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Il web abbatterà il capitalismo: è la fiaba di Paul Mason
«E’ arrivato un nuovo profeta che promette un postcapitalismo meraviglioso, umano, collaborativo, intellettuale, gratuito». E’ Paul Mason, oracolo di un postcapitalismo che «ci porterà gioia, felicità, condivisione libera e liberazione dalla fatica». Basta «confidare nella potenza rivoluzionaria e salvifica delle nuove tecnologie», ovvero «credere che il web sia la nuova fabbrica», e che quindi «il suo proletariato digitale, diverso da quello industriale perché più informato e più connesso, possa abbattere questo capitalismo». Tutto bello e affascinante, scrive Lelio Demichelis. Peccato però che se il vecchio proletariato aveva «una propria coscienza di classe capace di fare contrasto al capitalismo», prima di sciogliersi in esso e condividerne l’egemonia, «questo proletariato digitale è nato invece già antropologicamente capitalista», vuole essere integrato (connesso) nel sistema, e «pur essendo forse ancora classe in sé (mai così tanti lavoratori precari, della falsa conoscenza, della sharing economy, taylorizzati e fordizzati in rete o uberizzati ovunque)» non sarà mai “classe per sé”, «perché incapace di una coscienza comune e di una progettualità politica alternativa», convinto com’è che «non ci sono alternative».Ciascun componente di questo metaforico proletariato digitale «è stato ormai separato, isolato dagli altri e messo in competizione con gli altri», scrive Demichelis su “Micromega”. «Difficile immaginare la realizzazione di un postcapitalismo se ormai l’essenza della stessa società è il capitalismo più la tecnica». Quale alternativa, dunque, «se ogni giorno il sistema ci educa ad essere capitalisti, se la rete stessa è oggi diventata puro capitalismo (in versione non 2.0 ma 0.0)»? Eppure oggi circola questa nuova versione aggiornata – da Paul Mason, autore di quel “Postcapitalismo” che sta occupando le pagine di media pronti a dare voce ai tecno-entusiasti – della vecchia favola del postcapitalismo che verrà. Mason propone «un mondo senza mercato, i banchieri centrali eletti democraticamente, il potere nelle mani della società civile, un reddito di cittadinanza, l’azzeramento (o quasi) del tempo di lavoro, la produzione di macchine, beni e servizi a costi marginali nulli». Si torna al tempo in cui il web, agli inizi, «già dimostrava la sua sconfinata potenza nel produrre retoriche per sé e per la sua accettazione di massa», una macchina «capace di generare uno sconfinato e inarrestabile storytelling» in grado di «abbattere ogni pensiero critico, ogni analisi razionale, ogni anticonformismo tecnologico».Leggere Mason, continua Demichelis, fa l’effetto di un tempo che si è bloccato alle promesse della new economy degli anni ’90 del secolo scorso (che favoleggiava di fine dei fastidiosi cicli economici, prometteva la liberazione dalla fatica e un lavoro immateriale e intellettuale per tutti), alla fine del lavoro (1995) e all’era dell’accesso (2000) di Jeremy Rifkin, alla wikinomics di Don Tapscott e Anthony Williams (2007), al punkcapitalismo di Matt Mason (2009), passando per l’Howard Rheingold della rete che ci rende intelligenti (2012), al Rifkin (ancora) della società a costo marginale zero (2014), ovvero all’Internet delle cose, all’ascesa del “commons collaborativo” e quindi dell’eclissi del capitalismo. Senza dimenticare Toni Negri e Michael Hardt del Comune (2010), «per non citare che alcuni dei componenti di questo variegato mondo di profeti, di guru del post, abili nell’immaginare il nuovo regno di Dio-tecnica in terra, ma incapaci di fare preliminarmente una doverosa e foucaultiana archeologia dei poteri e dei saperi dominanti nelle società tecno-capitaliste».La loro soluzione per arrivare al postcapitalismo – più tecnologia, quindi condivisione e libera circolazione delle idee – è in contraddizione con la natura stessa della tecnologia, «ormai strettamente integrata al capitalismo (sono una cosa sola)», visto che proprio la tecnologia permette al capitalismo «di sopravvivere alle sue contraddizioni», mentre il capitalismo non è che «la benzina che permette alle nuove tecnologie di essere ciò che sono». Paradossale, aggiunge Demichelis, è dunque immaginare che quella tecnologia che sostiene il capitalismo e che lo ha reso globale (“totalitaria” la sua evangelizzazione) e che si serve del capitalismo per accrescersi, possa giocare contro se stessa liberandosi dal capitalismo che la sostiene. «Curioso: le ideologie o le religioni secolari del ‘900, che credevamo morte, sono in realtà più vive che mai e producono incessantemente nuove favole collettive, nuovi tecno-fideismi e tecno-integralismi che si offrono per dare un senso a un mondo apparentemente senza senso perché liquido, in realtà pesantissimo di connessioni obbligatorie, di incessanti pedagogie di adattamento non solo al mercato quanto alle nuove tecnologie». Come le nuove tecnologie di vent’anni fa «ci affascinano e ci promettono molto, e continuamente cediamo alla loro richiesta di fede». Illusioni: «Sanno di non avere mantenuto le promesse (meno lavoro, meno fatica, più libertà) e provano a rinnovare la promessa, chiedendoci di recitare nuovamente il loro Credo».Giornalista economico di simpatie laburiste, in questo “Postcapitalism” (che uscirà in Italia nei prossimi mesi), Mason scrive che il capitalismo finanziario di questi ultimi anni – erede di quello industriale e mercantile – avrebbe i giorni contati: la rivoluzione informatica determinerebbe una modifica sostanziale dei modi di produzione e di consumo, mettendo in discussione il sistema basato sulla legge della domanda e dell’offerta, della proprietà e dello scambio e inaugurando una nuova economia basata su tempo libero, attività in rete e gratuità. «La tecnologia ha creato una nuova via d’uscita», scrive Mason. «Quello che resta della vecchia sinistra – e di tutte le forze che ne sono state influenzate – si trova di fronte a una scelta: imboccare questa strada o morire». Il capitalismo «non sarà abolito con una marcia a tappe forzate», bensì «grazie alla creazione di qualcosa di più dinamico, che inizialmente prenderà forma all’interno del vecchio sistema, passando quasi inosservato, ma che alla fine aprirà una breccia, ricostruendo l’economia intorno a nuovi valori e comportamenti. Lo chiameremo postcapitalismo».Questo processo sarebbe già iniziato, grazie a tre grandi cambiamenti: nuove tecnologie, informazione dal basso, produzione condivisa. Le nuove tecnologie «hanno ridotto il bisogno di lavoro, rendendo meno netto il confine tra lavoro e tempo libero e meno stringente il rapporto tra lavoro e salario». Vero, ma questo non ha liberato il lavoro, semmai lo ha reso indistinguibile dalla vita (quindi siamo meno liberi), ha moltiplicato ritmi e intensità del lavorare e ha favorito forme di lavoro e di sfruttamento (quasi) senza retribuzione. Inoltre, annota Demichelis, «cancellando la distinzione tra vita e lavoro», le nuove tecnologie hanno prodotto «una società a mobilitazione tecno-economica totale e permanente». E l’informazione? «Sta erodendo la capacità del mercato di determinare i prezzi in modo corretto. I mercati si basano sulla scarsità, mentre l’informazione è abbondante. Il meccanismo di difesa del sistema è formare monopoli – le grandi multinazionali tecnologiche di oggi – su una scala che non ha precedenti negli ultimi duecento anni. Ma questo non può durare, perché contrasta con il bisogno fondamentale dell’umanità di usare le idee liberamente».Assolutamente falso, protesta Demichelis: «Il mercato sa benissimo come determinare i prezzi in modo corretto (per i propri profitti), grazie a delocalizzazioni, precarizzazione, sfruttamento, espropriazione della conoscenza altrui e condivisa, taylorismo digitale e rete», e quindi «usa proprio le nuove tecnologie per farlo». Altrettanto sbagliato è «credere che l’informazione e la conoscenza siano abbondanti (siamo piuttosto in una società della semplificazione, non della conoscenza)». Di fatto, «la conoscenza e l’informazione sono sempre meno libere e sempre più controllate dai motori di ricerca, oltre ad essere fonte (Big Data) di alti profitti per pochi, mentre monopoli sempre più grandi sono sempre più grandi proprio perché noi permettiamo loro di esserlo sempre di più, e perché è nella natura di un capitalismo non controllato». Quanto alla «crescita spontanea della produzione condivisa», con «beni, servizi e organizzazioni che non rispondono più ai principi del mercato e della gerarchia manageriale», Demichelis ribatte: «Anche questo è falso, ormai il mercato è ovunque e in ogni relazione umana (il neoliberismo vive in ognuno di noi come una consolidata disciplina dentro una consolidata biopolitica), il lavoro è sempre più merce e sempre più sfruttato – a meno di considerare produzione condivisa la sharing economy, l’uberizzazione del lavoro, il dover essere imprenditori di se stessi».«Quasi inosservati, nelle nicchie e negli angoli più nascosti del sistema di mercato – aggiunge Mason – interi settori economici stanno cominciando a prendere un’altra strada. Monete parallele, banche del tempo, cooperative e spazi autogestiti sono spuntati come funghi». Favole, replica Demichelis: in verità, da anni, le migliori reatà restano ai margini, senza riuscire a scalfire la potenza di fuoco del tecno-capitalismo. E intanto «i beni comuni vengono aggirati dalle logiche di mercato (come in Italia per l’acqua, nonostante il referendum) e la sharing economy è comunque sotto forma di impresa e agisce secondo il mercato, socializzandolo». Secondo Mason, «Marx immaginava qualcosa di molto simile all’economia dell’informazione in cui viviamo oggi, e aggiunge che la sua venuta farà saltare in aria il capitalismo». Ma in realtà “l’intelletto generale” di Marx «non è qualcosa di simile all’economia dell’informazione», e soprattutto «non farà saltare in aria il capitalismo proprio perché l’economia dell’informazione e della conoscenza è basata anch’essa sulla suddivisione/individualizzazione del lavoro e poi sulla sua integrazione/totalizzazione in qualcosa che è sempre e comunque alienato dal lavoratore stesso», sia esso «uberizzato o lavoratore della conoscenza e dell’informazione».Ci vuole ben altro, per uscire dal tecno-capitalismo: per Demichelis, «occorre una destrutturazione di tutti i meccanismi eteronomi e anti-democratici di messa al lavoro degli uomini (mercato e tecnica)», nonché «una liberazione dai vincoli di connessione (di rete e mercato) e di alienazione», e poi «un anticonformismo digitale, una laicizzazione della società contro l’integralismo religioso del tecno-capitalismo, una separazione netta (ma decisa dagli uomini, non dalle macchine, posto che la loro logica è quella dell’uso esaustivo del tempo e della produttività da accrescere sempre e comunque), tra tempi di vita e tempi di lavoro». Soprattutto, conclude l’analista di “Micromega”, è indispensabile «una riconsiderazione radicale (un rovesciamento) dei rapporti tra economia (che deve tornare ad essere un mezzo) e società (che deve tornare ad essere il fine)». Viceversa, contrariamente al Mason-pensiero, non esiste uscita di sicurezza dal tecno-capitalismo globalizzato che sta destabilizzando il mondo e minando la società occidentale.«E’ arrivato un nuovo profeta che promette un postcapitalismo meraviglioso, umano, collaborativo, intellettuale, gratuito». E’ Paul Mason, oracolo di un postcapitalismo che «ci porterà gioia, felicità, condivisione libera e liberazione dalla fatica». Basta «confidare nella potenza rivoluzionaria e salvifica delle nuove tecnologie», ovvero «credere che il web sia la nuova fabbrica», e che quindi «il suo proletariato digitale, diverso da quello industriale perché più informato e più connesso, possa abbattere questo capitalismo». Tutto bello e affascinante, scrive Lelio Demichelis. Peccato però che se il vecchio proletariato aveva «una propria coscienza di classe capace di fare contrasto al capitalismo», prima di sciogliersi in esso e condividerne l’egemonia, «questo proletariato digitale è nato invece già antropologicamente capitalista», vuole essere integrato (connesso) nel sistema, e «pur essendo forse ancora classe in sé (mai così tanti lavoratori precari, della falsa conoscenza, della sharing economy, taylorizzati e fordizzati in rete o uberizzati ovunque)» non sarà mai “classe per sé”, «perché incapace di una coscienza comune e di una progettualità politica alternativa», convinto com’è che «non ci sono alternative».
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Mitterrand: basta deficit, troppi soldi (e potere) ai cittadini
Perché ancora oggi ci sono persone senza cibo o acqua mentre altre vivono nell’abbondanza? Perché ancora oggi ci sono persone senza un lavoro e altre che ne hanno svariati? Perché ancora oggi ci sono persone senza casa e altre che ne hanno svariate? Perché ancora oggi ci sono persone senza soldi e altre con tanti soldi? Se davvero esiste una soluzione ai problemi della gente, perché nessuno la metta in pratica? Perché tutti si occupano sempre degli effetti dei problemi, trascurando le cause? Perché nessuno ci spiega qual è la causa? Perché se qualcuno conosce la causa, nessuno mette in campo la soluzione? Qual è la soluzione? Quotidianamente guardiamo, ascoltiamo e leggiamo del problema dei soldi che non ci sono, della disoccupazione che aumenta, dell’economia che non va bene perché i soldi non ci sono, degli imprenditori e dello Stato che non possono assumere perché non ci sono i soldi; del fatto che il debito pubblico aumenta perché l’economia non va bene perché mancano i soldi e quindi bisogna tagliare le spese ed aumentare le tasse in modo da abbassare i decifit annuali e il debito pubblico.Spesso addirittura ci dicono che dobbiamo fare il surplus di bilancio: che in sostanza significa che lo Stato incassa più di quando spende, perché se abbassiamo il debito i “mercati” (che semplicemente sono dei privati da alcuni anni abilitati a prestarci i soldi – incredibile, ma vero…) ci guarderanno con occhio differente e le agenzie di rating americane che controllano la vita dei singoli Stati in giro per il mondo (la vita di tutti noi), saranno più felici e non ci declasseranno. Ma chi sono i proprietari di questi maledetti soldi? Ci sono persone che essendo promotrici di queste “politiche criminali” finalizzate all’arricchimento dei singoli a discapito di tutti gli altri, conoscono ovviamente anche la risoluzione dei nostri problemi: risoluzione/soluzione che potrebbe essere applicata nel giro di pochi mesi e servirebbe a mettere al sicuro miliardi di vite attualmente letteralmente abbandonate a se stesse o in estremo pericolo).Oggi gli Stati si dividono in due categorie: quelli che possiedono una moneta sovrana e quelli che non hanno moneta sovrana. Le monete sovrane, per essere considerate veramente tali, devono seguire tre criteri fondamentali: devono essere di proprietà dello Stato che le emette, non devono essere convertibili in nessun materiale concreto tipo oro o argento e devono essere fluttuanti, il che significa che non possono essere cambiate a un tasso fisso con altre monete, quindi vengono lasciate fluttuare sui mercati, che decidono di volta in volta i tassi di cambio. Il dollaro, la sterlina e lo yen, ad esempio, sono monete sovrane perché rispettano questi tre criteri. Le monete non sovrane, invece, sono monete che non hanno nessuna proprietà. Gli Stati a moneta sovrana spendono inventando la moneta e accreditano i conti correnti di coloro che vendono loro beni o servizi. Gli Stati a moneta sovrana, quindi, creano ricchezza quando spendono e tolgono ricchezza ai cittadini quando tassano. Da ciò si deduce che, se tutti gli Stati a moneta sovrana spendono più di quanto tassano, questo arricchisce la società.Negli Stati a moneta sovrana il debito pubblico non è il debito dei cittadini ma la loro ricchezza. Quindi, se uno Stato a moneta sovrana decide di eliminare o pareggiare il debito, esso cesserà l’arricchimento dei cittadini. Immaginiamo che oggi nasce lo Stato X, che abbiamo un debito zero e che il Governo appena eletto dal popolo il primo anno decide di costruire 10 caserme, 100 scuole, 1000 ospedali, 10.000 Università, 100.000 strade eccetera… quindi, cosa fa il governo? Semplicemente inventa la moneta, accredita i conti corrente delle persone che lavorano per la costruzione di queste opere, quindi spende e distribuisce ricchezza. Immaginiamo che il primo anno il governo spende 100 monete per costruire questi beni e tassa il popolo per 70 monete, quindi chiude il bilancio annuale con un debito di 30 monete. Cosa succede a fine anno? Semplicemente il governo ha arricchito il popolo di 30 monete perché ha creato un debito di 30 monete. Quindi: se il governo che possiede moneta sovrana crea debito, genera ricchezza e fa sì che le persone possano avere monete per fare la spesa, comprare casa, fare un viaggio, acquistare una macchina, eccetera.Immaginiamo invece la situazione opposta. Il governo decide di costruire altri beni, quindi paga le aziende private che gli forniscono questi beni e, naturalmente, assume ancora altro personale. Questa volta, però, il governo inventa e spende ancora 100 monete per pagare gli stipendi di coloro che gli forniscono questi beni e servizi ma tassa il popolo per 160 monete, quindi chiude il bilancio annuale in attivo, non fa alcun debito ed anzi: pareggia il debito che aveva accumulato nei primi due anni (il governo, in sostanza, in 3 anni di lavoro ha speso 300 monete ed ha incassato 300 monete). Cosa succede? Semplice: succede che i cittadini dello Stato X non avranno in tasca più nessuna moneta, quindi nessuno potrà più spendere finché il governo non deciderà di fare debito chiudendo il bilancio in passivo generando ricchezza. Il debito è la nostra ricchezza, e se i governi che possiedono moneta sovrana decidono di abbassare il debito anche di un solo punto, questo sottrae ricchezza ai popoli: azzerarlo, come sicuramente avrete compreso, è impossibile.Questo ragionamento, naturalmente, vale solo per gli Stati che possiedono la cosiddetta moneta sovrana: cioè tutti gli Stati proprietari della propria moneta (proprio come lo era l’Italia qualche anno fa: adesso, grazie all’euro, abbiamo perso la nostra sovranità e non possiamo più stampare, non possiamo più creare moneta, non possiamo più avere una vera politica, non possiamo più fare scelte autonome. Dice Paul Krugman, Premio Nobel per l’Economia: «Adottando l’euro, l’Italia si è ridotta allo stato di una nazione del Terzo Mondo che deve prendere in prestito una moneta straniera, con tutti i danni che ciò implica». L’unica alternativa che oggi tutti i paesi che non possiedono una moneta sovrana hanno a disposizione per cercare di sopravvivere è quella di chiedere la moneta ai mercati dei capitali privati che successivamente strangolano e distruggono questi paesi con gli interessi.L’altra possibilità che questi paesi hanno per sopravvivere, naturalmente, è quella di licenziare, non assumere, assumere attraverso contratti precari che costano poco, chiedere la moneta al popolo attraverso le tasse che aumentano quotidianamente, privatizzare, liberalizzare, svendere, innalzare l’età pensionabile, tagliare gli stipendi, tagliare le pensioni, tagliare i fondi alla cultura, alla ricerca, alla scuola, alle università, alla sanità, ai servizi sociali e locali e chi più ne ha più ne metta: ecco spiegata la quotidianità di tantissimi paesi ed il meccanismo all’interno della quale attualmente si trova anche il nostro paese. La moneta in generale, comunque, non è mai di proprietà dei cittadini privati o delle banche: essi possono solo usarla, prendendola in prestito dalle banche o guadagnandola attraverso il lavoro. I soldi sono un mezzo che lo Stato spende per primo e solo successivamente tutti i cittadini ne usufruiscono, spendendoli a loro volta.Hanno tolto ad alcuni Stati la possibilità di stampare moneta e hanno fatto credere ad altri che possono ancora stampare, che il debito sovrano di un paese è un vero debito per il preciso fine descritto in maniera impeccabile dall’economista Joseph Halevi: «Quello che è in gioco è la totale privatizzazione della finanza pubblica e dunque la distruzione degli Stati». Come ci spiega il “Rapporto Grandi Disuguaglianze Crescono” di Oxfam, presentato nel gennaio 2015: «La ricchezza detenuta da meno dell’1% della popolazione mondiale supererà nel 2016 quella del restante 99%.» François Mitterand, parlando con Halevi a proposito del tema inflazione, deflazione, disoccupazione, precarietà e naturalmente del tema della piena occupazione, affermava: «La gente deve togliersi di mezzo. La piena occupazione darebbe troppo potere al popolo. La deflazione, la disoccupazione e i lavori precari, invece, glielo sottraggono».Ok, ma quanto e fino a quando può spendere uno Stato? Randall Wray, tra i più importanti e accreditati economisti e monetaristi del mondo: «Se capiamo come funzionano i sistemi monetari, se comprendiamo che il denaro è solo impulsi elettronici o carta straccia inventata dal Tesoro e dalla Bc, allora possiamo dire che il governo a moneta sovrana può inventarsi tutti gli impulsi elettronici che vuole, con essi può pagare tutti gli stipendi che vuole, comprare tutto ciò che vuole. Possiamo avere la piena occupazione, il business può vendergli tutto ciò che deve vendere se il governo vuole comprarglielo. Può il governo permettersi queste spese? Certo, perché il governo non esaurirà mai gli impulsi elettronici, dunque non farà mai bancarotta; preme un bottone e gli stipendi appaiono sui computer delle banche. L’unico limite è l’inflazione, ma se il governo spende per aumentare la produttività nel settore privato, allora l’inflazione non è più un problema».Per quale motivo, se è così semplice raggiungere l’obiettivo della piena occupazione, esso non sia mai stato perseguito? Ancora Wray: «Non è successo perché innanzi tutto ci sono un sacco di politici ed economisti che non capiscono nulla dei sistemi monetari, cioè non sanno capire che il denaro è solo impulsi elettronici e carta straccia. Poi ci sono molti individui nelle posizioni chiave del potere che sono opposti ideologicamente a questa idea, cioè vogliono la disoccupazione, gli piace, gli dà schiere di lavoratori a stipendi sempre più ridotti e possono competere sui mercati esteri sempre meglio. Ma soprattutto questo, si faccia attenzione: se i cittadini, che formano gli Stati ed eleggono i governi, si rendessero conto che i governi possono spendere quanto vogliono senza limiti di debito, allora il settore pubblico acquisirebbe una percentuale della ricchezza nazionale troppo grossa».Eccesso di inflazione? Lo Stato introduce una tassa temporanea, in modo da togliere di mezzo gli eventuali soldi in eccesso e la situazione è risolta. In conclusione: se il settore pubblico acquisisse una percentuale della ricchezza troppo grossa, i privati non avrebbero più ragione d’esistere, avrebbero un ruolo troppo marginale, un ruolo di scarsa importanza, pochi soldi, troppo poco potere, sarebbero dei normali lavoratori: non sarebbero più intoccabili e onnipotenti come lo sono diventati oggi. Questo è il motivo per cui ci lasciano vivere nell’attuale mondo che funziona al contrario e con la quotidiana paura del debito e dell’inflazione che ci viene quotidianamente “imposta” da tutti i loro amici inseriti nell’informazione ufficiale.(Vincenzo Bellisario, estratti da “Riepilogo generale finalizzato alla comprensione dei meccanismi monetari ed economici in favore della piena occupazione applicabili in Italia e nel mondo”, intervento pubblicato sul sito del Movimento Roosevelt il 18 ottobre 2015).Perché ancora oggi ci sono persone senza cibo o acqua mentre altre vivono nell’abbondanza? Perché ancora oggi ci sono persone senza un lavoro e altre che ne hanno svariati? Perché ancora oggi ci sono persone senza casa e altre che ne hanno svariate? Perché ancora oggi ci sono persone senza soldi e altre con tanti soldi? Se davvero esiste una soluzione ai problemi della gente, perché nessuno la metta in pratica? Perché tutti si occupano sempre degli effetti dei problemi, trascurando le cause? Perché nessuno ci spiega qual è la causa? Perché se qualcuno conosce la causa, nessuno mette in campo la soluzione? Qual è la soluzione? Quotidianamente guardiamo, ascoltiamo e leggiamo del problema dei soldi che non ci sono, della disoccupazione che aumenta, dell’economia che non va bene perché i soldi non ci sono, degli imprenditori e dello Stato che non possono assumere perché non ci sono i soldi; del fatto che il debito pubblico aumenta perché l’economia non va bene perché mancano i soldi e quindi bisogna tagliare le spese ed aumentare le tasse in modo da abbassare i decifit annuali e il debito pubblico.
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Giulietto Chiesa: è arrivata la bufera, a lungo annunciata
Alcuni mesi orsono, il giornalista e uomo politico Giulietto Chiesa ha pubblicato per i tipi di Piemme Edizioni il volume “E’ arrivata la bufera”. Quest’opera contiene la riproposizione del saggio intitolato “Invece della Catastrofe”, oltre ad un lungo articolo dedicato ai fatti parigini di inizio gennaio 2015, ovvero la strage presso la sede della redazione del periodico satirico Charlie Hebdo. A distanza di un anno e mezzo dalla prima pubblicazione, “Invece della catastrofe” torna dunque a proporsi quale indispensabile strumento cognitivo della modernità. Va colta prima di tutto una peculiarità di questo scritto: esso è inchiesta giornalistica, analisi, e proposta politica, che si pone l’obiettivo di abbracciare e racchiudere nel proprio sguardo partecipe la realtà nella sua globalità. A differenza di altri pur brillanti scritti di questi anni, il libro di Chiesa coglie nel loro stretto legame fenomeni quali il profilarsi di una crisi irreversibile dell’eco-sistema, l’agonia degli stati-nazione sotto la scure del debito di proprietà delle banche, il mutamento antropologico dell’uomo occidentale avulso, disancorato dalla realtà e schiavo dei moderni mezzi di comunicazione, lo spirare di nuovi venti di guerra da ovest, da quegli Stati Uniti d’America che non sanno accettare la perdita del ruolo di superpotenza in un nuovo mondo multi-polare.
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Acqua, rifiuti, energia: piglia tutto la lobby delle multiutility
«Siamo l’ultimo paese sovietico d’Europa»; con queste parole Erasmo D’Angelis, capo dell’unità di missione Italiasicura e rappresentante del governo Renzi, ha salutato il battesimo di Utilitalia, la nuova associazione dei gestori di servizi pubblici locali, nata dalla fusione di Federambiente e di Federutility. «Dobbiamo passare da circa 1.500 società partecipate a 20 società regionali per la gestione dei rifiuti, 5 grandi player per il servizio idrico integrato, 3 per la distribuzione del gas e 4 per il trasporto pubblico locale. Settore quest’ultimo che va inserito subito in Utilitalia, perché sarà il primo a bandire le gare per affidare la gestione dei servizi». Ecco scodellato in tre righe il programma del governo, naturalmente non discusso in nessuna sede con i cittadini, gli enti locali e le comunità territoriali, bensì annunciato di fronte alla nuova holding dei gestori.Anche perché, ai cittadini, D’Angelis e Renzi dovrebbero spiegare che ne è della vittoria referendaria del giugno 2011, con la quale 27 milioni di italiani avevano sancito la gestione pubblica, partecipativa e senza profitti dell’acqua e dei beni comuni. Un programma di governo portato avanti a colpi di normative (SbloccaItalia, Legge di stabilità, disegno di legge Madia) e con l’utilizzo del patto di stabilità interno come arma contro i cittadini, consentendo ai sindaci di poter utilizzare e spendere le somme ricavate dalla privatizzazione dei servizi pubblici locali. «L’obiettivo di queste fusioni e incorporazioni sarà l’innalzamento dello standard di qualità dei servizi e la riduzione dei costi per i cittadini», ha chiosato il presidente di Utilitalia Giovanni Valotti, trovando l’immediato consenso del presidente dell’Autorità per l’energia Guido Bortoni – il cui stipendio, giova ricordare, è pagato dalle medesime società di servizi – e del ministro per la pubblica amministrazione Marianna Madia.Occorre forse qui ripetere un semplice ragionamento, che si pensava, dopo un referendum, di non dover più riprendere. Dentro quest’idea di privatizzazione e di finanziarizzazione dei servizi pubblici locali, vogliono lor signori dirci una volta per tutte da dove proverranno i profitti per le grandi multiutility che tutto gestiranno? Perché a noi risulta che nel caso della gestione dell’acqua, dei rifiuti, dell’energia, ovvero di tutti i beni comuni, il profitto sia concretamente ottenibile solo ed esclusivamente da cinque possibili fattori: a) la riduzione del costo del lavoro, attraverso la diminuzione dell’occupazione e la precarizzazione dei contratti; b) la riduzione degli investimenti, come già sperimentato nell’ultimo decennio di gestioni attraverso SpA; c) la riduzione della qualità del servizio, con meno manutenzioni, controlli etc.; d) l’aumento delle tariffe, che infatti salgono esponenzialmente; e) l’aumento dei consumi della risorsa.Tutti fattori in diretto contrasto con l’interesse generale e che si realizzano puntualmente in ogni processo di privatizzazione. Quanto al mantra dell’economia di scala, anche i sassi ormai sanno che, oltre una certa soglia (300.000 abitanti, salvo realtà urbane metropolitane), la scala più ampia produce esattamente disservizi e diseconomie. Territorio per territorio, comunità locale per comunità locale, occorre opporsi a questo disegno, rivendicando la riappropriazione sociale dei beni comuni, della ricchezza collettiva e della democrazia dal basso come condizioni per un altro modello sociale. Bisogna riprendersi il comune per riprendersi i Comuni.(Marco Bersani, “La lobby delle multility”, da “Attac Italia” del 20 giugno 2015).«Siamo l’ultimo paese sovietico d’Europa»; con queste parole Erasmo D’Angelis, capo dell’unità di missione Italiasicura e rappresentante del governo Renzi, ha salutato il battesimo di Utilitalia, la nuova associazione dei gestori di servizi pubblici locali, nata dalla fusione di Federambiente e di Federutility. «Dobbiamo passare da circa 1.500 società partecipate a 20 società regionali per la gestione dei rifiuti, 5 grandi player per il servizio idrico integrato, 3 per la distribuzione del gas e 4 per il trasporto pubblico locale. Settore quest’ultimo che va inserito subito in Utilitalia, perché sarà il primo a bandire le gare per affidare la gestione dei servizi». Ecco scodellato in tre righe il programma del governo, naturalmente non discusso in nessuna sede con i cittadini, gli enti locali e le comunità territoriali, bensì annunciato di fronte alla nuova holding dei gestori.
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Salvini è perfetto per far sembrare Renzi il meno peggio
Tra i migliori trucchi per vincere, in qualsiasi campo, c’è quello di scegliersi il nemico. Non è un trucco difficile: basta che siano tutti distratti o ipnotizzati ed è un giochetto da ragazzi. Come se il Barcellona potesse decidere da solo che una finalissima la giocherà, che so, contro la Battipagliese. E’ un’operazione semplice: basta dire chi è l’avversario e assicurarsi una platea plaudente che si dica d’accordo, che magari si finga preoccupata dicendo cose come: “Ah, però, non sottovalutiamo la Battipagliese”. Così Matteo Renzi and his friends indicano in Matteo Salvini il nemico, l’unica opposizione esistente, l’unico avversario. Gli altri, o nominati con sufficienza o nemmeno citati: concentrarsi su Salvini sembra essere l’ordine di scuderia, forse nella speranza che al momento della scelta suprema e definitiva l’italiano di imprinting anche vagamente democratico preferisca il neocraxismo del Pd renzista alle ruspe dell’altro ragazzotto, quello con la felpa.E’ una buona mossa, soltanto un po’ rischiosa. Intanto perché vista la rapidità con cui Renzi perde pezzi di elettorato le cose possono cambiare velocemente (si veda l’ingresso al Nazzareno dalla porta posteriore, essendo quella principale presidiata da ex elettori infuriati, insegnanti nella fattispecie). E poi perché per indicare un avversario bisogna in qualche modo mettersi sul suo piano, accettarne almeno il gioco, sfidarlo sullo stesso campo. Si ricorda per esempio en passant che mentre il Salvini gigioneggia in giro parlando di ruspe e pogrom, le ruspe sono state usate a Roma, alla favela di Ponte Mammolo, per cacciare senza preavviso gente che ci abitava da anni, senza soluzioni alternative accettabili. Risultato: in una città dove si discute fittamente se gli affari sulla pelle dei migranti si possano o no chiamare “mafia” (una mafia decisamente bipartisan, tra fascisti conclamati, coop rosse e esponenti Pd), c’è ancora gente che dorme per strada davanti alla sua baracca spianata dalle ruspe.Eroiche associazioni di volontari e persone civili chiedono aiuto sui social: servono medicine, cibo, acqua, carta igienica. Qualche tenda l’ha fornita una nota (e a questo punto: meritoria) catena di articoli sportivi, mentre le istituzioni si accapigliano sui giornali a proposito di inchieste e mandati di cattura. Il salvinismo teorico di Salvini, insomma, si contrappone a un salvinismo reale, che le ruspe le usa davvero, ma si circonda di una narrazione umanitaria, confortevole pietosa. C’è chi dice che l’onnipresenza di Salvini in tivù (è quello, non il brillante eloquio da seconda media, che gli procura consensi) sia incoraggiata e agevolata proprio a questo scopo: trasformare una dialettica politica complessa in un derby tra buoni e cattivi, o almeno tra peggio e meno peggio.E’ una dietrologia complottista e quindi non le daremo peso. Ma è certo che anche i media tifano per quella soluzione da pensiero binario: o il Matteo buono (?) o il Matteo cattivo (!), e non ci sarà altra scelta. Sanno tutti che non è così, ma per il momento la cosa sembra funzionare: è una semplificazione, una caricatura, uno schema facile, e dunque – in tempi di distrazione di massa – conveniente. Il giochetto non durerà a lungo: tra uno che straparla di ruspe e uno che dice “Ok, discutiamo” puntando la pistola, sarà inevitabile una qualche terza via. Perché il trucchetto di scegliersi il nemico ha questa controindicazione: qualcuno potrebbe pensare che sono nemici entrambi, e finiscono per somigliarsi.(Alessandro Robecchi, “Ti piace vincere facile? Basta scegliere l’avversario”, da “Micromega” del 13 giugno 2015).Tra i migliori trucchi per vincere, in qualsiasi campo, c’è quello di scegliersi il nemico. Non è un trucco difficile: basta che siano tutti distratti o ipnotizzati ed è un giochetto da ragazzi. Come se il Barcellona potesse decidere da solo che una finalissima la giocherà, che so, contro la Battipagliese. E’ un’operazione semplice: basta dire chi è l’avversario e assicurarsi una platea plaudente che si dica d’accordo, che magari si finga preoccupata dicendo cose come: “Ah, però, non sottovalutiamo la Battipagliese”. Così Matteo Renzi and his friends indicano in Matteo Salvini il nemico, l’unica opposizione esistente, l’unico avversario. Gli altri, o nominati con sufficienza o nemmeno citati: concentrarsi su Salvini sembra essere l’ordine di scuderia, forse nella speranza che al momento della scelta suprema e definitiva l’italiano di imprinting anche vagamente democratico preferisca il neocraxismo del Pd renzista alle ruspe dell’altro ragazzotto, quello con la felpa.
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Barnard: come asfaltare chi osa negare i crimini di Israele
Quando, il 22 luglio 1946, il terrorismo sionista fece esplodere l’hotel King David di Gerusalemme che ospitava il quartier generale britannico uccidendo 86 funzionari e 5 passanti, e mandando all’ospedale altre 58 persone, Winston Churchill dichiarò testualmente: «Se i nostri sforzi per il futuro del sionismo devono produrre un nuovo gruppo di delinquenti degni della Germania nazista, molti come me dovranno riconsiderare le posizioni tenute così a lungo». Nella stessa epoca, 1948, Albert Einstein e Hannah Arendt scrissero di loro pugno sul “New York Times” una protesta veemente contro la brutale ferocia sionista verso i palestinesi, definendola «simile, in organizzazione e metodi, ai partiti nazisti e fascisti». Lo stesso anno, fu addirittura un ministro del primo governo dello Stato d’Israele, Aharon Cizling, a dichiarare: «Adesso anche gli ebrei si sono comportati come i nazisti, e io sono sotto shock». Parole che tutti dovrebbero ricordare sempre, sottolinea Paolo Barnard, autore di uno studio – basato su prove e documenti storici – che accerta le spaventose e sistematiche atrocità (preventive) commesse da Israele contro i palestinesi.E’ sempre Israle che sferra il primo colpo, e si tratta di un colpo mortale: pulizia etnica, aggressioni terroristiche, omicidi, campagne militari, stragi, stupri di massa, persecuzioni di ogni genere. Tramortiti da tanta violenza, i palestinesi impiegarono oltre 50 anni a reagire, portando il loro caso di fronte alle Nazioni Unite. Tutto inutile, però: Israele continua a uccidere, e il mainstream lo dipinge regolarmente come vittima della storia e della violenza araba. Una montagna sanguinosa di mistificazioni, che Barnard prova a demolire pubblicando il mini-saggio “Come ‘asfaltare’ chi difende Israele con 10 autorevoli risposte”. Fonti: libri di storia di ogni provenienza, relazioni di organi internazionali, documenti ufficiali di governi occidentali. Autore di libri scomodi come “Perché ci odiano”, che indaga le reali cause della (recente) ostilità del mondo islamico verso l’Occidente imperialista, Barnard definisce questo nuovo studio una «guida imbattibile per distruggere uno per uno gli argomenti usati dai personaggi mediatici asserviti alla menzogna quando difendono il terrorismo d’Israele e il genocidio dei palestinesi».Premessa: «Anti-sionismo non significa antisemitismo. Sionisti = élite ebrea criminale genocida dominante in Palestina dall’800 a oggi. Semiti sono i normali ebrei e palestinesi, d’Israele, della Palestina o del mondo. Solo gli ignoranti, o i falsari amici dei sionisti, spacciano un anti-sionista per antisemita». Primo luogo comune: “Sono gli arabi ad aver sempre attaccato gli ebrei emigrati in Palestina per sfuggire alle persecuzioni europee”. Falso: «Menzogna storica totale. Per tutto il XIX secolo e oltre, i palestinesi accolsero l’emigrazione ebraica europea con favore, amicizia ed entusiasmo. Al punto che le massime autorità religiose ebraiche d’Europa lo testimoniarono». Lo disse il 16 luglio del 1947 l’eminente rabbino Yosef Tzvi Dushinsky, alle Nazioni Unite: prima del sionismo, «non vi fu mai un momento, nell’immigrazione degli ebrei ortodossi europei in Palestina, nel quale gli arabi abbiano opposto resistenza alcuna. Al contrario, quegli ebrei erano i benvenuti per via dei benefici economici e del progresso che ricadevano sugli abitanti locali, che mai temettero di essere sottomessi. Era risaputo che quegli ebrei giungevano solo per motivi religiosi e non ebbero difficoltà a stabilire rapporti di fiducia e di vera amicizia con le comunità locali».Vent’anni prima, si esprimeva nello stesso modo un altro rabbino di grande fama, Baruch Kaplan, già a capo della “Beis Yaakov Girls School” di Brooklyn, in giovinezza attivo nella Yeshiva (scuola religiosa) di Hebron. «Gli arabi – dichiarò Kaplan – furono sempre assai amichevoli, e noi ebrei condividemmo la vita con loro a Hebron secondo relazioni di buona amicizia». Lo stesso religioso riferì che il rabbino polacco Avraham Mordechai Alter aveva compiuto una ricognizione in Palestina per «capire che tipo di persone erano i palestinesi, così da poter poi dire alla sua gente se andarci o no». In una lettera, «scrisse che gli arabi erano un popolo amichevole e assai apprezzabile». Lo conferma la Commissione Shaw del governo inglese, a proposito delle violenze fra arabi e sionisti nel 1929: «Prima della Grande Guerra (1915-18) gli arabi e gli ebrei vivevano fianco a fianco, se non in amicizia, almeno con tolleranza». Negli 80 anni precedenti, cioè in epoca precedente al fenomeno sionista, «non ci sono memorie di scontri violenti fra i due popoli». Due popoli? Secondo la vulgata sionista, non esisteva un vero popolo Si trattava di “tribù sparse”, con “pochi individui che vivevano sulle terre bibliche”. Un leader storico del movimento sionista europeo, Israel Zangwill, dichiarò a inizio secolo che «la Palestina è una terra senza popolo», al contrario degli ebrei, «popolo senza terra». Una menzogna, scrive Barnard, smentita di nuovo dall’interno dello stesso movimento sionista europeo, che iniziò la colonizzazione su larga scala della Palestina alla fine del XIX secolo.Al 7° congresso sionista del 1905, un leader di nome Yitzhak Epstein si alzò e lasciò agli atti questa frase: «Diciamoci la verità. Esiste nella nostra cara terra d’Israele un’intera nazione palestinese, che vi ha vissuto per secoli, e che non ha mai pensato di abbandonarla». La narrazione filo-sionista condanna chi considera colonialisti gli israeliani? Peccato, perché «il movimento sionista europeo nacque razzista, violento e prevaricatore (come è oggi). All’arrivo in Palestina trattarono subito i palestinesi come bestie, perché li consideravano poco più che bestie. Furono i sionisti a iniziare violenze e atrocità contro i palestinesi pacifici». A inizio ‘900, in uno scambio fra un fondatore del movimento sionista ebreo europeo, Chaim Weizmann (che sarà il primo presidente d’Israele nel 1948) e gli allora padroni coloniali inglesi, si legge: «Gli inglesi ci hanno detto che in Palestina ci sono qualche migliaio di negri (“kushim”), che non valgono nulla». Parole inequivocabili, e indelebili. Il più celebre umanista sionista della storia, Ahad Ha’am, lanciò un allarme contro la violazione dei diritti dei palestinesi da parte dei sionisti: gli ex “servi nelle terre della Diaspora” «d’improvviso si trovano con una libertà senza limiti, e questo cambiamento ha risvegliato in loro un’inclinazione al dispotismo».«Essi – continua Ha’am – trattano gli arabi con ostilità e crudeltà, gli negano i diritti, li offendono senza motivo, e persino si vantano di questi atti. E nessuno fra di noi si oppone a queste tendenze ignobili e pericolose». Era il 1891, osserva Barnard, mezzo secolo prima di Hitler: già allora il razzismo e la violenza sionista faceva questo a palestinesi innocenti. «Per quasi 50 anni prima dell’Olocausto – continua Barnard – i sionisti che emigravano in Palestina aggredirono i palestinesi e programmarono nei dettagli la pulizia etnica della Palestina, con metodi feroci e terroristici. Ripeto: 50 anni prima di Hitler». Il padre del movimento sionista, Theodor Herzl, aveva dichiarato: «Tenteremo di sospingere la popolazione (palestinese) in miseria oltre le frontiere, procurandogli impieghi nelle nazioni di transito, mentre gli negheremo qualsiasi lavoro sulla nostra terra… Sia il processo di espropriazione che l’espulsione dei poveri devono essere condotti con discrezione e di nascosto». Un’altra personalità sionista di fine ‘800, Leo Motzkin, sancì: «La colonizzazione della Palestina si fa colonizzando tutta l’Israele biblica, e deportando i palestinesi da altre parti».E’ quindi ovvio che il destino di pulizia etnica del palestinesi fu progettato 50 anni prima della Shoah. E anche nelle decadi successive alla fine ‘800, «il razzismo e la pulizia etnica contro i palestinesi rimasero priorità», per lo Stato ebraico. Alla fine degli anni ’30, ricorda Barnard, «il leader sionista Yossef Weitz aveva anticipato gli infami protocolli nazisti di Wannsee (che, fra le altre cose, listavano gli ebrei d’Europa da deportare) scrivendo i ‘Registri dei Villaggi’ dove si indicavano tutte le famiglie palestinesi da cacciare a forza». Peggio: «Addirittura Ephraim Katzir (che diventerà presidente di Israele, pensate) arrivò a lavorare in laboratorio per trovare un veleno per accecare i palestinesi». Il leader storico sionista, David Ben Gurion, aveva redatto il Piano Dalet per la completa pulizia etnica della Palestina ben prima dell’arrivo in Palestina dei profughi dai campi di sterminio tedeschi. Nel suo stesso diario, Ben Gurion scrisse cose atroci su come colpire i palestinesi innocenti: «Dobbiamo essere precisi su coloro che colpiamo. Se accusiamo una famiglia palestinese non c’è bisogno di distinguere fra colpevoli e innocenti. Dobbiamo fargli del male senza pietà, altrimenti non sarebbe un’azione efficace».E allora, l’aggressione araba contro gli ebrei del 1948? “Tutte le nazioni arabe attorno alla Palestina – dice il mainstream sionista – tentarono di sterminare gli ebrei, che per fortuna vinsero quella guerra, se no sarebbe stato un altro Olocausto!”. Infatti, i leader arabi “incitarono via radio i palestinesi ad abbandonare i loro villaggi per permettere lo sterminio degli ebrei!”. Per questo, “i palestinesi se ne andarono volontariamente”. «Menzogna completa», protesta Barnard. Intanto, allo scoppio della guerra arabo-ebraica del 1948, gli ebrei sionisti avevano già inflitto 50 anni di atrocità, pulizia etnica e stragi ai civili palestinesi, «per cui la reazione araba aveva una giustificazione pluri-decennale». Ma la tanto millantata guerra del 1948 fu «una messa in scena totale, una vera bufala già organizzata affinché i sionisti vincessero, grazie ad accordi segreti fra Ben Gurion e il Re arabo della Transgiordania, Abdullah». La “guerra bufala”, la chiamò nelle sue memorie il comandante delle truppe arabe, l’ufficiale arabo-inglese Glubb Pasha.Il re Abdullah e Ben Gurion finsero di combattersi per poi spartirsi la Palestina. Le altre truppe arabe non potevano impensierire Israele: «Gli egiziani erano per la metà Fratelli Musulmani con le ciabatte ai piedi, i libanesi non combatterono mai, i siriani erano armati ma erano quattro gatti, e gli iracheni erano sotto gli ordini del traditore Abdullah, per cui fecero nulla». Infatti, dai diari di Ben Gurion, risulta che in piena guerra del ’48 raccomandò al suo esercito: «Tenete il meglio delle truppe per la pulizia etnica della Palestina, secondo il Piano Dalet». Quanto alle “trasmissioni radio” dei leader arabi per incitare i palestinesi ad abbandonare la regione, si tratta di un falso storico sonoramente smentito dalla Bbc, che monitorò l’intera massa di comunicazioni circolate in Medio Oriente nel 1948. Tutte le trascrizioni sono custodite al British Museum di Londra: in esse, scrive Barnard, non vi è traccia di un singolo ordine di evacuazione da parte di alcuna radio araba dentro o fuori dalla Palestina.Al contrario, si possono leggere gli appelli ai civili palestinesi affinché rimanessero a presidiare le loro case. E lo si può ben capire: nel 1948, alla vigilia della guerra “fondativa” del mito dell’invincibilità militare di Davide che si batte per difendersi dal gigante Golia, «la pulizia etnica sionista aveva già espulso 750.000 palestinesi, tutti civili». Ma la menzogna è tenace, si replica puntualmente con la Guerra dei Sei Giorni del 1967, quando gli arabi “tentarono di sterminare gli israeliani”, i quali “in una prova di eroismo militare riuscirono ad evitare un altro Olocausto”. «Questa versione è una farsa, distrutta vergognosamente dai documenti segreti del governo americano e della Cia», annota Barnard. «Non solo gli israeliani non corsero alcun reale pericolo nella cosiddetta Guerra dei Sei Giorni, ma gli arabi tentarono di tutto per non combattere, e furono ignorati da Tel Aviv e dagli Usa. Il governo israeliano invece terrorizzò la popolazione ebraica in quell’occasione, sapendo perfettamente che avrebbe attaccato per primo e avrebbe stravinto».Lo rivelano i documenti americani “declassificati” nel 2005: fu Israele ad aggredire gli arabi, non il contrario. La Cia sapeva che Israele avrebbe annientato gli arabi. Il 3 giugno 1967, al Pentagono, il ministro della difesa statunitense Robert McNamara incontrò il capo del Mossad, Meir Amit. «Quanto durerà questa guerra?», gli chiese. «Durerà sette giorni», rispose il capo dell’intelligence israeliana. Tutto questo mentre il presidente egiziano Nasser, teoricamente nemico di Israele, «disperatamente tentava i contatti con gli inglesi e con gli americani per evitare la guerra», inviando a Washington il suo ministro degli esteri Zakariya Mohieddin per cercare di mediare la pace. «Mentre Mohieddin sta per partire per l’America, gli israeliani attaccano l’Egitto e distruggono l’esercito egiziano».Il premier israeliano Menahem Begin, molti anni dopo confessò tutto: l’aggressione araba era una ‘bufala’. Fu Israele ad aggredire, disse al “New York Times”: «Nel giugno del 1967 di nuovo affrontammo una scelta. Le armate egiziane nel Sinai non erano per nulla la prova che Nasser ci stesse attaccando. Dobbiamo essere onesti con noi stessi. Noi decidemmo di attaccare lui». Questa, conclude Barnard, è un’altra grande bugia che ci hanno raccontato, ed è un modello della storiografia su Israele: «Ci raccontano sempre questa cosa, che Israele è la vittima, che sta per soccombere agli arabi cattivi, mentre la realtà è esattamente diametralmente l’opposto». Perché tante menzogne? Semplice: «L’élite bellica sionista-israeliana ha bisogno delle finte aggressioni arabe, ha bisogno dei pericoli, ha bisogno della minaccia inventata o gonfiata per mantenersi al potere».Per questo, aggiunge Barnard, l’élite israeliana ha così tanta paura della pace, e lavora da sempre – anche all’Onu – per sabotarla in ogni modo, a partire dalla storica risoluzione 181 del 1947. «La leadership sionista visse, e sopravvive oggi, solo grazie alla strategia della tensione che loro creano provocando violenze, proprie o palestinesi, continue». Se la leadership sionista accettasse la pace, continua Barnard, «dovrebbe confrontarsi con un paese, Israele, che essa gestisce da cani». A quel punto, «gli israeliani li caccerebbero». Sono vittime del loro governo, debitamente disinformate. Come valutare, del resto, lo stesso piano di pace del 1947? Consegnava agli ebrei, minoranza assoluta, il 56% delle terre. Il Negev andava a Israele, benché abitato da 90.000 arabi e appena 600 ebrei, ai quali andava anche l’unico porto commerciale vitale, Haifa. Poi andava agli ebrei l’86% delle terre fertili, aranceti, ulivi. Ai palestinesi erano anche negati i confini con la Siria, dove vi sono le fonti di acqua. E Gerusalemme rimaneva “internazionale”, ma di fatto in mano ebraica. «Questa è la vergognosa realtà. Come potevano i palestinesi accettare?».Lord Alan Cunningham, l’ultimo Alto Commissario inglese in Palestina, scrisse a Ben Gurion nel marzo 1948: «I palestinesi sono calmi e ragionevoli, voi sionisti fate di tutto per provocare violenza». Il diplomatico americano Mark Ethridge, inviato alla conferenza di Pace di Losanna nel 1949, dichiarò furioso: «Se non siamo arrivati alla pace è primariamente colpa d’Israele». Nel 1971 il presidente egiziano Sadat aveva offerto la pace a Israele in cambio del suo Sinai illegalmente occupato. Tel Aviv reagì mandando Ariel Sharon a fare la pulizia etnica del Sinai, dove l’esercito israeliano fece orrende stragi condannate dall’Onu e causò la Guerra del Kippur, del 1973. Inoltre, «la criminosa invasione israeliana del Libano nel 1982 (19.000 morti civili arabi) fu causata non da minacce a Israele, ma dall’esatto contrario». Massima rivelazione dell’orrore, il massacro dei civili rifugiati nei campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila, sterminati da miliziani su ordine dello stesso Sharon.La vera crisi, per Israele, è la pace: Tel Aviv andò in tilt nel 1982, di fronte alla clamorosa proposta di pace avanzata da Yasser Arafat. Il leader dell’Olp, futuro capo dell’Autorità Nazionale Palestinese, fece di tutto per fermare gli estremisti islamici. Lo ammise lo stesso capo dei servizi segreti ebraici Shab’ak, cioè Ami Ayalon, in una relazione al governo: «Arafat sta facendo un ottimo lavoro, si è lanciato anima e corpo contro i terroristi». La massima occasione per la pace? Fu l’incontro a Camp David nel luglio del 2000 fra Clinton, Arafat e il premier israeliano Ehud Barak. «La stampa mondiale riportò che fu Arafat a rifiutare la pace, ma è falso. Fu il contrario. Ai palestinesi non fu presentata alcuna proposta scritta, gli fu chiesto di cedere un 9% di terre, e di ricevere un misero 1%, gli fu negata ogni discussione sul ritorno dei profughi cacciati dalla pulizia etnica pre 1948 (come invece sancisce la Risoluzione Onu 194) e non gli fu concesso nulla su come dividersi Gerusalemme. Come poteva Arafat accettare?».E’ provato che, mentre Israele predicava la pace, in segreto pianificava altra pulizia etnica della Palestina, nonché l’uccisione di Arafat e la guerra ai civili. Sono stati scoperti 5 piani segreti della difesa israeliana a questo scopo, racconta Barnard: nel 1996 il piano “Field of Thorns”, nel 2000 il secondo piano “Field of Thorns”, nel 2001 il piano Dagan, nel luglio 2001 il piano di Shaul Mofaz chiamato “La Distruzione dell’Anp di Arafat”, che in quel momento collaborava con Tel Aviv, e nel 2002 il piano “Eitam” con gli stessi scopi. Nel 2003 gli Usa propongono la pace nel documento “The Road Map”, dove si parla anche di un “Israele che cessi ogni violenza contro i civili palestinesi”. I palestinesi l’accettarono e dichiararono il cessate il fuoco. Tel Aviv portò 14 emendamenti alla proposta americana e di fatto la distrusse. Ma non solo. Ariel Sharon intensificò gli assassinii di sospetti (ma non processati) membri di Hamas, ammazzandogli spesso anche mogli e bambini, ovviamente esacerbando le tensioni. Fine della “Road Map”.Stessa musica con i cessate il fuoco di Hamas, «praticamente sempre violati da Israele, al punto che nel 2006 in una conversazione segreta fra i leader di Hamas in Gaza e Damasco, si sente dire “Non abbiamo ricevuto nessun beneficio dal nostro cessate il fuoco di un intero anno, Israele continua la violenza contro i civili, e stiamo perdendo la reputazione coi civili palestinesi”». Nel famoso rapimento da parte di Hamas del soldato israeliano Gilad Shalit, viene omessa una verità scomoda, e cioè che «il giorno prima Israele aveva rapito due medici palestinesi senza alcun mandato legale, e li ha fatti sparire “incommunicado” (mai rilasciati né processati). La provocazione fu quindi israeliana». Eppure, in un articolo sul “Washington Post” del luglio 2006, il leader di Hamas Ismail Haniyeh riconobbe pienamente il diritto d’Israele di esistere, nonché il diritto alla pace fra «tutti i popoli semiti dell’area». Haniyeh lo fece «nonostante sapesse che quando Arafat riconobbe Israele nel 1993 non ottenne assolutamente nulla, solo violenza». Così, Tel Aviv ignorò anche l’offerta di Haniyeh.Nel 2007 gli Stati Uniti offrono la pace nel Trattato di Annapolis. Ma poiché il testo della Casa Bianca contiene la frase “cessare il terrorismo sia da parte palestinese che israeliana”, Israele boicottò tutto l’accordo. Fine del Trattato di Annapolis. Persino da dentro l’establishment militare d’Israele arriva l’ammissione che è Tel Aviv che boicotta la pace. L’ex capo del Mossad, Efraim Halevy, dicharò nel 2009: «Se Israele volesse veramente eliminare la minaccia dei razzi di Hamas», rudimentali aggeggi, «dovrebbe permettere ai civili di Gaza di sopravvivere consentendo loro di ricevere i beni vitali attraverso la frontiera con l’Egitto, non strangolarli alla fame. Questo garantirebbe la pace a Israele per decenni». Lo conferma Robert Pastor, docente all’American University, già inviato dell’ex presidente Usa Jimmy Carter nei Territori Occupati, cioè Cisgiordania e Gaza. Parole esplicite: è Israele che boicotta la pace. «Hamas – dice Pastor – aveva fermato il lancio dei razzi dal giugno al novembre 2008, ma Tel Aviv non solo rinnegò la promessa di allentare lo strangolamento dei civili di Gaza per cibo, medicinali, e acqua, ma bombardò un “tunnel della disperazione”, quelli che fanno passare poche cose dall’Egitto ai palestinesi. Comunicai chiaramente al governo israeliano che Hamas avrebbe esteso il cessate il fuoco se l’assedio di Gaza si fosse allentato, ma mi ignorarono totalmente».Scrive il mitico reporter d’inchiesta americano Seymour Hersh: «L’attacco a Gaza (2008) da parte d’Israele, e i massacri conseguenti, vennero guarda caso quando il governo turco era riuscito a mediare con diplomatici di Tel Aviv un accordo completo per il ritiro israeliano dal Golan occupato illegalmente da Israele. Ma è ovvio che l’assalto a Gaza distrusse tutta la mediazione. Non fu una coincidenza». Lo sostiene anche l’“Huffington Post”: «Il cessate il fuoco di Hamas del 2008 reggeva benissimo. Fu Israele a uccidere per primo, il 4 novembre. Poi sempre un raid aereo israeliano uccise altri 6 palestinesi, nonostante il cessate il fuoco. Abbiamo fatto un seria ricerca su chi, fra Israele e Hamas, ha rotto più volte il cessate il fuoco in quasi 10 anni, con l’aiuto dell’organizzazione israeliana B’Tselem. E’ indubbiamente Israele che uccide per primo durante un cessate il fuoco, nel 78% dei casi precisamente. Hamas ha violato le tregue solo nell’8% dei casi. Ma se parliamo di tregue lunghe più di 9 giorni, Israele le ha violate per primo nel 100% dei casi».Come si può affermare di fronte a queste prove che sono i palestinesi a rifiutare la pace? A spezzare le tregue? E’ l’esatto contrario, protesta Barbnard. «Questo, senza dimenticare che anche in tempi di cessate il fuoco, Israele continua la sua politica di pulizia etnica palestinese e di violenze gratuite e distruttive contro i villaggi palestinesi, contro il loro diritto di nutrirsi, con rapimenti di minori che spariscono “incommunicado”, torture di prigionieri senza processo e senza tutele legali». Nonostante ciò, la narrazione filo-sionista ha il coraggio di ripetere che “Israele è l’unico Stato democratico della zona”, e quindi “è vergognoso chiamarlo Stato razzista”. In realtà, proprio il razzismo «fu ed è la linfa vitale di tutto il movimento sionista: oggi Israele è l’unico Stato moderno che mantiene un sistema di apartheid feroce contro i palestinesi, talmente rivoltante da essere stato condannato in tutto il mondo». La democrazia in Israele? «Riguarda solo la popolazione ebraica, e neppure tutta».Pochi sanno che le leggi emanate nei decenni dal Jewish National Fund sulle terre di Palestina, da loro occupate attraverso la pulizia etnica, sanciscono che tali terreni sono riservati al 90 agli ebrei; ai palestinesi è proibito affittare o comprare quei terreni che una volta erano loro, prima della colonizzazione sionista. Nel 2003 l’Istituto Israeliano per la Democrazia fece un sondaggio fra gli ebrei israeliani che diede questi risultati: il 53% sostenne che i palestinesi non avevano diritto all’eguaglianza civica con gli ebrei, e il 57% disse che andavano semplicemente cacciati a forza. Il Comitato dell’Onu sui diritti economici, sociali e culturali ha denunciato in termini tragici la mancanza di democrazia in Israele: anche i cittadini israeliani di origine araba sono esclusi dalla residenza nel 93% delle terre; sono esclusi dalla maggior parte dei sindacati, dei servizi pubblici come acqua, elettricità, alloggi, sanità, e sono relegati alle scuole peggiori. I loro salari sono sempre inferiori a quelli degli ebrei. Infine, dice il rapporto dell’Onu, il trattamento da parte israeliana dei beduini è al limite dei crimini contro l’umanità. Bella democrazia, no?«Non c’è Stato ebraico senza la cacciata dei palestinesi e l’espropriazione della loro terra», schiarì Sharon. Razzismo, apartheid. Lo disse anche un famoso giurista sudafricano, John Dugard, esperto di segregazione razziale, inviato dalle Nazioni Unite in Israele e Territori Occupati. Dugard consegnò all’Onu le seguenti parole: «Le leggi e le azioni d’Israele nei Territori Occupati (illegalmente), certamente rispecchiano parti dell’apartheid sudafricana. Si può forse negare che lo scopo di tali azioni e di tali leggi è di mantenere il dominio di una razza (ebrei) su un’altra razza (palestinesi), per schiacciarli sistematicamente?». La democrazia israeliana, inoltre, tollera fra i partiti dell’arco costituzionale il “National Union Party”, che chiede apertamente la distruzione della popolazione palestinese e nega ai palestinesi il diritto di esistere. «Israele – scrive Barnard – è l’unico Stato al mondo dove nel 1995 il governo ha introdotto il concetto di “gruppi di popolazione”, distinguendo il gruppo “ebrei e altri” dal gruppo “arabi”. Il primo comprende ebrei e cristiani non arabi, il secondo musulmani e arabi cristiani. L’unico altro Stato al mondo che aveva questa distinzione settaria era il Rwanda».E c’è di peggio: una rappresentante del partito israeliano “Jewish Home”, la giovane Ayelet Shaked, insieme all’accademico israeliano Mordechai Kedar dell’università di Bar Ilan, ha scritto che le famiglie, cioè bambini, mogli e nonni dei “terroristi” di Hamas «vanno sterminate», e che le loro sorelle e madri «vanno stuprate», dopo 80 anni di orrori ebraici contro quelle famiglie, quelle madri e quelle sorelle. E’ esplicito il professor Joel Beinin, docente di storia alla Stanford University, negli Usa: ha intitolato un suo saggio “Il razzismo è il pilastro dell’operazione Protective Edge di Israele”. Davide e Golia? Sì, ma bisogna invertire le parti:«Il primo attacco suicida palestinese contro Israele è dell’aprile 1994 ad Afula, esattamente dopo un secolo di terrore e di crimini sionisti-israeliani contro i civili palestinesi», chiosa Barnard, che nel suo dossier documenta in modo millimetrico lo sterminato bilancio dell’orrore israeliano. «Uno dei più gravi atti terroristici commessi dal regime di Tel Aviv, in violazione di ogni norma morale e di legalità internazionale, è l’indiscriminato attacco armato agli operatori medici e paramedici che vanno in soccorso ai civili e ai militari palestinesi feriti o uccisi durante gli scontri».Anche questa indicibile pratica è documentata oltre ogni dubbio. «Le Forze di Difesa Israeliane hanno sparato sui veicoli che tentavano di raggiungere gli ospedali, con conseguenti morti e feriti. Medici e personale paramedico sono stati uccisi da colpi di arma da fuoco mentre viaggiavano sulle ambulanze, in chiara violazione della legalità internazionale». Da anni Israele sferra attacchi mostruosi su Gaza, sterminando i civili, col pretesto di difendersi dai rudimentali razzi di Hamas, sparati per disperazione. In 14 anni, i razzi Kassam hanno ucciso dai 33 ai 50 civili israeliani, mentre in soli 6 anni Israele ha assassinato un totale di 2.221 civili palestinesi di Gaza, donne e bambini. Norman Finkelstein, ebreo americano e professore di scienze politiche, aggiunge un dettaglio agghiacciante: «Per reprimere la resistenza palestinese, un ufficiale israeliano di alto rango ha sollecitato l’esercito ad analizzare e a far proprie le lezioni su come l’armata tedesca combatté nel Ghetto di Varsavia». Finkelstein è figlio di vittime dell’Olocausto. «Se gli israeliani non vogliono essere accusati di essere come i nazisti – scrive – devono semplicemente smettere di comportarsi da nazisti».Quando, il 22 luglio 1946, il terrorismo sionista fece esplodere l’hotel King David di Gerusalemme che ospitava il quartier generale britannico uccidendo 86 funzionari e 5 passanti, e mandando all’ospedale altre 58 persone, Winston Churchill dichiarò testualmente: «Se i nostri sforzi per il futuro del sionismo devono produrre un nuovo gruppo di delinquenti degni della Germania nazista, molti come me dovranno riconsiderare le posizioni tenute così a lungo». Nella stessa epoca, 1948, Albert Einstein e Hannah Arendt scrissero di loro pugno sul “New York Times” una protesta veemente contro la brutale ferocia sionista verso i palestinesi, definendola «simile, in organizzazione e metodi, ai partiti nazisti e fascisti». Lo stesso anno, fu addirittura un ministro del primo governo dello Stato d’Israele, Aharon Cizling, a dichiarare: «Adesso anche gli ebrei si sono comportati come i nazisti, e io sono sotto shock». Parole che tutti dovrebbero ricordare sempre, sottolinea Paolo Barnard, autore di uno studio – basato su prove e documenti storici – che accerta le spaventose e sistematiche atrocità (preventive) commesse da Israele contro i palestinesi.
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Olocausto: abbiamo sterminato 4 milioni di musulmani
Negli ultimi 25 anni, l’Occidente ha commesso una sorta di genocidio: a partire dal 1990, attraverso le cosiddette “guerre al terrore” sono stati sterminati qualcosa come 4 milioni di cittadini musulmani. Lo afferma Nafeez Ahmed, giornalista investigativo impegnato sui media internazionali. L’ultima notizia la fornisce la Prs di Washington: l’associazione “Physicians for Social Responsibility”, composta da medici e Premi Nobel per la Pace, in un rapporto di 97 pagine dichiara che il solo decennio seguito all’11 Settembre «è costato la vita a circa 1,3 milioni di persone, forse anche 2 milioni», calcolando il numero di vittime civili mietute dagli interventi militari statunitensi in Iraq, Afganistan e Pakistan nel quadro delle “operazioni contro il terrorismo”. Il rapporto Psr è stato realizzato da un team interdisciplinare di esperti in salute pubblica, tra cui il dottor Robert Gould, direttore del Centro Medico di educazione e ricerca medica dell’Università della California, e il professor Tim Takaro della facoltà di medicina della Simon Fraser University. «Eppure, è stato praticamente oscurato dai canali anglofoni d’informazione».La denuncia, continua Ahmed in un post su “Middle East Eye”, ripreso da “Come Don Chisciotte”, è stata completamente ignorata dal mainstream nonostante rappresentasse il primo sforzo di un’organizzazione internazionale di medici nel produrre un calcolo scientificamente provato del numero delle persone uccise nella “guerra al terrore” condotta da Stati Uniti e Gran Bretagna. Hans von Sponeck, ex vice segretario generale delle Nazioni Unite, descrive il rapporto Psr come «un contributo importante nel coprire il divario che esiste tra il numero reale delle vittime civili della guerra in Iraq, Afganistan e Pakistan e le cifre fittizie, manipolate e talvolta anche fraudolente che vengono fatte circolare». Il rapporto esegue una revisione critica delle stime precedenti delle vittime civili della “guerra al terrore”. E mette in crisi la cifra più citata dai maggiori canali d’informazione, che parla di “appena” 110.000 persone cadute in Iraq. Nella sola Najaf, dall’inizio della “guerra” sono stati seppelliti 40.000 corpi, mentre i vecchi dati ufficiali ne contavano solo 1.354. Il rapporto verità-menzogna è di 1 a 30, e sale a 1 a 40 nel caso degli attacchi arei: solo 3 per il mainstream nel 2005, ben 120 per il rapporto dei Nobel.Sempre secondo lo studio Psr, il tanto contestato rapporto di “Lancet” che ha stimato 655.000 morti iracheni fino al 2006 (e oltre un milione fino ad oggi, per estrapolazione) era probabilmente molto più accurato dei dati forniti dall’Ibc, la conta ufficiale dei morti (“Iraq Body Count”). Negazione politicizzata, dunque: i Psr, continua Ahmed, ha anche rivisto la metodologia di altri studi che indicavano cifre più basse, come il documento pubblicato dal “New England Journal of Medicine”, che «ignorava le aree colpite da maggiore violenza, come Baghdad, Anbar e Ninive, basandosi su dati inesatti di Ibc». Inoltre, indicava “restrizioni politicamente motivate” nella raccolta e nell’analisi dei dati – le interviste erano state condotte dal ministero della salute iracheno, che era «completamente dipendente dal nuovo potere occupante» e si era rifiutato, su pressione Usa, di fornire i dati esatti dei morti iracheni. In generale, Psr conclude che il numero più vicino alla realtà dei civili morti in Iraq dal 2003 a oggi è di circa 1 milione. A cui si aggiungono circa 220.000 civili uccisi in Afganistan e 80.000 in Pakistan. Il conto finale parla di un minimo di 1,3 milioni di persone, fino a un massimo di 2 milioni attraverso ricognizioni definitive e complete.Tuttavia, aggiunhe Ahmed, anche lo studio Psr presenta dei limiti, perché «la guerra al terrore lanciata dopo il 9/11 non era una cosa nuova, ma l’estensione di politiche interventiste precedenti sia in Iraq sia in Afganistan», e poi perché «il numero piuttosto contenuto delle vittime civili afghane mostrato dal Psr indica che questo ha probabilmente sottovalutato il prezzo umano degli scontri in Afghanistan. Una storia di sangue, a senso unico, iniziata in Iraq nel 1991 con la prima Guerra del Golfo, seguita poi dal regime sanzionatorio delle Nazioni Unite. Un precedente rapporto di Beth Daponte, allora demografa dell’ufficio censimenti del governo americano, mostrava che le morti irachene causate direttamente e indirettamente dall’impatto della prima Guerra del Golfo fossero intorno alle 200.000, di cui la maggior parte civili. «Nel frattempo, quel suo studio fu fatto sparire dalla circolazione». Dopo la guerra, Usa e Regno Unito imposero all’Onu le durissime sanzioni, «con il pretesto di dover negare a Saddam Hussein i beni e le materie prime necessarie per poter costruire armi di distruzione di massa». Molti prodotti inclusi nella lista delle materie negate, in reatà, comprendevano anche beni di prima necessità: per l’Onu, «1,7 milioni di civili iracheni sono morti come conseguenza del regime sanzionatorio imposto dall’Occidente, e metà di questi erano bambini».Queste eliminazioni di massa appaiono come intenzionali, sottolinea Ahmed. Tra le merci vietate c’erano prodotti chimici e attrezzature essenziali per la depurazione delle risorse idriche nazionali. Un documento segreto dell’agenzia d’intelligence del ministero della difesa statunitense, scoperto dal professor Thomas Nagy della School of Business della George Washington University, indicava chiaramente le «intenzioni di genocidio del popolo iracheno». In un documento per l’Associazione degli Studiosi di Genocidi della University of Manitoba, Nagy spiega che il documento della Dia conteneva dettagli minuziosi di un metodo praticamente infallibile per far «degradare il sistema idrico di un’intera nazione» nel giro di una decina di anni. La politica sanzionatoria avrebbe creato «le condizioni per la diffusione delle malattie, comprese vere e proprie epidemie su vasta scala», causando «di conseguenza l’eliminazione di una vasta porzione della popolazione irachena». Questo significa che, solo in Iraq, la guerra condotta dagli Usa dal 1991 al 2003 ha ucciso 1,9 milioni di iracheni, conclude Nafeez Ahmed. Poi, dal 2003 ad oggi, un altro milione circa. «In totale, circa 3 milioni di iracheni morti nel giro di due decenni».Quanto all’Afganistan, la stima delle morti totali in base al rapporto Psr potrebbe anche essere «molto conservativa». Sei mesi dopo la campagna di bombardamenti successiva al 2001, il giornalista del “Guardian” Jonathan Steele rivelò che rimasero uccisi un numero tra i 1.300 e gli 8.000 afghani, ed altri 50.000 morirono come conseguenza indiretta della guerra. Nel suo libro “La conta dei morti: la mortalità che si sarebbe potuta evitare nel mondo dal 1950 ad oggi”, il professor Gideon Polya applicò la stessa metodologia utilizzata dal “Guardian” per i dati della divisione demografica delle Nazioni Unite sulla mortalità annuale, per calcolare cifre plausibili delle “morti in eccesso”, tutte evitabili. Biochimico in pensione della La Trobe University di Melbourne, Polya concluse che il totale delle uccisioni evitabili in Afganistan dal 2001, causate dalle privazioni imposte, ammontavano a circa 3 milioni di persone, di cui 900.000 bambini sotto i cinque anni. Il suo studio è raccomandato dalla sociologa Jacqueline Carrigan della California State University, che sul “Routledge Journal” lo definisce «un profilo ad alto contenuto di dati sulla situazione della mortalità infantile nel mondo».Come per l’Iraq, in Afganistan gli interventi statunitensi sono iniziati molto prima dell’11 Settembre, sotto forma di sostegno militare, logistico e finanziario segreto ai Talebani. Tutto questo, ricorda Ahmed, dal 1992 in poi. Decisivo, il supporto Usa, per la «belligeranza talebana», consentendole di conquistare il 90% del territorio afghano. In un rapporto del 2001 della National Academy of Sciences su migrazioni forzate e mortalità, l’illustre epidemiologo Steven Hansch, direttore di “Relief International”, osservò che la mortalità evitabile totale in Afganistan causata dagli impatti indiretti delle guerra nel corso degli anni ’90 potrebbe attestarsi ovunque tra i 200.000 e i 2 milioni di morti. «Anche l’ Unione Sovietica, naturalmente, ne fu responsabile, per il suo ruolo nella distruzione intenzionale delle infrastrutture civili afghane, causando indirettamente moltissime morti. Tutto questo – scrive Ahmed – suggerisce che, nel complesso, il numero totale di morti afghane conseguenza diretta e indiretta dell’intervento statunitense nel paese a partire dai primi anni ’90 fino ad oggi, potrebbe raggiungere i 3,5 milioni». Un bilancio spaventoso: 2 milioni in Iraq e altri 2 in Afghanistan. Da 4 milioni di morti, il totale «potrebbe raggiungere i 6/8 milioni, contabilizzando anche le stime superiori delle morti evitabili in Afganistan».Sono cifre che probabilmente superano la realtà, continua Nafeez Ahmed, ma questo non lo sapremo mai con certezza: «Le forze armate degli Stati Uniti e del Regno Unito, per una questione di politica, si rifiutano di tenere traccia del numero di vittime civili nelle operazioni militari – considerate solo degli inconvenienti irrilevanti». A causa della grave mancanza di dati certi in Iraq, della quasi totale assenza di informazioni per l’Afganistan e dell’indifferenza dei governi occidentali riguardo alle morti civili, è letteralmente impossibile determinare la reale portata delle perdite di vite umane. In assenza della possibilità di conferme certe, queste cifre «forniscono stime plausibili sulla base di metodologie statistiche standard». Pur non fornendo un dato preciso, danno una chiara indicazione della portata della distruzione in queste aree. «Gran parte di queste morti viene giustificata nel contesto della lotta contro la tirannia e il terrorismo. Tuttavia, a causa del silenzio dei maggiori mezzi d’informazione, la maggior parte delle persone non ha idea della reale portata distruttiva della guerra al terrore protratta negli anni da Usa e Uk in Iraq e Afghanistan».Negli ultimi 25 anni, l’Occidente ha commesso una sorta di genocidio: a partire dal 1990, attraverso le cosiddette “guerre al terrore” sono stati sterminati qualcosa come 4 milioni di cittadini musulmani. Lo afferma Nafeez Ahmed, giornalista investigativo impegnato sui media internazionali. L’ultima notizia la fornisce la Prs di Washington: l’associazione “Physicians for Social Responsibility”, composta da medici e Premi Nobel per la Pace, in un rapporto di 97 pagine dichiara che il solo decennio seguito all’11 Settembre «è costato la vita a circa 1,3 milioni di persone, forse anche 2 milioni», calcolando il numero di vittime civili mietute dagli interventi militari statunitensi in Iraq, Afganistan e Pakistan nel quadro delle “operazioni contro il terrorismo”. Il rapporto Psr è stato realizzato da un team interdisciplinare di esperti in salute pubblica, tra cui il dottor Robert Gould, direttore del Centro Medico di educazione e ricerca medica dell’Università della California, e il professor Tim Takaro della facoltà di medicina della Simon Fraser University. «Eppure, è stato praticamente oscurato dai canali anglofoni d’informazione».
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Acqua, luce e gas: la fregatura è servita (firmata Renzi)
L’importante, spesso, non è spiegare, ma non far capire. Molte riforme fondamentali passano tra le pieghe di un provvedimento come se fossero marginali. I parlamentari approvano senza nemmeno sapere cosa votano, seguendo le indicazioni del capogruppo mentre i giornalisti ne scrivono senza capire o, ancora meglio, non ne scrivono affatto. Prendiamo la recente riforma costituzionale voluta da Matteo Renzi. I giornali si sono concentrati sugli aspetti più eclatanti come l’abolizione di fatto del Senato e l’aumento delle firme per referendum e iniziative popolari; pochi hanno parlato dell’articolo V della Costituzione, che solo a nominarlo… bah, che noia! Tutti, la settimana scorsa, hanno pubblicato un vademecum sulle riforme. Ecco cosa scrive ad esempio “La Stampa”: «Titolo V. Sono riportate in capo allo Stato alcune competenze come energia, infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto. Su proposta del governo, la Camera potrà approvare leggi nei campi di competenza delle Regioni, “quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale”».Caro lettore, cosa hai capito? Nulla, scommetto. Però se riascolti un bel servizio televisivo de “La Gabbia”, mandato in onda il 26 settembre 2013 e ripreso in questi giorni su Twitter da Alessandro Greco, la riforma dell’articolo V assume un altro significativo. Guardalo, ne vale la pena, dura appena 3 minuti. In questo servizio il dirigente generale Lorenzo Codogno, a capo della direzione I analisi economico-finanziaria del dipartimento del Tesoro, del ministero dell’economia e delle finanze, intervistato sulla vendita di partecipazioni Eni, Finmeccanica ed Enel, dichiarò: «Il problema è che non prendi tantissimo perché – ho fatto il calcolo un po’ di tempo fa – sono 12 miliardi, non è una gran cifra, meno di un punto di Pil. La vera risorsa sono le utilities a livello locale. Lì sono veramente tanti, tanti miliardi. Il problema è che non sono nostri, dello Stato, sono dei Comuni, delle Regioni, e quindi bisogna cambiare il titolo V della Costituzione. Ed espropriare i Comuni e le Regioni».Il deputato Simonetta Rubinato del Pd depositò un’interrogazione alla Camera chiedendo spiegazioni al primo ministro. A quanto mi risulta, nessuno ha risposto. E ora, guarda un po’, il Titolo V è stato riformato e prevede, cito il “Sole 24 Ore”, quanto segue: «Il nuovo articolo 117 si caratterizza per l’eliminazione della legislazione concorrente con riattribuzione alla competenza legislativa esclusiva dello Stato di diverse materie, quali quelle relative alla regolamentazione del procedimento amministrativo, della disciplina giuridica del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, della previdenza complementare e integrativa, del commercio con l’estero, della valorizzazione (oltrechè tutela) dei beni culturali e paesaggistici, dell’ordinamento delle professioni e della comunicazione, della produzione, trasporto e distribuzione nazionali dell’energia, delle infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto e di navigazione di interesse nazionale e relative norme di sicurezza; dei porti ed aeroporti di interesse nazionale ed internazionale».Come sempre le leggi italiane sono pasticciate e pare che la norma non si applichi alle Regioni a statuto speciale; però il senso mi sembra inequivocabile: quando sarà pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, il nuovo Titolo V permetterà a quel galantuomo di Renzi, che tanto ha a cuore i destini del suo paese, di fare un immenso regalo ai colossi stranieri dell’energia privatizzando i servizi di acqua, luce e gas. Io sono un liberale e, se le privatizzazioni servissero a portare vera concorrenza e servizi e tariffe migliori per tutti, sarei il primo a rallegrarmene, tanto più che le utilities pubbliche non sono certo un modello di gestione e di efficienza. Ma il rimedio rischia di essere peggiore del male. Purtroppo l’esperienza dimostra che, in questo settore, come avvenuto per le autostrade, le privatizzazioni si risolvono nella sostituzione di un monopolio pubblico con uno privato. E a rimetterci sono gli utenti, costretti a far fronte a un’esplosione dei prezzi delle bollette. Insomma, una fregatura su tutta la linea. Prendetene nota e al momento opportuno ricordatevi chi ringraziare.(Marcello Foa, “Acqua luce e gas, la fregatura è servita, firmata Matteo Renzi”, dal blog di Foa su “Il Giornale” del 12 marzo 2015).L’importante, spesso, non è spiegare, ma non far capire. Molte riforme fondamentali passano tra le pieghe di un provvedimento come se fossero marginali. I parlamentari approvano senza nemmeno sapere cosa votano, seguendo le indicazioni del capogruppo mentre i giornalisti ne scrivono senza capire o, ancora meglio, non ne scrivono affatto. Prendiamo la recente riforma costituzionale voluta da Matteo Renzi. I giornali si sono concentrati sugli aspetti più eclatanti come l’abolizione di fatto del Senato e l’aumento delle firme per referendum e iniziative popolari; pochi hanno parlato dell’articolo V della Costituzione, che solo a nominarlo… bah, che noia! Tutti, la settimana scorsa, hanno pubblicato un vademecum sulle riforme. Ecco cosa scrive ad esempio “La Stampa”: «Titolo V. Sono riportate in capo allo Stato alcune competenze come energia, infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto. Su proposta del governo, la Camera potrà approvare leggi nei campi di competenza delle Regioni, “quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale”».
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Neghiamo la verità, ci fa paura: è così che ci estingueremo
Abbiamo così paura della verità che stiamo per autodistruggerci: evitiamo di guardare in faccia il conto alla rovescia della catastrofe climatica, quindi rimandiamo ogni soluzione e ci consegniamo alla fine. Secondo gli scienziati più pessimisti, l’estinzione dell’umanità potrebbe essere vicinissima, addirittura fra 15 anni, nel 2030. «E’ opinione diffusa oggi che stiamo per vivere la sesta grande estinzione di massa nella storia del pianeta», avverte Robert Burrowes. «L’ultima è avvenuta 65 milioni di anni fa, quando scomparvero i dinosauri». Oggi? «Stiamo perdendo la biodiversità a un ritmo simile ad allora. Ma questa estinzione la stiamo causando noi stessi. E noi ne saremo una delle vittime. L’unico dubbio è quando avverrà esattamente. E questo dubbio – aggiunge Burrowes – è fondato sulla presunzione non dichiarata, e fortemente discutibile, che possiamo continuare ad evitare una guerra nucleare». A indicare il termine ravvicinatissimo del 2030 è uno scienziato come Guy McPherson, che parla di «crisi del clima ed estinzione umana a breve termine». La “tempesta perfetta” di attacchi ambientali che stiamo attualmente infliggendo al clima del pianeta «sono già molto oltre quello che la Terra possa sopportare e assorbire».
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Voi pensate alla guerra, noi intanto ci mangiamo l’Ucraina
Nello stesso momento in cui gli Stati Uniti, il Canada e l’Unione Europea annunciavano una nuova serie di sanzioni contro la Russia nella metà del dicembre dello scorso anno, l’Ucraina riceveva 350 milioni di dollari in aiuti militari da parte degli Usa, arrivati subito dopo un pacchetto di aiuti da un miliardo di dollari approvato nel marzo 2014 dal Congresso degli Stati Uniti. Il maggior coinvolgimento dei governi occidentali nel conflitto in Ucraina è un chiaro segnale della fiducia nel consiglio stabilito dal nuovo governo durante i primi giorni di dicembre. Questo nuovo governo è più unico che raro nella sua specie, dato che tre dei suoi più importanti ministri sono stranieri a cui è stata accordata la cittadinanza Ucraina solo qualche ora prima di incontrarsi per questo loro appuntamento. Il titolo di ministro delle finanze è andato a Natalie Jaresko, una donna d’affari nata ed educata in America, che lavora in Ucraina dalla metà degli anni ’90, sovraintendente di un fondo privato stabilito dal governo Usa come investimento nel paese. La Jaresko è anche amministratore delegato dell’Horizon Capital, un’azienda che amministra e gestisce svariati investimenti nel paese.Per strano che possa sembrare, questo appuntamento è in linea con ciò che ha tutta l’aria di essere una acquisizione dell’economia ucraina da parte dell’Occidente. In due inchieste – “La presa di potere delle aziende sull’agricoltura ucraina” e “Camminando dalla parte dell’Ovest: la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale nel conflitto ucraino” – l’Oakland Institute ha documentato questa presa di potere, in particolarmente evidente nel settore agricolo. Un altro fattore importante nella crisi che ha portato alle proteste mortali ed infine all’allontanamento dagli uffici del presidente Viktor Yanukovich nel febbraio 2014, è stato il suo rifiuto di un patto dell’Associazione Ue, volto all’espansione del commercio e ad integrare l’Ucraina alla Ue, un patto legato a un prestito di 17 miliardi di dollari da parte del Fondo Monetario Internazionale. Dopo la dipartita del presidente e l’installazione di un governo pro-occidente, il Fondo Monetario Internazionale ha messo in atto un programma di riforme come condizione a questo prestito, allo scopo di incrementare gli investimenti privati nel paese.Il pacchetto delle misure adottate include la fornitura pubblica di acqua ed energia e, ancor più importante, si rivolge a ciò che la Banca Mondiale identifica col nome di “radici strutturali” dell’attuale crisi economica esistente in Ucraina, con un occhio in particolare all’alto costo del generare affari nel paese. Il settore agricolo ucraino è stato un obiettivo primario per gli investitori stranieri ed è quindi logicamente visto dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Centrale come un settore prioritario da riformare. Entrambe le istituzioni lodano la prontezza del nuovo governo nel seguire i loro suggerimenti. Ad esempio, il piano d’azione della riforma agraria guidata dall’Occidente nei confronti dell’Ucraina include la facilitazione nell’acquisizione di terreni agricoli, norme e controlli sulle fabbriche e sulla terra, e la riduzione delle tasse per le aziende e degli oneri doganali. Gli interessi che gravitano intorno al vasto settore agricolo dell’Ucraina, che è il terzo maggior esportatore di mais ed il quinto di grano, non potrebbero essere più alti. L’Ucraina è nota per i suoi ampi appezzamenti di suolo scuro e ricco, e vanta più di 32 milioni di ettari di terra fertile ed arabile, l’equivalente di un terzo dell’intera terra arabile di tutta l’Unione Europea.La manovra per il controllo sul sistema agricolo del paese è un fattore decisivo nella lotta che sta avendo luogo negli ultimi anni tra Occidente e Oriente, fin dalla Guerra Fredda. La presenza di aziende straniere nell’agricoltura ucraina sta crescendo rapidamente, con più di 1.6 milioni di ettari acquistati da compagnie straniere per scopi agricoli negli ultimi anni. Sebbene Monsanto, Cargill e DuPont siano in Ucraina da parecchio tempo, i loro investimenti nel paese sono cresciuti in modo significativo in questi ultimi anni. Cargill, gigante agroalimentare statunitense, è impegnato nella vendita di pesticidi, sementi e fertilizzanti, e ha recentemente espanso i suoi investimenti per acquistare un deposito di stoccaggio del grano, nonché una partecipazione nella UkrLandFarming, il maggiore agrobusiness dell’Ucraina. Similarmente, la Monsanto, altra multinazionale americana, era già da un po’ in Ucraina, ma ha praticamente duplicato il suo team negli ultimi tre anni. Nel marzo 2014, appena qualche settimana dopo la destituzione di Yanukovych, l’azienda investì 140 milioni nella costruzione di un nuovo stabilimento di sementi in Ucraina. Anche la DuPont ha allargato i suoi investimenti annunciando, nel giugno 2013, la volontà di investire anch’essa in uno stabilimento di sementi nel paese.Le aziende occidentali non hanno soltanto preso il controllo su una porzione redditizia di agribusiness e altre attività agricole, hanno iniziato una vera e propria integrazione verticale nel settore agricolo, estendendo la presa sulle infrastrutture e sui trasporti. Per dire, la Cargill al momento possiede almeno quattro ascensori per silos e due stabilimenti per la lavorazione dei semi di girasole e la produzione di olio di girasole. Nel dicembre 2013 l’azienda ha acquistato il “25% + 1% condiviso” in un terminal del grano nel porto di Novorossiysk, nel Mar Nero, terminal con una capacità di 3.5 milioni di tonnellate di grano all’anno. Tutti gli aspetti della catena di fornitura dell’Ucraina Agricola – dalla produzione di sementi ed altro, all’attuale possibilità di spedizione di merci fuori dal paese – stanno quindi incrementando sotto il controllo dei colossi occidentali. Le istituzioni europee e il governo degli Usa hanno attivamente promosso questa espansione.Tutto è iniziato con la spinta per un cambiamento di governo quando il fu presidente Yanukovych era visto come un filorusso, manovra ulteriormente incrementata, a cominciare dal febbraio 2014, attraverso la promozione di un’agenda delle riforme “pro-business”, come descritto dal segretario statunitense del commercio, Penny Pritzker, durante il suo incontro con il primo ministro Arsenly Yatsenyuk nell’ottobre 2014. L’Unione Europea e gli Stati Uniti stanno lavorando duramente, mano nella mano, per prendere possesso dell’agricoltura ucraina. Sebbene l’Ucraina non permetta la produzione di coltivazioni geneticamente modificate (Ogm), l’Accordo Associato tra Ue e l’Ucraina, che accese il conflitto che poi espulse Yanukovych, include una clausula (articolo 404) che impegna entrambe le parti a cooperare per “estendere l’uso delle biotecnologie” all’interno del paese. Questa clausula è sorprendente, dato che la maggior parte dei consumatori europei rifiuta l’idea delle coltivazioni Ogm. Ad ogni modo, essa crea un’apertura in grado di portare i prodotti Ogm in Europa, un’opportunità tanto desiderata dai grandi colossi agroalimentari, come ad esempio Monsanto.Aprendo l’Ucraina alle coltivazioni Ogm si andrebbe contro la volontà dei cittadini europei, e non è chiaro come questo cambiamento potrebbe portare migliorie alla popolazione ucraina. Allo stesso modo non è chiaro come gli ucraini beneficeranno di questa ondata di investimenti stranieri nella loro agricoltura, e quale sarà l’impatto che questi ultimi avranno su sette milioni di agricoltori locali. Alla fine, una volta che si distoglierà lo sguardo dal conflitto nella parte est “filorussa” del paese, i cittadini ucraini potrebbero domandarsi cosa è rimasto della capacità del paese di controllare e gestire l’economia e le risorse a loro proprio beneficio. Quanto ai cittadini statunitensi ed europei, alla fine si sveglieranno dalle retoriche sulle aggressioni russe e sugli abusi dei diritti umani, e contesteranno il coinvolgimento dei loro governi nel conflitto ucraino?(Frederic Mousseau, “I giganti agricoli occidentali si accaparrano l’Ucraina”, da “Atimes” del 28 gennaio 2015, ripreso da “Come Don Chisciotte”. Mousseau è direttore delle politiche all’Oakland Institute).Nello stesso momento in cui gli Stati Uniti, il Canada e l’Unione Europea annunciavano una nuova serie di sanzioni contro la Russia nella metà del dicembre dello scorso anno, l’Ucraina riceveva 350 milioni di dollari in aiuti militari da parte degli Usa, arrivati subito dopo un pacchetto di aiuti da un miliardo di dollari approvato nel marzo 2014 dal Congresso degli Stati Uniti. Il maggior coinvolgimento dei governi occidentali nel conflitto in Ucraina è un chiaro segnale della fiducia nel consiglio stabilito dal nuovo governo durante i primi giorni di dicembre. Questo nuovo governo è più unico che raro nella sua specie, dato che tre dei suoi più importanti ministri sono stranieri a cui è stata accordata la cittadinanza Ucraina solo qualche ora prima di incontrarsi per questo loro appuntamento. Il titolo di ministro delle finanze è andato a Natalie Jaresko, una donna d’affari nata ed educata in America, che lavora in Ucraina dalla metà degli anni ’90, sovraintendente di un fondo privato stabilito dal governo Usa come investimento nel paese. La Jaresko è anche amministratore delegato dell’Horizon Capital, un’azienda che amministra e gestisce svariati investimenti nel paese.
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La sensazionale notizia della presenza dell’Isis in Libia
Tragico errore o cinica scommessa? E se l’attacco a Gheddafi scatenato da Francia e Gran Bretagna nel 2011 fosse coinciso con il vero atto di fondazione della mostruosa creatura occidentale chiamata Isis? La Libia viene ora presentata come se fosse invasa da un’armata di Gengis Khan arrivata all’improvviso da non si sa dove, attraverso quali frontiere. In realtà, tra gli “shabab” insorti contro Gheddafi prevalse da subito la leadership fondamentalista, appoggiata dalle bombe della Nato. Crollato il regime, e aperto l’immediato e sanguinoso regolamento di conti tra clan, centinaia di guerriglieri libici furono segretamente dirottati in Siria, attraverso la Turchia, per creare il nerbo all’Esercito Siriano Libero, quello che un anno più tardi – con le armi chimiche usate contro i civili nel tentativo di incolpare Assad – portò il mondo a un passo dalla Terza Guerra Mondiale, spingendo anche il Papa (insieme al Parlamento di Londra) a schierarsi vigorosamente contro l’attacco Nato. Svanita la possibilità di “jihadizzare” Damasco, ecco la nascita dell’Isis, guidato tra le macerie dell’Iraq dall’oscuro al-Baghdadi reduce dalla Siria, dov’era assistito e finanziato dagli Usa tramite missioni come quelle coordinate sul campo dal senatore John McCain. Qualcuno dunque riesce ancora a stupirsi della “comparsa” dell’Isis in Libia?Visto il tragico copione degli eventi, Vincenzo Brandi su “Megachip” ricorda che quattro anni fa fu attaccato il paese più prospero dell’Africa, uno Stato che «stava in pace da 42 anni» ed «era riuscito a contenere i contrasti tra le varie tribù». Il Pil di Tripoli era il più alto di tutto il continente: la Libia di Gheddafi «ospitava 2 milioni di lavoratori immigrati, aveva ricontrattato le licenze petrolifere con le compagnie straniere ottenendo il 90% dei proventi per lo Stato libico redistribuendo i profitti tra la popolazione», e inoltre «riconosceva pienamente i diritti delle donne, aveva fornito il paese di acqua potabile riuscendo anche a raggiungere l’autosufficienza alimentare», dopo aver «allontanato tutte le basi militari straniere, acquisendo una piena indipendenza». La campagna militare anglo-francese del 2011, cui si associò l’Italia in extremis per tutelare i terminali petroliferi dell’Eni, fu preceduta dalla consueta disinformazione mirata a creare consenso bellico, con l’invariabile demonizzazione del dittatore, grande amico dell’Italia fino al giorno prima, accusato persino di aver fatto scavare inesistenti fosse comuni, evidentemente per occultare i corpi di altrettanto immaginarie stragi di civili.Sulla Libia, nel 2011 gli Usa si lasciarono ritrarre in posizione più defilata. «La pensavamo come l’Italia: non bisogna intervenire», dice ora a “La7” un super-falco come il politologo Edward Luttwak, che però sui tagliagole mediatici del “Califfato” oggi dice: «Non chiamiamoli Isis, ma Islam: quello è il pericolo da fermare». E’ esattamente la stessa conclusione a cui puntano i macellai parigini di “Charlie Hebdo” e lo stragista solitario danese: il risultato delle loro azioni è la criminalizzazione indiscriminata di tutti i musulmani, verso lo “scontro di civiltà” tanto caro ai signori della guerra, al comando della politica estera Usa a partire dall’11 Settembre. Secondo Gioele Magaldi, autore del libro-denuncia “Massoni”, l’ex presidente francese Sarkozy, che per primo attaccò la Libia bomdardando Bengasi, sarebbe affiliato alla superloggia “Hathor Pentalpha” creata dai Bush, loggia a cui apparterrebbe anche Tony Blair, l’inventore delle “armi di distruzione di massa” di Saddam. Lo stesso filo rosso-sangue collegherebbe Jeb Bush, possibile candidato alle presidenziali 2016, con lo stesso al-Baghdadi, il leader jihadista in apparenza comparso dal nulla – come Bin Laden – per terrorizzare l’opinione pubblica occidentale.Nell’immenso caos nel quale è stato precipitato il mondo dopo il crollo dell’Urss, si susseguono ipotesi di spregiudicati complotti – alcuni chiaramente leggibili subito, altri confermati spesso dai fatti a posteriori, da prove e ammissioni – mentre avanza all’orizzonte l’inevitabile collisione geopolitica con la Cina, sempre più prossima a una Russia sfidata in Siria e ora assediata alla frontiera con l’Ucraina. Oltre alla coltre di nebbia stesa dai media e dai tanti “debunker”, gli incursori anti-complottistici (la Gran Bretagna ha recentemente reclutato centinaia di “troll” da scatenare su Facebook per smentire le accuse più insidiose), restano perfettamente percepibili le trame in corso, soggette poi al vaglio dell’imponderabile, e in particolare le manovre dell’Occidente per incunearsi nella grande faglia che separa i due rami dell’Islam: da Bin Laden in poi, finora l’intelligence atlantica ha puntato sui sunniti, arma letale contro l’Iran sciita e i suoi alleati regionali, come le milizie libanesi di Hezbollah che hanno arginato l’espansione di Israele. Nonostante quasi 15 anni di guerre ininterrotte, rovine, vittime e profughi, paesi devastati, “fallimenti” dietro cui si celano lucrosissimi business di armamenti e ricostruzioni, i signori della guerra restano al riparo: nessuno si domanda perché tutto questo accada, e il mainstream può persino permettersi di inscenare la “sorpresa libica” dell’Isis, col suo spettacolo dell’orrore.Tragico errore o cinica scommessa? E se l’attacco a Gheddafi scatenato da Francia e Gran Bretagna nel 2011 fosse coinciso con il vero atto di fondazione della mostruosa creatura occidentale chiamata Isis? La Libia viene ora presentata come se fosse invasa da un’armata di Gengis Khan arrivata all’improvviso da non si sa dove, attraverso quali frontiere. In realtà, tra gli “shabab” insorti contro Gheddafi prevalse da subito la leadership fondamentalista, appoggiata dalle bombe della Nato. Crollato il regime, e aperto l’immediato e sanguinoso regolamento di conti tra clan, centinaia di guerriglieri libici furono segretamente dirottati in Siria, attraverso la Turchia, per creare il nerbo all’Esercito Siriano Libero, quello che un anno più tardi – con le armi chimiche usate contro i civili nel tentativo di incolpare Assad – portò il mondo a un passo dalla Terza Guerra Mondiale, spingendo anche il Papa (insieme al Parlamento di Londra) a schierarsi vigorosamente contro l’attacco Nato. Svanita la possibilità di “jihadizzare” Damasco, ecco la nascita dell’Isis, guidato tra le macerie dell’Iraq dall’oscuro al-Baghdadi reduce dalla Siria, dov’era assistito e finanziato dagli Usa tramite missioni come quelle coordinate sul campo dal senatore John McCain. Qualcuno dunque riesce ancora a stupirsi della “comparsa” dell’Isis in Libia?
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Giovani al lavoro gratis per l’Expo dei ladri e degli ipocriti
Per quale ragione in una Expo appaltata alle grandi multinazionali del cibo, nella quale affari edilizi, speculazione e corruzione hanno prosperato e che viene ancora presentata come un possibile volano per l’economia del paese, perché in un evento ove tutto è misurato in termini di profitti a breve o differiti, gli unici gratis devono essere i lavoratori? Con un accordo del luglio 2013, un mese che dovrebbe essere abolito dal calendario sindacale visti i disastri che in esso si son concepiti, l’ente Expo, le imprese e tutte le istituzioni hanno concordato con Cigil, Cisl e Uil che gran parte di coloro che faranno funzionare la fiera lo faranno gratuitamente. Per l’esattezza circa 800 persone lavoreranno con contratti a termine, di apprendistato, da stagista, che garantiranno una lauta retribuzione dai 400 ai 500 euro mensili. Siccome i contratti e la stessa legge Fornero sul mercato del lavoro avrebbero previsto condizioni più favorevoli per i lavoratori, si è applicato quel principio della deroga normativa, contro il quale la Cgil si era spesso pronunciata.Ma questi 800 lavoratori sottopagati sono comunque una élite rispetto a tutti gli altri. Che avranno un orario giornaliero obbligatorio e turni, pare bisettimanali, di lavoro, ma che lo faranno senza alcuna retribuzione. Essi saranno considerati volontari e come tali riceveranno solamente dei buoni pasto quotidiani, per non smentire il significato alimentare dell’evento. Nelle previsioni iniziali questi fortunati avrebbero dovuto essere 18.500, da qui il peana subito scattato sui 20.000 posti di lavoro creati dalla magia dell’Expo. Ora invece pare che siano meno della metà, per la semplice ragione che lavorare all’Expo non solo non paga, ma costa. Immaginiamo un pendolare che debba accollarsi i costosissimi costi quotidiani del sistema ferroviario lombardo. O addirittura un giovane di un’altra regione che volesse fare questa esperienza a Milano. Per lavorare gratis bisogna godere di un buon reddito e non tutti ce l’hanno.Eppure a tutto questo ci sarebbe stata una alternativa semplice semplice. Visto che l’Expo per sua natura è un evento a termine, coloro che lo faranno funzionare avrebbero potuto essere assunti con il tradizionale contratto a termine. Lavori sei mesi? Sei pagato per quelli. Sono solo due settimane? Riceverai la tua quindicina. Perché non si è fatto così? Semplice. Perché in questo modo si sarebbe dovuto spendere molto di più in salari e questo non era compatibile con gli alti costi della fiera. C’era da pagare una montagna di mazzette, non si potevano retribuire anche gli addetti agli stand. Capisco che questo modo di ragionare possa essere considerato troppo rigido e ancorato a vecchi tabù. C’è un lavoro e si pretende anche un salario, allora si vogliono difendere vecchi privilegi, direbbero gli araldi del lavoro flessibile. Quando l’accordo sul lavoro gratis è stato sottoscritto, l’allora presidente del Consiglio Enrico Letta disse, facendo eco al presidente della Confindustria Squinzi, che esso era un modello per il paese. La rottamazione renziana sempre rivolta alle nuove generazioni ha lasciato quella intesa intatta, così come hanno fatto Cgil, Cisl e Uil, nonostante le critiche a quel “#jobsact” che l’accordo Expo già anticipava.Tutte le forze politiche rappresentate in parlamento, escluso il Movimento 5 Stelle, sono consenzienti. Così l’Expo finirà per essere una vetrina di tutto ciò che non dovrebbe, ma che invece continua a dominare le scelte economiche e sociali del paese. L’Expo sarà la migliore rappresentazione dell’ipocrisia e del gattopardismo che governano la nostra crisi. Sotto lo slogan “Nutrire il pianeta” si lascerà alla Nestlè il compito di spiegare che l’acqua va gestita in ragione di mercato. Si farà l’apologia delle grandi opere senza riuscire neppure a nascondere la speculazione – e non solo quella illegale, ma quella ancor più scandalosa sulle aree, che è perfettamente consentita. Si lanceranno proclami sui giovani capaci di operare nella globalizzazione, rimuovendo il fatto che lo faranno solo in cambio di una medaglietta che non varrà nemmeno come accreditamento per altri lavori precari. E ancora una volta tutto, ma proprio tutto, sarà a carico del lavoro. In una fiera che si presenta come l’ultimo Ballo Excelsior di una globalizzazione in piena crisi, l’Italia che guarda al passato cianciando di futuro troverà la sua vetrina. Che dovrebbe essere accesa proprio il Primo Maggio, trasformando così la festa dell’emancipazione del lavoro nella celebrazione del suo ritorno allo stato servile. Ci sono movimenti e forze sindacali che dicono no a tutto questo e che già dalle prossime settimane si faranno sentire, per poi provare a restituire alla Festa del Lavoro il suo antico valore. Fanno benissimo.(Giorgio Cremaschi, “L’Expo della precarierà”, da “Micromega” del 5 febbraio 2015).Per quale ragione in una Expo appaltata alle grandi multinazionali del cibo, nella quale affari edilizi, speculazione e corruzione hanno prosperato e che viene ancora presentata come un possibile volano per l’economia del paese, perché in un evento ove tutto è misurato in termini di profitti a breve o differiti, gli unici gratis devono essere i lavoratori? Con un accordo del luglio 2013, un mese che dovrebbe essere abolito dal calendario sindacale visti i disastri che in esso si son concepiti, l’ente Expo, le imprese e tutte le istituzioni hanno concordato con Cigil, Cisl e Uil che gran parte di coloro che faranno funzionare la fiera lo faranno gratuitamente. Per l’esattezza circa 800 persone lavoreranno con contratti a termine, di apprendistato, da stagista, che garantiranno una lauta retribuzione dai 400 ai 500 euro mensili. Siccome i contratti e la stessa legge Fornero sul mercato del lavoro avrebbero previsto condizioni più favorevoli per i lavoratori, si è applicato quel principio della deroga normativa, contro il quale la Cgil si era spesso pronunciata.