori insieme al suo ministro; un premier che pochi giorni prima di proporre questa riforma scenda in campo con pirotecniche affermazioni tipo “vi stupirò”, salvo poi ritirare l’intero progetto evidentemente non pronto, con la flebile scusa dell’ingorgo». “Surreale” anche il percorso della riforma del lavoro, «con un ministro, Poletti, che un giorno annuncia, un giorno nega quel che ha detto», a cominciare dal lacerante rebus sull’articolo 18: che ne pensa il governo? «Ma se la voce lavoro è dispersa, la voce giustizia, la più delicata da vent’anni a questa parte, è finita dritta dritta di nuovo nelle secche dello scambio politico, irretita nelle fibrillazioni della maggioranza e delle preoccupazioni di Silvio Berlusconi. Stesso destino per le risorse fresche, i milioni promessi per il rilancio dell’economia, passati da 43 miliardi, oppure 30, altre cifre vaganti, a infine solo a 3,8».Nel complesso, «persino le azioni giuste, che riguardano soprattutto la semplificazione normativa», di fatto «sbiadiscono in rapporto a tutta la retorica dei mesi passati – Renzi, ricordate, è lo stesso leader che solo sei mesi fa accusò il suo predecessore Enrico Letta di usare “il cacciavite” laddove, disse, per cambiare l’Italia ci voleva “una rivoluzione”. Altro che cacciavite: al suo primo incontro con il mondo reale della vita dei cittadini Renzi ha fatto soprattutto manutenzione». La nomina della Mogherini a Lady Pesc? «Sembra segnare invece l’azione internazionale del premier di ben altra caratura di quella mediocre nazionale». Ma, con le tensioni con la Russia in corso, che significato ha la nomina della Mogherini? «A Bruxelles non abbiamo sentito nessun discorso di contenuti accompagnare la nomina», sottolinea la Annunziata. «Non sappiamo oggi più di ieri perché abbiamo chiesto il posto di Lady Pesc. Perché vogliamo creare un nuovo detente contro la Russia, perché temiamo una seconda guerra fredda, perché pensiamo che solo noi italiani possiamo essere un ponte fra russi e Occidente, perché pensiamo che i russi possano aiutarci in Medioriente – o forse sono essenziali solo a noi italiani perché così abbiamo una leva in più in Occidente? Di quale di queste opzioni si tratta?».Esattamente, continua Lucia Annunziata, per cosa ci batteremo sul cosiddetto scacchiere mondiale? «Siamo con Kissinger che chiede di ridefinire tutti gli strumenti di intervento, siamo per definire una nuova frontiera occidentale, siamo per un ribaltamento di alleanze in Medioriente, o per nuovi fronti militari? Siamo per i diritti umani o per la realpolitik? Siamo per bombardare Isis con Assad, e l’Iran, e vogliamo pagare per gli ostaggi, o liberarli impiegando le forze speciali? Insomma cosa pensa Renzi, premier del nuovo mondo? Per ora abbiamo soltanto sentito ripetere la frase “mediazione” a ogni angolo. Speriamo che basti». Ma se non ha parlato di politica estera, Renzi ha però fatto un commento per festeggiare la nomina di Mogherini: «Indica che c’è una nuova generazione al potere». Questa frase, scrive l’Annunziata, «è in fondo il vero cuore della sua identità politica: il raggiungimento del potere. Un potere formale, materiale, riconoscibile in una serie di posizioni per sé e per tutti i suoi associati». E nella piattaforma renziana, «fin dall’inizio, il potere ha un ruolo centrale, sotto forma di rottamazione, annuncio di un ricambio generazionale fatto con maniere decise». Obiettivo «del tutto legittimo», peraltro.Su questa piattaforma «Renzi si è rivelato geniale, e degno erede di quella grande scuola della Dc che ha visto in Andreotti il suo maggior e più pragmatico rappresentante, quello del potere che logora solo chi non ce l’ha». Infatti, «come un treno, ha saputo cogliere le debolezze del suo partito, del sistema burocratico romano, delle classi dirigenti italiane prima e quelle europee dopo. È riuscito a intimidire con insulti alcuni di loro, altri li ha invece piegati con la seduzione della sua energia, altri ancora facendo leva sull’opportunismo di chi ama i vincenti». Una visione del potere «senza gabbie etiche, solo e puramente funzionale». Mai un dubbio, infatti, «sulla natura tattica delle alleanze». Non ha esitato a far fuori Enrico Letta e rilanciare «senza nessuna spiegazione» l’ex arci-nemico del suo stesso partito, Berlusconi. In più, «ha distrutto e rivivificato carriere a seconda dei voti che aveva necessità di raccogliere su questo o quel provvedimento: che la priorità assoluta dei primi sei mesi della sua attività di governo sia stata la riforma del Senato ha senso solo in questo percorso».L’idea è che «il potere si giustifica col potere perché solo il potere autorizza il cambiamento», continua Lucia Annunziata. «Renzi in questo sfoggio di forza ha infatti affascinato e addomesticato quasi il 50 per cento del paese». Ma ora un nuovo problema bussa alla sua porta: «Dopo la conquista, il potere occorre riempirlo di fatti, di idee, di proposte. E su questo Renzi arriva tardi e male. E non solo perché non ha i soldi. Anzi. Arriva tardi e male perché in questi mesi non ha saputo o voluto raccordarsi davvero con il paese, e la sua crisi. Il suo orizzonte è stato il più politicista di tutti i leader più recenti. Proprio perché concentrato sulla presa dei centri di potere. Ma non ha saputo mai spiegare a tutti noi perché si sta sempre peggio, cos’è che non funziona nelle nostre città e come mai l’Italia ha continuato a scivolare verso dati economici negativi». Fateci caso: «Non lo abbiamo visto parlare con nessun poveraccio, salvo i suoi giri veloci e le sue pacche sulle spalle. Ha visitato a mala pena qualche fabbrica, della lunga vicenda della Alcoa non ha preso mai nota, ha fatto i suoi gesti di potere disprezzando Squinzi e i sindacati, ha visto Landini che è “nuovo” e cool ma non sembra avergli parlato a sufficienza da capire che lui e Landini vivono in luoghi diversi».Chi vuol prendere in giro, Renzi? «Parla tanto di quote rosa, ma non parla mai di aborto, di diritti, di bambini uccisi da madri a da padri in depressione. Non ha mai fatto una filippica sull’onestà collettiva, sulla evasione fiscale». In compenso, «abbiamo tante filippiche su gufi, invidiosi e specie altre». Il premier «non ha mai detto una parola sul disagio dei giovani, sul degrado che alcol droga e bassi affitti hanno scatenato questa estate sul nostro territorio nazionale, in compenso fa docce gelate, e prepara una mossa smart via l’altra, un permanente girotondo di discorsi, conferenze stampa, convegni – oggi sappiamo già della conferenza stampa di mercoledì e poi del convegno europeo di venerdì e poi della la visita all’Onu prima anticipata da quella – e dove altro? – alla Sylicon Valley». Ma soprattutto, «sembra non aver mai albergato nella sua testa l’idea che in un paese in gravissima crisi c’è bisogno di un qualche misura speciale. Forse di una idea di unità nazionale che non sia solo il suo patto con Berlusconi e Ncd a fini di raccattare i voti che gli servono». E’ storia: «Roosevelt fece i lavori pubblici, Marshall finanziò la ripresa europea, Mussolini risanò le paludi». E Renzi, che annunciava rivoluzioni epocali? «Ha qualche compito cui tutti noi possiamo concorrere, ha in mente una chiamata alla responsabilità di lavoratori e imprenditori, come in Germania ad esempio, o la ripresa viene automaticamente fuori dal suo inarrestabile presenzialismo?».E ancora: «Si è mai chiesto Renzi perché i suoi 80 euro non hanno funzionato? Dove li ha messi la gente che li ha ricevuti? Sotto il materasso? Ha saldato i debiti pregressi? Nemmeno con quei dieci milioni di italiani che ha concretamente e generosamente aiutato lo abbiamo mai visto parlare». E’ un premier che ci tiene a far sapere che ne infischia dei suoi critici, ma deve sapere che «le cambiali arrivano anche per lui». Alla fine di questa girandola, giunto «al dunque delle misure da decidere per il paese», i tanti suoi progetti «sono poi stati filtrati, messi in ordine e limitati da uomini più saggi e più vecchi di lui». Le sue ambizioni? Si sono scontrate con l’aritmetica del Tesoro, con Napolitano che non s’è prestato a «giochi di illusionismo politico», e soprattutto «con la figura imponente di Mario Draghi diventato ormai il real player politico anche per l’Italia, oltre che per l’Eurozona». Alla fine, spenti i fuochi artificiali, «il Renzi che esce da Palazzo Chigi e naviga nel mondo reale è nei fatti un premier tenuto continuamente a balia da altri», conclude la Annunziata. «Un premier decisamente messo al suo posto di ragazzino. E non solo dalla copertina dell’“Economist”».Renzi chi? Sicuri che sia adatto a governare, in questa Italia in crisi profonda da ormai sei anni? Se lo domanda Lucia Annunziata, direttrice dell’“Huffington Post”, dando per scontata «la risposta da parte delle artiglierie dei Renzi-fan, diventati oggi così radicali e insultanti da far sembrare i grillini dei perfetti gentiluomini». Come se il Capo avesse «un dogma di “infallibilità”, una narrativa che passa da trionfo a trionfo, una vulgata del genere “durerà venti anni”, il mantra “a lui non c’è alternativa” ripetuto da amici e ancor più da nemici», in una sorta di sindrome di Fukuyama, l’autore della “fine della storia”, «presto smentito dalla storia stessa». Fuochi d’artificio a parte, un leader «dura tanto quanto è efficace la sua azione di governo». Dove sono i risultati di Renzi? «Il più atteso dei suoi provvedimenti, lo Sblocca Italia», è stato unanimemente giudicato «inferiore alle esigenze della drammatica situazione del paese». E’ vero che il premier «è in sella da soli sei mesi», ma «non è giustificabile la inadeguatezza del metodo con cui il premier si sta confrontando con le reali condizioni del paese».