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Energia, iniziata la grande corsa ai forzieri dell’Artico
Mentre molte riserve di gas e di petrolio in diverse aree del mondo stanno vivendo il loro rapido declino, si ritiene che l’Artico possegga enormi giacimenti ancora inesplorati. Secondo la “United States Geological Survey” (Indagine geologica degli Stati Uniti), circa il 13% delle riserve mondiali di petrolio e il 30% di quelle di gas ancora non sfruttate si trovano al di sopra del Circolo Polare Artico. Ansiosi di affondare le mani in quella fortuna, la Russia e i paesi artici confinanti – Canada, Norvegia, Stati Uniti, Islanda e Danimarca (quest’ultima in virtù della sua autorità sulla Groenlandia) – hanno spronato le compagnie energetiche a trivellare nell’area. Specialmente per la Russia – che recentemente ha preso il controllo di una nave di Greenpeace e ha denunciato trenta attivisti per assalto ad una sua piattaforma petrolifera – è molto forte la tentazione di sfruttare l’Oceano Artico.L’economia della Russia è fortemente dipendente dalle esportazioni di petrolio e gas, e il governo conta molto su queste vendite per il reddito nazionale. Fino a poco tempo fa, per soddisfare le loro esigenze energetiche, i russi potevano attingere dai giacimenti nella Siberia occidentale, ma ora, considerato il declino di molti di questi depositi, fanno molto affidamento alle riserve artiche per mantenere gli attuali livelli di produzione. «Il nostro compito principale è di rendere l’Artico la prima risorsa per la Russia del 21° secolo», dichiarò nel 2008 l’allora presidente Dmitrij Medvedev. I russi hanno esplorato le varie opzioni di trivellazione in diverse aree offshore dell’Artico. Nel Mare Pechora, a nord della Siberia nordoccidentale, il gigante dell’energia russo Gazprom ha installato la sua piattaforma Prirazlomnaya — proprio quella che gli attivisti di Greenpeace hanno preso d’assalto. Più a est, nel Mar Kara, il gruppo statale Rosneft sta collaborando con la Exxon Mobil per lo sviluppo di giacimenti molto promettenti.Rosneft si è anche associata alla Statoil norvegese e all’Eni Italiana per esplorare il potenziale di sfruttamento nel Mar di Barents. Ma è molto difficile che sia solo la Russia a tentare di aprire i forzieri dell’Artico. La Norvegia, come la Russia, trae gran parte delle sue entrate proprio dalle esportazioni di gas e petrolio, e punta molto sullo sfruttamento delle riserve del Mar di Barents per compensare la forte contrazione produttiva rilevata nei suoi giacimenti nei Mari del Nord e della Norvegia. Ci sono anche altre zone dell’Artico nel mirino di altri paesi: la Cairn Energy di Edimburgo ha appena aperto dei pozzi di esplorazione nelle acque a largo della Groenlandia, ad esempio, mentre la Royal Dutch Shell sta tentando l’esplorazione di campi a largo dell’Alaska.Nonostante tutte le sue promesse, l’Artico non cederà facilmente le sue ricchezze. In inverno, il ghiaccio copre costantemente le superfici marine e tempeste violente e frequenti sono un continuo pericolo. Il riscaldamento globale potrebbe, in qualche modo, contribuire a ridurre il ghiaccio nei periodi estivi e autunnali, permettendo così trivellazioni più prolungate, ma allo stesso tempo potrebbe causare condizioni meteorologiche inusuali e incontrollate ed altri pericoli correlati. Altro rischio che si aggiunge: molte delle linee di confine nella regione artica, sono ancora da demarcare e alcuni paesi artici hanno già minacciato di ricorrere alla forza militare nel caso in cui le compagnie energetiche occupino aree che considerate di loro sovranità.Le ardue sfide che l’Artico pone al suo sfruttamento hanno già intimorito la Shell, che ha speso 4,5 miliardi di $ per l’esplorazione offshore in Alaska, ma che ancora non è riuscita a trivellare un solo pozzo. Alcune di queste sfide sono perfettamente legali – comunità indigene e ambientalisti, nel timore di contaminazioni delle loro acque e danni alla natura, hanno già diffidato le compagnie dal trivellare. Inoltre, l’Artico in sé ha già dato prova di essere un avversario formidabile. Nell’estate del 2012, durante il primo tentativo della Royal Dutch Shell di sondare i depositi artici, le operazioni di trivellazione furono interrotte da venti battenti e placche di ghiaccio galleggianti. Diversi mesi dopo, quando una delle teste dei pozzi franò al suolo durante una violenta tempesta, la Shell annunciò che avrebbe sospeso le operazioni offshore in Alaska e che, prima di procedere ulteriormente, avrebbe rafforzato le proprie capacità operative nella zona.Le disavventure della Shell hanno anche consolidato il timore che trivellare nell’Artico ponga alla regione una minaccia considerevole. Nell’evento di una importante fuoriuscita petrolifera, il danno conseguente sarebbe molto più grave e distruttivo di quello causato nel Golfo del Messico dalla Deepwater Horizon nell’aprile 2010, sia per la mancanza di adeguate capacità di risposte operative, sia per la probabilità che il ghiaccio impedisca seriamente le operazione di bonifica. Mentre sempre più compagnie si spingeranno nell’Artico accelerando le loro attività esplorative, aumenteranno di conseguenza le probabilità di incidenti e fuoriuscite. Il fatto che la Shell – una delle compagnie petrolifere tecnologicamente più avanzate – si sia finora dimostrata incapace di superare questi rischi, accresce la preoccupazione che in quelle acque pericolose si trovino presto ad operare altre compagnie meno preparate ed efficienti.Cresce anche il rischio di conflitti sulla proprietà di territori contesi. Cinque paesi artici hanno già rivendicato diritti esclusivi di trivellazione su aree di confine rivendicate anche da altri paesi, mentre resta ancora controverso il controllo sulla regione polare in generale. In un’area «con un potenziale energetico che rappresenta un quarto delle riserve mondiali inesplorate di gas e petrolio», ha detto recentemente il ministro della difesa statunitense Chuck Hagel, «è prevedibile che l’ondata di interesse nell’esplorazione energetica nell’area possa aumentare le tensioni su altri argomenti controversi». Fino ad oggi nessuna di queste dispute ha provocato una risposta di tipo militare, e gli Stati artici si sono impegnati ad astenersi dal farlo in futuro. Tuttavia, quasi tutti i paesi artici hanno anche affermato il loro diritto di difesa dei propri territori offshore con la forza, e hanno anche preso le necessarie misure per rafforzarsi in questo senso. La Russia, ad esempio, ha recentemente annunciato dei programmi definiti “di infrastruttura militare di punta” nell’Artico.Niente, comunque, potrebbe scoraggiare altri paesi interessati. Considerando l’altissima richiesta mondiale di petrolio e l’incapacità dei pozzi esistenti di soddisfarla, le maggiori compagnie energetiche tenteranno ogni possibile strada per aumentare la produzione. E’ quindi essenziale che siano posti subito dei limiti chiari e rigorosi alle operazioni di trivellazione nell’Artico, in modo da ridurre le tensioni esistenti nell’area. Sono stati fatti dei progressi nell’ambito del Consiglio Artico, un foro di consultazione delle nazioni artiche. Ma resta ancora molto da risolvere. Un modo per stabilire formalmente delle regole precise potrebbe essere l’adozione di un Trattato Artico, sulla falsariga del Trattato Antartico del 1959. Come avvenne per quest’ultimo, un accordo siglato dai paesi artici stabilirebbe dei precisi confini marittimi e dei limiti alle attività militari. Potrebbe anche imporre delle regole ambientali e garantire un passaggio sicuro alle imbarcazioni civili che navigano sui mari artici. E infine, diciamolo: nessun gas e nessun petrolio potrà mai giustificare la distruzione della natura locale o una corsa agli armamenti nell’Artico.(Michael T. Klare, “E’ iniziata la corsa ai forzieri dell’Artico”, dal “New York Times” dell’8 dicembre 2013, ripreso da “Come Don Chisciotte”).Mentre molte riserve di gas e di petrolio in diverse aree del mondo stanno vivendo il loro rapido declino, si ritiene che l’Artico possegga enormi giacimenti ancora inesplorati. Secondo la “United States Geological Survey” (Indagine geologica degli Stati Uniti), circa il 13% delle riserve mondiali di petrolio e il 30% di quelle di gas ancora non sfruttate si trovano al di sopra del Circolo Polare Artico. Ansiosi di affondare le mani in quella fortuna, la Russia e i paesi artici confinanti – Canada, Norvegia, Stati Uniti, Islanda e Danimarca (quest’ultima in virtù della sua autorità sulla Groenlandia) – hanno spronato le compagnie energetiche a trivellare nell’area. Specialmente per la Russia – che recentemente ha preso il controllo di una nave di Greenpeace e ha denunciato trenta attivisti per assalto ad una sua piattaforma petrolifera – è molto forte la tentazione di sfruttare l’Oceano Artico.
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Ieri il nazismo, oggi il caos che prepara la mattanza
Mi è capitato di ricevere in regalo, tra il Natale e i fuochi d’artificio di fine anno, due libri, che subito consiglio di leggere: “Come si diventa nazisti”, di William Sheridan Allen (introduzione di Luciano Gallino), Feltrinelli, e “La famiglia Karnowski”, di Israel Singer, Adelphi. Ho finito il secondo, che è un grande, grandissimo romanzo, e sto leggendo il primo. Entrambi quasi freneticamente. Diciamo che sono entrato nel 2014 sotto l’impressione fortissima provocatami da queste letture. Un caso? Naturalmente è un caso. Ma la nostra vita è piena di “casi”, di coincidenze che, a guardare bene, qualche cosa significano; che sono il prodotto di “atmosfere” magari impalpabili, ma che muovono i nostri gesti, aprono e chiudono i cassetti delle nostre emozioni, qualche volta richiamando ricordi, altre suggerendo attese premonizioni, o confermandole; che ci collegano a emozioni di altri, che circolano nell’aria e si trasmettono più sottilmente dei bacilli del raffreddore.Chissà perché due persone diverse, l’una indipendentemente dall’altra, hanno sentito il bisogno, o il gusto, di indirizzare i miei pensieri in una certa direzione. Proprio adesso. E chissà perché, questa volta – di nuovo “per caso”? – ho deciso di leggere subito l’uno e l’altro di questi due regali. Un titolo (e l’autore della presentazione) del primo può spiegare il mio interesse contingente. Ma il secondo è nato dalla mia ignoranza (avevo confuso Israel Singer con suo fratello Isaac Singer, il secondo essendo un premio Nobel per la letteratura, scrittore tra i miei primi preferiti). Eppure quest’ultimo mi ha portato sulla stessa carreggiata dell’altro, dove non pensavo di passare. L’impressione, l’emozione, sono evidentemente collegate al presente e al prossimo futuro. Ma le due “storie” si riferiscono entrambe all’intervallo tra le due guerre mondiali, e ai luoghi (la Germania, l’Austria, la Polonia, la Galizia, la Russia) in cui la seconda guerra mondiale si preparò senza che quasi nessuno – tra le vittime, intendo dire – se ne accorgesse.William Sheridan Allen racconta, con una inchiesta fittissima di dati, come una comunità pacifica, sostanzialmente democratica, attraversata da una crisi economica e sociale, e – evidentemente – morale, si trasforma in pochi anni in un piccolo, feroce esercito di fanatici, di assassini e di complici di assassini. Israel Singer racconta, in forma di romanzo, la saga della famiglia Karnowski, il cui capostipite, David, emigra a Berlino da una microscopica comunità di ebrei polacchi, attraversando una delle frontiere su cui, non molti anni dopo, si massacreranno milioni, e facendo vivere a se stesso, a suo figlio Georg, e al suo nipote Jegor, la tremenda esperienza della persecuzione nazista. Non voglio qui raccontare nulla di queste ricostruzioni, una letteraria, l’altra storiografica: non è questo l’intento, e la sede. Del libro di Israel Singer voglio qui sottolineare soltanto la profondità – e l’umanità, inevitabilmente, a tratti, feroce – dell’analisi della stratificazione delle comunità ebraiche che s’incrociano nella Berlino tra le due guerre. Delle loro miserie e viltà reciproche, come del coraggio e della vitalità insopprimibile con cui si difesero, o semplicemente soffrirono e subirono.Sullo sfondo, senza che mai appaia la parola “nazismo”, si scorge il prima lento e poi impetuoso muoversi dei “giovanotti con gli stivali” che arriveranno al potere. Il tutto con la connivenza corale di presunti “ariani” di ogni classe. Una tragedia che avviene, matura, prima impercettibilmente, poi con la forza di un torrente in piena che tutto travolge. “Resistibile” – come la chiamò Bertolt Brecht – lo sarebbe stata soltanto se coloro che la subirono, o l’appoggiarono, si fossero accorti dove avrebbe portato. La famiglia ebraica dei Karnowski precipita nello stesso gorgo che gli abitanti della piccola città dell’Hannover (tutti, senza eccezione: commercianti, impiegati, operai, padroni) stavano contribuendo a creare. Hitler arriva al potere con il consenso delle masse, trasformatesi in una micidiale miscela esplosiva. Qui si affaccia l’analogia con il nostro presente. L’Europa, di cui ci apprestiamo a eleggere quest’anno il nuovo Parlamento, è attraversata da una crisi che ne mette in discussione le fondamenta. Umori analoghi a quelli di allora, non identici, serpeggiano a tutti i livelli. Non ci sono “giovanotti con gli stivali” che marciano delle strade, ma ci sono – in uffici senza rumori – signori in giacca e cravatta la cui ferocia, già ampiamente dimostrata, è gelidamente, religiosamente superiore a quella dei faraoni. Non solo non c’è giustizia: non c’è ragionevolezza, non c’è visione. C’è, si vede, basta guardare bene in mezzo alla nebbia del mainstream, il caos che prepara una mattanza.Leggendo questi due libri ho avvertito la sensazione di trovarmi su un piano inclinato, che sta accentuando la sua pendenza. 1929: aggiungi dieci anni e avrai il 1939. 2008: aggiungi dieci anni e otterrai 2018. So bene che le analogie sono spesso cattivi indicatori. So bene che i ricorsi storici non esistono, com’è vero che l’umanità non si può mai bagnare due volte nella stessa acqua. La questione, ora, è che potrebbe non esserci più acqua. Ma basta guardare due dati: quello del riscaldamento climatico in atto e quello della produzione “infinita” di denaro, cioè di debito, per capire che la crisi del 1929 fu un esercizio di bella calligrafia rispetto a quello che si avvicina a passi da gigante: scarabocchio mostruoso che minaccia qualcosa di inimmaginabile.(Giulietto Chiesa, “Segnali di ricorsi storici?”, da “Il Fatto Quotidiano” del 7 gennaio 2013).Mi è capitato di ricevere in regalo, tra il Natale e i fuochi d’artificio di fine anno, due libri, che subito consiglio di leggere: “Come si diventa nazisti”, di William Sheridan Allen (introduzione di Luciano Gallino), Feltrinelli, e “La famiglia Karnowski”, di Israel Singer, Adelphi. Ho finito il secondo, che è un grande, grandissimo romanzo, e sto leggendo il primo. Entrambi quasi freneticamente. Diciamo che sono entrato nel 2014 sotto l’impressione fortissima provocatami da queste letture. Un caso? Naturalmente è un caso. Ma la nostra vita è piena di “casi”, di coincidenze che, a guardare bene, qualche cosa significano; che sono il prodotto di “atmosfere” magari impalpabili, ma che muovono i nostri gesti, aprono e chiudono i cassetti delle nostre emozioni, qualche volta richiamando ricordi, altre suggerendo attese premonizioni, o confermandole; che ci collegano a emozioni di altri, che circolano nell’aria e si trasmettono più sottilmente dei bacilli del raffreddore.
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Gallino: i partiti vogliono neoliberismo, non democrazia
Oggi siamo ad un bivio: da un lato c’è la democrazia, dall’altro il capitalismo. È possibile avere l’una senza l’altro? È possibile un qualche tipo di accettabile conciliazione tra i due come nel trentennio dopo la seconda guerra mondiale? Lo sarà solo se alcuni milioni di persone si sveglieranno, insieme ai partiti politici. Oggi, probabilmente, una qualche soluzione è possibile. Altrimenti andremo verso un capitalismo senza democrazia o con forme davvero povere di democrazia. Susanna Camusso ammette che non è più sufficiente evocare lo sciopero generale? L’affermazione cerca di rispondere a una trasformazione epocale: la produzione è stata frammentata nelle catene globali del valore, e questo ha indebolito il potere dei sindacati e dei lavoratori. Un conto è quando uno sciopero interrompe la produzione in uno stabilimento, un altro è quando quella stessa produzione è divisa in dieci stabilimenti in quindici paesi. Il peso del singolo anello produttivo o aziendale è facilmente sostituibile: se un’azienda in Thailandia non funziona, si passa in India.I sindacati hanno capito come contrastare questa strategia? Non mi pare si sia fatto abbastanza. Lo sciopero è storicamente nato per recare danno ad un’impresa. Con la gravissima crisi in cui sprofonda l’Europa (e il mondo intero) è paradossale constatare che questa astensione conviene alle imprese che soffrono di un eccesso di capacità produttiva. Questa concomitanza ha ridotto il potere del lavoro. A ciò si aggiunge l’azione politica contro i sindacati che nel nostro paese reggono ancora in qualche modo, mentre in altri paesi le iscrizioni sono crollate. Ciò non toglie che i sindacati abbiano responsabilità non da poco nella loro difficolta a chiamare a raccolta i lavoratori. Scioperi come quelli auto-organizzati dai tramvieri a Genova hanno avuto un obiettivo specifico e importante: cercare di interrompere la folle corsa verso la privatizzazione, per modificare le politiche gestionali o per fare cassa, come è accaduto anche a Torino. Genova ha richiamato una notevole attenzione, anche se non mi pare abbia influito sul governo, il cui chiodo fisso è privatizzare.Contrapporsi oggi alle privatizzazioni significa battersi contro una forma di lotta politica che la classe dirigente del nostro paese conduce contro i beni pubblici, i beni comuni e la possibilità di partecipare in qualche modo alle decisioni politiche. In queste lotte, non mi pare che la Cgil abbia battuto con forza il pugno sul tavolo. Oggi non c’è più la domanda aggregata: anche per questo lo sciopero diventa un’arma spuntata. Nel frattempo, sembra definitivamente saltato il classico legame tra partito e sindacato, tra Cgil e Pd. Già ai tempi di Cofferati c’erano problemi, figuriamoci adesso che il rapporto è evanescente, visto che per quello che si sa, le proposte economiche e sul lavoro di Renzi vanno in direzione di un ulteriore allontanamento. Quel po’ di sinistra che esisteva nel Pd mi pare che dopo gli ultimi cambiamenti si sia ridotta ulteriormente. Il sindacato, parlo soprattutto della Cgil, ha bisogno di un partito a cui appoggiarsi. Se non c’è un riferimento culturale o politico, si ritrova solo. Con la segreteria di Renzi quel po’ di sostegno che nonostante tutto c’era nel Pd scenderà ulteriormente.Le lotte contro le grandi opere e per i beni comuni? Servono, figuriamoci. In più abbiamo la necessità di pensare a migliaia di piccole opere per ridare un certo pregio alle cose che sono degenerate negli ultimi anni. Però il loro impatto sulla dimensione strutturale del capitalismo non c’è o è molto pallida. Queste lotte hanno un’utilità per certi scopi specifici, come si è visto con il referendum sull’acqua, anche se poi i Comuni se ne sono infischiati. Lo si è visto nello sciopero dei trasporti a Genova dove il discorso sui beni comuni ha avuto un’incidenza. Bisogna però chiedersi perché i politici insistono per dare sempre più spazio alla vulgata neoliberale. Ci sono eccezioni, ma la maggioranza dei Comuni è dominata dall’ideologia neoliberale che domina nel governo e nei partiti politici, nessuno escluso, o quasi. Dunque, insieme alla ricerca di forme di protesta alternative bisogna partire da una battaglia culturale che contrasti l’ideologia dominante.(Luciano Gallino, dichiarazioni rilasciate a “Il Manifesto” per l’intervista “Se lo sciopero non basta più”, ripresa da “Megachip” il 12 dicembre 2013).Oggi siamo ad un bivio: da un lato c’è la democrazia, dall’altro il capitalismo. È possibile avere l’una senza l’altro? È possibile un qualche tipo di accettabile conciliazione tra i due come nel trentennio dopo la seconda guerra mondiale? Lo sarà solo se alcuni milioni di persone si sveglieranno, insieme ai partiti politici. Oggi, probabilmente, una qualche soluzione è possibile. Altrimenti andremo verso un capitalismo senza democrazia o con forme davvero povere di democrazia. Susanna Camusso ammette che non è più sufficiente evocare lo sciopero generale? L’affermazione cerca di rispondere a una trasformazione epocale: la produzione è stata frammentata nelle catene globali del valore, e questo ha indebolito il potere dei sindacati e dei lavoratori. Un conto è quando uno sciopero interrompe la produzione in uno stabilimento, un altro è quando quella stessa produzione è divisa in dieci stabilimenti in quindici paesi. Il peso del singolo anello produttivo o aziendale è facilmente sostituibile: se un’azienda in Thailandia non funziona, si passa in India.
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Traditi dal sistema: ma questa è rabbia, non rivoluzione
I forconi, il vuoto e la rivoluzione. La protesta sale? Buon segno: vuol dire che «molti italiani cominciano a capire che devono difendersi», dice Giulietto Chiesa, che però aggiunge: «Molti parlano di rivoluzione, senza sapere cos’è una rivoluzione: e questo non è bene, perché poi subentra la delusione». Quella dei “forconi”? «Per ora è solo protesta: senza una guida, senza obiettivi ben definiti». Verranno «inesorabilmente» momenti successivi, che richiederanno «obiettivi comuni ben meditati». Non mancano «furbi e mestatori che già stanno pensando di usare la protesta e di stravolgerla ai loro fini e nei loro interessi»? Ovvio, perché «in politica il vuoto non esiste: qualcuno cerca sempre di riempirlo. Tutto dipende da chi ci riesce». Concorda Marco Bersani, di Attac, sempre su “Megachip”: queste istanze di ribellione sono facilmente pilotabili, proprio perché «non portano con sé alcuna intuizione di futuro diverso, ma solo la drammatica rabbia per l’insopportabilità del presente».Mentre i movimenti per i beni comuni «hanno da tempo interiorizzato il conflitto di sistema, ovvero vogliono cambiare la società e lo fanno a partire da un conflitto tematico come paradigma (acqua, grandi opere etc.)», la ribellione di questi giorni «è portata avanti dai delusi dal sistema, ovvero da coloro che hanno profondamente creduto che il modello neoliberale li avrebbe tutelati e che oggi si ritrovano la rabbia dell’essere stati abbandonati, senza l’idea che sia possibile un altro modello sociale». Detto questo, per Bersani è obbligatorio cercare di parlare al “popolo” sceso in piazza, «sia perché molti di loro sono accompagnati da una condizione sociale di vera disperazione, sia perché nell’acuirsi del binomio crisi sociale/crisi della democrazia è evidente che le esplosioni di rabbia non possano presentarsi come lineari e compiute», bensì come «moti tanto drastici quanto confusi».Per Bersani, il carattere della protesta dimostra «l’assenza di un vero pensiero rivoluzionario nella società», e ancora una volta «rischiano di gongolare i poteri finanziari: nessuna banca è stata assaltata, nessun obiettivo finanziario è stato messo in campo e si paventa la “marcia su Roma”, non su Piazza Affari». Che fare, dunque? Innanzitutto, serve «una coalizione sociale ampia fra i movimenti per i beni comuni e i diritti». Alleanza oggi ancor più necessaria, «sia perché le singole lotte hanno bisogno di una forza maggiore, sia perché pezzi di società che non reggono più (è successo in questi giorni, ma aspettiamocene altre in forme e modi che non comprendiamo) devono potersi sintonizzare con un percorso di conflitto in atto, ma che abbia il respiro largo e sappia suggerire che all’insopportabilità del presente c’è una possibile risposta collettiva».I forconi, il vuoto e la rivoluzione. La protesta sale? Buon segno: vuol dire che «molti italiani cominciano a capire che devono difendersi», dice Giulietto Chiesa, che però aggiunge: «Molti parlano di rivoluzione, senza sapere cos’è una rivoluzione: e questo non è bene, perché poi subentra la delusione». Quella dei “forconi”? «Per ora è solo protesta: senza una guida, senza obiettivi ben definiti». Verranno «inesorabilmente» momenti successivi, che richiederanno «obiettivi comuni ben meditati». Non mancano «furbi e mestatori che già stanno pensando di usare la protesta e di stravolgerla ai loro fini e nei loro interessi»? Ovvio, perché «in politica il vuoto non esiste: qualcuno cerca sempre di riempirlo. Tutto dipende da chi ci riesce». Concorda Marco Bersani, di Attac, sempre su “Megachip”: queste istanze di ribellione sono facilmente pilotabili, proprio perché «non portano con sé alcuna intuizione di futuro diverso, ma solo la drammatica rabbia per l’insopportabilità del presente».
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Lo shopping che co-finanzia l’occupazione della Palestina
Il Medio Oriente sarà anche lontano, ma Israele è vicinissimo agli Stati Uniti: ogni anno, al momento di pagare le tasse, Tel Aviv “costa” ad ogni americano esattamente 21 dollari e 59 centesimi, secondo la “Us Campaign to End the Occupation”, organizzazione che si batte per la fine dell’occupazione della Palestina. Ma non è tutto: senza neppure rendersene conto, l’americano medio contribuisce in molti modi, ogni giorno, a “finanziare” indirettamente l’apartheid israeliano. Non è difficile: basta scendere al supermercato sotto casa e acquistare prodotti sfornati da stabilimenti installati in aree “abusive”, occupate in violazione di risoluzioni dell’Onu, in cui ai palestinesi si prelevano risorse vitali, mentre gli operai sono sottoposti a un regime di sfruttamento. Lo sostiene il newkorkese Alex Kane, editor mondiale di “AlterNet” e collaboratore di “Mondoweiss”. Le aziende contestate si chiamano Sodastream (acqua), Sabra Hummus (salse), Ahava (cosmetici), ma anche Hewlett Parckard e Motorola. Alcuni dei loro prodotti finiscono tra le scorte di reparti d’élite, responsabili di operazioni di sterminio come quella di Gaza.I consumatori statunitensi non lo sanno, scrive Kane in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, ma l’acquisto di prodotti come Sabra Hummus e Sodastream», salse tradizionali e macchine per produrre acqua gasata, «potenzia l’occupazione militare di Israele in Palestina», che dura da 46 anni. «Alcune aziende hanno stabilimenti situati in una delle 125 colonie ufficialmente note nella Palestina occupata, le quali in base al diritto internazionale sono illegali». Altre aziende «contribuiscono al mantenimento dell’occupazione attraverso la cooperazione con le Forze di Difesa Israeliane», anche se l’obiettivo principale dell’esercito di Tel Aviv «è quello di proteggere gli insediamenti illegali e di esercitare il dominio sulle vite di milioni di palestinesi». L’acquisto “innocente” di quei prodotti, di fatto, «dà profitti alle aziende che sfruttano le terre e le risorse palestinesi». Sodastream, che trasforma l’acqua del rubinetto in acqua gassata e in altre bevande aromatizzate, è un caso di successo negli Usa: secondo la Cnn, nel 2012 ha raddoppiato i profitti (quasi mezzo miliardo di dollari) dopo esser stata acquistata da una società israeliana, che l’ha poi ceduta a un fondo finanziario d’investimento.Nella pubblicità, l’azienda si dichiara “amica dell’ambiente”. «Ma il lato meno progressista di Sodastream – scrive Kane – si trova nella posizione della sua fabbrica», nell’insediamento di Mishor Adumim, alla periferia di Gerusalemme. La compagnia sostiene di non aver violato il diritto internazionale perché la fabbrica avvantaggia la popolazione palestinese, ma secondo la rivista “Who Profits?” gli operai palestinesi «soffrono condizioni di lavoro difficili». Forza lavoro a basso costo da sfruttare, e senza il diritto di protestare – pena il licenziamento. Rafforzando l’insediamento, Sodastream «contribuisce a uccidere ogni possibilità di uno Stato palestinese vitale e contiguo», dal momento che il distretto industriale «è stato strategicamente costruito per interrompere un facile accesso tra Ramallah e Betlemme, due importanti città della Cisgiordania».Discorso analogo per i produttori di “hummus”, tradizionale salsa a base di pasta di ceci e semi di sesamo, aromatizzata con essenze mediterranee. Gli americani ne vanno pazzi e, secondo l’“Huffington Post”, il produttore israeliano Sabra Hummus ha conquistato il 60% del mercato Usa. Problema: l’azienda «è in parte di proprietà di una società israeliana denominata Strauss Group, che ha “adottato” una unità di élite» dell’esercito. Si tratta della Brigata Golani, ritenuta responsabile di alcune operazioni di “macelleria” contro i civili di Gaza durante l’operazione “Piombo Fuso”. Oltre ad equipaggiare i soldati con kit alimentari e per la cura personale, il Gruppo Strauss – riferisce sempre Kane – ha inoltre ammesso di sostenere anche finanziariamente questa unità militare, per «attività assistenziali, culturali ed educative», ad esempio «aiuti economici per i soldati svantaggiati, attrezzature sportive e ricreative, pacchetti di assistenza, libri e giochi per il club dei soldati». L’analista statunitense accusa anche l’altro grande produttore di condimenti israeliani, Tribe Hummus: la società sarebbe, in parte, di proprietà di Osem, struttura che «collabora con il Fondo Nazionale Ebraico (Jnf)», gruppo che «ha giocato un ruolo chiave prima ancora della creazione dello Stato di Israele, partecipando a progetti con il fondatore dello Stato ebraico, David Ben Gurion». In pratica: «Operazioni di pulizia etnica», per strappare ai palestinesi le loro terre. Divenuto proprietario del 13% dei terreni in Israele, il Jnf collabora attivamente col governo per demolire villaggi palestinesi.Altro capitolo, la gamma di prodotti Ahava, che popolano le migliori vie dello shopping statunitense: «In ebraico, “Ahava” significa “amore”», ricorda Alex Kane, «ma ciò che non sarà mai scritto sui prodotti è che sono realizzati in un insediamento in Cisgiordania, di proprietà delle industrie che stanno illegalmente sfruttando le risorse naturali palestinesi», in primo luogo i rinomati fanghi del Mar Morto, che l’azienda «scava, in violazione del diritto internazionale per lo sfruttamento delle risorse di un territorio occupato». Da questa “sindrome” non è immune l’industria tecnologica: forse non tutti sanno che un colosso mondiale come Hewlett Packard (stampanti, fotocamere, computer e smartphone) possiede anche Eds Israele, la società che controlla – con la biometria – i lavoratori palestinesi. Dal 2009, Hp gestisce le informazioni per l’infrastruttura tecnologica della marina militare e dell’esercito israeliano, oltre a collaborare al progetto “Smart City” nella «colonia illegale» di Ariel in Cisgiordania. Quanto alla telefonia, tra le società “sussidiarie” della compagnia telefonica che si occupa dei militari israeliani figurerebbe anche un marchio come Motorola.Il Medio Oriente sarà anche lontano, ma Israele è vicinissimo agli Stati Uniti: ogni anno, al momento di pagare le tasse, Tel Aviv “costa” ad ogni americano esattamente 21 dollari e 59 centesimi, secondo la “Us Campaign to End the Occupation”, organizzazione che si batte per la fine dell’occupazione della Palestina. Ma non è tutto: senza neppure rendersene conto, l’americano medio contribuisce in molti modi, ogni giorno, a “finanziare” indirettamente l’apartheid israeliano. Non è difficile: basta scendere al supermercato sotto casa e acquistare prodotti sfornati da stabilimenti installati in aree “abusive”, occupate in violazione di risoluzioni dell’Onu, in cui ai palestinesi si prelevano risorse vitali, mentre gli operai sono sottoposti a un regime di sfruttamento. Lo sostiene il newkorkese Alex Kane, editor mondiale di “AlterNet” e collaboratore di “Mondoweiss”. Le aziende contestate si chiamano Sodastream (acqua), Sabra Hummus (salse), Ahava (cosmetici), ma anche Hewlett Parckard e Motorola. Alcuni dei loro prodotti finiscono tra le scorte di reparti d’élite, responsabili di operazioni di sterminio come quella di Gaza.
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Missione, salvare l’Italia: ora Renzi non ha più alibi
Tre milioni di votanti: una mobilitazione popolare inattesa, in un paese assediato dallo sciopero dei “forconi”. Anche chi guarda al Pd con scetticismo e preoccupazione deve ammettere che i numeri popolari espressi dalle primarie dell’8 dicembre che hanno largamente incoronato Matteo Renzi rappresentano un segnale chiaro: la speranza che un cambiamento sia ancora possibile, e che possa avvenire per via elettorale. E’ una sorta di “sentimento democratico”, che – nonostante le abissali differenze – induce periodicamente milioni di italiani a recapitare un messaggio: ai referendum per fermare il nucleare e la privatizzazione dell’acqua, e alle politiche per indirizzare un ultimatum alla casta attraverso Grillo. Così, grazie agli italiani che hanno votato per il sindaco di Fiorenze, la tombale “stabilità” costruita da Napolitano è già in crisi. «Mentre Renzi riceve i voti di milioni di elettori democratici, il premier del Pd, Enrico Letta, riceverà una fiducia scontata con i voti di Alfano, Formigoni, Schifani. E’ molto difficile pensare che queste scene possano stare insieme».Lo sintetizza Jacopo Iacoboni, sulla “Stampa”: il difficile per Renzi comincia ora, perché «si delineano due scene stridenti e totalmente incompatibili». Da una parte «un uomo non ancora quarantenne che conquista la guida del partito con una campagna aperta, popolare, e chiedendo un voto agli italiani», e dall’altra, «in stanze divenute grigie, purtroppo, il Parlamento delle “larve intese” (neanche più larghe)». Dal corpo elettorale del Pd arrivano indicazioni inequivocabili: l’outsider Civati «è andato piuttosto bene, senza fare sfracelli ma dando segno di vitalità», mentre il dalemiano Cuperlo è colato a picco, «non perché non fosse un uomo di valore: semplicemente perché è apparso totalmente schiacciato e legato all’abbraccio mortale della burocrazia del partito (e della Cgil): un tandem micidiale che farebbe perdere una partita anche a Maradona, se esistesse, nell’Italia 2013».«In tempi di disaffezione e di protesta dilagante», scrive Ezio Mauro su “Repubblica”, la risposta dell’8 dicembre è «sorprendente e confortante», perché rappresenta «un atto di fede nella democrazia e persino nella politica, unito a una speranza testarda di cambiamento: in mezzo ad una crisi gravissima, che con la mancanza di lavoro sta erodendo la democrazia materiale del paese, le primarie dicono che per il popolo di sinistra la politica è ancora l’unico strumento per cambiare l’Italia, a patto che incominci a cambiare se stessa». Aggiunge Mauro: «Ogni volta che la sinistra dischiude le sue porte e chiede ai cittadini di partecipare la reazione è positiva, nonostante le delusioni e le frustrazioni accumulate in passato per la dissipazione dei dirigenti». Secondo il direttore di “Repubblica”, giornale “organico” al Pd, «la sinistra è seduta su un giacimento di energia democratica». Archiviata l’ombra lunga della nomenklatura dalemiana, ora non ci sono più alibi: «Renzi ha vinto soprattutto per questo: per la promessa di cambiare il Pd e il paese. Dovrà farlo subito, cominciando dalla legge elettorale, dai costi della politica, dalla crisi del lavoro».Guai se il sindaco di Firenze disperdesse l’ultima speranza, aggiunge Mauro, perché i milioni di elettori che hanno votato Renzi pretendono un cambiamento radicale. Un notevolissimo atto di fiducia, se si considera che il neosegretario non ha ancora detto praticamente nulla su come “rivoluzionerebbe” l’Italia. Pochi spiragli anche dal discorso della vittoria, pronunciato a caldo: «Ci siamo resi conto che tocca a noi perché abbiamo conosciuto l’euro e non l’Europa». L’orizzonte che conta è quello delle europee: con l’annunciata battaglia no-euro affidata alla credibilità di un certo Berlusconi e alle sgangherate analisi che Grillo ha offerto alla platea del V-Day di Genova. Finora, Renzi ha ignorato il problema, sostenendo che l’Italia può rimediare – da sola – ai guasti di Bruxelles, semplicemente ripulendo se stessa dai suoi vizi. Nel frattempo, il paese sta affondando, col premier di turno costretto a tagliare servizi vitali per rispettare i lacci e le tagliole fiscali imposte da una Troika che nessuno ha eletto. Attenti a non dare per morto il Pd, avverte Aldo Giannuli, perché i suoi elettori (regolarmente frustrati da pessimi dirigenti) pretendono una svolta “di sinistra”, che punti cioè a tutelare i diritti della maggioranza. Manca ancora l’attesa spiegazione: nemmeno Renzi ha finora spiegato perché il paese stia crollando, ricattato dai poteri forti che dominano le istituzioni europee e impongono la capitolazione del sistema-Italia. Tre milioni di voti sono un’enorme apertura di credito. L’ultima, prima che qualcuno spenga la luce.Tre milioni di votanti: una mobilitazione popolare inattesa, in un paese assediato dallo sciopero dei “forconi”. Anche chi guarda al Pd con scetticismo e preoccupazione deve ammettere che i numeri popolari espressi dalle primarie dell’8 dicembre che hanno largamente incoronato Matteo Renzi rappresentano un segnale chiaro: la speranza che un cambiamento sia ancora possibile, e che possa avvenire per via elettorale, persino attraverso gli attuali partiti. E’ una sorta di “sentimento democratico”, che – nonostante le abissali differenze – induce periodicamente milioni di italiani a recapitare messaggi espliciti: ai referendum per fermare il nucleare e la privatizzazione dell’acqua, e alle politiche per indirizzare un ultimatum alla casta attraverso Grillo. Così, grazie agli italiani che hanno votato per il sindaco di Firenze, la tombale “stabilità” costruita da Napolitano è già in crisi. «Mentre Renzi riceve i voti di milioni di elettori democratici, il premier del Pd, Enrico Letta, riceverà una fiducia scontata con i voti di Alfano, Formigoni, Schifani. E’ molto difficile pensare che queste scene possano stare insieme».
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Destinazione Italia, grande svendita del nostro paese
“Aprire l’Italia ai capitali e ai talenti del mondo”, così si apre la pagina destinazioneitalia.gov.it dedicata alla “consultazione popolare” che chiede ai cittadini di integrare le 50 misure del Piano Destinazione Italia, approvato dal governo Letta il 13 settembre scorso e presentato, ancor prima che al Parlamento e alle parti sociali, al gotha finanziario di Wall Street. Se non fosse che le misure indicate nel piano comporteranno nuove pesanti ricadute sociali per la popolazione italiana, il documento potrebbe essere definito esilarante. Come quando (misura 49) si dice: «Gli italiani che lavorano, insegnano e studiano all’estero sono i primi ‘Ambasciatori dell’Italia nel mondo’ e possono contribuire a raccontare l’Italia in modo nuovo». Mentre rimaniamo in spasmodica attesa di questi straordinari racconti, accontentiamoci per ora di sapere che, per gli studenti e i ricercatori italiani all’estero (cervelli in fuga da un paese impossibile), verrà attivato il programma di sensibilizzazione “V.I.P – Volunteer for Italy’s Promotion” per propagandare oltre frontiera il brand Italia.Ma aldilà dell’umorismo, il Piano Destinazione Italia è un documento “strategico” con l’obiettivo, attraverso una serie di riforme, di rendere il paese un luogo attraente per i grandi investimenti finanziari dall’estero. Attraverso quali misure? Il Piano Destinazione Italia prevede alcuni provvedimenti “quadro”, dai quali si comprende subito dove si voglia andare a parare: la svendita dei diritti e dei beni comuni. Infatti, si prevedono, per investimenti oltre una certa soglia, accordi fiscali particolari (misura 1), la radicale modifica della conferenza dei servizi sulle grandi opere (misura 2), accordi specifici in materia di condizioni di lavoro, come quello già approvato per Expo 2015 (misura 4), completa liberalizzazione del mercato dell’energia elettrica e del gas (misura 12). Conseguentemente a questi passaggi, l’Italia, a quel punto irresistibilmente sexy, può mettere in vendita le sue grazie.La seconda parte del piano si intitola infatti “Un Paese che valorizza i propri asset” e prevede: un piano di privatizzazioni di società direttamente o indirettamente controllate dallo Stato e un piano di privatizzazione e accorpamento in grandi mutiutility dei servizi pubblici locali (misura 17); un piano di rivitalizzazione del mercato borsistico attraverso il collocamento delle piccole e medie imprese (misura 19); l’affidamento a privati della gestione dei beni culturali (misura 23); la dismissione dei beni demaniali (misura 24); la totale liberalizzazione del mercato immobiliare (misure 25-29); la consegna della formazione e della ricerca universitaria agli investimenti delle imprese (misure 30-32); il rilancio delle grandi opere infrastrutturali, i cui relativi investimenti verranno esclusi dai vincoli del Patto di Stabilità (misura 36); l’abrogazione (misura 40) dei procedimenti di Via (Valutazione di Impatto Ambientale), Vas (Valutazione Ambientale Strategica) e Aia (Autorizzazione Integrata Ambientale); la valorizzazione della green economy, attraverso lo sviluppo dei biocarburanti e della chimica verde, la termovalorizzazione dei rifiuti e la modernizzazione (leggi privatizzazione) del servizio idrico (misura 43).Siamo di fronte ad un vero e proprio piano di svendita del paese, attraverso la drastica riduzione dei diritti sociali e del lavoro, la consegna dei beni comuni ai mercati finanziari, la privatizzazione di ogni funzione pubblica e la prostituzione dell’intelligenza collettiva. Il tutto per rispondere ai diktat monetaristi di un’Europa in mano ai grandi interessi finanziari, che, attraverso le catene imposte col Trattato di Maastricht e con lo shock, creato ad arte, del debito pubblico, ha deciso, tra i profitti in Borsa delle grandi multinazionali e la vita delle persone, di scegliere senza ombra di dubbio, i primi. In pratica, e all’unico scopo di perpetuare il capitalismo finanziarizzato, si è deciso di dichiarare una vera e propria guerra alla società, basata sulla trappola del debito pubblico e sul mantra “i soldi non ci sono”, da contrapporre ad ogni rivendicazione sociale. Tanto più contro un paese che, solo due anni fa, ha osato, con la straordinaria vittoria referendaria sull’acqua, mettere in discussione il pensiero unico del mercato e l’ideologia del “privato è bello”, affermando a maggioranza assoluta la volontà di riappropriazione sociale dell’acqua, dei beni comuni e della democrazia.A quel paese va detto ora e a chiare lettere che, se anche fosse vero che “privato” non è bello, privato è in ogni caso obbligatorio e ineluttabile. È in questo quadro che avanza a livello istituzionale il tentativo di mettere mano alla Costituzione, permettendone, come recentemente affermato dalla banca d’affari Jp Morgan, la sua “modernizzazione”, attraverso la progressiva espunzione di tutti i richiami alla cultura antifascista, socialista ed egualitaria, di cui sarebbe ancora intrisa. D’altronde, come conciliare le politiche di feroce austerità, di spoliazione dei diritti, di privatizzazione dei beni comuni con il mantenimento di una Costituzione che quei diritti afferma, per quanto nel tempo ripetutamente violati? Serve una democrazia “austeritaria”, ovvero che usi l’autoritarismo per imporre le politiche di austerità e che risponda all’autolegittimazione del potere, quando quest’ultimo non possa più basarsi sul consenso.Oltre venti anni fa, il 2 giugno 1992, festa della Repubblica, lo yacht reale Britannia incrociava al largo dell’Argentario, con a bordo non principi e regine, né valletti o dame di compagnia, ma banchieri d’affari inglesi, banchieri italiani, boiardi e grand commis di Stato. L’evento venne organizzato da una società allora chiamata “British Invisibles”, una sorta di Confindustria delle imprese finanziarie che oggi raggruppa 150 aziende del settore sotto il nome di International Financial Services. Fra gli italiani che salirono a bordo del panfilo vi furono Beniamino Andreatta, dirigente dell’Eni e futuro ministro, Riccardo Galli, dirigente dell’Iri, Giulio Tremonti, allora ancora in veste di avvocato fiscalista, e soprattutto Mario Draghi, chiamato da Guido Carli alla Direzione Generale del Tesoro all’inizio del 1991, che si presentò come punto di riferimento italiano per la finanza internazionale. E così, tra un’orchestrina della Royal Navy e un lancio di paracadutisti, che scesero come stelle filanti intorno al panfilo di Sua Maestà, prese il via la stagione delle privatizzazioni italiane. Oggi, senza bisogno di salire a bordo di un fastoso quanto pittoresco panfilo reale, bensì occupando le grigie stanze di un governo di “larghe intese e zero consenso”, il premier Enrico Letta ci ripropone lo stesso scenario e un nuovo mastodontico processo di dismissione del paese. Dobbiamo impedirlo.(Marco Bersani, “Destinazione Italia: povertà”, intervento pubblicato dal sito di “Attac” e ripreso da “Megachip” il 25 novembre 2013).“Aprire l’Italia ai capitali e ai talenti del mondo”, così si apre la pagina destinazioneitalia.gov.it dedicata alla “consultazione popolare” che chiede ai cittadini di integrare le 50 misure del Piano Destinazione Italia, approvato dal governo Letta il 13 settembre scorso e presentato, ancor prima che al Parlamento e alle parti sociali, al gotha finanziario di Wall Street. Se non fosse che le misure indicate nel piano comporteranno nuove pesanti ricadute sociali per la popolazione italiana, il documento potrebbe essere definito esilarante. Come quando (misura 49) si dice: «Gli italiani che lavorano, insegnano e studiano all’estero sono i primi ‘Ambasciatori dell’Italia nel mondo’ e possono contribuire a raccontare l’Italia in modo nuovo». Mentre rimaniamo in spasmodica attesa di questi straordinari racconti, accontentiamoci per ora di sapere che, per gli studenti e i ricercatori italiani all’estero (cervelli in fuga da un paese impossibile), verrà attivato il programma di sensibilizzazione “V.I.P – Volunteer for Italy’s Promotion” per propagandare oltre frontiera il brand Italia.
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Offsetting: finanziarizzare la natura per rapinare la Terra
Al confronto, la privatizzazione dell’acqua fa ridere. Lo chiamano “biodiversity offsetting” o “ecosystem offsetting”: è il nuovo trucco della finanza globale per mettere definitivamente le mani sugli ecosistemi. Tutto deve avere un prezzo, l’ambiente va comprato e venduto, trasformato in business. Finanziarizzazione della natura, istruzioni per l’uso. Energia, miniere, trasporti: le grandi opere devastano un’intera area? Niente paura, basta “quotare” il danno e trasferire il risarcimento altrove. Europa, istituzioni finanziarie e governi (Regno Unito in testa) premono per introdurre il concetto della “compensazione traslata” del danno ambientale, in particolare di habitat protetti e biodiversità. Se la “valutazione di impatto ambientale” punta a causare il minor danno possibile, il nuovo meccanismo non si cura più di salvare il territorio minacciato ma si limita a quantificare il danno. «Parallelamente, si sta creando un mercato di titoli collegati alla biodiversità e agli habitat naturali da avviare alla compravendita, come per qualsiasi altro titolo di investimento altamente speculativo», spiega Rebecca Rovoletto su “Democrazia Km Zero”.Una pratica simile a quella dei famigerati “crediti di carbonio”, che permette alle aziende responsabili del danno di dichiararsi “investitori nella protezione dell’ambiente”, con conseguente ritorno d’immagine e “greenwashing” dei loro prodotti e servizi. Così, la protezione dell’ambiente si trasforma in un sottoprodotto commerciale. «Il paradosso è che le più grandi aberrazioni in tema di ambiente vengono concepite proprio in occasione dei grandi vertici internazionali, spacciati per momenti di bilancio e autocritica, per ricercare soluzioni alle drammatiche emergenze dell’umanità e del pianeta». Già il Protocollo di Kyoto aveva sostenuto la logica dei “permessi di inquinamento” per il carbonio, ma il peggio è avvenuto nel giugno 2012 al vertice di Rio +20: la “Dichiarazione sul Capitale Naturale e sui Servizi resi da un ecosistema”, elaborata dalla grande finanza, sdogana ufficialmente il “mercato delle indulgenze ambientali”.Cibo, fibre, acqua, aria, salute, energia, sicurezza climatica: i beni e i servizi degli ecosistemi del “capitale naturale” ogni anno ammontano a trilioni di dollari. Sono fondamentali per la nostra sopravvivenza, anche se il loro immenso beneficio non è “registrato all’interno dei nostri sistemi economici”. Grosso problema, per chi non conosce altra misura che il denaro. Che il vero benessere non influisca sul Pil, ai “padroni dell’universo” non sta bene: non è “sostenibile”, letteralmente, il mancato conteggio – in soldoni – di tutto quanto ci è davvero indispensabile per vivere. «Non esiterei a paragonarla a una dichiarazione di guerra al pianeta e ai suoi abitanti», protesta Rebecca Rovoletto: la pretesa mercificazione finale dell’habitat «impone una sofisticata e sordida “anschluss” semantica», dove anche la natura viene assorbita dal mondo del mercato. «E questo sta avvenendo mentre ovunque nel mondo ci si batte per la difesa dei territori, per la sovranità alimentare e l’accesso alla terra, per il diritto alla gestione e tutela dei beni comuni naturali da parte delle comunità».Mentre sale la protesta dei movimenti sovranisti organizzati, coi contro-vertici di Bruxelles e Edimburgo, nel sistema globalizzato non c’è istituzione che non sostenga questa nuova, perversa visione: si va dall’Unesco al Wwf, che ha sottoscritto la Dichiarazione di Rio e «sposato questa falsa soluzione in un’ottica di investimento di capitali finanziari in alcune riserve protette, a discapito però di tutte le altre aree aggredite». Per Rovoletto, si aprono scenari inimmaginabili: «La natura è unica e complessa, è impossibile misurarne la biodiversità: allora chi e come stabilisce il valore di un ecosistema?». Alcuni ecosistemi hanno impiegato migliaia di anni per raggiungere il loro stato attuale: «Possono essere riproducibili? E che valore hanno i loro abitanti, umani e non umani? Che fine faranno la sussistenza, le economie, la cultura?». Attenzione: «La natura ha un ruolo sociale, spirituale e di sostegno per le comunità, che definiscono il proprio territorio sulla base di interrelazioni tradizionali con la terra: come si può pensare di sfollare intere comunità?».Per il mercato, tutto questo si traduce in un prezzo, «calcolato da discutibili software», con simulatori che conteggiano, al volo, i “crediti di natura”. Il “pallottoliere digitale” è destinato ai proprietari di terreni e foreste intenzionati a mettere all’asta, come “offset”, i loro tesori naturali: «Nasceranno istituti per certificare i valori degli habitat, società di rating per stabilire le classifiche degli investimenti più redditizi, broker e intermediari per un mercato dalle infinite e infernali potenzialità». I casi studiati, aggiunge “Democrazia Km Zero”, dimostrano come questa pratica incentivi lo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali, minando ogni tipo di pianificazione “verde”: «La logica dell’offsetting della biodiversità separa le persone dall’ambiente e dai territori in cui vivono, marginalizzandole fino a minacciare lo stesso diritto alla vita».In Brasile, per esempio, il nuovo codice forestale permette ai proprietari di terre di distruggere i boschi contro l’acquisto di “certificati di riserve ambientali” emessi dallo Stato e commercializzati alla Borsa Verde di Rio, cioè, il “mercato di titoli verdi” creato di recente dal governo brasiliano. Si sta muovendo il super-potere mondiale, regista della disastrosa globalizzazione del pianeta: la Banca Mondiale e la Bei, Banca Europea per gli Investimenti, puntano a includere l’offsetting della biodiversità nei propri standard, «come strumento per “compensare” il danno permanente causato dalle grandi infrastrutture che queste stesse istituzioni finanziano». E mentre Londra sta cercando di introdurre l’offsetting nel proprio quadro normativo, «compromettendo l’iter decisionale democratico e indebolendo le voci delle comunità», in Francia fa scandalo il progetto aeroportuale di Notre Dame des Landes: l’agenzia Biotope ha ricalcolato il “valore” dell’ecosistema considerando le sue “funzioni” e non la sua estensione, così il maxi-costruttore Vinci dovrà provvedere all’offsetting di appena 600 ettari di zona umida, anziché 1.000.«Da 40 anni l’opposizione degli abitanti ha permesso di bloccare il progetto e ha messo in discussione lo schema di offsetting», ma ora la Commissione Europea sta intervenendo anche sul caso francese: attraverso la “strategia europea 2020 sulla biodiversità”, Bruxelles vuole dotarsi di una legislazione sull’offsetting che includa la creazione di una “banca degli habitat” per consentire l’offsetting di specie e habitat naturali all’interno dei confini europei. «Lo scopo è quello di annullare la “perdita netta” (no net loss) della biodiversità, obiettivo assolutamente diverso da quello precedentemente perseguito di garantire “nessuna perdita” (no loss)». E’ la stessa filosofia iper-liberista della Banca Mondiale, che ha finanziato il mega-progetto di estrazione mineraria di nichel e cobalto Weda Bay in Indonesia.L’azienda mineraria francese Eramet dichiara di coniugare “business e biodiversità”, dal nome dell’ambiguo progetto europeo che punta a raccogliere fondi anche dalla Banca Asiatica di Sviluppo, dalla Banca Giapponese per la Cooperazione Internazionale (Jpic) e dalle francesi Coface e Agenzia di sviluppo (Afd). L’impatto sulle persone e sul territorio? Enorme: infatti, «il progetto è contestato dalle comunità indonesiane e da organizzazioni della società civile internazionale». Per Rebecca Rovoletto, «è chiaro che ci troviamo di fronte a un giro di boa fondamentale nella folle corsa che sta sistematizzando il paradigma della finanziarizzazione globale della natura, all’interno del noto orizzonte sviluppista-speculativo e della retorica mistificante che si appella alla sostenibilità e alla salvaguardia, alla partecipazione e all’equità. Un paradigma dalle profonde implicazioni, queste sì, davvero eversive dell’ordine naturale del creato».Al confronto, la privatizzazione dell’acqua fa ridere. Lo chiamano “biodiversity offsetting” o “ecosystem offsetting”: è il nuovo trucco della finanza globale per mettere definitivamente le mani sugli ecosistemi. Tutto deve avere un prezzo, l’ambiente va comprato e venduto, trasformato in business. Finanziarizzazione della natura, istruzioni per l’uso. Energia, miniere, trasporti: le grandi opere devastano un’intera area? Niente paura, basta “quotare” il danno e trasferire il risarcimento altrove. Europa, istituzioni finanziarie e governi (Regno Unito in testa) premono per introdurre il concetto della “compensazione traslata” del danno ambientale, in particolare di habitat protetti e biodiversità. Se la “valutazione di impatto ambientale” punta a causare il minor danno possibile, il nuovo meccanismo non si cura più di salvare il territorio minacciato ma si limita a quantificare il danno. «Parallelamente, si sta creando un mercato di titoli collegati alla biodiversità e agli habitat naturali da avviare alla compravendita, come per qualsiasi altro titolo di investimento altamente speculativo», spiega Rebecca Rovoletto su “Democrazia Km Zero”.
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Pil e cemento: i veri assassini della Sardegna alluvionata
Gli hanno dato molti nomi: ciclone, Cleopatra, uragano, bomba d’acqua. La mia terra gli ha dato un tributo di vite umane. Il presidente della regione Ugo Cappellacci, pronto ad aggiornare l’elenco di piaghe descritte nel Libro dell’Esodo, gli ha dato la definizione di “piena millenaria”. La tempesta che ha rovesciato sui suoli sardi sei mesi d’acqua in appena mezza giornata ha saputo guadagnarsi così il primo posto nella borsa mediatica delle catastrofi, in Italia e nel mondo, prima di essere inevitabilmente sostituita da altre notizie.I lutti e i danni, tuttavia, non sono tutti dovuti al meteo cinico e baro. Questa devastazione deriva da un equivoco di fondo che la Sardegna di oggi e l’Italia sin dai tempi del Vajont si portano dietro: avere un suolo prevalentemente montagnoso e collinare, ma percepirsi come un paese di pianura, dove la pianura ha dimenticato per sempre tutta quella inutile materia fangosa e “prevalente” che sta a monte.È uno spazio addomesticato, quella pianura ideale, segnato da linee d’asfalto, case, scantinati, capannoni, e mille altri segni di “sviluppo” che la separano dal passato rurale e la proiettano in un mondo magico e progressivo che fa a meno della geologia. Olbia alla fine della seconda guerra mondiale era un borgo di diecimila abitanti, oggi ne ha sei volte di più. E dove ha fatto il nido tutta questa gente nuova? Lo ha fatto là dove volevano gli speculatori e dove la portava la corrente dell’abusivismo: dove un tempo c’erano stagni e dove scorrevano magri torrenti. Le “piene millenarie”, proprio perché hanno memorie lunghissime, ricordano ogni tanto che dove il fiume è già passato tanti anni fa, prima o poi ci ripassa ancora. In autunno in Sardegna e in altre regioni non sono infrequenti i flash flood. Non possono essere considerati eventi sorprendenti. Solo che un tempo il torrente gonfiato dalle tempeste autunnali aveva modo di diluirsi in un suolo intatto, o di sfogarsi in canali costruiti a regola d’arte, senza alvei intombinati che lo accelerassero, né ponti che diventassero dighe prima di cedergli il passo.Olbia è crescuta in fretta, è un piccolo emblema dell’ideologia della crescita libera che ripudia qualsiasi pianificazione. Il Pil veniva prima di tutto, e perciò si doveva dimenticare che una vera città, prima di tante altre cose, è un sistema idraulico artificiale che si sovrappone a un sistema idraulico naturale. Olbia però andava oltre. Non si sovrapponeva alla natura, la sostituiva senza criterio. L’onda del Pil era un flutto di cemento che impermealizzava ettari ed ettari, al galoppo. Poi, ieri, fine corsa. All’acqua della città, incanalata senza regola e non più assorbita, si è aggiunta l’acqua della montagna, e tutto è stato devastato. Ora la cronaca ha il suo momento di frastuono, di pianti, di governanti che snocciolano compunti i milioni stanziati per l’emergenza: Enrico Letta 20 milioni, Ugo Cappellacci 5 milioni. Dev’essere lo stesso Cappellacci che ha guidato un’amministrazione che ha revocato 1,5 milioni di euro destinati alla difesa del suolo e contro il dissesto idrogeologico.Certo, quei milioni non sarebbero bastati, nemmeno a Olbia, interessata negli ultimi decenni anni da 17 (diciassette) “piani di risanamento”. Cioè: prima si lasciava fare, senza permessi, poi si condonava, si “risanava”, senza nemmeno completare fogne, argini. Niente di niente. Erano bolli e timbri aggiunti ai fatti compiuti: fatti irrimediabili, ferite non sanabili se non abbattendo tutto. Ma come fai ad abbattere interi quartieri? Risanare, ma per davvero, costa molte volte di più del gesto iniziale, mai fermato, che cambiava natura a quel pezzo di territorio. Facile strapparsi i capelli adesso. I nomi dei quartieri olbiesi sommersi di oggi c’erano già tutti in un articolo del 2010. Era un trafiletto di cronaca locale sul “rischio alluvione”. La prevenzione non fa notizia, non porta voti, non mobilita risorse, non diventa la pagina d’apertura di “Repubblica”. È solo un misero fondino di un giornale locale che non rompe il silenzio. La gente non sa, e crede perciò di stare nel suo Belpaese di pianura, senza pericoli, senza colline, e senza verità sul clima.Negli anni in cui la Regione Sardegna fu guidata da Soru (2004-2009) venne approvato un piano paesaggistico fra i più avanzati al mondo, molto chiaro nel considerare il paesaggio un bene pubblico non negoziabile. Dopo, a livello nazionale e regionale, vi è stata una pressione costante per una nuova liberalizzazione edilizia e per abrogare le regole restrittive, in nome dello sviluppo e della crescita, e al diavolo i geologi. Proprio un geologo, Fausto Pani, sul sito “sardiniapost.it”, in veste di autore del Pai (Piano stralcio per l’assetto idrogeologico) e del Piano delle fasce fluviali, si toglie oggi qualche detrito dalla scarpa: «Solo pochi giorni fa i sindaci interpellati dicevano che nei loro paesi non pioveva così tanto, che il Piano stralcio delle fasce fluviali era tutto sbagliato e bloccava lo sviluppo dei Comuni. Oggi chiederei a quegli stessi amministratori locali se la pensano ancora allo stesso modo».Infatti il problema non è solo Olbia. Uno dei comuni più colpiti dall’alluvione è Terralba, nell’oristanese. Ho visto in Tv il sindaco di centrosinistra Pietro Paolo Piras con la faccia tesa del tipico sindaco in lotta sincera con il disastro, circondato da uomini della protezione civile. Poche settimane fa proprio Piras partecipava a una manifestazione a Cagliari contro il Piano per le fasce fluviali. Lo considerava troppo rigido. Persino le norme di una giunta post-Soru, teoricamente più morbida con chi vuole sviluppo edilizio, non andavano bene a una parte della gente di Terralba. Lo scorso 15 giugno un comitato locale aveva impiccato decine di fantocci per opporsi «con fermezza al piano delle fasce fluviali previsto dalla Regione e ai vincoli idrogeologici che limitano lo sviluppo del territorio». Uno dei promotori spiegava: «Devono fare una scelta politica, con questi vincoli ci stanno condannando a morte. Tutte le attività rischiano di scomparire e non ci sarà uno sviluppo futuro per il nostro paese».Alle magnifiche sorti e progressive di Terralba ha però bussato il Rio Mogoro, un torrentello spesso asciutto che per un giorno è diventato l’Orinoco. Gli impiccatori di fantocci hanno maneggiato in modo molto imprudente i simboli. Parafrasando una vecchia storia, l’ultimo sviluppista è disposto a vendere la corda con la quale verrà impiccato. Adesso la ricostruzione, nel far girare denaro, farà bene al Pil. È forse cinico dirlo, ma dopo le catastrofi naturali, questo succede in molti casi. E, nel crescere, il Pil dimostrerà ancora una volta di non essere la misura corretta del vero benessere. Quel pezzo di società civile che rimuove in modo dissennato e cocciuto la vera natura del nostro suolo, quelle classi dirigenti la cui mentalità è intimamente modellata dalla stessa concezione del territorio, si trovano davanti a una scelta. La scelta non è “costruire oppure no”: è semmai cosa costruire senza consumare ancora di più il suolo, cosa costruire per salvaguardarlo nella sua integrità, fare manutenzione costante e piccoli interventi sulle infrastrutture che già ci sono, e finirla con le grandi opere e le eterne emergenze. Finirla con il fantoccio della crescita infinita. Magari così ci sarà più lavoro, e meno senno del poi.Gli hanno dato molti nomi: ciclone, Cleopatra, uragano, bomba d’acqua. La mia terra gli ha dato un tributo di vite umane. Il presidente della regione Ugo Cappellacci, pronto ad aggiornare l’elenco di piaghe descritte nel Libro dell’Esodo, gli ha dato la definizione di “piena millenaria”. La tempesta che ha rovesciato sui suoli sardi sei mesi d’acqua in appena mezza giornata ha saputo guadagnarsi così il primo posto nella borsa mediatica delle catastrofi, in Italia e nel mondo, prima di essere inevitabilmente sostituita da altre notizie. I lutti e i danni, tuttavia, non sono tutti dovuti al meteo cinico e baro. Questa devastazione deriva da un equivoco di fondo che la Sardegna di oggi e l’Italia sin dai tempi del Vajont si portano dietro: avere un suolo prevalentemente montagnoso e collinare, ma percepirsi come un paese di pianura, dove la pianura ha dimenticato per sempre tutta quella inutile materia fangosa e “prevalente” che sta a monte.
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La via dei lupi, per resistere. Vale un film: facciamolo
Tradire è morire. E allora non resta che lottare: per restare fedeli a se stessi, affrontando una solitudine lunare. Si può resistere per anni, nel cuore dei monti, fino all’estremo sacrificio, non sapendo rinunciare alla bellezza della dignità, al conforto della giustizia. E’ la storia – vera – di François de Bardonneche, il singolare “Highlander occitano” del ‘300, che Carlo Grande ha romanzato nel bestseller “La via dei lupi”. Grazie al lavoro di Barbara Allemand e di Fredo Valla, sceneggiatore di Giorgio Diritti (“Il vento fa il suo giro”, “Un giorno devi andare”) la storia del grande ribelle che osò muovere guerra al Delfino di Francia per poi darsi alla macchia sui sentieri della fatale val di Susa, potrebbe diventare un film. O meglio un grande film, se il progetto verrà adottato da Hollywood. Il prezzo di questa follia? Appena 20 euro. E’ la quota minima individuale della sottoscrizione lanciata per far sistemare la sceneggiatura. Il premio? La storia bellissima di un’opera non comune, attualissima e necessaria – il nostro film, visto che parlerà direttamente a noi. Saper resistere al sopruso: indispensabile, oggi più che mai, pena la perdita della nostra umanità.«Viviamo in città lontano dalla natura, mangiamo senza fame e beviamo senza sete, ci stanchiamo senza che il corpo fatichi, rincorriamo il nostro tempo senza raggiungerlo mai». Così scriveva, Carlo Grande, nel libro-confessione “Terre alte”. «Abbiamo bisogno di riprenderci le nostre vite, di trovare una strada che ci riporti al centro di noi stessi». Era solo il 2008, ma sembra un secolo fa. «Quando si ha, come noi, una tale sicurezza materiale da non temere più di tanto per il futuro, quando non ci si domanda cosa succederà la settimana prossima, quando si ha sempre di che vivere e non si sa più per cosa, si forma intorno a noi una prigione senza confini, da cui è difficile fuggire». Oggi, col precipitare della crisi, molte di queste sicurezze sono cadute: sono migliaia, milioni, i cittadini italiani ed europei che hanno ripreso a preoccuparsi per la loro sorte immediata, a causa di una sofferenza decretata dall’alto di un potere oscuro, percepito come ostile. Un potere accusato di aver tradito la sua promessa, venendo meno al suo dovere.E’ proprio il dolore per il tradimento – quello del principe che gli ha sedotto la figlia – a scatenare la furia del feudatario valsusino: il Delfino francese ha calpestato le regole, su cui si regge la civiltà medievale del “paratge”, l’onore tra uomini liberi che accettano volontariamente di mettersi al servizio l’uno dell’altro. E’ la “civiltà mediterranea”, nella quale Simone Veil individua l’ultima reincarnazione dell’Atene di Pericle (il culto della bellezza) prima che le forze più aggressive della storia spegnessero la luce, dalle legioni conquistatrici alla sanguinosa repressione delle eresie libertarie. Se oggi i critici più intransigenti puntano il dito contro il nazi-capitalismo finanziario che muove i burattini di Bruxelles imponendo la “desmisura” di condizioni-capestro assolutamente insostenibili per il 99% dei cittadini, i territori riscoprono il valore dimenticato della comunità solidale, come dimensione indispensabile non solo per l’autodifesa, ma anche per la coltivazione di quell’umanesimo in mancanza del quale non potremmo vivere. Anche così si può rileggere la vicenda di François: senza il coraggioso sostegno della sua gente non sarebbe mai riuscito a ribellarsi né a evadere dal carcere, né tantomeno a resistere così a lungo tra le nevi delle sue montagne.E’ esattamente questo tipo di bellezza che il film è ansioso di esprimere, nel silenzio incantato delle foreste. C’è anche una salutare nostalgia per il “mondo bambino” del medioevo più luminoso, la civiltà di uomini e donne che sapevano gioire, piangere, commuoversi, tra montagne che – per secoli – tennero in vita la Repubblica degli Escartons, straordinario esperimento di autogoverno cantonale, nel cuore dell’Europa. Si parlava occitano, la lingua di François, quella in cui Dante avrebbe voluto scrivere la Commedia, perché solo i trovatori provenzali – i primi, dall’avvento della cristianità – avevano riscoperto la tenerezza dell’amore, quella dei lirici greci, e avevano cominciato a cantarla, sfidando l’oscurantismo vaticano grazie alla protezione di autorità politiche tolleranti. «Il film – dice oggi Carlo Grande – sarebbe un fecondo generatore di bellezza, un balsamo alla solitudine morale: credo in questo film perché credo in questa storia, in questo libro, in tempi di carestia fisica (di aria, di acqua, di terra) e spirituale (etica ed estetica)». Il cinema italiano non è in grado di produrre il film, per questo si pensa a Hollywood. Un percorso da fare insieme, appropriandosi della causa. Basta anche solo un piccolo tributo d’onore, per co-finanziare l’adattamento in inglese. E far sentire che la comunità non se la sente di abbandonare il suo antico eroe: oggi come allora, il vecchio François – guerriero riluttante, partigiano della libertà – per tornare a lottare sulla “via dei lupi” ha davvero bisogno di noi.(Per aderire alla sottoscrizione è sufficiente prenotarsi, senza alcun anticipo di denaro, sulla piattaforma di social crowdfundig “Produzioni dal basso”, dichiarando la propria disponibilità a sostenere il progetto, anche solo con la quota minima di 20 euro. Più quote danno diritto alla presenza nei titoli coda, al dvd e all’invito a proiezioni nei cinema. L’obiettivo è vicino: ancora pochi click e si raggiungeranno i 4.000 euro necessari a finanziare la revisione della sceneggiatura, che consentirà di impostare la produzione del film).Tradire è morire. E allora non resta che lottare: per restare fedeli a se stessi, affrontando una solitudine lunare. Si può resistere per anni, nel cuore dei monti, fino all’estremo sacrificio, non sapendo rinunciare alla bellezza della dignità, al conforto della giustizia. E’ la storia – vera – di François de Bardonneche, il singolare “Highlander occitano” del ‘300, che Carlo Grande ha romanzato nel bestseller “La via dei lupi”. Grazie al lavoro di Barbara Allemand e di Fredo Valla, sceneggiatore di Giorgio Diritti (“Il vento fa il suo giro”, “Un giorno devi andare”) la storia del grande ribelle che osò muovere guerra al Delfino di Francia per poi darsi alla macchia sui sentieri della fatale val di Susa, potrebbe diventare un film. O meglio un grande film, se il progetto verrà adottato da Hollywood. Il prezzo di questa follia? Appena 20 euro. E’ la quota minima individuale della sottoscrizione lanciata per far sistemare la sceneggiatura. Il premio? La storia bellissima di un’opera non comune, attualissima e necessaria – il nostro film, visto che parlerà direttamente a noi. Saper resistere al sopruso: indispensabile, oggi più che mai, pena la perdita della nostra umanità.
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Vandana Shiva: perché la crescita è nemica della vita
La crescita illimitata è la fantasia di economisti, imprese e politici. La vedono come una misura del progresso. Come risultato, il prodotto interno lordo (Pil), che dovrebbe misurare la ricchezza delle nazioni, è diventato sia il numero più potente che il concetto dominante del nostro tempo. Tuttavia, la crescita economica nasconde la povertà creata attraverso la distruzione della natura, la quale a sua volta porta a comunità incapaci di provvedere a se stesse. Durante la seconda guerra mondiale il concetto di crescita fu presentato come una misura per la movimentazione delle risorse. Il Pil si basa sulla creazione di un confine artificiale e fittizio, il quale parte dal presupposto che se produci ciò che consumi, non produci. In effetti, la “crescita” misura la trasformazione della natura in denaro e dei beni comuni in merci. Così i magnifici cicli naturali di rinnovamento dell’acqua e delle sostanze nutritive sono qualificati non produttivi.I contadini di tutto il mondo, che forniscono il 72% del cibo, non producono; le donne che coltivano o fanno la maggior parte dei lavori domestici non rispettano questo paradigma di crescita. Una foresta vivente non contribuisce alla crescita, ma quando gli alberi vengono tagliati e venduti come legname, abbiamo la crescita. Le società e le comunità sane non contribuiscono alla crescita, ma la malattia crea crescita attraverso, ad esempio, la vendita di medicine brevettate. L’acqua disponibile come bene comune condiviso liberamente e protetto da tutti viene fornita a tutti. Tuttavia, essa non crea crescita. Ma quando la Coca-Cola impone una pianta, estrae l’acqua e con essa riempie le bottiglie di plastica, l’economia cresce. Ma questa crescita è basata sulla creazione di povertà – sia per la natura sia per le comunità locali. L’acqua estratta al di là della capacità della natura di rigenerarsi crea una penuria d’acqua. Le donne sono costrette a percorrere lunghe distanze in cerca di acqua potabile. Nel villaggio di Plachimada nel Kerala, quando la passeggiata per l’acqua è diventata 10 chilometri, la tribale donna locale Mayilamma ha detto che il troppo è troppo. Non possiamo camminare ulteriormente, l’impianto della Coca-Cola deve chiudere. Il movimento che le donne incominciarono ha portato infine alla chiusura dello stabilimento.Nella stessa ottica, l’evoluzione ci ha regalato il seme. Gli agricoltori lo hanno selezionato, allevato e lo hanno diversificato – esso è la base della produzione alimentare. Un seme che si rinnova e si moltiplica produce semi per la prossima stagione, così come il cibo. Tuttavia, il contadino di razza e il contadino che salva i semi non sono visti come un contributo alla crescita. Ciò crea e rinnova la vita, ma non porta a profitti. La crescita inizia quando i semi vengono modificati, brevettati e geneticamente resi sterili, portando gli agricoltori ad essere costretti a comprarne di più ad ogni stagione. La natura si impoverisce, la biodiversità è erosa e una risorsa aperta libera si trasforma in una merce brevettata. L’acquisto di semi ogni anno è una ricetta per l’indebitamento dei poveri contadini dell’India. E da quando è stato istituito il monopolio dei semi, l’indebitamento degli agricoltori è aumentato. Dal 1995, oltre 270.000 agricoltori in India sono stati presi nella trappola del debito e si sono suicidati.La povertà è anche ulteriore spreco quando i sistemi pubblici vengono privatizzati. La privatizzazione di acqua, elettricità, sanità e istruzione genera crescita attraverso i profitti. Ma genera anche povertà, costringendo la gente a spendere grandi quantità di denaro per ciò che era disponibile a costi accessibili come bene comune. Quando ogni aspetto della vita è commercializzato e mercificato, vivere diventa più costoso e la gente diventa più povera. Sia l’ecologia che l’economia sono nate dalla stessa radice – “oikos”, la parola greca per “casa”. Fino a quando l’economia è stata incentrata sulla famiglia, riconosceva e rispettava le sue basi nelle risorse naturali e i limiti del rinnovamento ecologico. Era focalizzata a provvedere ai bisogni umani di base all’interno di questi limiti. L’economia basata sulla famiglia era anche incentrata sulle donne. Oggi l’economia è separata sia dai processi ecologici che dai bisogni fondamentali e si oppone ad ambedue. Mentre la distruzione della natura veniva motivata da ragioni di creazione della crescita, la povertà e l’espropriazione aumentavano. Oltre ad essere insostenibile, è anche economicamente ingiusta.Il modello dominante di sviluppo economico è infatti diventato contrario alla vita. Quando le economie sono misurate solo in termini di flusso di denaro, i ricchi diventano più ricchi e i poveri sempre più poveri. E i ricchi possono essere ricchi in termini monetari – ma anche loro sono poveri nel contesto più ampio di ciò che significa essere umani. Nel frattempo, le richieste del modello attuale dell’economia stanno portando a guerre per le risorse come quelle per il petrolio, guerre per l’acqua, guerre alimentari. Ci sono tre livelli di violenza implicati nello sviluppo non sostenibile. Il primo è la violenza contro la terra, che si esprime come crisi ecologica. Il secondo è la violenza contro l’uomo, che si esprime come povertà, miseria e migrazioni. Il terzo è la violenza della guerra e del conflitto, come potente caccia alle risorse che si trovano in altre comunità e paesi per i propri appetiti illimitati.L’aumento del flusso di denaro attraverso il Pil si è dissociato dal valore reale, ma coloro che accumulano risorse finanziarie possono poi reclamare pretese sulle risorse reali delle persone – la loro terra e l’acqua, le foreste e i semi. Questa sete li conduce all’ultima goccia d’acqua e all’ultimo centimetro di terra del pianeta. Questa non è la fine della povertà. É la fine dei diritti umani e della giustizia. Gli economisti e premi Nobel Joseph Stiglitz e Amartya Sen hanno riconosciuto che il Pil non coglie la condizione umana e hanno sollecitato la creazione di altri strumenti per misurare il benessere delle nazioni. Questo è il motivo per cui paesi come Bhutan hanno adottato la “felicità nazionale lorda” al posto del prodotto interno lordo per calcolare il progresso. Abbiamo bisogno di creare misure che vadano oltre il Pil, ed economie che vadano al di là del supermercato globale, per ringiovanire la ricchezza reale. Dobbiamo tener presente che la vera valuta della vita è la vita stessa.(Vandana Shiva, “Come la crescita economica è diventata nemica della vita”, intervento pubblicato dal “Guardian” e ripreso il 4 novembre 2013 da “Come Don Chisciotte”).La crescita illimitata è la fantasia di economisti, imprese e politici. La vedono come una misura del progresso. Come risultato, il prodotto interno lordo (Pil), che dovrebbe misurare la ricchezza delle nazioni, è diventato sia il numero più potente che il concetto dominante del nostro tempo. Tuttavia, la crescita economica nasconde la povertà creata attraverso la distruzione della natura, la quale a sua volta porta a comunità incapaci di provvedere a se stesse. Durante la seconda guerra mondiale il concetto di crescita fu presentato come una misura per la movimentazione delle risorse. Il Pil si basa sulla creazione di un confine artificiale e fittizio, il quale parte dal presupposto che se produci ciò che consumi, non produci. In effetti, la “crescita” misura la trasformazione della natura in denaro e dei beni comuni in merci. Così i magnifici cicli naturali di rinnovamento dell’acqua e delle sostanze nutritive sono qualificati non produttivi.
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La grande sete: senza cibo per tutti, un futuro di guerre
Quello che non ci raccontano è che la grande sete ci sta ormai minacciando da vicino, come una vera e propria guerra: solo dalla Siria, 800.000 persone sono scappate già nel 2010, ben prima dell’esplosione del conflitto, abbandonando le aree rurali del paese. Motivo dell’esodo, oltre alle dighe turche che drenano le acque dell’Eufrate, «la peggiore siccità a lungo termine e il più grave insieme di fallimenti agricoli da quando cominciarono le civiltà nella Mezzaluna Fertile», quelle che “inventarono” l’agricoltura. Francesco Femia, co-fondatore del “Center for climate and security”, sostiene che – insieme all’esplosione demografica – l’innalzamento del clima terrestre (e quindi la scarsità d’acqua) si stiano traducendo in un problema drammatico, a livello planetario: la carenza di cibo. Ne risentono persino le aree centrali degli Stati Uniti, oltre al Medio Oriente e all’Asia Centrale. L’emergenza non ha confini: investe Cina e India, ripercuotendosi anche sull’Africa.Per i climatologi, la recente e prolungata siccità nel Mediterraneo orientale è dovuta al surriscaldamento terrestre, rivela Katie Horner in un report sullo stato del pianeta, ripreso da “Come Don Chisciotte”. Poco più a sud della Siria, vacilla anche l’Arabia Saudita, che già oggi è uno dei primi 5 importatori mondiali di riso: dopo aver pompato acqua per decenni dal sottosuolo per far crescere il grano nel deserto, l’emirato petrolifero sa che dal 2016 sarà probabilmente dipendente al 100% dalle importazioni di derrate alimentari. Una spia allarmante: «Dato il ruolo dell’Arabia Saudita come produttore di petrolio, disordini politici dovuti al clima e all’acqua potrebbero gettare scompiglio sull’economia globale». Di acqua e terra fertile è invece ricchissima l’Africa, che però fa gola agli assetati e agli affamati. secondo “Oxfam International”, il Medio Oriente e l’Asia – Cina in primis – hanno già comprato qualcosa come 560 milioni di acri di terra africana, in una sorta di “neo-colonialismo climatico” che prevede l’inevitabile sfratto dei nativi, espropriati dei loro terreni e costretti a emigrare. «Non c’è bisogno di dire che anche questa dinamica è una ricetta per un conflitto».Due giganti come Cina e India sono costrette ad affrontare gravissime crisi idriche, «con popolazioni affamate dai raccolti asciutti». Inoltre, l’energia richiesta per pompare e canalizzare l’acqua è normalmente fornita da impianti potenti, che per funzionare richiedono a loro volta grandi quantità d’acqua. Come se non bastasse, Pechino controlla la più grande fonte di acque fluviali, a nord dell’India. Per Brahma Chellaney, esperto geostrategico dell’università di Nuova Delhi, nessuna nazione nella storia ha costruito più dighe della Cina: più di quelle del resto del mondo messo insieme. Sbarramenti che dirottano altrove anche l’acqua che fluirebbe in India. L’acqua manca per tutti, ci si affida alle piogge stagionali e l’agricoltura diventa instabile: dovendo affrontare la prospettiva di nutrire due miliardi e mezzo di persone, «non è difficile immaginare tensioni in ebollizione», lungo i confini tra i due colossi dell’Est.Non troppo lontano, in Asia Centrale, la caduta dell’Urss ha provocato il collasso del bacino irriguo del Syr Darya, il fiume che bagna Kirghizistan, Uzbekistan, Tagikistan e Kazakistan prima di svuotarsi nel lago d’Aral, a sua volta prosciugato dalle monocolture come il cotone introdotte negli anni ’50. Rimasto senza il gas russo a buon mercato, ora il Kirighizistan trattiene a scopo idroelettrico le acque del lago artificiale di Toktogul, creato per scopi irrigui. A valle, ne soffrono uzbeki e kazaki: finora, nessun accordo internazionale ha risolto il problema, neutralizzando le tensioni. Senza contare i guai dei paesi meno sospettabili, dal punto di vista della carenza idrica: l’ennesima siccità nel Midwest degli Usa ha seriamente compromesso il raccolto di prodotti strategici come il mais e la soia. Visto che il paniere agricolo americano influenza i prezzi del cibo globale, la penuria apre un conflitto coi paesi in via di sviluppo. Basandosi su dati storici, il “New England Complex Systems Institute” dimostra che, oltre una certa soglia, il rincaro dei prezzi alimentari causa quasi certamente rivolte: la stessa “primavera araba”, del resto, fu innescata dalla protesta per il costo del pane.Quello che non ci raccontano è che la grande sete ci sta ormai minacciando da vicino, come una vera e propria guerra: solo dalla Siria, 800.000 persone sono scappate già nel 2010, ben prima dell’esplosione del conflitto, abbandonando le aree rurali del paese. Motivo dell’esodo, oltre alle dighe turche che drenano le acque dell’Eufrate, «la peggiore siccità a lungo termine e il più grave insieme di fallimenti agricoli da quando cominciarono le civiltà nella Mezzaluna Fertile», quelle che “inventarono” l’agricoltura. Francesco Femia, co-fondatore del “Center for climate and security”, sostiene che – insieme all’esplosione demografica – l’innalzamento del clima terrestre (e quindi la scarsità d’acqua) si stiano traducendo in un problema drammatico, a livello planetario: la carenza di cibo. Ne risentono persino le aree centrali degli Stati Uniti, oltre al Medio Oriente e all’Asia Centrale. L’emergenza non ha confini: investe Cina e India, ripercuotendosi anche sull’Africa.