Archivio del Tag ‘Africa’
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Aerei-fantasma, la Puglia capitale europea dei droni
Il governo italiano candida la base aerea di Amendola, Foggia, quale sede per la formazione dei militari di tutta Europa nella gestione degli aerei senza pilota. «L’Italia è pronta a rendere disponibili le esperienze maturate e le infrastrutture tecniche ed addestrative realizzate per costruire insieme una soluzione europea nel settore dei droni», spiega Roberta Pinotti, ministro della difesa. Obiettivo: «Costituire in Italia la prima scuola di volo europea per aeromobili a pilotaggio remoto». Nel campo dei droni, osserva Antonio Mazzeo, l’Italia si è conquistata una leadership in ambito continentale: a Sigonella, in Sicilia, operano da diversi anni i grandi velivoli senza pilota “Global Hawk” della marina Usa, mentre entro il 2016 sarà pienamente operativo l’Ags, il nuovo sistema di sorveglianza terrestre della Nato basato sull’ultima generazione di droni di produzione statunitense. Inoltre, le forze armate italiane sono state le prime in Europa ad acquisire i velivoli “Predator” per schierarli nei maggiori teatri di guerra internazionale: Afghanistan, Iraq, Libia e Corno d’Africa.Proprio ad Amendola, continua Mazzeo, già nel 2002 fu costituito il 28° Gruppo Velivoli Teleguidati (poi battezzato “Le Streghe”) per condurre operazioni aeree con i droni “Predator” acquistati dalla General Atomics Aeronautical Systems di San Diego, California. Il gruppo, con personale addestrato negli Usa, fu assegnato al 32° stormo dell’aeronautica di Amendola. «La missione fondamentale del reparto – spiegano i militari – ruota oggi intorno al supporto alla capacità d’intelligence, sorveglianza e ricognizione (Isr) alle componenti nazionali e delle forze alleate per la riuscita in sicurezza delle operazioni a terra in qualunque contesto operativo», incluse attività come «antiterrorismo e sorveglianza del fenomeno dell’immigrazione clandestina». Il battesimo del fuoco della prima batteria di “Predator”, ricorda Mazzeo, avvenne in Iraq nel gennaio 2005: dalla base di Tallil, i droni “italiani” iniziarono a operare in supporto del contingente terrestre nell’ambito della missione “Antica Babilonia”. Nel maggio 2007 i droni furono poi trasferiti anche nella base di Herat, sede del comando regionale interforze per le operazioni in Afghanistan, dove hanno continuato a operare sino ad oggi.Nel corso della campagna scatenata in Libia per rovesciare Gheddafi nella primavera-estate 2011, «i velivoli a pilotaggio remoto schierati ad Amendola ebbero un ruolo chiave nelle operazioni “Isr” dell’aeronautica italiana e dei partner della coalizione internazionale a guida Usa, volando in missione per un totale di 360 ore», riferisce Mazzeo. Le ultime missioni all’estero dei “Predator” risalgono invece a quest’anno: a metà agosto, due velivoli-spia sono stati schierati a Gibuti, piccolo stato del Corno d’Africa, nell’ambito della missione antipirateria dell’Unione Europea “Atalanta”, ma opererebbero anche «a favore delle forze governative somale in lotta contro le milizie di Al Shabab». Nello scalo aereo di Kuwait City è invece stato avviato l’allestimento delle infrastrutture logistiche che consentiranno all’aeronautica militare italiana di schierare due velivoli a pilotaggio remoto appositamente riconfigurati per operare a favore della coalizione internazionale anti-Isis in Iraq e Siria.Inoltre, nel 2008 il Parlamento italiano ha autorizzato l’acquisto di altri quattro ricognitori Rq-9 “Predator B”, noti anche come “Reaper”, con una spesa di 80 milioni di euro. Il “Reaper” può volare anche per 24-40 ore, a 15.000 metri dal suolo, può essere trasportato a bordo di un aereo C-130 ed essere reso operativo in meno di dodici ore. Può trasportare carichi sino a 1.800 chili (sensori, radar, telecamere), e soprattutto può essere armato con missili “Hellfire” e bombe a guida laser. Costo dell’armamento dei “Reaper” italiani, 14 milioni di euro. «Attualmente – aggiunge Mazzeo – i droni di Amendola sono operativi pure per la ricognizione aerea in Kosovo, a sostegno delle attività della forza militare internazionale a guida Nato (Kfor)», e sono stati impiegati anche nell’operazione “Mare Nostrum”. Esclusivi corridoi di volo per i “Predator” sono stati predisposti dall’aeronautica militare tra la Puglia e le basi aeree siciliane di Sigonella, Trapani Birgi e Pantelleria e il poligono sperimentale di Salto di Quirra e lo scalo di Decimomannu in Sardegna.La base di Amendola collabora con militari francesi e olandesi, ha ospitato addestramenti congiunti con forze armate di paesi come Egitto e Giordania e funziona anche come centro sperimentale i nuovi “dimostratori senza pilota” di Alenia Aeronautica (Finmeccanica) con compiti di osservazione, sorveglianza e ricognizione strategica del territorio. Lo scalo pugliese è stato usato nel ‘97 per la guerra in Bosnia e due anni dopo per sferrare raid contro obiettivi civili e militari in Serbia e Kosovo, nella guerra contro Milosevic. Dal 2009 gli Amx di Amendola alimentano a rotazione il “task group” di Herat, per il supporto del contingente italiano e alleato in Afghanistan. Di recente, i piloti hanno partecipato a importanti esercitazioni militari in Canada, Stati Uniti, Francia, Germania, Spagna, Egitto e Israele. «All’orizzonte – conclude Mazzeo – c’è l’entrata in funzione del più costoso velivolo da guerra mai prodotto, il famigerato cacciabombardiere Lockheed Martin F-35: oltre a prepararsi a fare da scuola volo europea dei droni, Amendola sarà infatti la prima base aera italiana destinata ad ospitare gli F-35 che sostituiranno prima gli Amx e poi i Tornado».Il governo italiano candida la base aerea di Amendola, Foggia, quale sede per la formazione dei militari di tutta Europa nella gestione degli aerei senza pilota. «L’Italia è pronta a rendere disponibili le esperienze maturate e le infrastrutture tecniche ed addestrative realizzate per costruire insieme una soluzione europea nel settore dei droni», spiega Roberta Pinotti, ministro della difesa. Obiettivo: «Costituire in Italia la prima scuola di volo europea per aeromobili a pilotaggio remoto». Nel campo dei droni, osserva Antonio Mazzeo, l’Italia si è conquistata una leadership in ambito continentale: a Sigonella, in Sicilia, operano da diversi anni i grandi velivoli senza pilota “Global Hawk” della marina Usa, mentre entro il 2016 sarà pienamente operativo l’Ags, il nuovo sistema di sorveglianza terrestre della Nato basato sull’ultima generazione di droni di produzione statunitense. Inoltre, le forze armate italiane sono state le prime in Europa ad acquisire i velivoli “Predator” per schierarli nei maggiori teatri di guerra internazionale: Afghanistan, Iraq, Libia e Corno d’Africa.
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Il terrorismo dei fantasmi che organizza funerali e ipocrisia
L’odio è un film di tanti anni fa, che finisce in un bagno di sangue proprio a Parigi, la città cosmopolita della grande scommessa integrazionista pensata ai tempi della decolonizzazione, quando gli orchi europei facevano ancora ammazzare i ribelli, i patrioti sovranisti non allineati, i Lumbumba, i Sankara, ma a presidiare la democrazia c’erano fior di partiti e sindacati, editori e intellettuali, università e società civile che volevano farla finita con l’ideologia e la pratica della sopraffazione, con l’abominio genocida, parassitario e schiavistico del terzo mondo. Erano già al lavoro le menti raffinatissime della barbarie, ma agivano nell’ombra delle officine bancarie, dell’alchimia finanziaria, per sottrarre alle masse il controllo dello Stato e della moneta. Presto avrebbero avuto bisogno di politici, e ne avrebbero reclutati a migliaia. L’odio, però, ufficialmente era ancora fuori dalla porta. Era il fantasma di Auschwitz, l’ecatombe di Hiroshima, lo spettro nucleare della guerra fredda. Allevati dai vincitori atlantici della Seconda Guerra Mondiale, gli europei coltivavano una loro relativa sovranità di benessere e privilegi grazie al primo welfare del mondo, fondato sul sacro principio in base al quale nessuno deve soffrire, perché non soffra il sistema.L’odio incandescente è quello che preme il grilletto a colpo sicuro e fa fuori il vignettista e il banchiere eretico, ma il suo mandante è l’odio freddo di chi progetta stragi e concepisce il mondo come un teatro da insanguinare costantemente, in modo che non si spenga la paura dei molti e la fiamma dell’odio non si estingua mai. L’odio è una promessa, una minaccia. Una punizione. Esemplare, a Parigi, la punizione degli irriverenti. Una lezione valida per tutti, musulmani e cristiani, mediorientali e occidentali: nessuno può ritenersi al sicuro, specie se ostenta idee spericolate e sciorina sberleffi, se pensa davvero di potersi prendere gioco del potere. La punizione prima o poi arriva, ed è un missile a testata multipla. Terrorizza la cosiddetta opinione pubblica, minaccia una nazione come la Francia e la ricatta, temendo la conversione sovranista del grande paese su cui si fonda l’Unione Europea. Minaccia e ricatta qualunque cittadino occidentale si creda libero. Minaccia e ricatta gli europei, trascinati loro malgrado nell’oscuro braccio di ferro autolesionistico con la Russia del gas. Il terrorismo spegne la democrazia, la ricaccia nella paura. Ed è sempre sporco, opaco e bugiardo, prima ancora che mostruoso e sanguinario.L’odio ha riempito un cimitero mondiale di oppositori, caduti sotto il fuoco dei golpisti, sotto le bombe, sotto il velo di strani incidenti. L’odio parla sempre con una sola voce: dobbiamo tutti avere paura, molta paura. Perché i primi a cadere sono sempre stati quelli che si erano battuti senza risparmio per insegnare all’umanità a non avere paura. Perché il potere ha davvero paura soltanto di chi non lo teme, di chi osa sfidarlo, di chi dimostra che l’oligarchia non è invincibile, sapendo che la storia dell’uomo è millenaria e nessun potere è eterno. Per questo l’odio teme la verità e predilige la menzogna, sfornando narrazioni mancine, fuorivianti, suggestive. I terroristi grotteschi, cavernicoli e deliranti, sono comparsi sulla scena soltanto negli anni ‘90, quando l’equilibrio della guerra fredda si era rotto per sempre. Prima, c’era stato soprattutto il terrorismo irredentista delle lotte di liberazione, sempre rivendicato, collegato a precise cause geopolitiche, l’Ira in Irlanda, l’Eta in Spagna, l’Olp in Palestina. Eserciti clandestini e irregolari, ma non fantasmi come quelli che misero le bombe nelle piazze italiane, sui treni, sugli aerei. L’altro terrorismo, quello dei fantasmi, è diventato improvvisamente internazionale solo dopo la fine dell’Urss, quando il teatro d’azione non era più solo l’Occidente, ma anche e soprattutto il resto del mondo.Oggi, il terrorismo fantasma torna invece nel cortile di casa. E’ comparso negli Stati Uniti, poi si è esteso all’Europa per mani di stragisti isolati, fanatici, pazzi, di cui però poi sono emersi imbarazzanti collegamenti con apparati di polizia e spezzoni di intelligence. Tutto questo, mentre il grande terrorismo – il più estremo e feroce – si è scatenato senza tregua contro le popolazioni civili della Cecenia, della Jugoslavia, dell’Iraq, dell’Afghanistan, contro gli inermi della Siria, i bambini di Gaza, gli abitanti del Donbass persi a cannonate. Chi piange le vittime di “Charlie Hebdo” macellate senza pietà dovrebbe domandarsi da dove viene la barbarie, chi l’ha coltivata. Chi è ben deciso probabilmente ad impiegarla ancora, e sempre di più, nel timore che il mondo si risvegli, che si risvegli la Francia, che si risvegli l’Europa. In Sicilia, ai tempi, si diceva che era sempre del killer la prima corona di fiori sulla bara dell’ucciso, sfregio definitivo alla memoria dell’assassinato e terribile monito per la comunità in lutto: siamo stati noi, e siamo invincibili. Rinunciare all’odio comporta prima di tutto un tributo supremo di verità, di ripudio dell’ipocrisia. Viceversa, si rischia di partecipare al funerale a braccetto coi camerieri dei veri mandanti del delitto, i “ministri dei temporali” pronti a tuonare comodamente contro una barbarie lontana e straniera. In un giallo, il commissario scoprirebbe che quei signori non hanno un alibi: alcuni di loro, la sera prima, erano a cena con l’assassino.L’odio è un film di tanti anni fa, che finisce in un bagno di sangue proprio a Parigi, la città cosmopolita della grande scommessa integrazionista pensata ai tempi della decolonizzazione, quando gli orchi europei facevano ancora ammazzare i ribelli, i patrioti sovranisti non allineati, i Lumbumba, i Sankara, ma a presidiare la democrazia c’erano fior di partiti e sindacati, editori e intellettuali, università e società civile che volevano farla finita con l’ideologia e la pratica della sopraffazione, con l’abominio genocida, parassitario e schiavistico del terzo mondo. Erano già al lavoro le menti raffinatissime della barbarie, ma agivano nell’ombra delle officine bancarie, dell’alchimia finanziaria, per sottrarre alle masse il controllo dello Stato e della moneta. Presto avrebbero avuto bisogno di politici, e ne avrebbero reclutati a migliaia. L’odio, però, ufficialmente era ancora fuori dalla porta. Era il fantasma di Auschwitz, l’ecatombe di Hiroshima, lo spettro nucleare della guerra fredda. Allevati dai vincitori atlantici della Seconda Guerra Mondiale, gli europei coltivavano una loro relativa sovranità di benessere e privilegi grazie al primo welfare del mondo, fondato sul sacro principio in base al quale nessuno deve soffrire, perché non soffra il sistema.
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Walking Dead, zombie cannibali: siamo carne da macello
Conosco molte persone che non hanno nessun interesse a guardare la televisione perché il 99% dei programmi è spazzatura o propaganda politica da parte del governo. Solo l’1% propone le tematiche più profonde e gli stati d’animo presenti nella nostra società. Gli show televisivi come “Breaking Bad”, “Game of Thrones” e “The Walking Dead” riflettono lo stato d’animo deprimente dell’incalzante “Fourth Turning”. In aprile ho scritto uno dei miei articoli più pessimisti, intitolato “Welcome to Terminus”, benvenuti a Terminus, riguardo alla fine della quarta serie di “Walking Dead”. In sintesi argomentavo che ci stiamo avvicinando alla fine del mondo e che il mondo stesso diventerà odioso. Nei sei brevi mesi da quando ho scritto questo deprimente articolo, abbiamo visto nei video di YouTube uomini decapitati da parte di terroristi di cui non si sapeva nemmeno l’esistenza a inizio anno. È stata messa in piedi alla buona una banda di 30.000 terroristi musulmani che usa le armi militari americane fornite per combattere Assad in Siria e sottratte dalle forze armate irachene quando hanno tagliato la corda e sono scappate via; sono stati in grado di sconfiggere 600.000 combattenti iracheni e curdi che avevano l’appoggio da parte della grandiosa forza aerea americana.La Siria, l’Iraq, la Libia e l’Afghanistan crollano verso una guerra religiosa senza fine. Abbiamo addirittura passeggeri aerei che spariscono misteriosamente in Asia senza lasciare traccia. La Crimea si è staccata dall’Ucraina per appartenere alla Russia ed è stato messo in moto un piano da parte delle potenze occidentali per punire la Russia. L’America supporta e pianifica un rovesciamento da parte di un governo eletto democraticamente in Ucraina. Abbiamo assistito al “false flag” dell’abbattimento di un aereo di linea sopra l’Ucraina da parte del governo ucraino, del quale vengono accusati la Russia e Putin da Obama e dai suoi complici europei. Le agenzie di media portavoce americane hanno ignorato l’occultamento delle trasmissioni di controllo mancanti, le registrazioni della scatola nera e gli indizi evidenti della morte di centinaia di persone innocenti per mano di politici europei. Israele e Hamas hanno ripreso la loro infinita guerra religiosa a Gaza causando migliaia di vittime e distruzione.L’Inghilterra intimorita dalla guerra e dalle minacce finanziare a stento si accorge della secessione della Scozia. La Catalogna continua a premere per un voto di secessione per lasciare la Spagna. Proteste violente sono scoppiate in Spagna, Italia, Francia e anche in Svezia. Turbolenze, proteste e rivolte in Brasile, Venezuela, Argentina e in Messico sono germogliate a causa della rabbia per la corruzione politica, per l’inflazione e per un generale malfunzionamento dell’economia. Si è alzato un polverone tra Cina e Giappone e i giovani di Hong Kong sono scesi in piazza a protestare per la scarsa democrazia concessa dalla Cina nelle elezioni. L’economia mondiale, che subisce il venir meno dello stimolo da parte della banca centrale, sta tornando in una fase di recessione con Germania, Cina e Stati Uniti che si uniscono al declino economico del resto del mondo. E ora, in Africa occidentale scoppia l’Ebola che si è già sparsa in tutto il mondo con la previsione di un’epidemia che potrebbe portare il pianeta in un caos completo.Quello che sta succedendo nel mondo reale rende lo zombie distopico di “Walking Dead” un essere quasi bizzarro. Con un uso brillante del simbolismo e dell’arte figurativa, gli autori di questo show catturano il mondo nella sua essenza violenta, caotica, inumana, deprimente e brutale come il periodo di crisi “Fourth Turning” nel quale siamo entrati nel 2008 e che si intensifica di giorno in giorno. C’è una buona ragione per cui il primo episodio della quinta stagione ha stabilito il record di ascolti nella storia della Tv via cavo. La serie sta chiaramente prendendo a piene mani dallo stato d’animo che pervade la massa. Prima, nell’ultimo episodio della serie precedente, ci si rende conto che Terminus è diventato un centro di produzione gestito dai cannibali. La linea di confine tra vittime e criminali, tra preda e cacciatore, tra male e bene, tra follia e sanità mentale, tra morale e immorale ha contorni sfumati e indefiniti. Tutto diventa relativo, nel mondo post-apocalittico di “Walking Dead”.Vedere i cannibali di Wall Street andarsene indenni dopo aver divorato il sistema economico mondiale nel 2008 con i loro calcoli finanziari fraudolenti, vedere i politici corrotti arricchitisi buttando coloro-che-pagano-le-tasse sotto un autobus, le forze di polizia calpestare il Quarto Emendamento, la Nsa sorvegliare ogni cittadino americano, una banca centrale privata arricchire i suoi azionisti facendo transitare migliaia di miliardi nelle loro camere blindate, un presidente calpestare la Costituzione emanando ordini che scavalcano gli altri rami del governo e ancora miliardi di frodi, fiscali e del welfare, dai ghetti urbani fino alle suite-attico di New York; tutto ciò ha convinto gran parte degli americani che tutto sia relativo e che niente importi davvero nel nostro mondo distopico e corrotto. Giusto e sbagliato non contano più. La morale è un concetto antico. La fedeltà alla Costituzione è una consuetudine fuori moda. La nostra società inneggia e accetta il paradigma dell’homo homini lupus. O lo zombie che mangia qualsiasi cosa, nel caso di “Walking Dead”.La comunità Terminus ricorda il campo di concentramento nel film Shindler’s List. Ci sono addirittura vagoni per i prigionieri, cancelli con filo spinato, guardie armate e un numero infinito di attrezzature per “processare” i prigionieri. Un fitto fumo nero impregna l’aria. C’è una stanza piena della refurtiva ben impilata, orsacchiotti, orologi, vestiti di tutto tranne le otturazioni d’oro. La precisione e l’attenzione al dettaglio tanto cara ai nazi si riflettono nel metodo professionale con cui gli amministratori di Terminus stanno per divorare le loro prede. La raccapricciante efficienza e l’ambiente antisettico dell’impianto di preparazione evocano il ricordo delle camere a gas dell’Olocausto. La scena iniziale quando Rick, Daryl, Glenn e Bob sono in mezzo a un gruppo di uomini in fila pronti per essere sventrati come maiali, attorno a una mangiatoia in attesa che venga raccolto il loro sangue, può essere a buon diritto una delle scene più terribili mai messa in onda sulla Tv via cavo.Il modo freddo e spietato in cui i prigionieri (la carne da macello) sono allineati di fronte a un’inossidabile mangiatoia d’acciaio è sconcertante e agghiacciante. Le vittime sono colpite con una mazza da baseball e le loro gole vengono squarciate da uomini con tute protettive. Non sono diventati altro che carne pronta per essere macellata e consumata dai cannibali di Terminus. In un’ altra parte dell’impianto di “macellazione” si vedono essere umani appesi a dei ganci esattamente come pezzi di carne. Gareth, il leader di Terminus, supervisiona l’operazione come un perfetto amministratore delegato, rimproverando i macellai per non essere arrivati alla quota stabilita e per non aver seguito le procedure standard. Situazione non molto diversa da come vengono gestite le grandi aziende oggigiorno. L’altra affascinante similitudine tra il distopico “incubo del volere” rappresentato in Terminus e il nostro moderno distopico “regno dell’eccesso” è l’uso di una pubblicità falsa e una propaganda che induce i consumatori in trappola.La loro versione dei cartelloni pubblicitari era compensata da messaggi scritti a mano della serie “Un rifugio per tutti”, “Una comunità per tutti” e “Coloro che arrivano sopravvivono”. I cannibali di Terminus si sarebbero trovati benissimo in Madison Avenue con gli artisti Spinart meglio pagati, i divulgatori e le puttane per gli oligarchi delle banche. I cartelli lungo le rotaie e le trasmissioni radio da parte di un call center mostrano la business efficiency con cui i cannibali conducono le loro vittime al macello. È la stessa tecnica utilizzata dagli apostoli di Edward Bernays per manipolare in maniera consapevole e intelligente le abitudini, le opinioni, i gusti, le idee e le azioni delle masse per poterle controllare in ciò che comprano e nelle decisioni di voto e per sostenere le loro regole. Gli uomini invisibili che costituiscono il “governo invisibile” prediligono la tecnica di mantenere il bestiame docile, fedele e ignorante dato che lo porteranno al macello.Il governo e l’assenza di governo sono il torbido retroscena di come e perché gli Stati Uniti siano finiti nel mondo infetto di “Walking Dead”. Questo episodio fornisce alcuni indizi su come i laboratori del governo producano virus come armi da usare contro non meglio definiti nemici. L’insinuazione che traspare nel racconto è che il governo abbia in qualche modo perso il controllo del virus e che la conseguente pandemia abbia distrutto il mondo moderno lasciando i sopravvissuti a combattere contro gli zombie per il poco che è rimasto. Il governo federale ha causato il collasso della società ed è assente ed introvabile nel momento in cui bisogna ricostruire la nazione. Non è chiaro come l’apocalisse finisca, ma si può immaginare che inizi con paura, la quale porta al panico, al caos, al crollo economico, a uno sconvolgimento violento, alla guerra, a un totale collasso dell’autorità e del controllo da parte del governo. Si può leggere dell’ironia nel fatto che la paura che l’Ebola diventi un’epidemia pandemica coincide con un’inevitabile implosione economica, con le guerre che risuonano in Medio Oriente, con le violente proteste in tutto il mondo, e con la fiducia nell’autorità dei governi che crolla in un solo momento.“Walking Dead” ha intenzionalmente o meno catturato l’essenza della nostra epoca turbolenta. Quando si affrontano circostanze disperate, o si fa tutto il possibile per sopravvivere o si accetta sommessamente il proprio destino e si muore. Gareth e la sua schiera di cannibali sono nella stessa situazione, così come Rick e i suoi, ma sono riusciti in qualche modo a cambiare la situazione dei loro carcerieri. Nella comunità di Gareth la sopravvivenza del più forte era secondo il motto “o sei il macellaio o sei carne da macello”. L’essere umano reagisce in modi diversi a una forte pressione e alle situazioni di minaccia che capitano nella vita. Alcune persone vengono annientate e diventano dei mostri, come Gareth. Alcuni vengono annientati e perdono la testa. Altre, come Rick e Carol, mettono insieme una grande forza interiore per fare tutto il possibile per sopravvivere cercando di mantenere il loro buon senso. Altri si convertono in ciechi sostenitori di un leader forte senza mettere in discussione la morale, la legalità e il buon senso di quello che sono chiamati a fare. La linea tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, tra ciò che è necessario e non necessario, tra la vendetta e la giustizia, tra il macellaio e la carne da macello appare sfumato in un mondo senza regole, governo e norme accettate.Credo che l’analogia del macellaio e della carne da macello sia purtroppo un valido memo del mondo nel quale stiamo vivendo. Nel mondo di “Walking Dead” gli individui devono scegliere tra il macellaio o la carne da macello. È un mondo darwiniano costituito da coloro che uccidono e da coloro che vengono uccisi. Gli individui solidali con valori e obiettivi comuni formano una comunità e cercano di portare un ordine nel mondo caotico in cui vivono. La comunità di Westbury, presieduta dal governatore e la comunità di Terminus, diretta da Gareth, sono fondate sul male e alla fine sono distrutte. La comunità di Rick è costituita da guerrieri liberi che fanno il necessario per sopravvivere, ma controllano la loro umanità, dignità e il loro desiderio di creare un mondo migliore. Il mondo nel quale viviamo oggi potrebbe non essere brutale come quello di “Walking Dead”; e anche se il confine tra la realtà e la finzione è spesso indefinibile quando si sfogliano i giornali, quello tra macellaio e carne da macello è chiaro.I governanti eletti e non eletti dello Stato sono i macellai, sono coloro che spediscono fuori dal paese i giovani a morire per compagnie di petrolio e trafficanti d’armi, coloro che impoveriscono il popolo attraverso l’inflazione e il controllo sulla moneta e allo stesso tempo si arricchiscono attraverso il completo controllo della politica, della finanza, della giustizia e dei sistemi economici. Questa classe dirigente, o governo invisibile come lo descrive Bernays, è dedito al proprio arricchimento e alla perpetuazione. Il suo scopo, le risorse finanziarie, e la ricchezza globale lo pongono di per sé dalla parte dei predatori. La gente comune rappresenta la carne da macello. Ci stanno tenendo buoni con un’incessante propaganda da parte dei media principali; i messaggi pubblicitari su Madison Avenue; siamo nutriti con dati economici filtrati, aggiustati, manipolati da parte delle agenzie statali; un infinito rifornimento di iGadgets e altre distrazioni elettroniche; l’educazione statale organizzata per mantenerci ignoranti; 24 ore al giorno, 7 giorni su 7 di reality show su seicento canali diversi per tenerci occupati; cibo tossico e industriale per tenerci obesi e mansueti; e una scorta infinita sull’indebitamento di Wall Street per tenerci intrappolati nelle nostre stesse ali senza speranza di scappare. Lo Stato macellaio ha mantenuto il controllo per decadi, ma stiamo entrando in una nuova era.Il libro “The Fourth Turning” fa capire che i ruoli sono cambiati e questa volta tocca ai macellai. Un po’ di bestiame da macello si sta svegliando dallo stupore. Riescono a vedere il sangue delle scritte nelle mura del macello. Chiunque non stia vedendo un cambiamento drammatico nel proprio stato o è uno zombie senza coscienza o un funzionario dello Stato. Le bravate finanziarie della classe alta non si stanno rivelando altro che un schema Ponzi costruito sulle fondamenta del debito e sostenuto da delusione e ignoranza. Quando the House of Cards crollerà in futuro, il gioco cambierà. Quando le persone non avranno più niente da perdere, andranno fuori di testa. I macellai diventeranno la carne da macello. Non ci sarà riparo per questi uomini del male. Il loro regno del male verrà spazzato via in un turbinio di castigo morte e distruzione. Ciò potrebbe anche rendere “The Walking Dead” una passeggiata nel parco, a confronto.(“Benvenuti a Terminus”, intervento pubblicato il 16 ottobre 2014 da “The Burning Platform”, blog gestito da Jim Quinn, e tradotto da “Come Don Chisciotte”; ripetuti i riferimenti al libro “The Fourth Turning”, dei sociologi William Strauss e Neil Howe).Conosco molte persone che non hanno nessun interesse a guardare la televisione perché il 99% dei programmi è spazzatura o propaganda politica da parte del governo. Solo l’1% propone le tematiche più profonde e gli stati d’animo presenti nella nostra società. Gli show televisivi come “Breaking Bad”, “Game of Thrones” e “The Walking Dead” riflettono lo stato d’animo deprimente dell’incalzante “Fourth Turning”. In aprile ho scritto uno dei miei articoli più pessimisti, intitolato “Welcome to Terminus”, benvenuti a Terminus, riguardo alla fine della quarta serie di “Walking Dead”. In sintesi argomentavo che ci stiamo avvicinando alla fine del mondo e che il mondo stesso diventerà odioso. Nei sei brevi mesi da quando ho scritto questo deprimente articolo, abbiamo visto nei video di YouTube uomini decapitati da parte di terroristi di cui non si sapeva nemmeno l’esistenza a inizio anno. È stata messa in piedi alla buona una banda di 30.000 terroristi musulmani che usa le armi militari americane fornite per combattere Assad in Siria e sottratte dalle forze armate irachene quando hanno tagliato la corda e sono scappate via; sono stati in grado di sconfiggere 600.000 combattenti iracheni e curdi che avevano l’appoggio da parte della grandiosa forza aerea americana.
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Bricmont: terrorismo umanitario, presto il mondo ci punirà
«Ci sono almeno due cose più facili da iniziare che da finire: un amore e una guerra». Nessuno di coloro che parteciparono alla Prima Guerra Mondiale si aspettava che durasse così a lungo o che avesse le conseguenze che ha avuto, ricorda il professor Jean Bricmont dell’università belga di Louvain, autore del saggio “Humanitarian Imperialism”. Tutti gli imperi che hanno partecipato alla Grande Guerra sono stati distrutti, inclusi quello britannico e quello francese. «E non è tutto: una guerra conduce a un’altra guerra». Per il filosofo inglese Bertrand Russell, la volontà delle monarchie europee di schiacciare la Rivoluzione Francese portò come esito a Napoleone, ma poi le guerre napoleoniche produssero il nazionalismo germanico, che a sua volta condusse a Bismarck, alla sconfitta francese di Sédan e all’annessione dell’Alsazia-Lorena. Tutto questo diede forza al revanscismo francese che portò, dopo la Prima Guerra Mondiale, al Trattato di Versailles, la cui iniquità diede un forte impulso al nazismo di Hitler.«Russell si fermò qui, ma la storia continua», scrive Bricmont in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”. «La sconfitta di Hitler portò alla guerra fredda e alla nascita di Israele. La “vittoria” dell’Occidente nella guerra fredda condusse al diffuso desiderio di schiacciare la Russia una volta per tutte. Quanto a Israele, la sua creazione produsse un conflitto permanente e creò una situazione inestricabile nel Medio Oriente». Ci vorrebbe un “pacifismo istituzionale”, dice Bricmont: istituzioni a guardia della pace. L’Onu? Doveva appunto «salvare l’umanità dalla “piaga della guerra”, in seguito all’esperienza della Seconda Guerra Mondiale». Sovranità degli Stati, dunque, «per impedire che le grandi potenze intervenissero militarmente contro le nazioni più deboli, a prescindere dal pretesto». Ma visto che «non esiste una forza di polizia internazionale che faccia valere il diritto internazionale», non resta che «un bilanciamento di potere», corollario dell’antica politica di potenza. Equilibrio ancora più precario dopo che l’Occidente ha interpretato la fine della guerra fredda «come una vittoria unilaterale del Bene contro il Male».Da qui il boom occidentale dell’ideologia dei diritti umani e del diritto agli “interventi militari umanitari”, sviluppata da influenti intellettuali occidentali già a partire dalla metà degli anni ’70, spesso sostenitori di Israele. Il “diritto” all’intervento umanitario, ricorda Bricmont, è stato respinto dalla maggioranza dell’umanità, anche dal Movimento dei Non Allineati a Kuala Lumpur nel febbraio 2003, alla vigilia dell’attacco Usa all’Iraq. L’intervento militare “umanitario”? «Non trova fondamento né nella Carta delle Nazioni Unite, né nel diritto internazionale». In Occidente, però, quel tipo di intervento «è quasi unanimemente accettato». L’intervento degli Stati Uniti, scrive Bricmont, «è eterogeneo ma costante, e viola sistematicamente lo spirito, e spesso anche la lettera, della Carta delle Nazioni Unite». Nonostante i principi di libertà e democrazia agitati come paravento, «l’intervento statunitense ha ripetutamente comportato conseguenze disastrose, in tutto il mondo.A pesare non solo «i milioni di morti dovuti alle guerre dirette e indirette, in Indocina, America Centrale, Sudafrica e Medio Oriente», ma anche «le opportunità perdute, “l’uccisione della speranza” per centinaia di milioni di persone che avrebbero tratto beneficio dalle politiche sociali progressiste iniziate da personaggi come Arbenz in Guatemala, Goulart in Brasile, Allende in Cile, Lumumba in Congo, Mossadegh in Iran, i Sandinisti in Nicaragua o Chavez in Venezuela, che sono stati sistematicamente rovesciati, deposti o assassinati con il pieno appoggio dell’Occidente». Inoltre, aggiunge Bricmont, «ogni aggressione compiuta dagli Stati Uniti provoca una reazione: il dispiegamento di uno scudo anti-missile produce più missili, non meno. Bombardare dei civili – sia deliberatamente, sia come “danno collaterale” – provoca più resistenza armata, non meno. Cercare di deporre o rovesciare dei governi produce più repressione interna, non meno. Incoraggiare le minoranze secessioniste dando loro l’impressione, spesso falsa, che l’unica Superpotenza verrà in loro aiuto in caso di repressione, porta a più violenza, odio e morte, non meno». E ancora: «Circondare una nazione con basi militari produce più spese per la difesa da parte di quella nazione, non meno. E il possesso di armi nucleari da parte di Israele incoraggia altri stati del Medio Oriente ad acquistare tali armi».L’ideologia dell’intervento umanitario, continua Bricmont, in realtà fa parte di una lunga storia degli atteggiamenti occidentali nei confronti del resto del mondo. «Quando i colonialisti occidentali sbarcarono sulle coste dell’America, dell’Africa o dell’Asia orientale, venivano sconvolti da ciò che noi ora definiremmo violazioni dei diritti umani, e che loro chiamavano “usanze barbare” – sacrifici umani, cannibalismo, donne costrette a legarsi i piedi». Quell’indignazione, reale o simulata, «è stata usata per giustificare o coprire i crimini delle potenze occidentali: il commercio degli schiavi, lo sterminio dei popoli indigeni e il furto sistematico di terre e risorse». Così, «questo atteggiamento di sincera indignazione è continuato fino ad oggi e sta alla base della pretesa che l’Occidente ha “il diritto di intervenire” e “il diritto di proteggere”, chiudendo al tempo stesso gli occhi di fronte a regimi oppressivi considerati “nostri amici”, ad una incessante militarizzazione e continue guerre, e allo sfruttamento massiccio del lavoro e delle risorse».I fautori dell’intervento “umanitario” rivendicano che il loro interventismo sia gestito dalla comunità internazionale? «Ma ad oggi non c’è nulla che si possa definire una vera comunità internazionale. In realtà – scrive Bricmont – niente può illustrare meglio l’ipocrisia dell’ideologia umanitaria quanto il contrasto tra la reazione occidentale alle richieste d’indipendenza del Kosovo e alla richiesta di autonomia dell’Ucraina dell’Est. In entrambi i casi vi è il rifiuto di negoziare, ma in un caso con il totale appoggio all’indipendenza, e nell’altro caso con la totale opposizione all’autonomia». I promotori dell’intervento umanitario lo presentano come l’inizio di una nuova era, ma nei fatti è la fine di una vecchia epoca, sostiene Bricmont: «La più grande trasformazione sociale del ventesimo secolo è stata la decolonizzazione. Continua oggi nella creazione di un mondo veramente democratico e multipolare, in cui il sole sarà tramontato sull’impero Usa, proprio come accadde per vecchi imperi europei». Lo pensano in molti, ormai, ancje in Occidente, anche se «purtroppo non viene riportato nei nostri mezzi di comunicazione».Aggiunge Bricmont: «Durante le recenti campagne isteriche anti-russe, i nostri media sembrano aver completamente abbandonato lo spirito critico dell’Illuminismo che l’Occidente pretende di possedere. L’ideologia dei diritti umani, che ci dipinge come i buoni contro i cattivi, presenta la caratteristica di tutte le fedi religiose, ed è particolarmente intrisa di fanatismo». Nella Prima Guerra Mondiale, «tutte le parti in causa pretendevano di avere Dio al proprio fianco». Oggi, conclude Bricmont, «l’ideologia dei diritti umani ha sostituito le antiche fedi, ma funziona come una religione ed è la base di un nuovo nazionalismo, quello degli Stati Uniti e dell’Unione Europea». C’è chi pensa che tutto questo bellicismo ideologico sia dovuto a calcoli economici razionali da parte di cinici profittatori? «Io penso che questa interpretazione sia troppo ottimista e che ignori, per citare nuovamente Russell, “l’oceano dell’umana follia sul quale la fragile barca della ragione umana naviga precariamente”. Le guerre sono state fatte per ogni tipo di ragioni non economiche, come la religione o la vendetta, o semplicemente per ostentare potere». Attenzione: «Se i cittadini occidentali non riescono a mobilitarsi contro i propri governi e mezzi di comunicazione per fermare l’attuale follia, starà ad altri paesi svolgere questo compito. C’è da sperare che possano riuscirvi, senza aggiungere un ulteriore capitolo sanguinoso alla storia che è iniziata con la volontà delle monarchie europee di schiacciare la Rivoluzione Francese».«Ci sono almeno due cose più facili da iniziare che da finire: un amore e una guerra». Nessuno di coloro che parteciparono alla Prima Guerra Mondiale si aspettava che durasse così a lungo o che avesse le conseguenze che ha avuto, ricorda il professor Jean Bricmont dell’università belga di Louvain, autore del saggio “Humanitarian Imperialism”. Tutti gli imperi che hanno partecipato alla Grande Guerra sono stati distrutti, inclusi quello britannico e quello francese. «E non è tutto: una guerra conduce a un’altra guerra». Per il filosofo inglese Bertrand Russell, la volontà delle monarchie europee di schiacciare la Rivoluzione Francese portò come esito a Napoleone, ma poi le guerre napoleoniche produssero il nazionalismo germanico, che a sua volta condusse a Bismarck, alla sconfitta francese di Sédan e all’annessione dell’Alsazia-Lorena. Tutto questo diede forza al revanscismo francese che portò, dopo la Prima Guerra Mondiale, al Trattato di Versailles, la cui iniquità diede un forte impulso al nazismo di Hitler.
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Chi e perché ha pianificato proprio adesso la strage di Parigi
«Mi rifiuto di piangere la morte dei satiristi francesi finché la stessa condanna internazionale, le stesse facce dei potenti e le stesse “belle anime” che marciano oggi con candele accese, non compiranno gli stessi atti, verseranno le stesse lacrime e grideranno uguale per le migliaia di bambini palestinesi torturati o bruciati vivi dal fosforo del Terrorista America, di Israele, per gli adolescenti afghani rapiti dagli Usa, innocenti torturati per 8 anni a Guantanamo, e per i milioni di morti africani innocenti uccisi con la armi che noi occidentali gli vendiamo». Così Paolo Barnard, dopo la strage di 12 persone nella redazione parigina di “Charlie Hebdo”, giornale nel mirino da anni per le vignette satiriche anti-islamiche. Orrore e indignazione, ma anche sospetti: mai il “fondamentalismo” jihadista ha agito da solo. In Siria – dalla cui guerra provengono gli stragisti – è stato finanziato e armato dall’Occidente. Negli Usa sono ufficiali le ultime conclusioni sull’11 Settembre: l’Fbi sapeva tutto, degli attentatori. Ed è una creatura occidentale anche il sanguinario “califfato” dell’Isis in Iraq, pianificato dall’intelligence statunitense.«Se i segni di nervosismo e di insubordinazione in Europa dovessero aumentare, non escludo la possibilità di clamorosi e sanguinosi attacchi terroristici sul nostro continente», scriveva “Piotr” il 14 dicembre scorso su “Megachip”. Attentati «fatti per dimostrare che il “pericolo fondamentalista” è reale (e per dimostrare, a chi è in grado di udire, che il caos può essere usato ovunque, che non ci sono zone franche: tutto sommato, l’Italia non è stata bombardata terroristicamente per dieci anni di fila, negli anni Settanta?)». Allì’indomani della strage di Parigi, “Piotr” aggiunge: «I potenti, sghignazzando o piangendo lacrime di coccodrillo, si muovono sempre sopra le vittime innocenti, perché le vittime innocenti sono il complemento alla loro potenza. Hanno creato un mondo dove un giornale satirico è un bersaglio migliore di un “vulture fund”. E non per sbaglio». Lo stesso Aldo Giannuli, autore di saggi sulla strategia della tensione che utilizza il terrorismo come manovalanza, si domanda se non vi sia «qualche manina non islamica dietro gli attentatori». Vale la pena esplorare tutte le piste, sostiene Giannuli, dato che «a trarre giovamento da questa strage saranno in diversi: ad esempio il Fn che si appresta a fare vendemmia di voti, di conseguenza anche Putin che proprio sul Fn sta puntando per condizionare l’Europa sulla questione delle sanzioni».Ad “avvantaggiarsi” dal clima di sgomento creato dall’attentato, aggiunge Giannuli, c’è sicuramente anche Israele, «che rinsalda i vincoli con l’Europa ogni volta che c’è un episodio di questo genere». Inoltre, la strage di Parigi beneficia «chiunque voglia destabilizzare la Francia in particolare e l’Europa in generale». Giannuli ricorda il precedente francese dello stragista “solitario” Mohammed Merah, protagonista dell’eccidio di Tolosa: cecchino di origine algerina, «era stato a lungo collaboratore dei servizi segreti francesi in operazioni di infiltrazione del mondo jiadista e, ad un certo momento, era inspiegabilmente sfuggito di controllo e, sempre inspiegabilmente, aveva fatto quella strage. Peccato che non abbia potuto spiegare cosa gli fosse passato per la testa, perché crivellato di colpi al momento della cattura». Sulla stessa linea anche Giulietto Chiesa: «Guardarsi dalla spiegazione più semplice, che è quella di scatenare l’odio contro “i musulmani”. Chi organizza queste operazioni lo fa a ragion veduta e, appunto, per suggerire l’interpretazione che sia comprensibile “all’uomo della strada”. Non è quasi mai così».Certo, aggiunge Chiesa su “Megachip”, la strage «è l’ultimo anello di una catena insanguinata che accompagna da dieci anni una storia di vignette anti-islamiche». Chi alimentava lo “Scontro di Civiltà” ogni volta poteva gioire: «Aumentavano le divisioni, si rompeva ogni equilibrio delicato e provvisorio fra libertà di espressione e sentimenti religiosi. Aumentava l’odio, cioè la benzina della guerra». Attenzione: «Sopra questo panorama livido, c’è il futuro della Francia e dell’Europa: Parigi, Berlino e Bruxelles sono alla vigilia di scelte che possono cambiare il destino del continente». Il presidente François Hollande, ricorda Chiesa, in questi giorni aveva persino ipotizzato la revoca delle sanzioni alla Russia. «Ovunque si discute di un cambiamento della disciplina monetaria e finanziaria dell’Europa, per prevenire la bomba greca. I nervi sono tesi, perché siamo in cima a uno spartiacque della storia europea e mondiale e le decisioni politiche contano davvero. Se i politici sono ricattabili, tutto può essere visto come un ricatto. Figuriamoci le stragi».«Mi rifiuto di piangere la morte dei satiristi francesi finché la stessa condanna internazionale, le stesse facce dei potenti e le stesse “belle anime” che marciano oggi con candele accese, non compiranno gli stessi atti, verseranno le stesse lacrime e grideranno uguale per le migliaia di bambini palestinesi torturati o bruciati vivi dal fosforo del Terrorista America, di Israele, per gli adolescenti afghani rapiti dagli Usa, innocenti torturati per 8 anni a Guantanamo, e per i milioni di morti africani innocenti uccisi con la armi che noi occidentali gli vendiamo». Così Paolo Barnard, dopo la strage di 12 persone nella redazione parigina di “Charlie Hebdo”, giornale nel mirino da anni per le vignette satiriche anti-islamiche. Orrore e indignazione, ma anche sospetti: mai il “fondamentalismo” jihadista ha agito da solo. In Siria – dalla cui guerra provengono gli stragisti – è stato finanziato e armato dall’Occidente. Negli Usa sono ufficiali le ultime conclusioni sull’11 Settembre: l’Fbi sapeva tutto, degli attentatori. Ed è una creatura occidentale anche il sanguinario “califfato” dell’Isis in Iraq, pianificato dall’intelligence statunitense.
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Halevi: senza deficit c’è solo crisi, e l’Italia non ha scampo
«Per l’Italia: non si deve sperare in alcuna politica economica che non sia il prodotto di una riscossa di classe e di popolo. Il problema è come crearla. Non lo so. Bisognerebbe creare una rete di quadri avulsi dalla politica di superficie». Parola di Joseph Halevi, economista dell’università di Sydney. Nessuna illusione, scrive Halevi nelle sulle “osservazioni di fine anno”, dato il dominio oligarchico che incatena l’Europa. Meglio «togliersi dalla testa che riprese keynesiane e relative politiche siano possibili: lo sono sempre di meno e la prospettiva è che lo saranno sempre meno». Tagli sempre più netti alla spesa pubblica, dunque niente “ripresa”: se lo Stato non spende (pareggio di bilancio) l’economia non fa che peggiorare. Zero investimenti pubblici, nessuno spazio per politiche espansive di marca keynesiana: «I blocchi di potere non lo permettono e questo ne elimina la fattibilità e la stessa attualità». L’Europa sembra dunque decisa a suicidarsi. In più, «la bolla rappresentata dalla crescita cinese si sta sgonfiando e non è controbilanciata dalla ripresa della crescita in India. Ne consegue che il sistema delle materie prime è entrato in profonda deflazione dei prezzi. Sarà un fenomeno di lunga durata».Questo, scrive Halevi in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, implica due cose: una crescente incertezza in tutti i mercati finanziari legati alle materie prime (mercati molto vasti, considerando i derivati) e la “reimmersione” dei paesi emergenti, i Brics. «Il fenomeno è già molto pronunciato in America Latina, soprattutto in Brasile e Argentina. Lo è meno in Africa – precisa Halevi – perché nel continente continua l’intensa espansione cinese nel settore delle risorse sia minerarie che agricole». Tuttavia il Sudafrica, la più grande economia del continente nero, è soggetto allo stesso processo in atto in America Latina. L’implicazione maggiore, continua il professor Halevi, riguarda le esportazioni dell’Ue verso gli emergenti: ad essere colpito è soprattutto l’export tedesco, e il danno si somma a quello causato dalla crisi russa. La maggiore implicazione, continua Halevi, consiste nel fatto che i mercati finanziari collegati alle materie prime non sono a sé stanti, ma sono un tutt’uno col resto dei “mercati”.L’incertezza sulle materie prime la flessione dei Brics «spiegano, almeno in gran parte, perché le società finanziarie e di rating – e quindi le borse – non danno una valutazione positiva alla caduta dei prezzi delle materie prime e del petrolio». Invece di considerare la caduta dei detti prezzi come una cosa positiva per i consumi (benzina meno cara = maggiori consumi di mezzi di trasporto, gasolio meno caro = costi di produzione minori, la considerano come un ulteriore aggravamento del quadro deflazionistico generale. Se per l’Italia non ci sono speranze – mancando del tutto la volontà politica di invertire la rotta – per il resto del mondo secondo Halevi una ripresa è possibile solo nel senso del Teorema Bellofiore-Summers. Tra il 2006 e il 2007, ricorda Halevi, l’economista Riccardo Bellofiore formulò la nozione di “endogenous financial keynesianism”, cioè l’indebitamento smisurato dei salariati e delle famiglie come volano principale della crescita e soprattutto dei profitti.Un anno o due anni fa, Larry Summers formulò la stessa idea affermando che l’unico modo per contrastare la stagnazione è rilanciare la bolla dell’indebitamento. «Aveva ragione – dice Halevi – nel senso che aveva colto che, come già fece Bellofiore, il blocco di potere capitalistico, per quanto variegato possa apparire, è completamente lontano da politiche keynesiane. Ed è ciò che è successo in America: per questo Elizabeth Warren, che è stata una nomina di punta di Obama, è in totale rottura con lui e lo sta accusando di essere uno strumento in mano agli interessi finanziari». Ma non è che Obama sia un “venduto”, precisa Halevi. «E’ che questo è il meccanismo capitalistico attuale. Se la Warren fosse stata presidente si sarebbe dovuta adeguare, oppure andarsene».«Per l’Italia: non si deve sperare in alcuna politica economica che non sia il prodotto di una riscossa di classe e di popolo. Il problema è come crearla. Non lo so. Bisognerebbe creare una rete di quadri avulsi dalla politica di superficie». Parola di Joseph Halevi, economista dell’università di Sydney. Nessuna illusione, scrive Halevi nelle sulle “osservazioni di fine anno”, dato il dominio oligarchico che incatena l’Europa. Meglio «togliersi dalla testa che riprese keynesiane e relative politiche siano possibili: lo sono sempre di meno e la prospettiva è che lo saranno sempre meno». Tagli sempre più netti alla spesa pubblica, dunque niente “ripresa”: se lo Stato non spende (pareggio di bilancio) l’economia non fa che peggiorare. Zero investimenti pubblici, nessuno spazio per politiche espansive di marca keynesiana: «I blocchi di potere non lo permettono e questo ne elimina la fattibilità e la stessa attualità». L’Europa sembra dunque decisa a suicidarsi. In più, «la bolla rappresentata dalla crescita cinese si sta sgonfiando e non è controbilanciata dalla ripresa della crescita in India. Ne consegue che il sistema delle materie prime è entrato in profonda deflazione dei prezzi. Sarà un fenomeno di lunga durata».
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La super-banana di Bill Gates, che finge di aiutare l’Africa
L’ultima invenzione della Fondazione Bill e Belinda Gates è stata l’investimento di 15 milioni di dollari nello sviluppo di una banana transgenica con alto contenuto di vitamina A, vitamina E e ferro, con l’obiettivo di lottare contro la denutrizione in paesi africani come Uganda, Kenia, Tanzania, Ruanda, Congo, soprattutto diretto alla popolazione infantile. Stimano che possa evitare la morte di più di 700.000 bambini e che possa evitare che altri 300.000 perdano la vista. Questa ricerca la sta sviluppando la Università Tecnologica del Queensland attraverso il lavoro diretto dal professor James Dale, ed è già in fase di prova con esseri umani. Spiegato in questo modo, chiunque potrebbe pensare che è una buona iniziativa filantropica contro la fame. Nonostante ciò, ricordo la conversazione con un amico che fece un viaggio in luna di miele girando l’Etiopia. Quando mi raccontava il viaggio al suo ritorno gli chiesi come aveva mangiato, dato che era stato in uno dei paesi con l’indice più basso di nutrizione al mondo. La sua risposta fu chiara: la carta Visa funzionava perfettamente.Non si tratta quindi di un deficit di vitamine e nutrienti che necessita urgentemente l’intervento di un angelo filantropico per aumentare la produzione di superalimenti. Si tratta di accesso al cibo. Si tratta di povertà e distribuzione della ricchezza. Però, oltre le discussioni teoriche, cosa pensano i contadini africani? Gli ugandesi, ad esempio, pensano che le loro banane autoctone sono perfette e che è secoli che le coltivano e si alimentano di esse. «Questa banana Ogm è un insulto al nostro cibo, alla nostra cultura, a noi come nazione, e la condanniamo fermamente», disse Bridget Mugambe, membro dell’Alleanza per la Sovranità Alimentare in Africa (Afsa). Questa settimana, la sua piattaforma si è unita a più di 120 organizzazioni di tutto il mondo con l’obiettivo di inviare una carta aperta condannando la Superbanana e la ricerca finanziata da Gates. Allora, se gli africani non l’hanno chiesto, qual’è l’interesse nello sviluppare questa coltivazione transgenica?Una risposta senza dubbio l’avremo nelle conlcusioni dello studio della organizzazione “Community Alliance for Global Justice”, che afferma che la Fondazione Bill e Belinda Gates è già proprietaria di 500.000 azioni della principale multinazionale di semi transgenici, la tristemente celebre Monsanto. Altri studi, oltre a ciò, indicano che l’obiettivo della coltivazione di queste banane non sarebbe l’Africa, ma sarebbe l’affidarsi a una licenza diretta ai mercati dei paesi del nord, dove la banana continua ad essere uno dei frutti tropicali più apprezzati e in aumento. Sia quale sia il consumatore finale, quello che sappiamo è che si tratta del piano che le grandi multinazionali della biotecnologia hanno stabilito per continuare l’espansione delle loro coltivazioni. Dopo il loro fallimento in Europa, ora il nuovo El Dorado si chiama Africa, e la scusa si chiama fame.(Javier Guzman, “La super-banana di Billa Gates”, da “Rebelion” del 18 dicembre 2014, tradotto da “Come Don Chisciotte”).L’ultima invenzione della Fondazione Bill e Belinda Gates è stata l’investimento di 15 milioni di dollari nello sviluppo di una banana transgenica con alto contenuto di vitamina A, vitamina E e ferro, con l’obiettivo di lottare contro la denutrizione in paesi africani come Uganda, Kenia, Tanzania, Ruanda, Congo, soprattutto diretto alla popolazione infantile. Stimano che possa evitare la morte di più di 700.000 bambini e che possa evitare che altri 300.000 perdano la vista. Questa ricerca la sta sviluppando la Università Tecnologica del Queensland attraverso il lavoro diretto dal professor James Dale, ed è già in fase di prova con esseri umani. Spiegato in questo modo, chiunque potrebbe pensare che è una buona iniziativa filantropica contro la fame. Nonostante ciò, ricordo la conversazione con un amico che fece un viaggio in luna di miele girando l’Etiopia. Quando mi raccontava il viaggio al suo ritorno gli chiesi come aveva mangiato, dato che era stato in uno dei paesi con l’indice più basso di nutrizione al mondo. La sua risposta fu chiara: la carta Visa funzionava perfettamente.
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Il paradiso di Severgnini, questo falso Occidente criminale
È ancora possibile, a un quarto di secolo dalla caduta del Muro di Berlino, ridurre i conflitti che agitano il mondo globale a una contrapposizione bipolare fra “il mondo libero” (appellativo classicamente riferito – ça va sans dire – all’Occidente) e un “impero del male” che (venuto a mancare lo spettro del comunismo) viene ora identificato con un variegato schieramento di “mostri” cui si tenta di attribuire un’improbabile identità comune? Sembrerebbe un’azzardata operazione retrò, ma ciò non ha impedito a Beppe Severgnini di provarci sulle pagine del “Corriere della Sera”. Vediamo in primo luogo come Severgnini – emulo del Dottor Frankenstein – cerca di costruire la figura di un grande Nemico assemblando pezzi eterogenei di movimenti e Stati “canaglia” (“i nuovi Erode”). In cima alla lista, prevedibilmente, i movimenti integralisti islamici sparsi per il mondo (Iraq, Siria, Nigeria, Pakistan, stranamente manca l’Afghanistan).E poco importa se questi movimenti hanno storie e radici socioculturali diverse nelle diverse situazioni, tanto ormai si può giocare sul luogo comune di un Islam radicale globalizzato e omologato che esiste solo nell’imaginario dei media del “mondo libero” (salvo poi dover fare i salti mortali come in Siria, dove il mostro Bashar al-Assad e i “terroristi” del Pkk curdo vengono ora considerati alleati nella lotta contro i super mostri dell’Isis). Subito dopo la “cleptocrazia” di Putin che tenta di “riesumare la Grande Russia” aggredendo l’Ucraina; e qui – a parte la faccia tosta di definire cleptocrazia il regime russo quando si è cittadini della nazione più corrotta del mondo, come hanno appena dimostrato gli scandali Mose, Expo e Roma Mafia – c’è una palese inversione della realtà storica, visto che ad assediare la Russia e a tentare di colonizzare i paesi ex comunisti dell’Est Europa è stato semmai, dopo il 1989, proprio il “mondo libero” occidentale.Infine l’eterno, ridicolo (per la sua irrilevanza geopolitica) bersaglio di Pyongyang, un regime da operetta che viene presentato come una terribile minaccia per la libertà, solo per avere orchestrato alcuni attacchi informatici contro la Sony, che ha prodotto un film satirico in cui si dileggia il regime nordcoreano (nel mondo libero non si censura: ci si limita a nascondere al pubblico la verità, come hanno dimostrato le rivelazioni di Assange e Snowden, i quali, per avere rovinato l’immacolata immagine dei campioni della libera informazione, sono ora costretti a vivere in esilio). Questi “nuovi Erode” possono farci paura, tuona Severgnini, ma non si illudano: essi non possono vincere; a vincere saremo noi, il mondo libero occidentale, e lo faremo con la forza delle idee e non con la violenza (peccato che sulla testa delle centinaia di migliaia di civili massacrati in Iraq e in Afghanistan, per tacere delle tante altre guerre combattute in nome della libertà, siano piovute bombe e non idee). Ma vediamo quali sono queste idee vincenti.Pace (abbiamo appena accennato ai virtuosi massacri spacciati per guerre umanitarie); benessere (la crisi iniziata nel 2008 ha svelato la realtà di un mondo in cui le disuguaglianze sono tornate ai livelli dell’800 e dove all’arricchimento smisurato di un pugno di esponenti dell’alta finanza corrisponde l’immiserimento di milioni di cittadini comuni); istruzione (vogliamo parlare dei costi di un’istruzione superiore che torna ad essere appannaggio di ristrette élite?); tolleranza (quella di un paese “libero” come gli Stati Uniti, dove migliaia di cittadini di colore disarmati vengono assassinati da poliziotti che non solo non rischiano di essere incriminati ma conservano anche il posto?), rispetto per le donne (anche se dietro la retorica del politically correct si nasconde la realtà di un lavoro femminile che continua a essere sottopagato, per tacere dei femminicidi perpetrati nelle normali famiglie borghesi).Che dire poi della presunta superiorità del mercato garante di libertà e democrazia: finché dovremo ancora ascoltare questa baggianata? È vero che è passato molto tempo da quando i regimi nazifascisti si sono dimostrati del tutto compatibili con il libero mercato, ma oggi, con la Cina totalitaria che si avvia a diventare la maggiore potenza capitalistica mondiale, siamo di fronte a una smentita ancora più clamorosa. Insomma, se questi sono i suoi “valori”, allora non solo è possibile che l’Occidente perda, ma si può dire che ha già perso, perché di quei valori non ne è rimasto in piedi nemmeno uno: a combattere i “nuovi Erode” non c’è Gesù, ma un vecchio Erode non meno feroce dei suoi nemici. Eppure, scrive Severgnini, i migranti rischiano ancora la vita in mare «per un pasto, un letto, un ospedale, una strada in cui non bisogna tremare di paura davanti a un poliziotto». Rischiano la vita perché a casa loro crepano di fame, ma qui, più che pasti, letti e ospedali, trovano squallidi ghetti assediati da folle razziste (do you remember Tor Sapienza?) e, se non subiscono passivamente qualsiasi angheria, o se sono “irregolari”, tremano eccome davanti a un poliziotto.Alla fine, quasi prevedendo le sarcastiche obiezioni avanzate in questo articolo, Severgnini le rintuzza con il solito refrain: «Eppure il mondo ci riconosce che, per adesso, non s’è inventato niente di meglio della democrazia e del mercato». È l’argomento con cui il pensiero unico neoliberista cerca di legittimare, sia pure con argomenti di basso profilo (“in fondo non abbiamo niente di meglio”), la propria egemonia culturale. Ed è proprio sul piano culturale, prima ancora che su quello politico, che occorre lavorare per smontarlo, come alcuni (non moltissimi purtroppo) cercano di fare. Uno di questi era Hosea Jaffe, un economista sudafricano morto qualche giorno fa in Italia, dove ha vissuto i suoi ultimi anni di vita. Marxista eretico (i marxisti ufficiali non gli perdonavano di avere rinfacciato alle sinistre occidentali la loro complicità con il colonialismo), iconoclasta fino ad accusare gli stessi Marx ed Engels di eurocentrismo non senza venature razziste, Jaffe è stato in prima fila nelle lotte contro diversi regimi coloniali e neocoloniali africani, e si è battuto perché partiti e sindacati occidentali riconoscessero che parte delle loro conquiste salariali e sociali erano finanziate dal supersfruttamento dei popoli del Terzo Mondo.Oggi le sue idee trovano una sia pure parziale applicazione nelle lotte di quei movimenti sudamericani, africani e asiatici che hanno cominciato a capire di doversi inventare un’alternativa globale al “mondo libero”. Possiamo solo sperare che lavorino abbastanza in fretta per impedire che la rabbia dei milioni di disperati esclusi dai nostri “paradisi” trovi rappresentanza solo da parte dei nuovi Erode di cui sopra. Senza dimenticare che quella rabbia inizia a montare anche qui e, in assenza di un’alternativa di sinistra credibile, rischia di imboccare la strada che aveva imboccato negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, una strada in fondo alla quale ci aspetterebbero orrori peggiori di quelli che oggi inquietano i sogni dei pacifici borghesi occidentali.(Carlo Formenti, “Severgnini e la vecchia retorica del mondo libero contro l’impero del male”, da “Micromega” del 22 dicembre 2014).È ancora possibile, a un quarto di secolo dalla caduta del Muro di Berlino, ridurre i conflitti che agitano il mondo globale a una contrapposizione bipolare fra “il mondo libero” (appellativo classicamente riferito – ça va sans dire – all’Occidente) e un “impero del male” che (venuto a mancare lo spettro del comunismo) viene ora identificato con un variegato schieramento di “mostri” cui si tenta di attribuire un’improbabile identità comune? Sembrerebbe un’azzardata operazione retrò, ma ciò non ha impedito a Beppe Severgnini di provarci sulle pagine del “Corriere della Sera”. Vediamo in primo luogo come Severgnini – emulo del Dottor Frankenstein – cerca di costruire la figura di un grande Nemico assemblando pezzi eterogenei di movimenti e Stati “canaglia” (“i nuovi Erode”). In cima alla lista, prevedibilmente, i movimenti integralisti islamici sparsi per il mondo (Iraq, Siria, Nigeria, Pakistan, stranamente manca l’Afghanistan).
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Arrivano i Buoni: filantropia finanziaria, business del dolore
Geldof, Bono Vox, Soros e compagnia filantropica cantante hanno scoperto cosa significa “investire 1 euro e ottenerne 2,74 euro in un anno”. Quale investimento vi garantisce oggi un rendimento del 174%? Conseguentemente hanno investito un bel po’ di soldi in quelle operazioni di “tanto cuore, poco cervello”. O forse sono operazioni di “tutto cervello e niente cuore”? Non so, fate voi. Non credo che la truffa di One (Bono) o di Band Aid sia molto diversa dalla truffa dell’Open Society (Soros). Fatto sta che venendo meno lo Stato di diritto, sostituito dallo Stato di dovere (ve ne eravate accorti?), al cittadino viene imposto l’obbligo morale di fare ciò che fino a prima lo Stato faceva, ovvero normare la perequazione e finanziare il diritto. L’imperativo morale che ci sovrasta è fornire montagne di soldi a carrozzoni che dovrebbero (notate il condizionale) aiutare le persone o i popoli in difficoltà, dando così la possibilità agli squali della finanza di lucrare quel 174% sulla nostra buona fede e sui nostri sensi di colpa. Eppure paghiamo già abbondanti tasse e balzelli, il nostro dovere lo facciamo ogni giorno.Forse avete già intuito che tutti quei soldi vanno a finire nel salvataggio delle banche, o giù di lì. La novità consiste nel donare alla filantropia per permettere guadagni scandalosi alla finanza. Da Tares, Tari, Tasi a Telethon o Band Aid, cosa cambia quindi? L’idea, selvaggia e perversa al tempo stesso, è che noi cittadini dobbiamo salvare il mondo: Stati, banksters e filantropi compresi. Siamo perseguitati dalla tv del dolore che non perde occasione per farci vedere un’umanità sofferente che necessita del nostro aiuto. Sono tempi bui, e, come diceva un utile idiota, «non chiederti cosa lo Stato può fare per te, chiediti cosa TU puoi fare per lo Stato». Era il New Deal, o giù di lì, il massimo dell’espansione dello Stato. Figuriamoci oggi, che lo Stato è in totale recessione: cosa dovremmo fare per soddisfare gli insaziabili appetiti di Ong, Onlus e associazioni umanitarie varie?Ma poi di chi sarebbe la colpa di tutta questa oscena morale? Sono «le regole che hanno permesso agli speculatori di fare quel che hanno fatto» (e che continueranno a fare) dice il buon Soros, aggiungendo che «non è colpa degli speculatori». E ci mancherebbe! Che colpa ne hanno se lo Stato “consiglia” di donare soldi alla speculazione filantropica? Eppoi non facciamone una questione personale: nessun miliardario che si rispetti evita la filantropia, neanche Gates, secondo cui investire in Africa contro malattie e povertà è del tutto simile all’innovazione tecnologica. E porta ai medesimi risultati. L’uomo più ricco del pianeta (66 miliardi di dollari) è convinto che non solo sia giusto interessarsi dei bisogni non recepiti dai mercati, ma anche economicamente interessante. Ecco la nuova frontiera della finantropia (acronimo tra finanza e filantropia): unisci le tecniche del venture capital agli obiettivi del non profit e avrai “venture philanthropy”. La nuova filantropia mette da parte il paternalismo e tenta la sfida degli investimenti finanziari.E’ tutto un proliferare di attività finantropiche, ve ne siete accorti? Il mondo ha bisogno della nostra collaborazione, perchè il mondo sta finalmente cambiando. In questo nuovo quadro che si va delineando il ruolo storico dell’intermediazione e della consulenza finanziaria deve essere ridisegnato. Lo scopo non può essere soltanto quello di massimizzare il rapporto rendimento/rischio del cliente, è invece imperativo un allargamento del processo di investimento che, dal binomio rischio-rendimento, deve estendersi al trinomio sostenibilità-rischio-rendimento. Sappiate che le prestazioni dotate di buon senso e che creano valori sostenibili conferiscono energia al denaro, così che questo genera altro denaro e benessere per tutti allo stesso modo: per i filantropi e per chi riceve il capitale investito o i doni, per le organizzazioni, i collaboratori in seno al progetto e per il fundraiser.Lo Stato di dovere ci impone l’obbligo di aiutare i paesi poveri, e al microcredito è andato addirittura un Nobel. Sapete perchè? Ma perchè dalla filantropia al business il passo è breve, ammesso che esista: il credito a breve – erogato ai piccolissimi imprenditori dei paesi in via di sviluppo – è remunerativo e sicuro. Capito? Come sono stati raccolti questi capitali? Per esempio da fondi pensione svizzeri interessati a diversificare il loro portafoglio cercando investimenti che da una parte offrono un rendimento superiore a quelli di mercato, dall’altra rispondono a requisiti di responsabilità sociale. «Possiamo dire che la trasformazione della microfinanza in asset class investibile è nata in Svizzera, soprattutto a Ginevra». Non vi piacciono i neutrali banchieri svizzeri? Tranquilli che Unicredit ha ciò che fa per voi: “il mio dono” ovvero la rete della solidarietà di Unicredit.Date un’occhiata, ci sono ben 105 pagine di organizzazioni non-profit da scegliere perchè è «giusto interessarsi dei bisogni non recepiti dai mercati», come dice Gates. Cioè il Mercato va allargato a ciò che non è tecnicamente Mercato, come la solidarietà. Insomma la finantropia. Li avete già dati i due osceni euro? Avete già fatto quel fetente Sms per collaborare con quell’importantissimo progetto che salverà migliaia di vite? State dando una mano a Soros e fratelli in affari per diffondere finalmente benessere, democrazia, salute e non ultima della sana felicità nel mondo? NO? FATE SCHIFO! Ps: adesso vi regalo anche un passatempo per le festività: provate a distinguere il mio sarcasmo da ciò che gli avvoltoi finantropici spacciano per verità. Se avete dubbi seguite i link, poi fatemi sapere. Buon Natale, e siate sempre più buoni, mi raccomando. Che loro ci tengono.(Tonguessey, “Finantropia”, da “Come Don Chisciotte” del 24 dicembre 2014)Geldof, Bono Vox, Soros e compagnia filantropica cantante hanno scoperto cosa significa “investire 1 euro e ottenerne 2,74 euro in un anno”. Quale investimento vi garantisce oggi un rendimento del 174%? Conseguentemente hanno investito un bel po’ di soldi in quelle operazioni di “tanto cuore, poco cervello”. O forse sono operazioni di “tutto cervello e niente cuore”? Non so, fate voi. Non credo che la truffa di One (Bono) o di Band Aid sia molto diversa dalla truffa dell’Open Society (Soros). Fatto sta che venendo meno lo Stato di diritto, sostituito dallo Stato di dovere (ve ne eravate accorti?), al cittadino viene imposto l’obbligo morale di fare ciò che fino a prima lo Stato faceva, ovvero normare la perequazione e finanziare il diritto. L’imperativo morale che ci sovrasta è fornire montagne di soldi a carrozzoni che dovrebbero (notate il condizionale) aiutare le persone o i popoli in difficoltà, dando così la possibilità agli squali della finanza di lucrare quel 174% sulla nostra buona fede e sui nostri sensi di colpa. Eppure paghiamo già abbondanti tasse e balzelli, il nostro dovere lo facciamo ogni giorno.
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Monbiot: stiamo tutti male, rassegnati all’era della solitudine
Come possiamo definire questo nostro tempo? Non è il tempo dell’informazione: la sconfitta dei movimenti di educazione popolare ha lasciato un vuoto che ora viene colmato da teorie di marketing e ipotesi di complotti. Come l’età della pietra, quella del ferro e quella dello spazio, l’era digitale ci dice molto sui prodotti, ma poco sulla società. L’antropocene, in cui gli esseri umani producono il maggior impatto sulla biosfera, non basta a differenziare questo secolo dai precedenti venti. Qual’ è l’evidente trasformazione sociale che contrassegna il nostro tempo distinguendolo da quelli che lo hanno preceduto? A me appare ovvio: questa è l’Era della Solitudine. Quando Thomas Hobbes sostenne che nello stato di natura, prima che emergesse un’autorità che esercitasse un controllo, eravamo tutti in guerra “l’uno contro l’altro”, non avrebbe potuto fare un errore più grande. Fin dall’inizio eravamo creature sociali, una sorta di api mammifere, che dipendevano completamente le une dalle altre.Gli ominidi dell’Africa orientale non avrebbero potuto sopravvivere da soli neanche una notte. Siamo costituiti, in misura maggiore rispetto a quasi tutte le altre specie, dalla relazione con gli altri. L’epoca in cui stiamo entrando, in cui viviamo separati, non è simile a nessun’altra epoca precedente. Tre mesi fa abbiamo letto che la solitudine è diventata un’epidemia tra i giovani adulti. Ora veniamo a sapere che è un disagio altrettanto grave nelle persone più anziane. Uno studio dell’“Independent Age” rileva che il disturbo grave da solitudine affligge 700.000 uomini e 1 milione 100.000 donne oltre i 50 anni, e si sta sviluppando ad una velocità impressionante. E’ improbabile che l’Ebola uccida così tante persone quante vengono colpite da questo malessere. L’isolamento sociale è una causa di morte precoce potente quanto il fumo di 15 sigarette al giorno; la ricerca rileva che la solitudine è doppiamente mortale dell’obesità. Le forme di demenza, la pressione alta, l’alcolismo e gli infortuni – come anche la depressione, la paranoia, l’ansia e il suicidio – si presentano più frequentemente quando vengono interrotte le relazioni. Non siamo in grado di stare soli.Certo, le fabbriche hanno chiuso, la gente si sposta in auto invece che con i mezzi pubblici, si collega a YouTube invece di andare al cinema. Ma questi cambiamenti non sono sufficienti, da soli, a spiegare la velocità del nostro collasso sociale. A questi cambiamenti strutturali si è accompagnata una sorta di ideologia di negazione della vita, che rafforza ed esalta il nostro isolamento sociale. La guerra dell’uomo contro l’uomo – in altri termini la competizione e l’individualismo – è la religione del nostro tempo, giustificata da una mitologia che inneggia ai combattenti solitari, agli operatori in proprio, agli uomini e donne che si fanno da soli, e vanno avanti da soli. Per la più sociale delle creature, che non può prosperare senza amore, non è disponibile ora qualcosa di simile alla società, ma solo un eroico individualismo. Ciò che conta è vincere. Il resto sono danni collaterali.I ragazzi inglesi non aspirano più a diventare ferrovieri o infermiere, più di un quinto di loro adesso afferma di “volere soltanto diventare ricchi”: per il 40% del campione considerato, le uniche ambizioni sono la ricchezza e la fama. Un’indagine governativa in giugno ha rivelato che la Gran Bretagna è la capitale europea della solitudine. Siamo meno portati degli altri popoli europei ad avere strette amicizie o relazioni con i nostri vicini. Perché sorprenderci, quando siamo pressati da ogni parte a lottare come cani randagi intorno alla spazzatura? Il riflesso di questo cambiamento è la modificazione del nostro linguaggio. Il nostro più feroce insulto è quello di perdente. Non parliamo più di popolo. Ora parliamo di individui. Questo termine così alienante e atomizzante è diventato talmente pervasivo, che persino le organizzazioni assistenziali che cercano di combattere la solitudine lo utilizzano per descrivere quei bipedi che prima erano conosciuti come esseri umani.Raramente completiamo una frase senza usare il termine personale. “Parlando personalmente (per distinguermi dal pupazzo di un ventriloquo), preferisco amici personali piuttosto che la moltitudine impersonale e coloro che personalmente appartengono al genere che non è il mio. Anche se questa è solo una mia personale preferenza, altrimenti detta la mia preferenza”. Una delle tragiche conseguenze della solitudine è che la gente si consola con la televisione: due quinti delle persone anziane affermano che il dio con un solo occhio (il televisore) è la loro principale compagnia. Questa cura fai-da-te peggiora la malattia. Una ricerca di economisti dell’università di Milano indica che la televisione incentiva le aspirazioni competitive. Questo corrobora fortemente il paradosso reddito-felicità: il fatto che, quando i redditi della nazione aumentano, la felicità non aumenta con essi. L’ambizione, che aumenta con il reddito, fa sì che la meta, la completa soddisfazione, retroceda davanti a noi.I ricercatori hanno rilevato che chi guarda a lungo la televisione ricava meno soddisfazione da un certo livello di reddito rispetto a coloro che la guardano poco. La televisione accelera la giostra dell’edonismo, spingendoci a prodigarci ancor di più per poter mantenere lo stesso livello di soddisfazione. Per rendervi conto del perché questo può accadere, dovete solo pensare alle pervasive vendite all’asta che ci sono ogni giorno in Tv, “Dragon’s Den”, “The Apprentice” e le innumerevoli forme di competizione carrieristica che la televisione propone, l’ossessione generalizzata per la fama e la ricchezza, la pervasiva sensazione, nel vedere tutto questo, che la vita sia altrove diversa da dove siete voi. Allora qual’ è la questione? Che cosa ci guadagnamo da questa guerra di tutti contro tutti? La competizione spinge la crescita, ma la crescita alla lunga non ci fa diventare più ricchi. Le cifre rese note in questa settimana mostrano che, mentre le entrate dei direttori di società sono cresciute di oltre un quinto, i salari della forza lavoro complessivamente sono diminuite in termini reali rispetto allo scorso anno.I capi oggi guadagnano – scusate, voglio dire prendono – 120 volte di più della media dei lavoratori a tempo pieno (nel 2000, il rapporto era di 47 volte). E anche se la competizione ci rendesse più ricchi, non ci renderebbe più felici, poiché la soddisfazione prodotta da un aumento del reddito verrebbe pregiudicata dagli effetti della competizione in termini di ambizione. Oggi l’1% al livello più alto possiede il 48% della ricchezza globale, ma nemmeno queste persone sono felici. Un’indagine del Boston College su persone con una ricchezza media di 78 milioni di dollari ha riscontrato che anche loro sono affette da ansia, insoddisfazione e solitudine. Molti di loro hanno confessato di sentirsi finanziariamente insicuri: per sentirsi al sicuro ritenevano di aver bisogno, mediamente, di circa il 25% in più di denaro. (E se lo ottenessero? Senza alcun dubbio avrebbero bisogno di un ulteriore 25%). Una persona dichiarò che non sarebbe stata tranquilla finché non avesse avuto un miliardo di dollari in banca.Per questo abbiamo distrutto la natura, degradato il nostro modo di vivere, sottomesso la nostra libertà e le nostre prospettive di soddisfazione a un edonismo compulsivo, atomizzante e triste, nel quale, dopo aver consumato tutto il resto, incominciamo a depredare noi stessi. Per questo abbiamo distrutto l’essenza dell’umanità: la capacità di relazionarsi. Certo esistono dei palliativi, programmi brillanti e attraenti come “Men in sheds” e “Walking Football”, creati da enti assistenziali per persone anziane e sole. Ma se vogliamo rompere questo cerchio e tornare a stare insieme dobbiamo affrontare il sistema divoratore del mondo e delle persone, in cui ci siamo cacciati. La condizione pre-sociale di Hobbes era un mito. Ma adesso stiamo entrando in una condizione post-sociale che i nostri predecessori non avrebbero creduto possibile. Le nostre vite stanno diventando orribili, brutali e lunghe.(George Monbiot, “L’era della solitudine”, dal blog di Monbiot del 14 dicembre 2014, ripreso da “Come Don Chisciotte”).Come possiamo definire questo nostro tempo? Non è il tempo dell’informazione: la sconfitta dei movimenti di educazione popolare ha lasciato un vuoto che ora viene colmato da teorie di marketing e ipotesi di complotti. Come l’età della pietra, quella del ferro e quella dello spazio, l’era digitale ci dice molto sui prodotti, ma poco sulla società. L’antropocene, in cui gli esseri umani producono il maggior impatto sulla biosfera, non basta a differenziare questo secolo dai precedenti venti. Qual’ è l’evidente trasformazione sociale che contrassegna il nostro tempo distinguendolo da quelli che lo hanno preceduto? A me appare ovvio: questa è l’Era della Solitudine. Quando Thomas Hobbes sostenne che nello stato di natura, prima che emergesse un’autorità che esercitasse un controllo, eravamo tutti in guerra “l’uno contro l’altro”, non avrebbe potuto fare un errore più grande. Fin dall’inizio eravamo creature sociali, una sorta di api mammifere, che dipendevano completamente le une dalle altre.
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Israele, guerra e Pil: e i palestinesi diventano schiavi inutili
Come mai prima d’ora, i palestinesi rischiano di essere cancellati dall’anagrafe dell’umanità: Israele, che li sottopone a uno spietato regime di apartheid, non fa nulla per impedire che si faccia strada la “soluzione finale” del genocidio, di cui Gaza sta già facendo esperienza. Lo sostiene il professor William Robinson, sociologo dell’università californiana di Santa Barbara, in un’analisi presentata su “Truth-Out” in cui delinea il fondamento economico della persecuzione: se fino a ieri la manodopera palestinese sfruttata poteva ancora servire, specie in Cisgiordania, oggi la nuova struttura socio-economica dello Stato sionista ne fa volentieri a meno, data l’evoluzione della fisionomia produttiva israeliana nel sistema mondiale globalizzato, in settori chiave come quello degli armamenti. Questo spiega il sistematico fallimento di tutti i negoziati di pace e la drammatica accelerazione terroristica nei confronti della popolazione di Gaza, che solo nell’estate scorsa ha provocato 2.000 morti, 11.000 feriti e centomila senzatetto. I palestinesi non “servono” più, nemmeno come schiavi. Possono solo scegliere se andarsene o restare a farsi massacrare.A sdoganare un linguaggio più che esplicito sono alcuni esponenti dell’establishment di Tel Aviv, come la parlamentare Ayelet Shaked, quella che durante l’ultimo assedio di Gaza esortò a colpire «tutto il popolo palestinese, inclusi gli anziani e le donne, le loro città e i loro villaggi, i loro beni e infrattutture». Anche le donne, colpevoli di allevare «serpenti». Su “The Times of Israel”, Yonahan Gordan spiega «quando si approva un genocidio», e argomenta: «Che altro modo c’è allora per affrontare un nemico di questa natura che non sia lo sterminio completo?». Il vicepresidente del Parlamento israeliano, Moshe Feiglin, membro del partito Likud di Netanyahu, sollecita l’esercito israeliano a uccidere indiscriminatamente i palestinesi di Gaza e a utilizzare ogni possibile mezzo per farli andar via: «Il Sinai non è lontano da Gaza e possono andarsene, questo sarà il limite dello sforzo umanitario di Israele». Questi appelli alla pulizia etnica e al genocidio stanno crescendo di frequenza, scrive Robinson nella sua analisi, ripresa da “Come Don Chisciotte”.Il clima politico in Israele ha continuato a spostarsi a destra: «Quasi la metà della popolazione ebrea di Israele appoggia una politica di pulizia etnica dei palestinesi», scrive Robinson. Secondo un sondaggio del 2012, «la maggioranza della popolazione appoggia la completa annessione dei Territori Occupati e l’istituzione di uno stato di apartheid». Il timore di una crescita del fascismo in Israele ha portato 327 sopravissuti, discendenti di sopravissuti e vittime del genocidio ebreo perpetrato dai nazisti, a pubblicare una lettera aperta sul “New York Times” del 25 agosto che esprimeva allarme per «la estrema disumanizzazione razzista dei palestinesi nella società israeliana, che ha raggiunto un picco febbrile». La carta continuava: «Dobbiamo alzare la nostra voce collettiva e usare il nostro potere collettivo per porre fine a tutte le forme di razzismo, incluso il genocidio in corso del popolo palestinese». Il problema, aggiunge Robinson, è che lo stesso progetto sionista può essere letto come basato sul genocidio della pulizia etnica: testualmente, l’articolo 2 della convenzione dell’Onu del 1948 definisce il genocidio come “azioni commesse con l’intenzione di distruggere totalmente o parzialmente un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”.La drammatica escalation degli ultimi anni, rivela Robinson, ha origini economiche: è la globalizzazione a rendere ormai “superflui” i lavoratori palestinesi, ridotti allo status di “umanità eccedente”. «La rapida globalizzazione di Israele a partire dalla fine degli anni ‘80 coincise con le due Intifada (proteste) palestinesi e con gli accordi di Oslo, negoziati dal 1991 al ‘93 e che naufragarono negli anni seguenti». A premere per gli accordi di pace, i poteri forti finanziari: i focolai geopolitici della guerra fredda avevano ostacolato l’accumulazione di capitali e occorreva “stabilizzare” il Medio Oriente. «Il processo di Oslo – spiega Robinson – si può vedere come un pezzo chiave nel puzzle politico provocato dall’integrazione del Medio Oriente nel sistema capitalista globale emergente», il contesto nel quale poi si inserirà la stessa “primavera araba”. Gli accordi di Oslo, naturalmente, rimasero lettera morta: avevano promesso ai palestinesi una soluzione definitiva entro 5 anni, con uno statuto per i rifugiati e il loro diritto al ritorno in Palestina, una definizione delle frontiere e della gestione dell’acqua, nonché la ritirata di Israele dai Territori Occupati. Durante il periodo di Oslo, cioè tra il 1991 e il 2003, «l’occupazione israeliana della Cisgiordania e Gaza si intensificò smisuratamente».Perché fallì il processo di pace? Prima di tutto, perché «non era destinato a risolvere la difficile situazione dei palestinesi espropriati, ma a integrare una dirigenza emergente palestinese nel nuovo ordine mondiale e a dare a questa dirigenza una partecipazione nella difesa di quest’ordine, in modo che assumesse un ruolo nella vigilanza interna delle masse palestinesi nei Territori Occupati». C’è anche un profilo finanziario: l’Anp creata a Oslo doveva servire a integrare il capitale palestinese con quello dell’area del Golfo. E si sperava che l’Anp «servisse per mediare nell’accumulazione di capitali transnazionali nei Territori Occupati, mantenendo il controllo sociale sulla popolazione inquieta». Nel frattempo, la nuova economia israeliana – il complesso militare e di sicurezza, altamente tecnologico – si andava integrando col capitale corporativo transnazionale di Usa, Europa e Asia, proiettando l’economia israeliana anche nelle reti economiche regionali (Egitto, Turchia e Giordania). Infine, in quel periodo Israele «visse un episodio di grande immigrazione transnazionale, tra cui l’afflusso di circa un milione di immigrati ebrei, che indebolì la necessità di Israele di manodopera palestinese durante gli anni ‘90».«Fino a che la globalizzazione non prese vita, verso la metà degli anni ‘80, la relazione di Israele coi palestinesi rifletteva il classico colonialismo, nel quale il potere coloniale aveva usurpato la terra e le risorse dei colonizzati per poi farli lavorare, sfruttandoli», scrive il professor Robinson. «Però l’integrazione del Medio Oriente nell’economia globale e la società basata sulla ristrutturazione economica neoliberale, inclusa la ben conosciuta litania di misure quali la privatizzazione, la liberalizzazione del commercio, la supervisione del Fondo Monetario Internazionale sull’austerità e i prestiti della Banca Mondiale, aiutò a provocare la propagazione di pressioni da parte delle masse di lavoratori e dei movimenti sociali e la democratizzazione delle basi, che si riflette nelle Intifada palestinesi, il movimento operaio attraverso il Nordafrica e il malessere sociale, che si resero più visibili nelle rivolte arabe del 2011. Questa onda di resistenza forzò una reazione da parte dei governanti israeliani e dei loro alleati statunitensi».Integrandosi nel capitalismo globale, continua Robinson, l’economia israeliana visse due grandi ondate di ristrutturazione. La prima, negli anni ‘80 e ‘90, fu una transizione dall’economia tradizionale (agricoltura e industria) verso un nuovo modello basato sull’informatica: Tel Aviv e Haifa divennero le Silicon Valley del Medio Oriente, e nel 2000 il 15% del Pil di Israele e il 50% dell’export avevano origine dal settore dell’alta tecnologia. «Poi, dal 2001 in poi, e soprattutto sulla scia del disastro delle dot-com del 2000, che coinvolse imprese che commerciavano in Internet, e della recessione a livello globale, secondariamente per gli accadimenti del 11 Settembre 2001 e la rapida militarizzazione della politica mondiale, si produsse in Israele un altro spasmo volto a supportare un “complesso globale di tecnologie militari, di sicurezza, di spionaggio e di vigilanza contro il terrorismo”». Israele è divenuto la patria di imprese tecnologiche, pioniere della cosiddetta “industria della sicurezza”. «Di fatto, l’economia di Israele si è globalizzata specificamente attraverso l’alta tecnologia militare: gli istituti di esportazione israeliani stimano che nel 2007 c’erano circa 350 imprese transnazionali israeliane dedite ai sistemi di sicurezza, di spionaggio e controllo sociale, che si situarono nel centro della nuova politica economica israeliana».Le esportazioni israeliane di prodotti e servizi collegati alla “lotta al terrorismo” aumentarono del 15% nel 2006 e si prevedeva che sarebbero cresciute del 20% nel 2007, per un valore di 1,2 miliardi di dollari all’anno, secondo Naomi Klein. Questa crescita esplosiva «fa di Israele il quarto trafficante d’armi del mondo, davanti al Regno Unito». Numeri: Israele ha più azioni tecnologiche quotate al Nasdaq (molte collegate all’industria della sicurezza) che ogni altro paese straniero, e ha più brevetti hi-tech registrati negli Usa di quanti ne abbiano Cina e India messe insieme. Oggi, il 60% delle esportazioni israeliane è collegato alla tecnologia, specie nell’industria della sicurezza. In altre parole, sintetizza Robinson, «l’economia israeliana si è alimentata della violenza locale, regionale e mondiale, dei conflitti e delle disuguaglianze». Le sue principali imprese? «Hanno finito per dipendere dal conflitto». La guerra in Palestina, nel Medio Oriente e in tutto il mondo, è ormai un business che influenza l’intero sistema politico dello Stato israeliano.«Questa accumulazione militare è caratteristica anche degli Usa e di tutta l’economia mondiale globalizzata», annotra Robinson. «Viviamo sempre più in un’economia da guerra mondiale e certi stati, come Usa e Israele, sono ingranaggi chiave di questa macchina. L’accumulazione militarista per controllare e contenere gli oppressi e gli emarginati e per sostenere l’accumulazione nella crisi si prestano a tendenze politiche fasciste o a quello che noi abbiamo definito “il fascismo del XXI secolo”». Questo cambia (in peggio) la sorte della popolazione palestinese, che fino agli anni ‘90 era «una forza lavoro a basso costo per Israele». E’ stata soppiantata innanzitutto dal milione di nuovi arrivi dall’Est Europa, dopo il collasso dell’Urss, che hanno incrementato gli insediamenti coloniali: ebrei sovietici, a loro volta «resi profughi dalla ristrutturazione neoliberale post-sovietica». In più, l’economia israeliana cominciò ad attirare manodopera dall’Africa e dall’Asia, «dato che il neoliberismo produsse crisi con milioni di profughi dalle vecchie regioni del Terzo Mondo».Insieme alla recessione, la nuova mobilità lavorativa transnazionale ha permesso all’élite finanziaria mondiale «la riorganizzazione dei mercati del lavoro e il reclutamento di forze lavoro transitorie, private dei loro diritti e facili da controllare». Un’opzione «particolarmente attraente per Israele, dato che elimina la necessità di manodopera palestinese politicamente problematica». Oltre 300.000 lavoratori immigrati – provenienti da Thailandia, Cina, Nepal e Sri Lanka – ora costituiscono la forza lavoro predominante nell’agroalimentare di Israele, così come la manodopera messicana e centroamericana lo è nell’agroalimentare statunitense, nella stessa condizione precaria di super-sfruttamento e discriminazione. «Il razzismo che molti israeliani hanno mostrato nei confronti dei palestinesi (esso stesso prodotto del sistema di relazioni coloniale) ora si è tramutato in una crescente ostilità verso gli immigrati in generale», osserva Robison, «man mano che il paese si tramuta in una società totalmente razzista».E dato che l’immigrazione globale ha eliminato la necessità di Israele di avere manodopera a basso costo palestinese, quest’ultima si è convertita in una popolazione marginale eccedente. «Prima dell’arrivo dei rifugiati sovietici – scrive Naomi Klein – Israele non poteva neanche per un momento prescindere dalla popolazione palestinese di Gaza o della Cisgiordania; la sua economia non avrebbe potuto sopravvivere senza la mano d’opera palestinese». All’epoca, «circa 130.000 palestinesi abbandonavano le loro case a Gaza e in Cisgiordania ogni giorno e andavano in Israele per pulire le vie e costruire le strade, mentre gli agricoltori e i commercianti palestinesi riempivano camion di mercanzia e le vendevano in Israele e in altre parti dei Territori». Poi, in vista della grande trasformazione strutturale dell’economia israeliana, già nel ‘93 – anno della firma degli accordi Oslo – Tel Aviv inaugurò la politica di chiusura: palestinesi confinati dei Territori Occupati, pulizia etnica e forte aumento degli insediamenti ebraici. Istantaneo il crollo del reddito palestinese, di almeno il 30%, fino al bilancio del 2007, con disoccupazione e povertà al 70%.«Dal ‘93 al 2000, che si pensava dovessero essere gli anni nei quali veniva realizzato l’accordo di “pace” che esigeva la fine dell’occupazione israeliana e lo stabilirsi di uno Stato palestinese – scrive Robinson – i coloni israeliani in Cisgiordania raddoppiarono, arrivando a 400.000, poi a 500.000 nel 2009 e continuarono aumentando. La denutrizione a Gaza è agli stessi livelli di alcune delle nazioni più povere del mondo, con più della metà delle famiglie palestinesi che assumono un solo pasto al giorno. Mano a mano che i palestinesi venivano espulsi dall’economia di Israele, le politiche di chiusura e l’incremento dell’occupazione distrussero a loro volta l’economia palestinese». Il collasso degli accordi di Oslo, insieme a quella che Robinson chiama «la farsa delle negoziazioni di “pace” in corso, nel mezzo di un’occupazione israeliana sempre maggiore», può rappresentare un dilemma politico per i poteri forti transnazionali, che oggi vorrebbero «trovare meccanismi per lo sviluppo e l’assoggettamento dei ricchi palestinesi e dei gruppi capitalisti».In base alla logica perversa dell’élite, quella «del capitale militarizzato, incrostato nell’economia israeliana e internazionale», l’attuale situazione è eccellente: «E’ un’opportunità d’oro per espandere l’accumulazione di capitale per lo sviluppo e la commercializzazione di armi e di sistemi di sicurezza in tutto il mondo, attraverso l’uso dell’occupazione e della popolazione palestinese in cattività come obiettivi d’attacco e prova sul terreno». E’ questa élite affaristica e tecnologico-militare a condizionare oggi la politica di Israele. «La rapida espansione economica per l’alta tecnologia della sicurezza creò un forte desiderio nei settori ricchi e potenti di Israele di abbandonare la pace a favore di una lotta per la continua espansione della “guerra al terrore”», ricorda la Klein. Comodissimo, quindi, il conflitto coi palestinesi: non già come «battaglia contro un movimento nazionalista con mete specifiche al riguardo della terra e dei diritti», ma come «parte della guerra globale al terrorismo, come se fosse una guerra contro forze fanatiche e illogiche basate esclusivamente su obiettivi di distruzione».Israele sa che la pace non rende, scrisse su “Haaretz” nel 2009 Amira Hass, una delle poche voci critiche coraggiose nei media israeliani. L’industria della sicurezza? Fondamentale, per l’export: armi e munizioni si provano tutti i giorni a Gaza e in Cisgiordania. La protezione degli insediamenti? «Richiede uno sviluppo costante della sicurezza, la vigilanza e la dissuasione con strumenti come barriere, fili spinati, videocamere di vigilanza elettroniche e robot». Questi dispositivi «sono l’avanguardia della sicurezza nel mondo sviluppato e servono per le banche, le imprese e i quartieri di lusso a lato dei quartieri malfamati e delle enclavi etniche dove bisogna reprimere le ribellioni». Oggi, i palestinesi “rendono” ancora in un solo modo: come cavie, come bersagli. E se “la pace non rende”, si può immaginare chi investa sulla guerra, il grande business dell’Occidente sfinito dalla crisi e dominato dall’oligarchia globalista, di cui fa parte pienamente anche l’élite israeliana. Quella che ha strappato ai palestinesi le loro terra, ne ha fatto strage (pulizia etnica), ha sfruttato a lungo i superstiti, ma ora li considera “umanità eccedente”, sgradevole, da eliminare in ogni modo. Non c’è più posto, per loro: si accomodino pure sul Sinai, nel deserto.Come mai prima d’ora, i palestinesi rischiano di essere cancellati dall’anagrafe dell’umanità: Israele, che li sottopone a uno spietato regime di apartheid, non fa nulla per impedire che si faccia strada la “soluzione finale” del genocidio, di cui Gaza sta già facendo esperienza. Lo sostiene il professor William Robinson, sociologo dell’università californiana di Santa Barbara, in un’analisi presentata su “Truth-Out” in cui delinea il fondamento economico della persecuzione: se fino a ieri la manodopera palestinese sfruttata poteva ancora servire, specie in Cisgiordania, oggi la nuova struttura socio-economica dello Stato sionista ne fa volentieri a meno, data l’evoluzione della fisionomia produttiva israeliana nel sistema mondiale globalizzato, in settori chiave come quello degli armamenti. Questo spiega il sistematico fallimento di tutti i negoziati di pace e la drammatica accelerazione terroristica nei confronti della popolazione di Gaza, che solo nell’estate scorsa ha provocato 2.000 morti, 11.000 feriti e centomila senzatetto. I palestinesi non “servono” più, nemmeno come schiavi. Possono solo scegliere se andarsene o restare a farsi massacrare.
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L’antispreco è servito, tra gli chef anche Serge Latouche
Bastano tre mele per fare un dolce-capolavoro. L’importante? E’ che siano bacate. Parola di Anna Blasco, “food stylist” e “food maker” torinese. Perché il capolavoro è doppio: non solo il gusto, ma anche il piacere del recupero del cibo che sta per finire nella spazzatura. Pura filosofia: il cibo non è solo un mezzo per vivere, come insegna Emmanuel Lévinas. «All’esteriorità del cibo corrisponde la nostra sensibilità», spiega il professor Enrico Guglielminetti, direttore di “Spazio Filosofico”. «Il rapporto che abbiamo col cibo è analogo al rapporto che abbiamo con gli altri». Mancanza di rispetto: «Lo spreco alimentare, che riduce il cibo a rifiuto, è un caso esemplare». Una sorta di abuso di potere. «Produrre rifiuti allora diventa un vizio, l’opposto della virtù». E noi di cibo ne sprechiamo troppo: 1,3 miliardi di tonnellate l’anno, cioè un terzo di tutta la produzione mondiale di alimenti destinati all’uomo, lungo la filiera-colabrodo dei consumi di massa. Rimediare? Ovvio che sì. Partendo dalla cucina di casa. Basta seguire, alla lettera, le ricette di grandi chef: che si chiamano Maurizio Pallante, Hilary Wilson, Rossano Ercolini, Pamela Warhurst. E Serge Latouche, naturalmente.«Mangiare meglio, non meno», raccomanda il caposcuola francese del pensiero della decrescita. «Partiamo dalla pratica, dalle piccole cose quotidiane: abbandonare l’abitudine di sprecare, di acquistare cibo che arriva dall’altra parte del mondo, rivestito di imballaggi in plastica». Latouche è il maître della tavola (digitale) imbandita da Alessandra Mazzotta, “L’antispreco è servito”, agile manuale in formato ebook. L’autrice, giornalista specializzata in comunicazione ambientale e sostenibilità, si definisce «pessima cuoca, ma buona forchetta». In città si sposta in bici e «viaggia come ecoturista anche in sogno», secondo l’editore, “Bookrepublic”. Sogni? Quello di Latouche è «un’utopia socialista» chiamata decrescita, per «aiutarci a sperare», fuori dal totalitarismo consumistico. Intanto, “L’antispreco è servito” propone ricette domestiche per un risveglio anche immediato. Formule divertenti, come quella del “mago” Ercolini che trasforma in funghi i fondi di caffè. E prodigi sensazionali come il miracolo di Todmorten, vicino a Manchester, dove due donne si sono inventate la rivoluzione verde di “Incredible Edible”, il villaggio dove gli ortaggi a disposizione degli abitanti crescono persino nelle aiuole della stazione di polizia.«In un mondo paradossale in cui un miliardo di persone soffre di fame e un altro miliardo di malattie connesse con l’obesità, le distorsioni pesano troppo nel piatto e assumono un sapore di immoralità», scrive Mazzotta. «Nei paesi industrializzati, solo per fare qualche esempio, si cestinano 222 milioni di tonnellate di cibo, che equivalgono – tonnellata più, tonnellata meno – alla produzione alimentare disponibile dell’intera Africa sub-sahariana». Gli sprechi alimentari sono ovunque: dalla produzione agricola fino alla distribuzione. «Per non parlare di quelli che avvengono a livello domestico, nelle nostre cucine», sui cui antidoti è concentrata la mappa operativa del libro, utilissima per orientarsi da subito, cercare maestri, trovare alleati preziosi. Associazioni, campagne antispreco, Last Minute Market. Un mondo, navigabile partendo dal computer. Dalla piccola distribuzione alla ristorazione, la spesa consegnata in bicicletta e il locale aperto a Leeds dallo chef Adam Smith, dove vengono serviti piatti di ogni genere, dalla bistecca alla zuppa, a base di ingredienti scartati dagli stabilimenti alimentari della città. «Buon cibo salvato dalla discarica, che aiuta anche a nutrire chi fatica ad arrivare alla fine del mese».Il libro propone una geografia confortante, dalla rete milanese dei ristoranti “ad avanzi zero”, ai sommelier dell’Ais che spiegano come portarsi a casa il vino avanzato. Cresce la rete del “food sharing”: negli Usa, puoi fotografare gli avanzi nel piatto per segnalarli e riciclarli. In Germania, via web, gli abitanti di sette città si scambiano il cibo in eccesso. Stessa cosa a Londra, grazie al “Casseroleclub”. In Italia, “Food Share” è una piattaforma web che permette a privati, produttori e rivenditori di offrire gratuitamente prodotti alimentari in eccedenza a scopi solidali. A Trento basta un’app sul telefonino per ritirare gli avanzi, a Torino provvede una piattaforma web, “NextDoorHelp”, mentre a Treviso lo smistamento dell’antispreco è affidato al frigorifero virtuale di “Ratatouille”, da cui esplorare l’offerta della dispensa eco-solidale. Sono tutti avamposti, per un futuro meno grigio: «Nonostante la crisi, noi italiani buttiamo via ancora troppo cibo: il 55% viene sprecato nella filiera agroalimentare e il restante 45% nel consumo domestico, mense e ristoranti compresi», scrive Alessandra Mazzotta. «Ogni anno, lo spreco domestico ci costa più di 8 miliardi di euro. In media, ogni famiglia getta nella spazzatura più di 500 euro in alimenti».Maurizio Pallante, leader dei decrescisti italiani, punta il dito contro «stili di vita ancora irresponsabili», e spiega: «Manca la consapevolezza del legame tra cibo e stagioni», e in più «non viene data sufficiente attenzione a quanto costa il cibo, produrlo, distribuirlo. Per cui si spreca tanto, con impatti ambientali altissimi». D’altra parte, «chi vende il cibo ha interesse a che se ne venda e se ne sprechi sempre di più». Colpa anche della vecchia agricoltura industriale, pensata come “industria estrattiva” per spremere la terra, allo scopo di vendere e guadagnare sempre di più, grazie anche all’autismo demenziale di una politica che pensa solo al Pil, gonfiato di veleni. L’antidoto si chiama «riscoperta della piccola produzione contadina, con la vendita delle eccedenze, in un’ottica di filiera corta come massima espressione della sovranità alimentare a livello territoriale». Questo, aggiunge Pallante, «favorisce la maturazione della consapevolezza e della responsabilità verso il cibo». Perché, ricordiamolo, l’accesso al cibo è un diritto. Dunque, «non sprecarlo è un dovere», chiarisce Lorenzo Bairati, docente di diritto degli alimenti all’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche a Pollenzo, creata da Carlo Petrini, fondatore di Slow Food.Se il sistema produce ancora passività sprecona, il “decalogo antispreco” di Alessandra Mazzotta propone una via d’uscita praticabile subito, da chiunque: pianificare i pasti, controllare il frigo, verificare etichette e scadenze, gestire gli avanzi e condividerli. C’è un mondo sconosciuto, nel frigorifero: dallo yogurt al tonno, si tratta di decifrare e vigilare sulle date, sulle modalità di conservazione. E di imparare: per esempio, a far “risorgere” ortaggi che ci stanno salutando. Patate e aglio che germogliano? Basta saperci fare, «la natura ha del miracoloso». Sedani, insalate, cipollotti: con poche mosse, un possibile rifiuto diventa una risorsa che ricresce sul davanzale. «Non ricordo di aver mai visto mia nonna buttare via del cibo avanzato», dice Alessandra. «Male che andava, c’era sempre il cane. Chi ha visto la guerra faceva così». Oggi, la “guerra” che abbiamo attorno è un’altra. Per fortuna, «complice forse la crisi e una maggiore coscienza, stanno fiorendo iniziative antispreco un po’ a ogni latitudine». E anche ottimi libri, che ti spiegano come fare. E intanto ti regalano la certezza di essere parte di una comunità. Un’umanità consapevole, che conosce le parole di Gandi: la Terra è abbastanza grande per soddisfare i bisogni di tutti, ma non l’avidità di pochi.(Il libro: Alessandra Mazzotta “L’antispreco è servito”, Bookrepublic, 625,8 Kb, euro 1,99. Mazzotta è redattrice del newmagazine “Econote” e gestisce il blog “Ecoavoi”).Bastano tre mele per fare un dolce-capolavoro. L’importante? E’ che siano bacate. Parola di Anna Blasco, “food stylist” e “food maker” torinese. Perché il capolavoro è doppio: non solo il gusto, ma anche il piacere del recupero del cibo che sta per finire nella spazzatura. Pura filosofia: il cibo non è solo un mezzo per vivere, come insegna Emmanuel Lévinas. «All’esteriorità del cibo corrisponde la nostra sensibilità», spiega il professor Enrico Guglielminetti, direttore di “Spazio Filosofico”. «Il rapporto che abbiamo col cibo è analogo al rapporto che abbiamo con gli altri». Mancanza di rispetto: «Lo spreco alimentare, che riduce il cibo a rifiuto, è un caso esemplare». Una sorta di abuso di potere. «Produrre rifiuti allora diventa un vizio, l’opposto della virtù». E noi di cibo ne sprechiamo troppo: 1,3 miliardi di tonnellate l’anno, cioè un terzo di tutta la produzione mondiale di alimenti destinati all’uomo, lungo la filiera-colabrodo dei consumi di massa. Rimediare? Ovvio che sì. Partendo dalla cucina di casa. Basta seguire, alla lettera, le ricette di grandi chef: che si chiamano Maurizio Pallante, Hilary Wilson, Rossano Ercolini, Pamela Warhurst. E Serge Latouche, naturalmente.