Archivio del Tag ‘Afghanistan’
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Guerra all’Isis, ecco il vincitore: l’industria delle armi
Che meraviglia, la guerra di Obama contro l’Isis: le commesse per armamenti e logistica si sono rimesse a volare. A fregarsi le mani sono soprattutto i fabbricanti di droni, che saranno largamente impiegati contro le milizie islamiste reclutate dagli Usa per la guerra civile in Siria e poi dirottate in Iraq vista la resistenza di Assad, sostenuto da Russia, Cina e Iran. Se da giugno a metà settembre le operazioni militari americane contro l’Isis erano costate circa 600 milioni di dollari, ora gli Stati Uniti stanno spendendo oltre 7,5 milioni al giorno. «Quando la macchina militare ingranerà la marcia superiore, ci saranno dei vincitori nell’industria della difesa», scrive Tory Newmyer su “Fortune”. «Più combattimenti significa più affari». E dopo il ritiro americano dall’Iraq e dall’Afghanistan, coi pesanti tagli di budget che hanno costretto il Pentagono a tirare la cinghia, «i fornitori militari si stanno adoperando per trovare nuove richieste per le loro merci». Obama parla di attacchi dal cielo per proteggere le truppe sul terreno? Tradotto: affari d’oro per chi produce aerei, droni, missili e bombe.«I costruttori di droni avranno un bel da fare», ammette Dov Zakheim, al Pentagono con George W. Bush. Il che significa «enormi profitti per la compagnia privata General Atomics, costruttrice del drone “Predator”, il capostipite della categoria, ancora ampiamente in uso, come anche del “Reaper” di seconda generazione, progettato per portare bombe del valore di 3.000 sterline», scrive Newmyer in un articolo tradotto da “Come Don Chisciotte”. Inoltre, per agevolare il monitoraggio di vaste aree desertiche, l’esercito potrà contare sul “Global Hawk” prodotto dalla Northrop Grumman (Noc, le cui quotazioni in borsa salgono), un drone in grado di volare ad altitudini di 50.000 piedi per quattro giorni di seguito. «Questi velivoli possono anche avere in uso il “Gorgon Stare”, un sensore sviluppato dall’azienda privata Sierra Nevada, capace di tenere sotto controllo un diametro di 4 chilometri attraverso nove telecamere».L’estendersi del conflitto rilancerebbe gli investimenti in tecnologia, sostiene Mark Gunzinger, colonnello in pensione della Us Air Force ed ex viceministro della difesa, ora in forza al Centro per le valutazioni strategiche e di bilancio: «Una delle cose che potrebbe facilitare una nuova capacità di sfondamento è un’intensificazione delle operazioni, come una più massiccia campagna aerea». Entreranno in azione anche soggetti minori che operano nel settore aereo: Zakheim ha cita la Aero Vironment (Avav), che produce velivoli telecomandati abbastanza piccoli da essere lanciati a mano (compreso il “Nano Hummingbird”, un mezzo minuscolo, che pesa meno di due pile elettriche AA). Jason Gursky, analista che si occupa di industria per Citigroup, scommette sulla Digital Globe (Dgi), azienda di satelliti il cui principale business consiste nel vendere alle agenzie federali immagini digitali “non classificate”: l’esercito le utilizzerà per localizzare gli obiettivi, man mano che estenderà il suo intervento.«Saranno comunque i produttori di armi a ottenere i maggiori benefici, soprattutto a breve termine», scrive Newmyer. «In cima alla classifica troviamo la Lockheed Martin (Lmt), produttrice del missile “Hellfire”, arma di precisione che può essere lanciata da diverse piattaforme, inclusi i droni “Predator”». Sempre secondo Zakheim, si trovano in buona posizione anche Raytheon (Rtn), che produce i “Tomahawk”, missili a lunga gittata lanciati dal mare, e General Dynamics (Gd), anch’essa operante nel settore degli armamenti. «I casi più ovvi sono ciò che io chiamo il commercio di stivali, fagioli e proiettili», dice Ronald Epstein, analista della Bank of America. In altri termini, spiega “Fortune”, «i costruttori navali non possono aspettarsi molto lavoro da questo conflitto, ma coloro che riforniscono le forze americane sono già elettrizzati dalla prospettiva di nuove ordinazioni». Gunzinger sottolinea che «le bombe di piccolo diametro possono essere un grande affare, perché un aereo può portarne parecchie in una sola uscita». Un ulteriore vantaggio, tra gli altri, per la linea di produzione della Raytheon.Zakheim stima che questa cifra potrebbe raddoppiare «se le operazioni si intensificheranno e il teatro di guerra si allargherà alla Siria, con una significativa componente di spesa per le munizioni». Avverte Newmyer: «Il costo totale di questa guerra senza fine, che probabilmente va misurata in anni piuttosto che in mesi, nessuno lo può ipotizzare. Tuttavia, nell’immediato, la Casa Bianca sta facendo pressione sul Congresso perché approvi un finanziamento di 500 milioni di dollari per addestrare ed equipaggiare i gruppi ribelli pro-occidentali in Siria. Soltanto questo potrebbe significare un supplemento di lavoro per una vasta platea di fornitori per la prima difesa, secondo l’opinione di Gursky». Sul lungo termine, dicono i lobbisti della difesa, l’America non potrà badare a spese. Si annunciano affari miliardari per l’intera filiera delle armi, con co-produzioni ramificate in tutto il mondo. Epstein cita l’Iraq ma anche l’Ucraina, la Russia e tensioni tra Cina e Giappone: «Per chi investe, il panorama di questi conflitti regionali nel mondo, almeno da un punto di vista emotivo, non può essere male».Che meraviglia, la guerra di Obama contro l’Isis: le commesse per armamenti e logistica si sono rimesse a volare. A fregarsi le mani sono soprattutto i fabbricanti di droni, che saranno largamente impiegati contro le milizie islamiste reclutate dagli Usa per la guerra civile in Siria e poi dirottate in Iraq vista la resistenza di Assad, sostenuto da Russia, Cina e Iran. Se da giugno a metà settembre le operazioni militari americane contro l’Isis erano costate circa 600 milioni di dollari, ora gli Stati Uniti stanno spendendo oltre 7,5 milioni al giorno. «Quando la macchina militare ingranerà la marcia superiore, ci saranno dei vincitori nell’industria della difesa», scrive Tory Newmyer su “Fortune”. «Più combattimenti significa più affari». E dopo il ritiro americano dall’Iraq e dall’Afghanistan, coi pesanti tagli di budget che hanno costretto il Pentagono a tirare la cinghia, «i fornitori militari si stanno adoperando per trovare nuove richieste per le loro merci». Obama parla di attacchi dal cielo per proteggere le truppe sul terreno? Tradotto: affari d’oro per chi produce aerei, droni, missili e bombe.
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Alberoni: per il futuro non ci serve la Nato, ma la Russia
La Nato è nata nel 1948 e fra i suoi paesi membri oggi abbiamo Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Francia, Belgio, Germania, Danimarca, Norvegia, Polonia, Estonia, Lettonia, Lituania; a sud e a est Spagna, Portogallo, Italia, Grecia, Ungheria, Romania, Bulgaria e Turchia. In sostanza un semicerchio che stringe la Russia a occidente, a nord e a sud. Anche solo guardandone la forma geografica si capisce che è stata creata in funzione anti Urss all’epoca della Guerra fredda, però continua a esistere anche ora che l’Urss non esiste più e i principali pericoli militari non ci vengono dalla Russia ma dall’area islamica, mentre la più pericolosa competizione economica è quella della Cina. La Nato è tenuta in vita dagli Usa e dal Regno Unito che ci fanno litigare con la Russia per impedirci di stabilire con essa una profonda integrazione economica, e invece spingerci ad acquistare petrolio e gas dai paesi del Golfo controllati da loro.Tutti i paesi europei sono danneggiati da questa politica e la Russia viene spinta a integrarsi con la Cina. È venuto il momento di domandarci perché dobbiamo continuare a fare parte di una organizzazione che ci reca solo danno. La Russia per noi non è un nemico, ma un amico, appartiene alla cultura europea, è un partner economico ideale, combatte l’integralismo islamico che invece gli americani hanno favorito con la loro politica in Afghanistan, in Irak e in Siria. È stata la Nato ad abbattere Gheddafi dando la Libia in mano agli islamisti e inondando l’Italia di immigrati. E non dimentichiamo che il presidente Obama voleva bombardare l’esercito di Assad aiutando le forze che hanno poi creato il Califfato.Oggi la Nato dovrebbe essere riorganizzata con nuovi scopi e con nuovi membri. E per prima cosa dovrebbe farne parte la Russia, per costituire un fronte comune contro l’integralismo islamico e la immensa potenza militare che fra poco sprigionerà la Cina. Oggi la Nato, che guarda a nemici del passato, dovrebbe pensare al futuro. Magari facendo anche qualcosa per il presente: per esempio mettere fine alle emigrazioni nel Mediterraneo da essa stessa provocate.(Francesco Alberoni, “La Nato è morta e la Russia non è più un nemico”, da “Il Giornale” del 15 settembre 2014).La Nato è nata nel 1948 e fra i suoi paesi membri oggi abbiamo Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Francia, Belgio, Germania, Danimarca, Norvegia, Polonia, Estonia, Lettonia, Lituania; a sud e a est Spagna, Portogallo, Italia, Grecia, Ungheria, Romania, Bulgaria e Turchia. In sostanza un semicerchio che stringe la Russia a occidente, a nord e a sud. Anche solo guardandone la forma geografica si capisce che è stata creata in funzione anti Urss all’epoca della Guerra fredda, però continua a esistere anche ora che l’Urss non esiste più e i principali pericoli militari non ci vengono dalla Russia ma dall’area islamica, mentre la più pericolosa competizione economica è quella della Cina. La Nato è tenuta in vita dagli Usa e dal Regno Unito che ci fanno litigare con la Russia per impedirci di stabilire con essa una profonda integrazione economica, e invece spingerci ad acquistare petrolio e gas dai paesi del Golfo controllati da loro.
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Guerra infinita, Foa: non è più possibile credere a Obama
Nel libro “L’arte della guerra”, Sun Tzu «ha spiegato l’arte della dissimulazione e del sotterfugio, ma qui si sta esagerando». Giù la maschera, mister Obama: «Fu la Cia ad armare i mujaheddin e Bin Laden contro i sovietici, poi Bin Laden è diventato il nemico numero uno degli Stati Uniti. E fu Washington a sostenere Saddam contro l’Iran, poi Saddam è diventato il nuovo Hitler». Ricorda Marcello Foa: «Quando i Talebani imponevano un regime orribile in Afghanistan, l’America ignorò a lungo le loro nefandezze mostrando una benevola negligenza al punto di finanziare quel regime addirittura pochi mesi prima dell’11 Settembre, come dimostrato da una fonte insospettabile quale l’Istituto Cato. Ora tocca all’Isis e a nuovi gruppi spuntati dal nulla, vedi il Khorasan, che sembra il nome di un farmaco contro il colesterolo, ma che, come spiega il “Corriere della Sera”, è la nuova sigla del terrore, il nuovo erede di Al-Qaeda». E ora gli Usa fingono di non conoscere i loro ex amici dell’Isis, nati come costola dell’Esercito Siriano Libero per rovesciare Assad, poi divenuti Isil, quindi semplicemente Is, Islamic State, Califfato Islamico. Bersaglio perfetto, per mantenere il Medio Oriente nel mirino.L’Isis, scrive Foa nel suo blog sul “Giornale”, rappresenta l’ala più estremista dell’Islam integralista sunnita, «un’ala fanatica, pericolosa, impresentabile: gente da tenere alla larga». Dunque, «i bombardamenti avvengono in nome di una causa che pochi non condividono in Occidente, tanto più dopo le immagini delle decapitazioni». Tuttavia, «l’altra sconvolgente verità» è che l’Isis «è stato finanziato da paesi arabi come il Qatar e i sauditi e sostenuto militarmente negli Stati Uniti, fino ad alcuni mesi fa, in nome della lotta alla Siria, ben sapendo che la distinzione tra ribelli “moderati” e quelli dell’Isis anti-Assad è risibile, come emerso nelle analisi più competenti e oneste pubblicate anche dalla grande stampa anglosassone». Si trattasse di un singolo errore, concede Foa, l’indulgenza sarebbe ovvia. Analizzando invece le linee fondamentali della politica estera statunitense, «il bilancio non può che essere molto negativo, e con uno schema che tende a ripetersi».Riflessioni d’obbligo: «La guerra in Afghanistan non è stata risolutiva, quella in Iraq nemmeno: anzi, il paese sta molto peggio rispetto all’era Saddam». Il Maghreb? «Era molto più stabile quando c’erano i Mubarak, i Ben Ali e persino Gheddafi, considerato che la Libia vive in uno stato di guerra tribale permanente». Quanto alla Siria, il paese di Assad «prima era una garanzia di stabilità per la regione nonché un alleato prezioso degli stessi Stati Uniti nella lotta al terrorismo, vedi la collaborazione al programma di “rendition”». Ora invece è improvvisamente diventato «un regime diabolico, da abbattere ad ogni costo». A partire dal grande detonatore geopolitico dell’11 Settembre, «le guerre condotte negli ultimi 13 anni non hanno portato pace e nemmeno libertà e prosperità, ma crescente instabilità, morte, povertà, caos». Paradigmatico l’esempio dell’Iraq: «Saddam odiava i fondamentalisti e rifiutava qualunque collaborazione con Bin Laden». Oggi, invece, l’Iraq «è la nuova terra promessa, anzi il nuovo Califfato del peggior integralismo islamico». Le guerre americane? Hanno solo peggiorato il problema. «A cosa sono servite, davvero? E quale sarà l’effetto finale di quella appena iniziata contro l’Isis? Vedremo – conclude Foa – ma alle promesse di Obama e della sua squadra non credo più da un pezzo».Nel libro “L’arte della guerra”, Sun Tzu «ha spiegato l’arte della dissimulazione e del sotterfugio, ma qui si sta esagerando». Giù la maschera, mister Obama: «Fu la Cia ad armare i mujaheddin e Bin Laden contro i sovietici, poi Bin Laden è diventato il nemico numero uno degli Stati Uniti. E fu Washington a sostenere Saddam contro l’Iran, poi Saddam è diventato il nuovo Hitler». Ricorda Marcello Foa: «Quando i Talebani imponevano un regime orribile in Afghanistan, l’America ignorò a lungo le loro nefandezze mostrando una benevola negligenza al punto di finanziare quel regime addirittura pochi mesi prima dell’11 Settembre, come dimostrato da una fonte insospettabile quale l’Istituto Cato. Ora tocca all’Isis e a nuovi gruppi spuntati dal nulla, vedi il Khorasan, che sembra il nome di un farmaco contro il colesterolo, ma che, come spiega il “Corriere della Sera”, è la nuova sigla del terrore, il nuovo erede di Al-Qaeda». E ora gli Usa fingono di non conoscere i loro ex amici dell’Isis, nati come costola dell’Esercito Siriano Libero per rovesciare Assad, poi divenuti Isil, quindi semplicemente Is, Islamic State, Califfato Islamico. Bersaglio perfetto, per mantenere il Medio Oriente nel mirino.
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Nato e Ue, due guinzagli per lo stesso padrone: gli Usa
Se al summit di Praga nel 2002 si tratta si accogliere l’Est Europa verso ovest, lo storico vertice di Newport si incarica di impedire alla Cina e alla Russia di svilupparsi. Lo sostiene Thierry Meyssan, secondo cui l’appuntamento gallese della Nato è stato pianificato per impedire a Mosca e Pechino di rivaleggiare con gli Stati Uniti. Politica estera a mano armata: è nella natura della Nato fin dal 1949. La prassi: «Manipolare i fatti per presentarsi come un’alleanza difensiva di fronte all’espansionismo sovietico». Era vero l’opposto: ad avere funzione di difesa era semmai il Patto di Varsavia, creato infatti sei anni dopo, nel 1955, per cercare di limitare l’imperialismo anglosassone. La Nato, poi, «non è un’alleanza fra uguali, ma la vassallizzazione degli eserciti partner da parte degli Stati Uniti e del Regno Unito», mentre «il servizio segreto della Nato, la “Gladio”, sotto l’autorità congiunta di Washington e Londra, veglia affinché gli anti-imperialisti non possano mai arrivare al potere negli altri Stati membri. Per fare questo, la Nato non ha lesinato né sugli omicidi politici, e nemmeno sui colpi di Stato: in Francia, in Italia, in Grecia, a Cipro e in Turchia».Questa vassallizzazione, continua Meyssan in un’analisi tradotta da “Megachip”, contravviene ai principi dell’Onu, in quanto gli Stati membri perdono l’indipendenza della loro politica estera e di difesa. Il diktat atlantico fu contestato prima dall’Urss e poi dal presidente francese Charles De Gaulle che, «dopo aver affrontato una quarantina di tentativi di assassinio» da parte dell’Oas, l’organizzazione estremista «finanziata dalla Nato» ed essere riuscito a farsi rieleggere, «annunciò il ritiro immediato della Francia dal comando integrato e la riconsegna di 64.000 soldati e impiegati della Nato fuori dal territorio francese». Una pagina di indipendenza che cessò con l’elezione di Jacques Chirac: pochi mesi dopo il suo arrivo all’Eliseo, il nuovo presidente «reintegrò la Francia in seno al Consiglio dei ministri e al Comitato militare dell’Alleanza». Capitolo definitivamente archiviato «con il ritorno delle forze armate francesi sotto il comando statunitense, deciso da Nicolas Sarkozy nel 2009».Infine, aggiunge Meyssan, «la vassallizzazione degli Stati membri è proseguita con la creazione di numerose istituzioni civili, di cui la principale e la più efficace è l’Unione Europea». Lo dice in modo netto, il giornalista francese: «Contrariamente a un diffuso luogo comune, l’attuale Unione non ha avuto tanto a che fare con l’ideale dell’unità europea, quanto con la vocazione di fissare i membri della Nato fuori dall’influenza sovietica, poi russa, in conformità con le clausole segrete del Piano Marshall». Si trattava quindi di mantenere l’Europa saldamente divisa in due blocchi: la Russia da una parte, tutti gli altri con l’America. «Non è un dunque un caso che gli uffici della Nato e quelli dell’esecutivo europeo siano principalmente situati a Bruxelles e secondariamente in Lussemburgo. Ed è per consentire il controllo dell’Unione da parte degli anglosassoni, che questa si è dotata di una strana Commissione, la cui attività principale è quella di presentare “proposte”, economiche o politiche, tutte predefinite dalla Nato».Si ignora spesso che l’Alleanza non è semplicemente un patto militare. La Nato infatti «interviene nel dominio dell’economia», di fatto «è il primo cliente dell’industria della difesa in Europa». Attualmente, tre quarti del bilancio euroatlantico sono assicurati dai soli Stati Uniti, i quali «stanno progettando un confronto con la Cina» sin dall’11 Settembre, che Meyssan chiama «il colpo di stato del 2001». E spiega: il giorno dell’attacco alle Torri Gemelle, mentre il mondo era ipnotizzato dagli attentati, «il presidente George W. Bush fu illegalmente rimosso dalle sue funzioni in virtù del programma di “continuità del governo”». Funzioni presidenziali che ritrovò «solo alla fine della giornata, dopo che il suo paese aveva cambiato radicalmente la sua politica estera e di difesa». Durante quella giornata, aggiunge Meyssan, «tutti i membri del Congresso e i loro staff furono collocati dalle autorità militari in domicilio sorvegliato, presso il complesso Greenbrier (West Virginia) e presso il Mount Weather (Virginia)». E’ da allora, dice Meyssan, che il vero obiettivo è la Cina. E, proprio in questa prospettiva, Obama ha annunciato il riposizionamento delle sue forze armate in Estremo Oriente. Problema: «Questo programma è stato perturbato dalla ripresa economica, politica e militare della Russia, che si è mostrata capace nel 2008 di difendere l’Ossetia del Sud attaccata dalla Georgia e, nel 2014 la Crimea minacciata dai golpisti di Kiev».La resurrezione della Russia di Putin ha inoltre indotto gli Usa ad abbandonare lo “scudo anti-missile” dell’Est Europa, presentato come un sistema di protezione contro i missili dell’Iran ma in realtà progettato per accerchiare la Russia e paralizzarla: i missili da fermare erano quelli che Mosca avrebbe potuto scagliare verso ovest, se attaccata. Ma perché concentrarsi sull’Europa orientale? Per colpire l’Ameirca, dice Meyssam, il percorso più breve è il Polo Nord. «Dopo aver minato per oltre un decennio le relazioni tra Washington e Mosca, il progetto viene abbandonato perché risulta tecnicamente impossibile distruggere in volo i missili russi intercontinentali di ultima generazione. Quindi è il principio stesso di “deterrenza nucleare” che viene abbandonato di fronte alla Russia, anche se rimane pertinente per gli altri Stati». Da Mosca a Pechino: «Washington ha esacerbato le tensioni tra la Cina e i suoi vicini, in particolare il Giappone. La Nato, che storicamente rende l’Europa vassalla del Nord America, si è dunque aperta a dei partner asiatici e dell’Oceania, tra cui Australia e Giappone, attraverso contratti di associazione. Nel frattempo, ha ampliato il suo campo d’azione a tutto il mondo».In questo periodo di restrizioni di bilancio, l’Alleanza, che a quanto pare non conosce crisi, sta costruendo una nuova sede a Bruxelles, per la somma sbalorditiva di un miliardo di euro: dovrebbe essere consegnata all’inizio del 2017. Nel frattempo si prevede di associare anche il Montenegro, mentre si invitano gli europei ad aumentare le spese militari. Intanto, a imporsi è sempre il Medio Oriente: «Nella preoccupazione di evitare che la Cina e la Russia controllino abbastanza materie prime da essere capaci di rivaleggiare con gli Stati Uniti», la Nato «si è aggiunta nel corso dell’estate la questione dell’Emirato islamico», il famoso Califfato. «Un’intensa campagna mediatica ha demonizzato l’organizzazione jihadista, i cui crimini non sono affatto nuovi, ma che deve solo attaccare il popolo iracheno». L’Isis è una cretatura occidentale. E, nonostante le apparenze, «la sua azione in Iraq è del tutto coerente con il piano Usa di dividere il paese in tre Stati separati», per sunniti, sciiti e curdi. «Per realizzare un progetto che costituisce un crimine contro l’umanità, perché presuppone la pulizia etnica, Washington ha fatto ricorso a un esercito privato che le spetta condannare pubblicamente intanto che però lo sostiene sottobanco». In realtà, infatti, i “tagliatori di teste” obbediscono agli ordini. Il Califfato è destinato a durare, assicura Meyssan: «Sebbene attualmente agisca soprattutto in Siria e in Iraq, è stato progettato per mettere a ferro e a fuoco a lungo termine la Russia, l’India e la Cina».La questione dell’Emirato islamico non doveva pertanto essere aggiunta all’ordine del giorno anti-russo e anti-cinese di Newport, perché ne faceva già parte. Inoltre, non volendo rischiare di vedere un qualche Stato membro esprimere i propri dubbi su questa mascherata, Washington ha spostato il dibattito a margine del vertice. Obama ha riunito altri otto altri Stati, più l’Australia (che non è membro Nato, ma solo associata) per «mettere a punto il suo piano di guerra». Così, è stato deciso di associare anche la Giordania a questo dispositivo. In appena una mattinata, il vertice del Galles ha poi sbrigato la questione della lunga presenza occidentale in Afghanistan: «Certo, la Nato ritirerà le sue truppe da combattimento, come previsto, entro la fine dell’anno, ma manterrà il controllo dell’esercito afghano e della sicurezza del paese», ipotecando inoltre le prossime elezioni presidenziali. Quanto all’Est Europa, il vertice ha accettato di estendere il controllo Nato anche sull’Ucraina, «solo per vedere quale sarà la reazione russa», ma non è andato oltre: «L’Atto costitutivo sulle relazioni Nato-Russia non è stato revocato e l’Ucraina non è stata incorporata nell’Alleanza. Ognuno ha preferito evocare un possibile cessate-il-fuoco tra Kiev e il Donbass».Molto rumore per nulla, dunque? In apparenza, sì: «A meno che le cose importanti non siano state decise a porte chiuse, in occasione della riunione dei capi di Stato di venerdì 5 settembre, non sembra che le guerre segrete siano state discusse al vertice, ma solo a margine del vertice e solo con alcuni alleati». Già nel 2011, ricorda Meyssan, la Nato aveva violato le sue regole istitutive, non riunendo il Consiglio Atlantico prima di bombardare Tripoli. «Sembrava in effetti impossibile che tutti accettassero di perpetrare un tale massacro». Per questo, «in gran segreto», Usa e Regno Unito riunirono a Napoli la Francia, l’Italia e la Turchia, «per pianificare un attacco che ha causato almeno 40.000 morti civili in una settimana». Cinicamente, il report del vertice gallese «afferma che l’Alleanza ha protetto il popolo libico», citando le risoluzioni 1970 e 1973 delle Nazioni Unite, in realtà utilizzate «per cambiare il regime uccidendo 160.000 libici e facendo precipitare il paese nel caos». In ultima analisi, conclude Meyssan, negli ultimi anni la Nato ha raggiunto i suoi obiettivi in Afghanistan, Iraq, Libia e nel nord-est della Siria, «cioè solo ed esclusivamente in paesi o regioni organizzate in società tribali: non sembra dunque in grado di entrare in conflitto diretto con la Russia e la Cina».Se al summit di Praga nel 2002 si tratta si accogliere l’Est Europa verso ovest, lo storico vertice di Newport si incarica di impedire alla Cina e alla Russia di svilupparsi. Lo sostiene Thierry Meyssan, secondo cui l’appuntamento gallese della Nato è stato pianificato per impedire a Mosca e Pechino di rivaleggiare con gli Stati Uniti. Politica estera a mano armata: è nella natura della Nato fin dal 1949. La prassi: «Manipolare i fatti per presentarsi come un’alleanza difensiva di fronte all’espansionismo sovietico». Era vero l’opposto: ad avere funzione di difesa era semmai il Patto di Varsavia, creato infatti sei anni dopo, nel 1955, per cercare di limitare l’imperialismo anglosassone. La Nato, poi, «non è un’alleanza fra uguali, ma la vassallizzazione degli eserciti partner da parte degli Stati Uniti e del Regno Unito», mentre «il servizio segreto della Nato, la “Gladio”, sotto l’autorità congiunta di Washington e Londra, veglia affinché gli anti-imperialisti non possano mai arrivare al potere negli altri Stati membri. Per fare questo, la Nato non ha lesinato né sugli omicidi politici, e nemmeno sui colpi di Stato: in Francia, in Italia, in Grecia, a Cipro e in Turchia».
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Barack Osama e i ragazzi dell’Isis, reclutati dagli Usa
La drammatica e apparentemente inarrestabile ascesa dell’Isis ha riportato l’attenzione mediatica sul martoriato Iraq, caduto nel dimenticatoio dopo il ritiro delle truppe americane. I mezzi di informazione sono prodighi di informazioni nel descrivere le atrocità del Califfato, ma reticenti nel raccontare chi siano i suoi membri e quale sia la sua origine. Lo Stato Islamico di Iraq e Siria (questo il nome completo) non è una forza apparsa improvvisamente dal nulla, ma il figlio diretto delle politiche dell’imperialismo americano in Medio Oriente che ha le sue radici nel conflitto siriano e nel caos dell’Iraq post-Saddam, ricorda Riccardo Maggioni, secondo cui per capire meglio qual è il ruolo dell’Isis occorre fare un salto indietro di almeno trent’anni, dal momento che l’islamismo politico «è l’alleato oggettivo dell’imperialismo americano nel Medio Oriente» a partire dai lontani anni ‘80, quand’era il pretesto perfetto per consentire agli Usa di intervenire per aiutare i “buoni” e punire i “cattivi”.Negli anni ’80, durante la guerra fredda, l’Islam conservatore era l’alleato degli Usa nel contenere la diffusione del comunismo e dell’influenza dell’Urss nel mondo arabo, scrive Maggioni in un post ripreso da “Informare per Resistere”. Sotto la presidenza Reagan, gli Usa «armarono e addestrarono i Talebani in Afghanistan» per rovesciare la repubblica popolare afghana e contrastare il successivo intervento sovietico. «Al-Qaeda nasce qui, con i soldi e il supporto americano, tanto che lo stesso Bin Laden (ricordiamolo: proveniente da una famiglia di affaristi sauditi in stretti rapporti con gli Usa) combatteva in Afghanistan e veniva intervistato da quotidiani occidentali come “The Indipendent” i quali lo definivano “freedom fighter”». I Talebani, aggiunge Maggioni, «vennero addirittura glorificati in film come “Rambo 3”», mentre «vari leader islamisti afghani furono ricevuti alla Casa Bianca da Reagan, che li definì “leader con gli stessi valori dei Padri Fondatori”».La medesima strategia è proseguita negli anni novanta con Clinton, «che poté intervenire in Jugoslavia al fianco dei narcotrafficanti dell’Uck in Kosovo spacciati come difensori del proprio popolo da non meglio precisati genocidi». Con Bush la strategia cambia: complice l’11 Settembre, gli amici di ieri diventano i nemici di oggi. Scatta così una campagna propagandistica mondiale, secondo cui l’Islam ha dichiarato guerra alla civiltà occidentale e ci sono arabi dietro ogni angolo pronti a farsi esplodere. «Con questa scusa parte la cosiddetta “guerra al terrore”, grazie alla quale vengono eliminati gli ex-alleati Talebani ora sfuggiti al controllo e si invade l’Iraq». Una guerra «totalmente priva di senso anche per la logica di Bush», in teoria, considerato che il governo di Saddam Hussein «apparteneva alla corrente del baathismo laico e di tutto poteva essere tacciato tranne che di islamismo».Con Obama la strategia cambia ancora: non esiste più la minaccia islamica, ma gli Stati Uniti devono intervenire per difendere i giovani della “primavera araba” in lotta contro i “dittatori”, «termine indicante tutti i capi di Stato non graditi all’America». E Bin Laden, «tenuto in vita come spauracchio durante l’epoca Bush», viene «fatto fuori in un lampo, ovviamente prima che possa parlare dei suoi passati legami con gli Usa». Gli islamisti di oggi sono nuovamente alleati dell’America. E tutti i peggiori integralisti, dal Fronte Al-Nusra siriano ai Fratelli Musulmani, vengono trasformati dai media in giovani nonviolenti, in lotta contro la dittatura. «Con questa scusa, Obama arma delle milizie islamiste in Libia e interviene in loro supporto per eliminare Gheddafi: ora la Libia è un inferno a cielo aperto in preda a gang islamiche, mentre gli americani ne saccheggiano il petrolio».Il copione viene replicato in Siria, dove gli Usa appoggiano «animali assetati di sangue come Al-Nusra e il famigerato Isis», presentati però sempre come «studenti che manifestano per i diritti umani». Fallito l’assalto al regime di Assad, però, i “bravi ragazzi” tornano utili ugualmente, sotto forma di “cattivi ragazzi”. Vengono infatti presentati come terroristi: la vecchia propaganda sulla “minaccia islamista” viene riciclata da Obama per giustificare l’inizio di operazioni militari in Iraq. «La situazione fa quasi sorridere – sottolinea Maggioni – considerando che l’Isis sostanzialmente sono i ribelli siriani presentati come sinceri democratici e a fianco dei quali meno di un anno fa lo stesso Obama voleva intervenire militarmente. Le stesse persone, al variare degli interessi in gioco, passano da combattenti per la libertà a sanguinari terroristi, a seconda che si trovino ad ovest o ad est del confine tra Siria e Iraq».L’Isis? E’ un gruppo integralista sunnita, che si propone l’obiettivo di creare uno Stato islamico, il Califfato, che comprenda i territori di Siria e Iran per portare avanti la jihad contro lo sciitismo. Il terreno fertile per la sua espansione è stato creato dall’intervento militare americano in Iraq del 2003, continua Maggioni: il rovesciamento di Saddam ha causato la caduta di uno dei pochi Stati laici della regione e fatto saltare il delicato equilibrio interno tra la maggioranza sciita e la minoranza sunnita. Nel caos e nell’anarchia seguenti, l’islamismo politico è potuto tornare a operare alla luce del sole, con spazi di manovra di cui prima era privo. «I gruppi islamisti sono riusciti in breve tempo a raccogliere un ampio consenso all’interno delle minoranze etniche sunnite», in un Iraq a maggioranza sciita: «Il che ha portato, dalla caduta di Saddam in poi, all’affermazione di governi guidati da forze politiche sciite, quale quello del presidente Al-Maliki».A partire dal 2011, questo quadro si è incrociato con lo scenario della guerra civile siriana, con in primo piano le infami milizie dell’Isis, un “mostro” «che cresce e si sviluppa grazie al supporto economico, diplomatico e militare di Washington», espandendosi a macchia d’olio in Iraq, «dove si guadagna un consistente supporto tra la popolazione sunnita e inizia una guerriglia contro il governo del presidente Al-Maliki». L’Isis, insiste Maggioni, è funzionale agli interessi americani anche in Iraq: dopo la caduta del sunnita Saddam, il paese si è avvicinato ai correligionari dell’Iran e di conseguenza anche alla Siria, alleato storico di Teheran, «creando negli Usa il timore di perdere la propria influenza sul paese». Basta osservare una cartina geografica per capire che si verrebbe a creare in questo modo un asse sciita filo-iraniano che si estenderebbe con continuità territoriale nel cuore del Medio Oriente, da Teheran fino agli Hezbollah libanesi alle porte di Israele. «Questo scenario è ovviamente inaccettabile per la Casa Bianca».Avendo come obiettivo della sua “guerra santa” l’Iran e gli sciiti, l’Isis fa dunque il gioco degli Usa. E Washington, prosegue Maggioni, vorrebbe rendere controllabile l’Iraq balcanizzandolo in tre aree (sunnita, sciita e curda), come apertamente auspicato dal vicepresidente americano Joe Biden. «Per questo l’Isis è stato lasciato agire fino a mettere alle strette il governo di Al-Maliki». Con la scusa dell’avanzata del Califfato, gli americani hanno potuto rientrare militarmente in Iraq, rimettendo in equilibrio il governo di Baghdad e lo “Stato Islamico”. «Un intervento volutamente tardivo, che se ne ha fermato l’avanzata ha permesso al Califfato di consolidare le posizioni già conquistate». Poi, approfittando del drammatico genocidio delle minoranze da parte del Califfato, gli Usa hanno cominciato a rifornire di armi i curdi Peshmerga, alleati degli americani durante l’invasione del 2003 e animati da intenti secessionisti. «La scelta di bypassare il governo iracheno e fornire armi direttamente ai curdi non è casuale, ma ha lo scopo di creare nella regione una forza armata filoamericana e separatista nei confronti di Baghdad, indebolendo ancora di più la posizione del governo centrale iracheno».Il risultato di tutto ciò, conclude Maggioni, è un Iraq sostanzialmente diviso in tre parti: una frazione sciita, debole e alla mercé degli aiuti militari americani, una regione curda che vada a costituire una sorta di “gendarme” americano locale, e poi il Califfato islamico, «formalmente avversato da Washington ma in realtà tollerato», dal momento che «continua la sua guerra regionale contro due Stati sgraditi agli Usa», cioè Siria e Iran, «facendo il lavoro sporco al posto degli americani». I “bravi ragazzi” dell’Isis potranno funzionare da alibi per consentire agli Usa di intervenire militarmente anche in Siria, dove un anno fa furono fermati dall’opposizione russo-cinese. Intanto, per bocca del proprio leader, il califfo Al-Baghdadi, l’Isis ha già indicato la Cina come “Stato nemico dell’Islam”, promettendo in un prossimo futuro di fornire aiuto ai gruppi islamisti Uighuri dello Xinjiang. «Casualmente – chiosa Maggioni – il principale avversario geopolitico degli Usa rientra tra gli obiettivi degli islamisti», che tra parentesi «durante tutto il periodo dei bombardamenti a Gaza non hanno detto una sola parola contro Israele». Miracoli della geopolitica, sotto il regno di “Barack Osama”.La drammatica e apparentemente inarrestabile ascesa dell’Isis ha riportato l’attenzione mediatica sul martoriato Iraq, caduto nel dimenticatoio dopo il ritiro delle truppe americane. I mezzi di informazione sono prodighi di informazioni nel descrivere le atrocità del Califfato, ma reticenti nel raccontare chi siano i suoi membri e quale sia la sua origine. Lo Stato Islamico di Iraq e Siria (questo il nome completo) non è una forza apparsa improvvisamente dal nulla, ma il figlio diretto delle politiche dell’imperialismo americano in Medio Oriente che ha le sue radici nel conflitto siriano e nel caos dell’Iraq post-Saddam, ricorda Riccardo Maggioni, secondo cui per capire meglio qual è il ruolo dell’Isis occorre fare un salto indietro di almeno trent’anni, dal momento che l’islamismo politico «è l’alleato oggettivo dell’imperialismo americano nel Medio Oriente» a partire dai lontani anni ‘80, quand’era il pretesto perfetto per consentire agli Usa di intervenire per aiutare i “buoni” e punire i “cattivi”.
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11 Settembre: da allora solo guerra, senza mai verità
Sembra un’estate di mille anni fa, ma era solo quella del 2001: il boom mondiale annunciato da Internet, l’economia occidentale in piena euforia, la sbalorditiva rivoluzione digitale, l’allegria stravagante con cui fu accolto l’avvento dell’euro. Della guerra c’erano solo echi lontani: la tormentata Somalia, la tormentata Cecenia, la tormentata Yugoslavia. Tre conflitti devastanti, presentati come remoti, quasi esotici, in ogni caso barbarici e pressoché inspiegabili. Sui giornali aveva ancora voce in capitolo il vecchio Gorbaciov, che predicava la necessità di una nuova governance mondiale dopo l’equilibrio atomico della guerra fredda. L’evento dell’estate 2001 era soprattutto Genova, il contro-G8 del Social Forum, la protesta – piena di energia positiva – contro la globalizzazione selvaggia, ultima frontiera della sinistra sociale, pronta a battersi per i diritti dell’umanità, dando per scontato che nessuno avrebbe mai messo in pericolo i diritti del welfare europeo. A Genova sappiamo come finì, ma era solo l’antipasto. Le Torri Gemelle in fiamme mostrarono che stava cominciando un nuovo film.Afghanistan e Iraq, le inesistenti armi di Saddam, poi ancora il Golfo, quindi Obama e dunque la cosiddetta primavera araba, dalla Tunisia all’Egitto, a seguire la Libia e la Siria, con gli spaventosi intermezzi del genocidio a rate di Gaza. Ora siamo al Califfato islamico e all’offensiva finale contro la Russia in Ucraina. Di mezzo c’è stato il collasso finanziario di Wall Street fatto pagare al contribuente comune, il temuto declino degli Usa e l’ascesa dei Brics, il crollo dell’Europa, il profilarsi dello scontro epocale con la potenza cinese. I media mainstream si rifiutano di vedere e di raccontare, continuano a limitarsi alla cronaca, non collegano gli eventi, non spiegano, omettono dettagli rilevanti e decisivi, talora mentono spudoratamente. Fotografia: lo staff della Casa Bianca che fissa un monitor (non inquadrato) nel quale si racconta che venisse trasmesso, in diretta, il blitz per catturare (anzi, uccidere) Osama Bin Laden, poi inabissato nell’Oceano Indiano, “con rito islamico”, dal ponte di una portaerei. Morto Saddam, morto Gheddafi, morto Milosevic. Una storia senza testimoni, senza prove, senza sopravvissuti.La vicenda infinita dell’11 Settembre ha dato luogo a una polemica irrisolta tra colpevolisti e innocentisti, complottisti e negazionisti. Film e libri, interviste, documenti, contraddizioni. Unica certezza: il governo degli Stati Uniti mentì a tutto il mondo, la versione ufficiale fa acqua da tutte la parti. Uscirono i file di Wikileaks, a smentire tante verità di comodo. Poi Snowden, con lo scandalo dello spionaggio Nsa. Un veterano dell’agenzia, Wayne Madsen, disse che proprio la Nsa aveva pianificato nei minini dettagli la mattanza di Genova del 2001. Le cose, semplicemente, “dovevano” andare in quel modo, perché l’establishment temeva sopra ogni cosa le contestazioni dei no-global contro gli abusi delle multinazionali e dei colossi finanziari. Oggi siamo a un passo dalla Terza Guerra Mondiale, i paesi dell’Eurozona senza più lavoro né diritti stanno per regredire all’epoca pre-industriale e l’America impone i trattati-capestro come il Ttip scritti materialmente dalle multinazionali, mentre in Medio Oriente spadroneggia l’Isis armato dalla Cia, la Nato minaccia di entrare in rotta di collisione coi russi in Ucraina e il Giappone sfida la Cina nel Pacifico. I cittadini? Tutti su Facebook: nel giorno dell’anniversario, riguardano lo spettacolo delle Torri fumanti. Anziché verità, è arrivata solo guerra.Sembra un’estate di mille anni fa, ma era solo quella del 2001: il boom mondiale annunciato da Internet, l’economia occidentale in piena euforia, la sbalorditiva rivoluzione digitale, l’allegria stravagante con cui fu accolto l’avvento dell’euro. Della guerra c’erano solo echi lontani: la tormentata Somalia, la tormentata Cecenia, la tormentata Yugoslavia. Tre conflitti devastanti, presentati come remoti, quasi esotici, in ogni caso barbarici e pressoché inspiegabili. Sui giornali aveva ancora voce in capitolo il vecchio Gorbaciov, che predicava la necessità di una nuova governance mondiale dopo l’equilibrio atomico della guerra fredda. L’evento dell’estate 2001 era soprattutto Genova, il contro-G8 del Social Forum, la protesta – piena di energia positiva – contro la globalizzazione selvaggia, ultima frontiera della sinistra sociale, pronta a battersi per i diritti dell’umanità, dando per scontato che nessuno avrebbe mai messo in pericolo i diritti del welfare europeo. A Genova sappiamo come finì, ma era solo l’antipasto. Le Torri Gemelle in fiamme mostrarono che stava cominciando un nuovo film.
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Isis, corsari per la grande guerra Usa: ditelo, alla sinistra
Chi erano i corsari? Mercenari del mare, incaricati di colpire gli avversari della potenza che li aveva ingaggiati: di fatto, a loro toccava il lavoro sporco. Dunque, come definire altrimenti l’attuale Isis, armato dagli Usa attraverso l’Arabia Saudita? Già negli anni ‘80, scrive “Piotr” su “Megachip”, la Rand Corporation aveva previsto che guerre future sarebbero state combattute, sul terreno, da “entità sub-statali”. Cui prodest: «Cosa c’è di meglio per gli Usa che installare nel centro nevralgico dell’Eurasia (già oggetto degli incubi e dei desideri del “veggente” consigliere di Carter per la sicurezza, Zbigniew Brzezinski) uno Stato-non-Stato, uno Stato-zombie, un essere-non-essere, un’organizzazione territoriale che al riparo della sua bandiera nera pirata può minacciare di azioni raccapriccianti tutti gli stati vicini, a partire da Siria, Russia, Iran, Cina, repubbliche centroasiatiche e poi lungo il corridoio che tramite il Pakistan penetra in India e che attraverso lo Xinjiang Uyghur prende alle spalle la Cina? Difficile pensare a un’arma non convenzionale migliore».L’Isis è «un temibile cuneo piazzato nel bel mezzo dell’Organizzazione di Shanghai», nonché una minaccia verso l’Europa, nel caso il vecchio continente «si mostrasse troppo recalcitrante al progetto neoimperiale statunitense, con annessi e connessi tipo il rapinoso Ttip». Il momento è adesso: l’economia occidentale è in declino, mentre i Brics non hanno ancora le capacità militari per reagire. Scrupoli, da parte di Washington? Escluso: «Il regista Oliver Stone e lo storico Peter Kuznick con molto acume hanno fatto notare che con Hiroshima e Nagasaki gli Usa non solo volevano dimostrare al mondo di essere superpotenti, ma anche – cosa ancor più preoccupante – che non avrebbero avuto alcuno scrupolo nella difesa dei propri interessi: erano pronti a incenerire in massa uomini, donne e bambini». Oggi tocca a libici, siriani, iracheni. Certo, «in Occidente questa strategia rimane incomprensibile ai più», anche se già negli ‘80 alcuni studiosi avevano fatto notare «le connessioni tra crisi sistemica, reaganomics, finanziarizzazione, conflitti geopolitici e la ripresa d’iniziativa neoimperiale degli Usa dopo la sconfitta in Vietnam».All’appello manca, drammaticamente, la sinistra: quella che si era battuta contro il Vietnam, contro le guerre imperiali di Bush e contro la globalizzazione selvaggia, e ora lascia che sia il Papa a parlare di “Terza Guerra Mondiale a zone”, iniziata di fatto con l’attentato alle Torri Gemelle dell’11 Settembre. Il movimento no-global era sulla strada giusta, eppure – annota l’analista di “Megachip” – è bastata la crisi finanziaria e «l’elezione santificata» di Obama per accecare milioni di individui, divenuti «passivi o incoscienti della nuova politica imperiale». Tutto “merito” della disinformazione mediatica: Goebbels ha fatto scuola. «Il trucco c’è, si vede benissimo, ma non gliene frega niente a nessuno», sentenzia una vignetta di Altan. Tutti lo vedevano: «La “guerra al terrorismo” non sconfiggeva alcun terrorismo», ma «in compenso distruggeva stati, prima l’Afghanistan poi l’Iraq». E il terrorismo? «Entrava “in sonno” e si rifaceva vivo con alcune necessarie dimostrazioni di esistenza a Madrid e a Londra, nel cuore dell’Europa». Avvertimenti.«Con Obama, gli obiettivi e la strategia si sono progressivamente chiariti», sostiene “Piotr”. «Una volta riorganizzato e potenziato l’esercito corsaro, scattava la nuova offensiva che ha avuto due preludi: il discorso di Obama all’Università del Cairo nel 2009 e le “primavere arabe” iniziate l’anno seguente». Attenzione: «In entrambi i casi, la sinistra ha sfoggiato una strabiliante capacità di non capire nulla. Avendo ormai scisso completamente l’anticapitalismo dall’antimperialismo, la maggior parte del “popolo di sinistra” si faceva avviluppare dalla melassa della coppia buonismo-diritti umanitari (inutile ricordare i campioni italiani di questa pasticceria), elevando ogni bla-bla a concetto e poi a Verbo. Obama dixit. Che bello! Che differenza tra Obama e quel guerrafondaio antimusulmano di Bush! Avete sentito cosa ha detto al Cairo? Nemmeno il più pallido sospetto che l’impero stesse esponendo la nuova dottrina di alleanza con l’Islam politico (alleanza che ha il centro logistico, finanziario e organizzativo nell’Arabia Saudita, il partner più fedele e di più lunga data degli Usa in Medio Oriente)». Peggio ancora con le “primavere arabe”: «Nemmeno a bombardamenti sulla Libia già iniziati la sinistra ha avuto il buon senso di rivedere il proprio entusiasmo per quelle “rivolte”».«Disaccoppiare il capitalismo dall’imperialismo è come pretendere di dissociare l’idrogeno dall’ossigeno e avere ancora acqua», continua “Megachip”. «Si è giunti al punto che un capo di stato maggiore statunitense, il generale Wesley Clark, rivela che Libia e Siria erano già nel 2001 nella lista di obiettivi selezionati dal Pentagono». Ma niente paura: i «sedicenti marxisti» continuino ancora a credere alla fiaba delle “rivolte popolari”. E’ così che, all’alba della Terza Guerra Mondiale, la sinistra «ci arriva totalmente disattrezzata, teoricamente, politicamente e ideologicamente», ancora peggio del “popolo di destra” perché, spesso, apertamente schierata coi guerrafondai. Unico «sprazzo di sereno», nell’estate 2014, l’opposizione di M5S e Sel all’invio di armi ai curdi, per una guerra in cui – come avverte Emergency – a pagare saranno al 90% i civili. E il gioco è più sporco che mai: «Il senatore John McCain, in apparenza battitore libero ma nella realtà executive plenipotenziario della politica di caos terroristico di Obama, si è messo d’accordo sia coi leader del governo regionale curdo in Iraq sia con il Califfo dell’Isis, Abu Bakr al-Baghdadi, già Abu Du’a, già Ibrahim al-Badri, uno dei cinque terroristi più ricercati dagli Stati Uniti con una taglia di 10 milioni di dollari».«Così come Mussolini aveva bisogno di un migliaio di morti da gettare sul tavolo delle trattative di pace – conclude “Megachip” – gli Usa, l’Isis e i boss curdo-iracheni hanno bisogno di qualche migliaio di morti (civili) da gettare sul palcoscenico della tragedia mediorientale, per portare a termine la tripartizione dell’Iraq e lo scippo delle zone nordorientali della Siria (altro che Siria e Usa uniti contro i terroristi, come scrivono cialtroni superficiali e pennivendoli di regime). Il tutto a beneficio del realismo dello spettacolo». Nel lontano 1979, Brzezinski aveva capito e scritto che il futuro problema degli Stati Uniti era l’Eurasia e che quindi occorreva balcanizzarla, in particolare la Russia e la Cina. All’inizio del secolo scorso, in piena egemonia mondiale dell’impero britannico, il geografo inglese Halford Mackinder scriveva: «Chi controlla l’Est Europa comanda l’Heartland, chi controlla l’Heartland comanda l’Isola-Mondo, chi controlla l’Isola-Mondo comanda il mondo». L’indefesso girovagare di McCain tra Ucraina e Medio Oriente non è dunque un caso. Ciò che è cambiato, chiosa “Piotr”, è che «gli Usa hanno capito che non è necessario che siano le proprie truppe a fare tutto il lavoro sporco». Bastano a avanzano i nuovi corsari.Chi erano i corsari? Mercenari del mare, incaricati di colpire gli avversari della potenza che li aveva ingaggiati: di fatto, a loro toccava il lavoro sporco. Dunque, come definire altrimenti l’attuale Isis, armato dagli Usa attraverso l’Arabia Saudita? Già negli anni ‘80, scrive “Piotr” su “Megachip”, la Rand Corporation aveva previsto che guerre future sarebbero state combattute, sul terreno, da “entità sub-statali”. Cui prodest: «Cosa c’è di meglio per gli Usa che installare nel centro nevralgico dell’Eurasia (già oggetto degli incubi e dei desideri del “veggente” consigliere di Carter per la sicurezza, Zbigniew Brzezinski) uno Stato-non-Stato, uno Stato-zombie, un essere-non-essere, un’organizzazione territoriale che al riparo della sua bandiera nera pirata può minacciare di azioni raccapriccianti tutti gli stati vicini, a partire da Siria, Russia, Iran, Cina, repubbliche centroasiatiche e poi lungo il corridoio che tramite il Pakistan penetra in India e che attraverso lo Xinjiang Uyghur prende alle spalle la Cina? Difficile pensare a un’arma non convenzionale migliore».
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In Ucraina, la guerra europea degli idioti pericolosi
Le menti geostrategiche di Usa e Ue avevano già convincentemente manifestato il loro livello di intelligenza e lungimiranza nelle campagne di pacificazione, stabilizzazione e democratizzazione di Iraq, Afghanistan, Libia, Egitto. In Siria mesi fa stavano per aiutare gli insorti jihadisti bombardando l’esercito siriano, e ora, costretti dai fatti, aiutano l’esercito siriano bombardando i jihadisti. Mentre le fabbriche licenziano e chiudono e l’economia comunitaria si contrae perfino in Germania, e mentre si avvicina un freddo inverno, le sullodate menti si lanciano in una campagna di sanzioni, dirette a parole contro la Russia, ma nei fatti contro le imprese, i lavoratori, i consumatori dell’Europa Occidentale. Penso alle ditte che, a seguito delle sanzioni, non possono più esportare verso il più grande paese del nostro continente, quindi vanno a gambe all’aria. Con le sanzioni in vigore ad oggi e con le contromisure russe, l’Italia rischia 800.000 posti di lavoro e, solo di esportazioni agroalimentari perde 200 milioni, cioè il 24%. L’Ue perderà circa 5 miliardi.Qual è il fine degli illuminati strateghi? Indurre Mosca a decurtarci i prodotti energetici per costringerci ad affidarci ai fornitori Usa, così da aumentare anche la nostra sudditanza politica verso Washington, e con un passaggio per forti rincari che si tradurranno in maggiori costi per riscaldarsi, per viaggiare, per fabbricare? Dopo che la loro geniale e felicissima guerra in Libia (voluta da Londra e Parigi, appoggiata da Washington, e a cui Berlusconi fu spinto a partecipare da Napolitano) ci ha privato di quella preziosa fonte alternativa, in cui avevamo investito molto, è logico che adesso puntino a privarci anche del fornitore russo, per metterci completamente in pugno a quello americano. Intanto – ripeto – è assodato che queste stupide sanzioni ci stanno facendo perdere punti di Pil e guadagnare punti di disoccupazione. Ma per distrarre l’opinione pubblica dai veri problemi, dalla depressione economica, da chi fa gli affari sulla pelle delle nazioni, da chi si mangia i diritti della gente – per distrarre gli europei dal problema dei conflitti oggettivi e interni di interessi all’Ue, tra paesi dominanti (Germania in testa) e paesi subalterni – si costruiscono conflitti esterni e nemici esterni, meglio se con connotazioni morali e ideologiche. E’ una costante storica.Non meno balorda è la motivazione delle sanzioni medesime. Le menti strategiche dei nostri leaders, dopo aver inglobato nella Nato e armato contro la Russia diversi paesi dell’area ex-sovietica, anche nel Caucaso e nella zona altaica, fino all’Afghanistan, ora vorrebbero estendere la Nato all’Ucraina, portando i loro missili a poche centinaia di chilometri da Mosca. E’ pensabile che Mosca accetti ciò senza combattere? Che accetti un accerchiamento che le arriva sotto casa? Quanto vogliamo tirare questa corda? Non è meglio, non è più sicuro, magari, creare uno Stato-cuscinetto nel Donbass, libero da armi strategiche? Non è meglio lasciare alla Russia le sue tre provincie storiche ed etniche, piuttosto che rischiare una guerra nucleare, o anche solo un ulteriore tracollo economico?Infatti, la Russia rivuole semplicemente indietro le sue tre provincie, che da secoli sono abitate in maggioranza da russi, e che Krushev, a tavolino, aveva passato amministrativamente all’Ucraina nel 1953, in un contesto che rendeva pressoché indifferente questo passaggio. E’ chiaro che i recenti rivolgimenti in Ucraina hanno cambiato le carte in tavola, che è emersa e si sta consolidando una forma di nazionalismo ucraino il quale, verso la minoranza russa, va dal non amichevole all’ostile, e che politicamente si estende dal liberismo capitalista al fascismo. Santa Julya Tymoshenko, celebrata leader filoeuropea ed eroina della democrazia di Kiev, è stata intercettata mentre diceva di voler eliminare i separatisti russi con le armi nucleari. Dopo questo, e dopo le stragi che sono state consumate, come si può onestamente pensare a una pacifica convivenza della minoranza russa con la maggioranza ucraina entro il medesimo Stato e sotto il medesimo governo?La divisione umana che si è aperta è incolmabile e insanabile; meglio prenderne atto, e tracciare un confine che metta fine alla guerra e alle carneficine, prima che prenda corpo il fenomeno che già è iniziato, ossia dei volontari stranieri, perlopiù di estrema destra, che vanno a combattere in Ucraina contro i comunisti russi, e che, a differenza dei soldati ucraini, non si fanno scrupolo di sparare anche sui civili, identificandoli come nemico etno-ideologico. Si aggiungono i mercenari e i contractors occidentali, i mercenari delle multinazionali Usa che supportano Kiev, assieme a neonazisti svedesi. Combattenti francesi, americani, serbi, polacchi, israeliani, britannici, etc., già versano il loro sangue, perlopiù per motivi ideali, soprattutto a difesa dei russi. Hanno formato una brigata sotto il nome “United Continent”. Stanno così risvegliandosi gli odii atavici e tradizionali del Vecchio Continente, complicati, oltre che dalla stupidità dei vari fanatismi, dalla contrapposizione ideologica e dalla valenza di lotta paneuropea contro l’invadente presenza del capitalismo americano.Una deriva, questa, di cui i cauti media non ci informano, ma che è ovviamente assai pericolosa, che tende a coinvolgere altri paesi e a far evolvere un conflitto etnico locale in qualcosa di incomparabilmente peggiore e che può portare all’uso di armi nucleari in Europa, quindi a conseguenze mortifere o persino peggio che mortifere anche per noi dell’Europa occidentale. La guerra di Ucraina è già adesso una guerra europea. Assomiglia alla guerra civile spagnola. Ma a differenza di quella, tocca direttamente una superpotenza nucleare. Perciò ripeto: basta sanzioni idiote contro la Russia, tracciare un confine per separare le opposte forze armate, porre fine alla guerra, lasciare alla Russia ciò che è della Russia, e prendersi pure il resto. Ma senza piazzarci armi strategiche.(Marco Della Luna, “Ucraina, la guerra europea degli idioti pericolosi”, dal blog di Della Luna del 1° settembre 2014).Le menti geostrategiche di Usa e Ue avevano già convincentemente manifestato il loro livello di intelligenza e lungimiranza nelle campagne di pacificazione, stabilizzazione e democratizzazione di Iraq, Afghanistan, Libia, Egitto. In Siria mesi fa stavano per aiutare gli insorti jihadisti bombardando l’esercito siriano, e ora, costretti dai fatti, aiutano l’esercito siriano bombardando i jihadisti. Mentre le fabbriche licenziano e chiudono e l’economia comunitaria si contrae perfino in Germania, e mentre si avvicina un freddo inverno, le sullodate menti si lanciano in una campagna di sanzioni, dirette a parole contro la Russia, ma nei fatti contro le imprese, i lavoratori, i consumatori dell’Europa Occidentale. Penso alle ditte che, a seguito delle sanzioni, non possono più esportare verso il più grande paese del nostro continente, quindi vanno a gambe all’aria. Con le sanzioni in vigore ad oggi e con le contromisure russe, l’Italia rischia 800.000 posti di lavoro e, solo di esportazioni agroalimentari perde 200 milioni, cioè il 24%. L’Ue perderà circa 5 miliardi.
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Smith: un nuovo 11 Settembre firmato Isis, cioè Cia
L’Isis è una creatura dell’Occidente al 100%: perché non aspettarsi che siano proprio gli “alleati coperti” del Califfato Islamico a firmare l’eventuale prossimo replay dell’11 Settembre? Se lo domanda Brandon Smith, in una lucida analisi nella quale mette a fuoco la storia recente e recentissima. «Il terrorismo “false flag” architettato dai governi è un fatto storico accertato: per secoli, le élite politiche e finanziarie hanno affondato navi, incendiato edifici, assassinato diplomatici, rimosso leader eletti e fatto saltare la gente per aria, per poi incolpare di questi disastri un conveniente capro espiatorio, così da generare paura nel pubblico e acquisire più potere». Gli scettici potranno discutere se una qualche specifica calamità sia stata o meno un evento terroristico “sotto falsa bandiera”, ma nessuno può negare che queste tattiche, in passato, siano state usate puntualmente, in tutto l’Occidente. «I governi hanno ammesso apertamente di creare tragedie sanguinarie e catalizzatrici con falsi pretesti, come l’Operazione Gladio, un programma false-flag in Europa, supportato dai servizi segreti europei e americani, che durò per decenni, dagli anni ’50 ai ’90».
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Cabras: siam pronti anche noi alla macelleria della guerra?
Perché mai, domanda il giornalista, avete deciso di far sfilare i prigionieri di guerra? «E’ stata Kiev a dire che avrebbero marciato in parata a Donetsk il giorno 24. E così han fatto». Questa la terribile ironia che i difensori russofoni del Donbass aggredito dall’esercito ucraino esibiscono dopo aver respinto l’attacco. Avvertono: nessuna illusione sui cosiddetti dispersi dell’esercito regolare. «Le famiglie ricevono lettere che li dichiarano “dispersi in azione”. In realtà sono morti. Le autorità di Kiev lo fanno apposta. Centinaia e migliaia di morti in qualche decina di tombe». Il comandante russofono lo annuncia ufficialmente: «Ognuno sappia che se hai ricevuto una lettera che lo definisce “disperso in azione”, allora molto probabilmente tuo marito, fratello o figlio è stato ucciso». Il video è proposto da “Pandora Tv”, che presenta anche l’intera conferenza stampa del presidente del Donbass, Aleksandr Zakharchenko, tenutasi il 24 agosto nel pieno della controffensiva delle milizie ribelli, che hanno sbaragliato le meglio armate e più numerose forze del governo di Kiev.«Sarà l’Ucraina, sarà il richiamo bellico dell’anno quattordici, sarà che ormai le dichiarazioni di molti politici europei già annunciano la carneficina all’orizzonte», moltiplicando ogni giorno le nuove evocazioni di una guerra mondiale, ma intanto «cresce per molti una sensazione di pericolo», scrive Pino Cabras su “Megachip”. «Evocare è facile, ma essere davvero pronti all’anticamera dell’Apocalisse è un’altra cosa». Chi è davvero pronto per la guerra? Certo non i popoli europei: «Vivono in una bolla televisiva che fa loro sperare di essere ancora a lungo i consumatori che sono stati negli ultimi decenni. La cuccagna non è stata ancora smontata, perciò il ricordo dell’ultima guerra mondiale rimane annacquato. Gli europei medi – continua Cabras – non riescono più a immaginare la guerra come catastrofe. I telegiornali e i grandi quotidiani li ammaestrano all’isteria bellica, alla propaganda più sfacciata, alla russofobia, questo sì. Ma occultano l’idea che la distruzione possa entrare nelle loro case o sommergere intere coorti dei loro figli».Il peggio è che «nessun europeo medio ha saputo cosa è accaduto in Ucraina negli ultimi sei mesi, dal golpe in poi. Tanto meno sa cosa c’era prima. Né sa che il governo di Kiev ha martoriato la popolazione civile delle regioni orientali». L’europeo medio «ignora gli interessi predatori di quei capitalisti mafiosi che vorrebbero svuotare quelle regioni dei loro abitanti russofoni», non sa che «le forze di sicurezza ucraine sono in mano ad avventurieri imbevuti di ideologie naziste». E naturalmente «non sa nulla della Russia, non sa nulla di nulla: e si ritroverà nella guerra vasta che annuncia il neopresidente polacco del Consiglio Europeo, Donald Tusk (un burattino atlantista), e peggio di lui il ministro della difesa ucraino Gheletei, senza sapere ancora nulla». Certamente a scalpitare è Tusk, il regime dell’Ue è al guinzaglio di Washington, lo stesso Cameron sembra avere il dito sul grilletto. La Nato sembra abbozzare una frenata – su richiesta della Merkel, cioè dell’export tedesco danneggiato dalle sanzioni contro Mosca – ma intanto prepara una forza di pronto intervento per l’Est. In teoria, era pronta alla guerra anche la giunta golpista di Kiev, «ma in modo totalmente irresponsabile, con una tragica incapacità di valutare gli interessi dei russi e – di questi – la determinazione (cioè una prontezza reale) a pagare e infliggere il prezzo di una guerra vera».Quel che accade ora in Ucraina, dice Cabras, misura le reali dimensioni di queste diverse “prontezze”. Da un lato i popoli occidentali «anestetizzati dai loro media», popoli «che non hanno alcuna misura dei fatti», e in più il popolo ucraino «che si sorprende di dover subire una disfatta (in Italia si direbbe una Caporetto), come nel caso delle mamme e sorelle disperate che chiedono conto delle notizie di una brigata di 4.700 uomini, di cui sono tornati con le proprie gambe in appena 83». Queste famiglie «hanno appena riscoperto il concetto di “carne da cannone”», quello della Grande Guerra. «Sono le avanguardie delle mamme che ripeteranno la scena in tante altre lingue, anche da noi, nelle capitali in bancarotta dell’Europa ai comandi di Bruxelles e Francoforte». Dall’altro lato della barricata, ecco invece i militari del Donbass: «Colpisce la sicurezza e l’agghiacciante autorevolezza – in un dosaggio di gravitas e brutale ironia – con cui questi partigiani dei nostri giorni parlano di migliaia di vittime di guerra». La “gravitas” è quella che annuncia l’avvenuta strage dei militari mandati allo sbaraglio dagli aggressori incoraggiati dalla Nato. L’ironia è quella della sfilata dei prigionieri: a marciare (disarmati e sconfitti) il 24 agosto sono stati gli ucraini di Kiev, quelli che avevano annunciato con troppa fretta la conquista di Donesk, con tanto di parata dal sapore hitleriano.«Purtroppo, cari giornalisti, l’Occidente cerca di invaderci con una frequenza di 30-50 anni», dicono i resistenti dell’Est. «Ogni 30-50 anni la civiltà occidentale cerca di imporci la sua opinione e il suo modo di vivere. La Prima Guerra Mondiale, la Grande guerra patriottica, la guerra di Crimea prima ancora, e così via nelle profondità della storia. Come risultato, l’Occidente tradizionalmente ottiene la caduta di Berlino, di Parigi. L’Occidente arriva ogni 30-50 anni per ottenere ciò che si merita. Ora, nel 2014, sono un po’ in ritardo», ma il copione sembra lo stesso. Loro, sì, sono pronti alla guerra. Lo hanno dimostrato. E lo spiegano in modo chiarissimo: «Diremo a chiunque venga a farci del male sul nostro territorio: ci batteremo con le unghie e con i denti per la nostra patria. Kiev e l’Occidente hanno fatto un grosso sbaglio a risvegliarci. Noi siamo gente laboriosa. Mentre altri saltavano a Maidan per 300 grivne, la nostra gente era giù in miniera a estrarre carbone, a fondere metallo e a seminare le colture. Nessuno di noi ha avuto il tempo di saltare, eravamo impegnati a lavorare». Poi, quando li hanno presi a cannonate, si sono ribellati.«Quando un tizio che appena ieri lavorava con un martello pneumatico o guidava una mietitrebbia, oggi si trova alla guida di un carro armato o di un Grad, o a raccogliere un mitra, la linea è stata passata e non lo potete più fermare», dicono i militari dell’Est. «Quello che ha dovuto lasciare il proprio lavoro sa che combatterà fino alla fine e fino al suo ultimo respiro». E l’Occidente è pronto è combattere “fino all’ultimo respiro”? Certo non lo è la nuova Lady Pesc, Federica Mogherini, che si abbandona a dichiarazioni desolanti, del tipo: «Se non esiste più un partenariato strategico è per scelta di Mosca». Ovvero: nessuna autocritica ai piani alti dell’Ovest. «Ecco, Mogherini non è pronta», scrive Cabras. «Fa interamente sua tutta l’eredità della Nato e della Ue in questi anni di crisi internazionali, destabilizzazioni, aggressioni ed escalation: cioè un bilancio disastroso e criminale, dall’Iraq all’Afghanistan al dossier libico, alla Siria, e ora all’Ucraina».Il bilancio occidentale di questi anni? «Un caos funesto interamente imputabile alla lunga “guerra infinita” scatenata dalle capitali dell’atlantismo», subito dopo l’opaco super-attentato dell’11 Settembre. Lo stesso Cabras ricorda che, all’indomani della guerra-lampo nell’Ossezia del Sud attaccata dall’esercito georgiano armato da Bush e poi travolto dai russi, nel 2008 il “Times” ricordava le parole di Lord Salisbury, ministro degli esteri e primo ministro ai tempi dell’Impero Britannico», un uomo che «irradiò un potere globale immenso». Di fronte a proposte pericolose, in cui Londra minacciava seriamente altri paesi, Salisbury avrebbe guardato i suoi colleghi negli occhi, chiedendo semplicemente: «Siete davvero pronti a combattere? Altrimenti, non imbarcatevi in questa politica».Già: siete davvero pronti a combattere? «E’ la domanda giusta, quella che non vi hanno ancora fatto», osserva Cabras. «Nell’Europa politicamente desertificata dall’obbedienza alla Nato si continua ad agire come se la Russia fosse ancora oggi lo Stato esausto degli anni novanta, su cui si muoveva etilicamente Boris Eltsin e sul cui collo si stringeva il capestro del Fondo Monetario Internazionale. La situazione è completamente diversa, eppure si va lo stesso allo scontro. O si va proprio per questo, nel momento in cui i Brics picconano il Dollar Standard. E gli Usa non possono accettare un mondo multipolare in cui il dollaro non sia l’architrave». Allora, siamo pronti a combattere? La risposta la anticipano – a distanza – i comandanti militari dell’Est ucraino, che a questa guerra hanno già preso le misure. «Potete dirlo in giro: non svegliate la bestia», raccomandano. «Non fatelo, davvero. Finché c’è ancora la possibilità, lasciate che le madri risparmino i propri figli».Perché mai, domanda il giornalista, avete deciso di far sfilare i prigionieri di guerra? «E’ stata Kiev a dire che avrebbero marciato in parata a Donetsk il giorno 24. E così han fatto». Questa la terribile ironia che i difensori russofoni del Donbass aggredito dall’esercito ucraino esibiscono dopo aver respinto l’attacco. Avvertono: nessuna illusione sui cosiddetti dispersi dell’esercito regolare. «Le famiglie ricevono lettere che li dichiarano “dispersi in azione”. In realtà sono morti. Le autorità di Kiev lo fanno apposta. Centinaia e migliaia di morti in qualche decina di tombe». Il comandante russofono lo annuncia ufficialmente: «Ognuno sappia che se hai ricevuto una lettera che lo definisce “disperso in azione”, allora molto probabilmente tuo marito, fratello o figlio è stato ucciso». Il video è proposto da “Pandora Tv”, che presenta anche l’intera conferenza stampa del presidente del Donbass, Aleksandr Zakharchenko, tenutasi il 24 agosto nel pieno della controffensiva delle milizie ribelli, che hanno sbaragliato le meglio armate e più numerose forze del governo di Kiev.
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Benvenuti nel Grande Caos, quello che ci farà a pezzi
I tempi in cui ci tocca di vivere stanno diventando cupi e tetri. Pur senza concedere nulla al pessimismo della ragione, sentire un pontefice evocare la Terza Guerra Mondiale, il segretario della Nato non escluderla come scenario, e importanti giornali proporci quotidianamente una mappa dei conflitti che incendiano le regioni strategiche del mondo in cui viviamo, non è certo rassicurante. Soprattutto perchè la realtà incasella e aggiunge giorno dopo giorno le conferme che la pallina collocata sul piano inclinato continua a scivolare pericolosamente. Accelerando. Ma le guerre non sono una fatalità. Possono esplodere quando un incidente accelera i processi storici; ma si verificano perchè ci sono forze materiali che hanno spinto i processi verso la rottura, lo scontro, il “clash tra le potenze”, come scrissero in un ottimo libro Petras, Casadio e Vasapollo. La cosa che colpisce – che deve colpire anche gli ottusi “di sinistra” – è che il novanta per cento dei focolai di conflitto circonda l’Europa come un cerchio di fuoco.L’ovest appare pacifico solo perchè confina con l’Atlantico, un oceano che divide l’Europa dagli Stati Uniti, ovvero la sponda da cui arrivano le spinte più forti a coinvolgere l’Europa verso il “clash”. La linea intrapresa dai governi dell’Unione Europea sulla crisi e il conflitto in Ucraina è emblematica. Gli Usa spingono i paesi europei verso il conflitto con il più grande e armato di essi: la Russia. Il prossimo vertice Nato a Newport appare foriero di pessime decisioni che accentueranno e non depotenziaranno i pericoli di guerra sulla frontiera est. Resistenze e dubbi, se ancora esistono, abitano menti silenziose. Ma a sud non va meglio. La destabilizzazione creativa (una categoria rassicurante per descrivere le guerre asimmetriche di aggressione scatenate dal 2001 a oggi), ha creato una fascia di instabilità belligerante nella vicina Libia e in Iraq, Siria, Palestina ed Egitto dove, tra Gaza e Sinai, la normalizzazione militare imposta dal generale Al Sisi – diventato beniamino delle cancellerie occidentali – riesce a malapena a comprimere il fuoco sotto le braci.Insomma, la sponda sud dell’Europa è l’area di instabilità e guerra più infuocata del globo. Oggi appare evidente come nessuna delle potenze in campo abbia chiaro quali siano le prospettive, se non quella di ripetuti bagni di sangue e instabilità da gestire a distanza, attraverso la logica del bombardamento con i droni quando gli effetti rischiano di tracimare, mettendo in discussione parametri vitali come le forniture energetiche, idriche, o gli equilibri geopolitici. I ripetuti cambi di campo e di alleanze appaiono molto più che inevitabili cinismi della governance. Il doppio e triplo gioco di Stati Uniti e potenze europee ha entusiasmato e coinvolto anche altri soggetti, come le petromonarchie del Golfo o la Turchia, che usano gli ingenti introiti che vengono dalle rendite petroliferi o dalle royalties sui diritti di passaggio per finanziare milizie in guerra tra loro. Una disamina delle ingerenze di petromonarchie come Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi, dalla Bosnia del ‘93 passando per la Cecenia, l’Afghanistan fino a Libia, Iraq, Libano, Siria, Palestina e Sudan, ci consegna uno scenario di guerra di tutti contro tutti e una brusca rimessa in discussione dei confini coloniali definiti dalle potenze europee alla fine della Prima Guerra Mondiale.In realtà questo assetto era già stato sconvlto dall’entrata in campo degli Stati Uniti in Medio Oriente, fin dal colpo di Stato del 1953 contro Mossadeq in Iran e poi lo stop imposto a Francia e Gran Bretagna nel 1956 a Suez. Da quel momento, il Medio Oriente è diventato terreno di caccia privilegiato di Washington; un’enclave in cui le potenze europee, Italia inclusa, potevano al massimo ritagliarsi interstizi per i propri limitati interessi (vedi la Libia). Ma gli ultimi anni, quelli in cui gli Stati Uniti hanno visualizzato e cercato di contrastare con ogni mezzo il proprio lento declino, hanno assestato un nuovo scossone all’assetto precedente. Via l’Iraq di Saddam, la Libia di Gheddafi, la Siria di Assad, ma anche la Palestina dell’Olp; sostituendoli con il caos e la balcanizzazione, abolendo gli Stati. Senza mai dimenticarsi la disintegrazione della Jugoslavia e della ex Urss. Altri territori “vergini” che hanno visto nascere a est di Berlino ben 30 Stati dove prima ve ne erano otto; e solo la metà di questi hanno più di dieci milioni di abitanti. Staterelli, dunque, poco più che “granducati”. Facili da piegare, minacciare, ricattare, eventualmente cancellare o sovvertire.Fino a un certo punto.Ecco, è questo “certo punto” che indica la soglia di crisi che si va raggiungendo. E non solo perchè oggi la Russia di Putin punta i piedi nel proprio “cortile di casa”, ma perchè somiglia, assai più che l’Urss, ai suoi competitori; e perchè tra i paesi a capitalismo di Stato (usiamo una forzatura per semplificare una realtà complessa come i Brics) e quelli a capitalismo mercantilista che caratterizzano Stati Uniti ed Unione Europea (cioè potenze più compiutamente imperialiste), non ci sono più i margini per spartirsi in modo concertato come in passato il mondo. Dunque se la concertazione e le camere di compensazione – per quanto asimmetriche, rispetto al Washington Consensus – non hanno più la materia per realizzarsi, il mondo diventa oggetto di competizione. E la competizione avviene con ogni mezzo. Il caos e l’instabilità nel cortile di casa degli altri possibili competitori diventano la condizione preliminare e necessaria, anche se mai sufficiente. Che tutto questo abbia un costo umano sempre più alto non pare essere un problema. Un capitalismo in crisi distrugge i capitali in eccesso, è noto. E per un sistema che punta solo alle risorse, alla sopravvivenza competitiva, anche il “capitale umano” – definito anche e non a caso “capitale variabile” – può diventare un eccesso da dover distruggere.(Sergio Cararo, “Il caos che sfugge di mano”, da “Contropiano” del 27 agosto 2014).I tempi in cui ci tocca di vivere stanno diventando cupi e tetri. Pur senza concedere nulla al pessimismo della ragione, sentire un pontefice evocare la Terza Guerra Mondiale, il segretario della Nato non escluderla come scenario, e importanti giornali proporci quotidianamente una mappa dei conflitti che incendiano le regioni strategiche del mondo in cui viviamo, non è certo rassicurante. Soprattutto perchè la realtà incasella e aggiunge giorno dopo giorno le conferme che la pallina collocata sul piano inclinato continua a scivolare pericolosamente. Accelerando. Ma le guerre non sono una fatalità. Possono esplodere quando un incidente accelera i processi storici; ma si verificano perchè ci sono forze materiali che hanno spinto i processi verso la rottura, lo scontro, il “clash tra le potenze”, come scrissero in un ottimo libro Petras, Casadio e Vasapollo. La cosa che colpisce – che deve colpire anche gli ottusi “di sinistra” – è che il novanta per cento dei focolai di conflitto circonda l’Europa come un cerchio di fuoco.
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Guerra: ma Pechino sarà pronta a morire per Mosca?
Gli Usa restano l’unica superpotenza imperiale, in una architettura a piramide, a carattere neofeudale, a cui gli altri Stati si associano, a vario rango, in condizione di vassallaggio. I grandi Stati vassalli avrebbero aree di influenza di loro pertinenza: alla Cina l’Asia orientale, alla Germania l’Europa, al Brasile il Sudamerica. Le nazioni che non volessero sottomettersi spontaneamente sarebbero affrontate con la forza. In questo schema, sembrerebbe naturale che la struttura neofeudale si riflettesse anche all’interno dei singoli Stati, con strutture sociali piramidali e con potere e grandi ricchezze detenute da piccole élite. «L’appello a tutti coloro che ritenessero un tale scenario almeno possibile, e non volessero ad esso assoggettarsi – scrive Simone Santini – è di considerare in questa fase la Russia come la terra di confine di un autentico scontro di civiltà». Quindi, si prospetta «una scelta di campo tra la civiltà umana e la civiltà della barbarie». Superfluo aggiungere che «si accettano scommesse sul rango di vassallaggio riservato all’Italia».Secondo l’analisi di Santini, pubblicata da “Megachip”, si è ormai diffusa la percezione (fuorviante, erronea) che l’ordine “imperiale” costituito dagli Stati Uniti dopo la caduta dell’Urss sia giunto sul viale del tramonto. Si esalta l’ascesa economica dei Brics, si cita la grande crisi finanziaria di Wall Street del 2007, si ricordano le defaillance militari americane in Afghanistan e in Iraq, seguite all’11 Settembre. «A questi fattori va aggiunto un panorama mondiale, specialmente negli ultimi anni, che sembra farsi sempre più caotico e privo di guida, con tensioni o addirittura guerre che si susseguono nelle cerniere fondamentali del pianeta». La rapidità dell’evoluzione in effetti «suggerisce la possibilità di un Impero allo sbando, in preda a una crisi sistemica senza uscita», ma non è detto che tutte le criticità possano determinare un esito univoco, avverte Santini. L’alternativa dei Brics è ancora «in fieri», la loro super-banca – alternativa a Fmi e Banca Mondiale – è una creatura neonata, ed non è scontato che nell’alleanza pesino ancora rivalità storiche, come quelle tra Cina e India, «su cui gli Usa potrebbero intervenire per determinarne la disgregazione».La crisi finanziaria, «originata dai limiti dello sviluppo del sistema capitalistico», con «mercati ormai saturi» e incapaci di garantire i maxi-profitti del passato, ha fatto volare la speculazione pura, la «finanza creativa» che genera denaro direttamente dal denaro, saltando l’economia reale: «Una enorme bolla di soldi virtuali che vale, a seconda delle stime, decine di volte il Pil mondiale», e che prima poi «scoppierà o verrà sgonfiata in qualche modo: vedremo chi ne pagherà il prezzo». Nel frattempo, però, questa immensa massa di denaro «può essere impiegata dai “Masters of Universe” per fare shopping tra i pezzi industriali pregiati dei sistemi economici in crisi (vedasi in Italia) o fare letteralmente incetta di terra coltivabile in Africa o America Latina». Di riflesso, la crisi è diventata «crisi dei debiti sovrani» nell’Europa che non è più “sovrana” della propria moneta. Se a soffrire sono innanzitutto i cosiddetti Piigs, lo scenario non è affatto sfavorevole agli Usa, perché – proprio grazie alla recessione dell’Eurozona – si sta staccando l’Europa dalla Russia.Il più grande successo di questa fase per l’Impero? «Scongiurare ogni tentazione di costituire un blocco europeo continentale, da Lisbona a Mosca, indipendente politicamente, autosufficiente dal punto di vista economico», scrive Santini. Un blocco «culturalmente e territorialmente coeso, avanzato tecnologicamente, armato nuclearmente, complessivamente il più ricco e dinamico del pianeta, più degli stessi Stati Uniti. Altro che Brics». Quanto alle non-vittorie militari americane in Iraq e Afghanistan, «sono tali solo se viste nell’ottica della classica conquista coloniale». Al contrario, diventano tappe-chiave della “geopolitica del caos”, «una metodologia imperiale più oscura e complessa», ma molto efficace, «propugnata da alcuni settori dell’establishment americano che hanno il loro pubblico rappresentante più noto in Zbigniew Brzezinski, già segretario di Stato durante la presidenza di Jimmy Carter e allora ideatore della “trappola afghana”». Una tecnica, che se ben condotta, è utile per «tenere divisi i popoli “barbari”» e «impedire la nascita di potenze regionali» che possano disturbare gli Usa.I focolai di crisi in Afghanistan, Iraq, Siria, Libia, Ucraina e Palestina potrebbero sembrare il sintomo di «un mondo in preda alla pazzia, senza più gendarmi in grado di imporre l’ordine», ma se invece «si ammette la possibilità, terribile e dunque da sottacere, di una regia di fondo», allora diventa lampante «un quadro complessivo lucido e atroce, in cui il destino dei popoli è giocato come su una “grande scacchiera”». Emblematico il caso ucraino, «attraverso cui gli Usa – continua Santini – stanno ottenendo il risultato storico di dividere in uno spazio temporale decisivo la Russia dal resto d’Europa, colpendo al contempo Mosca e Berlino, costringendo la Ue a votare sanzioni contro un possibile alleato strategico e contro i propri stessi interessi, contorcendosi e ripiegandosi su se stessa». Dove siamo diretti? Secondo Aldo Giannuli, gli Usa potrebbero arroccarsi sulla difensiva, sfruttando i vantaggi strategici che ancora detengono, oppure potrebbero “assorbire” l’Europa nel blocco commerciale euroatlantico protetto dalla Nato. O magari accettare un “nuovo ordine bipolare” con la Cina, persino aprendo a nuove potenze emergenti, in un Consiglio di Sicurezza dell’Onu riformato in base a un nuovo “ordine multipolare”. Davvero gli Usa lo accetterebbero?«È sorprendente – replica Santini – che il professor Giannuli non preveda, al di fuori di questi schemi, altri sbocchi che non siano “il progressivo degenerare verso un disordine mondiale sempre più caotico”. Ovvero, nemmeno prenda in considerazione la possibilità che l’attuale situazione si consolidi, mutatis mutandis, con gli Stati Uniti che rimangono l’unica superpotenza imperiale», ipotesi tutt’altro che da scartare. Al contrario, è la condizione «che ha maggiori probabilità di prosecuzione, almeno nel medio termine», perché «nessuna nazione appare in grado non solo di soppiantare, ma nemmeno di sfidare gli Stati Uniti con la forza». Per Santini, quella degli Usa non è affatto una “ritirata”, ma un’offensiva. In Medio Oriente, con possibilità di proiezione anche in Africa, Israele rimane l’unica vera potenza regionale, insieme all’Iran, mentre ad Est gli accadimenti ucraini accelerano «l’accerchiamento della Russia e il controllo sempre più stretto sull’Europa da parte americana». Cina e Russia «vedono sempre più comprimersi i rispettivi spazi di manovra». Per resistere, dovranno “compenetrarsi”: «Ma, davanti alle sfide che lancerà l’Impero, Mosca sarà pronta a morire per Pechino e Pechino sarà pronta a morire per Mosca?».Gli Usa restano l’unica superpotenza imperiale, in una architettura a piramide, a carattere neofeudale, a cui gli altri Stati si associano, a vario rango, in condizione di vassallaggio. I grandi Stati vassalli avrebbero aree di influenza di loro pertinenza: alla Cina l’Asia orientale, alla Germania l’Europa, al Brasile il Sudamerica. Le nazioni che non volessero sottomettersi spontaneamente sarebbero affrontate con la forza. In questo schema, sembrerebbe naturale che la struttura neofeudale si riflettesse anche all’interno dei singoli Stati, con strutture sociali piramidali e con potere e grandi ricchezze detenute da piccole élite. «L’appello a tutti coloro che ritenessero un tale scenario almeno possibile, e non volessero ad esso assoggettarsi – scrive Simone Santini – è di considerare in questa fase la Russia come la terra di confine di un autentico scontro di civiltà». Quindi, si prospetta «una scelta di campo tra la civiltà umana e la civiltà della barbarie». Superfluo aggiungere che «si accettano scommesse sul rango di vassallaggio riservato all’Italia».