Archivio della Categoria: ‘segnalazioni’
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Massoni, manovre, bugie e omissioni sull’Italia gialloverde
Un presidente della Repubblica che ammette a reti unificate che il paese è ostaggio dei mercati finanziari privati. L’oligarchia euro-tedesca che minaccia apertamente la fine dell’Italia. E l’uomo di Trump che si precipita a Roma per ostacolare i terminali di Berlino e, infine, premere in senso opposto sull’establishment conservatore. Obiettivo: far nascere un governo ibrido e sotto ipoteca, con promesse impossibili da mantenere senza prima scardinare il paradigma teologico europeista del rigore suicida, imposto a mano armata dalla massoneria reazionaria che ha in mano la governance della Germania, della Bce e dell’Unione Europea. L’analista geopolitico Federico Dezzani sottolinea il ruolo di primo piano svolto dall’asse angloamericano nella crisi italiana, evidenziando le mosse di Steve Bannon e dell’ambasciatore statunitense Lewis Eisenberg, che ha incontrato Salvini e Di Maio a fine marzo. Quindi i britannici: «Lo stesso Movimento 5 Stelle è un prodotto più inglese che americano, come dimostrano la lunga carriera di Gianroberto Casaleggio presso il colosso dell’informatica inglese Logica Plc e il doppio passaporto, italiano e britannico, del figlio Davide». Sempre secondo Dezzani, Londra ha giocato un ruolo decisivo nella nascita del governo giallo-verde «attraverso il “protestante” Jorge Mario Bergoglio che, a sua volta, ha schierato l’ancora influente Conferenze Episcopale Italiana».
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Email privata, il Corriere ‘brucia’ Savona: attacca Mattarella
«Mattarella non ha capito che ormai il popolo si è ribellato e deve dare una risposta». Firmato: Paolo Savona. A diffondere l’email è Massimo Franco, editorialista del “Corriere della Sera” e ospite fisso di Lilli Gruber su La7. Un elegante, impeccabile esponente di quell’establishment – composto da personalità come quelle di Paolo Mieli e Massimo Cacciari – mai espressosi, finora, né in termini analitici sull’economia dell’Eurozona, né tantomeno sulle rivelazioni ormai conclamate riguardo all’identità “supermassonica” del potere europeo, che attraverso istituzioni come la Bce e la Banca d’Italia condiziona la formazione di qualsiasi governo. Il 31 maggio, mentre è in corso l’ultima trattativa in extremis tra Salvini e Di Maio per riesumare il governo “gialloverde” (su pressione degli Usa, secondo “Il Sussidiario”), Massimo Franco provvede a rompere le uova nel paniere, con una “notizia” che potrebbe seppellire l’eventuale, ulteriore spendibilità del nome di Savona. «L’email è arrivata ieri – scrive Franco – allegata a quella di un amico che rivolgeva al “Corriere” critiche al limite dell’insulto. È datata 23 maggio, e reca l’indirizzo di posta elettronica del professor Paolo Savona, candidato al ministero dell’economia per conto della Lega».In risposta agli encomi sinceri e sperticati del suo interlocutore, il professore scriverebbe: «Il mio silenzio sdegnoso li offende più di una risposta». Mattarella? Non avrebbe compreso che ormai gli italiani si sono ribellati allo strapotere dell’élite: è necessario dare una riposta politica esauriente agli elettori. «È la conferma di un’irritazione profonda e covata a lungo nei confronti del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella», scrive Franco, che attribuisce a Savona «una netta scelta di campo». All’inquilino del Quirinale, aggiunge l’editorialista, Savona non perdona «di avere bocciato l’indicazione ultimativa di Salvini a suo favore, per l’ostilità dichiarata e storica alla moneta unica europea, alla Bce di Mario Draghi, al Trattato di Maastricht». Come dire: Paolo Savona ha gettato la maschera, anche se poi il 27 maggio aveva rotto il suo «sdegnoso silenzio» per denunciare la «scomposta polemica» sul suo nome, aggiungendo poi – il giorno seguente – un comunicato nel quale denunciava: «Ho subito un grave torto dalla massima istituzione del paese, sulla base di un paradossale processo alle intenzioni di voler uscire dall’euro». Come dire: Paolo Savona non era sincero, nascondeva il suo vero progetto. Meditava di uscire dall’euro in gran segreto, una volta raggiunta la poltrona di ministro dell’economia.Il problema – aggiunge Massimo Franco – è che a ospitare le sue parole è stato il sito “Scenari Economici”, che «osserva l’euro e i vincoli finanziari sottoscritti dall’Italia con l’Ue come una sciagura». Da quel pulpito digitale, prosegue con gratuito sarcasmo l’editorialista, Savona aveva già scritto una lettera al capo dello Stato il 22 agosto del 2015 intimandogli: «No a cessioni di sovranità», che sempre Massimo Franco definisce «un attacco insieme a Mattarella, alla Bce di Draghi e alla Germania». Ma soprattutto, poche settimane dopo, il 5 ottobre del 2015, lo stesso Savona aveva presentato, sempre su “Scenari Economici”, una “Guida pratica all’uscita dall’euro”, dopo 16 anni di drammatica crisi economica imposta all’Italia da una moneta unica governata da un’oligarchia bancaria privata. Basandosi su un rapporto della multinazionale finanziaria giapponese Nomura e dell’economista britannico Roger Bootle, Savona spiegava in che modo – come extrema ratio – sopravvivere a una eventuale fuoriuscita dall’euro: segretezza e non divulgazione, per evitare fughe di capitali in previsione di una svalutazione tra il 15 e il 25%, mettendo in campo contromisure per ridurre il boom dello spread e il crollo della Borsa, il pericolo della speculazione e di rappresaglie da parte dell’Eurozona.Perfettamente in linea con la “politica della paura” ufficializzata da Mattarella, a proposito delle “rivelazioni” su Savona, Massimo Franco Scrive: «Insomma, uno scenario da incubo, che secondo il professore poteva essere attutito con una procedura segreta, affidata a pochi funzionari-chiave delegati a preparare l’uscita in un mese; a comunicarla agli alleati della zona euro e alle organizzazioni monetarie internazionali di venerdì, a Borse chiuse; per poi reintrodurre la Lira dal lunedì successivo. Senza escludere un default e una riduzione unilaterale del debito italiano per i nostri creditori». L’uscita dall’euro non era neppure lontanamente ipotizzata dal “contratto” di governo firmato da Di Maio e Savini, ma evidentemente per il “Corriere della Sera” non conta: al giornalone, pronto a genuflettersi nel 2011 davanti a Mario Monti, plaudendo alla riforma Fornero e alla rottamazione dell’economia italiana, oggi interessa soprattutto che Paolo Savona resti fuori dall’eventuale governo. Il “Corriere della Sera”, del resto, è uno dei cardini del mainstream mediatico italiano, ancora tramortito dal crollo del Pd e dal boom dei 5 Stelle e della Lega. Un’élite post-giornalistica reticente e omertosa, ancora incredula di fronte agli eventi e spaventata dallo scetticismo degli italiani, che ormai ai giornali tendono a non credere più.«Mattarella non ha capito che ormai il popolo si è ribellato e deve dare una risposta». Firmato: Paolo Savona. A diffondere la presunta email è Massimo Franco, editorialista del “Corriere della Sera” e ospite fisso di Lilli Gruber su La7. Un elegante, impeccabile esponente di quell’establishment – composto da personalità come quelle di Paolo Mieli e Massimo Cacciari – mai espressosi, finora, né in termini analitici sull’economia dell’Eurozona, né tantomeno sulle rivelazioni ormai conclamate riguardo all’identità “supermassonica” del potere europeo, che attraverso istituzioni come la Bce e la Banca d’Italia condiziona la formazione di qualsiasi governo. Il 31 maggio, mentre è in corso l’ultima trattativa in extremis tra Salvini e Di Maio per riesumare il governo “gialloverde” (su pressione degli Usa, secondo “Il Sussidiario”), Massimo Franco provvede a rompere le uova nel paniere, con una “notizia” che potrebbe seppellire l’eventuale, ulteriore spendibilità del nome di Savona. «L’email è arrivata ieri – scrive Franco – allegata a quella di un amico che rivolgeva al “Corriere” critiche al limite dell’insulto. È datata 23 maggio, e reca l’indirizzo di posta elettronica del professor Paolo Savona, candidato al ministero dell’economia per conto della Lega».
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Imbrigliare Salvini: Mattarella e Di Maio sotto pressione Usa
«Può essere che nella storia scopriremo che tutti quelli con cui abbiamo avuto a che fare ci hanno fregato, ma io preferisco passare per una brava persona che per un furbo o per qualcuno che cerca di fregare la gente». Più che la storia, saranno banalmente le prossime ore a svelarlo. Questa dichiarazione di Luigi Di Maio – scrive Antonio Fanna sul “Sussidiario” – sembra infatti fatta apposta per scaricare la colpa di un eventuale ritorno alle urne sul solo Salvini. «Una dichiarazione da furbo, insomma. E infatti dopo poco è seguita da un’altra». La buona riuscita della proposta di un nome alternativo a Paolo Savona, con l’economista sardo comunque nella squadra di governo, «non dipende da noi», dice Di Maio, ma dalla Lega. «Manovra di accerchiamento nei confronti di Salvini, insomma. Ed effettivamente la pressione sul capo della Lega è aumentata a dismisura nelle ultime ore». A quasi tre mesi dall’apertura della crisi, la nuova improvvisa apertura di Mattarella a Di Maio e Salvini dopo lo schiaffo istituzionale del 27 maggio, con il gran rifiuto di Savona all’economia e l’evocazione dell’impeachment, rivelerebbe il ruolo degli Usa dietro le quinte: se l’oligarchia Ue ha inizialmente posto il veto sul governo “gialloverde”, la Casa Bianca – secondo Fanna – avrebbe premuto sul Quirinale per far riaprire i giochi e portare Di Maio al governo, anche per meglio controllare Salvini.Mattarella, ricorda l’analista del “Sussidiario”, ha concesso 24 ore a Di Maio perché convinca Salvini ad aderire alla nuova proposta: possibile premier leghista (lo stesso Salvini o Giorgetti) ma con Savona non più all’economia, dicastero che andrebbe a un tecnico di area grillina – cioè: decide il Quirinale. «Questa linea – scrive Fanna – è stata imposta al Colle dagli americani, che non disdegnano un governo dei 5 Stelle e temono invece Salvini ed i suoi stravaganti rapporti in politica estera, ma ritengono altresì di poterlo condizionare meglio se nascerà un governo in cui per il momento sia ancora azionista di minoranza». Altro fattore: Carlo Calenda ed altri esponenti di area Pd premono per la nascita di un nuovo soggetto politico che si proponga come “fronte repubblicano”, in difesa dell’euro. «Un fronte antipopulista, che dovrebbe far convergere su quello che resta del Pd i voti degli euroimpauriti». Peccato, aggiunge Fanna, che questa logica faccia il paio con la teoria di Salvini sullo scontro tra élites e popolo: «Una contrapposizione fatta su misura per far stravincere i populisti pur di assicurarsi qualche strapuntino in più nel prossimo Parlamento».A Mattarella questo schema appare folle, rileva Fanna: mentre il Quirinale «si sforza di costituzionalizzare i 5 Stelle», i reduci del Pd pensano di superare lo schema destra-sinistra «come già auspicato dallo stesso Renzi in passato», illudendosi di far trionfare “il nuovo” in politica. «Ma questo nuovo sa di antico», scrive Fanna. «Il fronte costituzionale che non piace al canuto presidente della Repubblica sa tanto del Fronte popolare che si schiantò contro gli agili comitati civici democristiani del 1948. Meglio troncare, sopire e diluire la furia delle piazze giallo-verdi in un governo che duri un paio d’anni». E intanto la roulette post-elettorale italiana continua: «I bookmaker danno la nascita di un governo politico al 40 per cento delle possibilità. Salvini lo hanno cercato fino a notte tarda. Lui ha fatto il prezioso. Come Di Maio pensa di essere il solo ingenuo del Palazzo».«Può essere che nella storia scopriremo che tutti quelli con cui abbiamo avuto a che fare ci hanno fregato, ma io preferisco passare per una brava persona che per un furbo o per qualcuno che cerca di fregare la gente». Più che la storia, saranno banalmente le prossime ore a svelarlo. Questa dichiarazione di Luigi Di Maio – scrive Antonio Fanna sul “Sussidiario” – sembra fatta apposta per scaricare la colpa di un eventuale ritorno alle urne sul solo Salvini. «Una dichiarazione da furbo, insomma. E infatti dopo poco è seguita da un’altra». La buona riuscita della proposta di un nome alternativo a Paolo Savona, con l’economista sardo comunque nella squadra di governo, «non dipende da noi», dice Di Maio, ma dalla Lega. «Manovra di accerchiamento nei confronti di Salvini, insomma. Ed effettivamente la pressione sul capo della Lega è aumentata a dismisura nelle ultime ore». A quasi tre mesi dall’apertura della crisi, la nuova improvvisa apertura di Mattarella a Di Maio e Salvini dopo lo schiaffo istituzionale del 27 maggio, con il gran rifiuto di Savona all’economia e l’evocazione dell’impeachment, rivelerebbe il ruolo degli Usa dietro le quinte: se l’oligarchia Ue ha inizialmente posto il veto sul governo “gialloverde”, la Casa Bianca – secondo Fanna – avrebbe premuto sul Quirinale per far riaprire i giochi e portare Di Maio al governo, anche per meglio controllare Salvini.
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Foa e Mélenchon: umiliare l’Italia, il piano è euro-tedesco
«L’establishment europeista ha deciso di spezzare le reni all’Italia, come ha già fatto con la Grecia». Per Marcello Foa, lo scenario che si profila è il seguente: «Scatenare una crisi paurosa del debito pubblico italiano, spingendo lo spread a livelli mai visti». Ovvero: «Provocare il panico, fino al momento in cui l’Italia verrà commissariata e Mattarella invocherà per il bene supremo del paese la fiducia a Cottarelli (già in carica) e/o l’introduzione di misure straordinarie, come il rinvio sine die delle elezioni e la conseguente distruzione della reputazione e della popolarità di Salvini e di Di Maio, che verranno indicati come i responsabili di questa crisi». Se il piano avrà successo, aggiunge Foa sul “Giornale”, servirà da monito a tutti i paesi europei dove i movimenti “populisti” sono in ascesa. E comporterà la definitiva sottomissione dei popoli europei alle oligarchi. «Come dire: colpirne uno per educarne cento. Perché queste sono le logiche, indegne e autoritarie». Per questo motivo, sottolinea Foa, «opporsi è un dovere civico e morale: il piano deve fallire». In ogni caso, scrive Giampaolo Rossi sempre sul “Giornale”, proprio il capo dello Stato è al centro di questo incredibile «disastro istituzionale», che sta mettendo in pericolo l’Italia. La scena è eloquente: il paese è indifeso, con il presidente della Repubblica che si piega apertamente al potere – più forte – dei cosiddetti “mercati”.«Berlino fatica a formare il governo italiano»: così si esprime sulla situazione italiana il leader di ‘La France Insoumise’, Jean-Luc Mélenchon, attraverso un articolo sul suo blog. Con la lucidità che lo contraddistingue, rileva “L’Antidipliomatico”, l’esponente della gauche francese afferma: «La catastrofe è consumata, in Italia. Uno dei paesi fondatori dell’Unione Europea è stato colpito dai fulmini della Commissione Europea e dei suoi padroni berlinesi. L’Unione Europea ha mostrato il suo pugno di ferro. Piuttosto che avallare la nomina di un ministro delle finanze sconveniente per Berlino, il presidente della Repubblica italiana ha fatto terra bruciata». Estremamente esplicito il giudizio di Mélenchon sul ruolo svolto da Sergio Mattarella: «Il deplorevole presidente italiano – scrive il leader della sinistra francese – compie il suo ruolo con la consapevolezza rude di tutti i curatori fallimentari. Nomina un dirigente del Fondo Monetario Internazionale soprannominato ‘Mister Tagli’. Tutto è detto, con questo soprannome», che ben illustra le presunte virtù di Carlo Cottarelli. Rincara la dose Mélenchon: «Quali motivazioni ha, questo presidente, per compiere una tale violazione della volontà popolare espressa dal voto degli italiani?».«Il presidente italiano – continua Mélenchon – ha invocato, come argomento finale, il rischio di aumentare il divario tra i tassi di interesse tedeschi e italiani. Il guinzaglio, che tiene tutti i paesi per la gola». Come ai bei tempi dello Sme, il “serpente monetario” europeo, in cui «il valore della valuta di ciascun paese dell’Unione Europea era fisso rispetto a quello degli altri, e quindi del più forte». In questo momento, aggiunge il politico francese, «la moneta unica mostra chiaramente che cos’è: non protegge alcun paese, li allinea tutti sulla politica economica della Germania». Jean-Luc Mélenchon, infine, indica chi sono i veri responsabili di quella che si profila come la più grave crisi istituzionale italiana: «L’unica e sola responsabilità per la situazione viene dai dettami di Bruxelles e dalla brutalità dei governanti tedeschi. Berlino lotta per trovare burattini convincenti in Italia per garantirsi il suo dominio». Di fronte a questo, l’inquilino del Quirinale non ha opposto alcuna resistenza: ha anzi dichiarato apertamente, nel suo sconcertante discorso alla nazione, che all’Italia conviene piegarsi alla legge del più forte.«L’establishment europeista ha deciso di spezzare le reni all’Italia, come ha già fatto con la Grecia». Per Marcello Foa, lo scenario che si profila è il seguente: «Scatenare una crisi paurosa del debito pubblico italiano, spingendo lo spread a livelli mai visti». Ovvero: «Provocare il panico, fino al momento in cui l’Italia verrà commissariata e Mattarella invocherà per il bene supremo del paese la fiducia a Cottarelli (già in carica) e/o l’introduzione di misure straordinarie, come il rinvio sine die delle elezioni e la conseguente distruzione della reputazione e della popolarità di Salvini e di Di Maio, che verranno indicati come i responsabili di questa crisi». Se il piano avrà successo, aggiunge Foa sul “Giornale”, servirà da monito a tutti i paesi europei dove i movimenti “populisti” sono in ascesa. E comporterà la definitiva sottomissione dei popoli europei alle oligarchie. «Come dire: colpirne uno per educarne cento. Perché queste sono le logiche, indegne e autoritarie». Per questo motivo, sottolinea Foa, «opporsi è un dovere civico e morale: il piano deve fallire». In ogni caso, scrive Giampaolo Rossi sempre sul “Giornale”, proprio il capo dello Stato è al centro di questo incredibile «disastro istituzionale», che sta mettendo in pericolo l’Italia. La scena è eloquente: il paese è indifeso, con il presidente della Repubblica che si piega apertamente al potere – più forte – dei cosiddetti “mercati”.
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L’impresentabile Cottarelli, contro l’Italia che voleva Savona
L’Italia è vistosamente in subbuglio, dopo la decisione del presidente Mattarella di non consentire la nascita del “governo del cambiamento” bloccando – in modo controverso – la nomina di Paolo Savona, ministro designato all’economia. In attesa che si chiarisca il profilo giuridico della decisione, da più parti ampiamente contestata (fino alla possibile richiesta di impeachment nei confronti del capo dello Stato), emerge in mille rivoli un sentimento popolare che si sta rivelando maggioritario: l’amarezza per una decisione percepita come una beffa, uno schiaffo alla cosiddetta sovranità popolare. Eloquente lo stesso discorso del presidente della Repubblica dopo il licenziamento di Giuseppe Conte: impossibile nominare un ministro che rischi di irritare i mercati finanziari privati, da cui ormai dipende la finanza pubblica. A questo è ridotta la sovranità democratica, in nome della quale si chiede ai cittadini di partecipare alle elezioni? Di fatto, il capo dello Stato ha compiuto un’azione che secondo molti osservatori non ha precedenti, imponendosi sui partiti eletti nel bocciare un candidato ministro per le sue idee politiche. E come se nulla fosse accaduto, mentre il paese intero si interroga sul proprio destino, un tecnocrate del Fondo Monetario Internazionale accetta con la massima disinvoltura l’incarico di presidente del Consiglio.
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Petizione: Mattarella si dimetta, non “osi obbedir tacendo”
«Riteniamo che la sua figura sia ampiamente delegittimata rispetto alla carica». Così Gianfranco Carpeoro si rivolge (via Facebook) al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, chiedendogli di dimettersi dopo aver bloccato il varo del governo “gialloverde” presieduto da Giuseppe Conte, ponendo il veto su Paolo Savona per il ministero dell’economia. «Non voglio entrare nel dibattito sulla legittimità di tale scelta», premette Carpeoro, ma aggiunge: «Non ho dubbi che, sul piano etico e sul piano della sensibilità democratica, ciò avrebbe già dovuto suggerire a un presidente di alta preparazione costituzionale la doverosa presentazione delle sue dimissioni». E spiega, rivolgendosi al capo dello Stato: «Se entrasse in conflitto anche con la maggioranza del prossimo Parlamento cosa farebbe? Se un governo prossimo futuro entrasse in serio confronto con le burocrazia europea cosa avverrebbe? Un vero e proprio golpe?». Per questo, Carpeoro – al secolo Gianfranco Pecoraro, avvocato di lungo corso – chiede apertamente ai lettori di aderire alla raccolta di firme lanciata su “Change.org” da Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, di cui lo stesso Carpeoro è un dirigente. «L’unica speranza degli italiani – dice – è chiedere con un autentico plebiscito le dimissioni del presidente della Repubblica».Sul più diffuso webmagazine nazionale, “Affari Italiani”, proprio Magaldi esprime un severo giudizio politico su Mattarella, definendolo «paramassone conservatore dalla cifra servizievole e subalterna» rispetto ai poteri super-massonici neo-aristocratici che dominano la governance europea. Tuttavia, il “niet” del Quirinale su Savona ha l’aria di essere un autogoal: «I poteri “marci” che si sono serviti del servizievole Mattarella – dichiara Magaldi – hanno compiuto un clamoroso errore», perché il veto su Savona, che il presidente del Movimento Roosevelt definisce un gesto «anticostituzionale e antidemocratico», ha mostrato a tutti che il “Re” è nudo e senza veli: «Il Re (collettivo) neo-aristocratico, post-democratico, anticostituzionale e “controiniziatico” è finalmente denudato e smascherato». Scacco matto alla democrazia? «No. Era stato fatto Scacco al Re con la candidatura di Paolo Savona al ministero dell’economia». Ma adesso, aggiunge Magaldi, «grazie all’inaudita insipienza arrogante di Sergio Mattarella – ostaggio di pressioni oscure e antidemocratiche – lo Scacco al Re si è tramutato in Scacco Matto a quei poteri marci, neoaristocratici e controiniziatici che tengono in ostaggio l’Italia e l’Europa da troppo tempo, ma che ormai sono “nudi e ben visibili” allo sguardo giustamente indignato dei cittadini».Stiamo assistendo in queste ore ad una crisi politica mai vista, osserva Patrizia Scanu, altro esponente del Movimento Roosevelt: «Un presidente della Repubblica, forzando le sue prerogative istituzionali, non permette la formazione di un un governo che avrebbe la maggioranza parlamentare uscita dalle urne (il primo dopo molti anni) per pregiudizio di tipo politico verso il ministro dell’economia proposto dalla maggioranza». Patrizia Scanu cita Valerio Onida, presidente emerito della Corte Costituzionale: per Onida, sul piano strettamente giuridico, Mattarella può dire “io non firmo”. Di fronte all’inistenza sul nome di Savona, aggiunge Onida, «il capo dello Stato si è opposto per ragioni politiche, non personali». E aggiunge: Mattarella è andato contro l’idea che il nostro sia un sistema parlamentare. Non ha neppure posto obiezioni sul programma di governo: «Si è opposto solo a una persona, temendo che potesse mettere in pericolo la stabilità dei mercati finanziari, e la difesa dei risparmiatori. Così facendo – afferma Onida – si dà ai creditori dello Stato un potere immenso, che va al di là delle obbligazioni di un debitore. Un debitore non può diventare così politicamente asservito da accettare ingerenza sulla maggioranza. In questo caso mi sembra sia andato un po’ troppo oltre».Gli avvenimenti degli ultimi giorni, riassume Gianfranco Carpeoro sulla sua pagina Facebook, richiedono un chiarimento analitico di alcuni aspetti. «Una delle prime preoccupazioni della “sovragestione” reazionaria, oligarchica, familistica e aristocratica», rivela Carpeoro, è stata quella di «ridurre al lumicino l’insegnamento dell’educazione civica nelle scuole». Forse a qualcuno sfugge che il presidente della Repubblica resta in carica 7 anni, contro i 5 del Parlamento che lo elegge. Decisione che nacque nel contesto storico-politico del momento post-bellico, dopo la fine del regime fascista. Obiettivo: sottolineare l’autonomia e l’indipendenza della figura istituzionale più alta. «Si trattò all’epoca di una scelta condivisibile, ma col tempo – secondo Carpeoro – si è rivelata anche come la confessione della debolezza intrinseca della figura presidenziale, sotto il profilo della legittimazione democratica e popolare». Debolezza, aggiunge Carpeoro, che di recente «ha costretto a forzature personali di varia natura dei limiti delle prerogative della carica: forzature proporzionali all’arretramento generale sotto il profilo della credibilità, ma anche della efficacia della politica in generale, tanto del potere legislativo che di quello governativo».Gli ultimi decenni della storia politica dell’Italia, aggiunge Carpeoro, hanno registrato onde di flusso e riflusso tra chi voleva rinchiudere la figura presidenziale in un grigio studio notarile e che invece, nel buio della politica, voleva un cavalleresco baluardo: «Non solo unico garante di legalità e costituzionalità, ma anche garante di buon governo, secondo le varie posizioni politiche e idee che peraltro si fronteggiavano in campagne elettorali feroci e perenni». È in questo contesto, continua Carpeoro, che il nostro presidente della Repubblica si è appena rifiutato di varare un governo «scaturito dalla convergenza di una maggioranza parlamentare emersa dopo le numerose consultazioni». Così facendo, aggiunge, «il presidente si è apertamente messo in dissenso con la maggioranza democratica di un Parlamento, peraltro diverso da quello che, a suo tempo, lo aveva eletto». Il motivo del dissenso, secondo lo stesso presidente? Il timore che la nomina di Paolo Savona, «pur legittima sul piano democratico, avrebbe comportato ripercussioni nei mercati sui risparmi degli italiani». Con «affetto e deferenza», Carpeoro si rivolge direttamente a Mattarella. «Non siamo usi agli insulti e alle polemiche incivili», premette. Ma aggiunge: «Indipendentemente dallo stabilire se sia stato un ricatto dei mercati o una imposizione di altri poteri», sarebbe meglio che si facesse da parte. «Ci ascolti, presidente, si dimetta: non non “osi obbedir tacendo”, si rilegittimi e non si consegni alla storia come un don Abbondio qualunque. Il Griso e i suoi bravi glieli rimandi indietro con le pive nel sacco a don Rodrigo».«Riteniamo che la sua figura sia ampiamente delegittimata rispetto alla carica». Così Gianfranco Carpeoro si rivolge (via Facebook) al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, chiedendogli di dimettersi dopo aver bloccato il varo del governo “gialloverde” presieduto da Giuseppe Conte, ponendo il veto su Paolo Savona per il ministero dell’economia. «Non voglio entrare nel dibattito sulla legittimità di tale scelta», premette Carpeoro, ma aggiunge: «Non ho dubbi che, sul piano etico e sul piano della sensibilità democratica, ciò avrebbe già dovuto suggerire a un presidente di alta preparazione costituzionale la doverosa presentazione delle sue dimissioni». E si domanda, rivolgendosi al capo dello Stato: «Se entrasse in conflitto anche con la maggioranza del prossimo Parlamento cosa farebbe? Se un governo prossimo futuro entrasse in serio confronto con le burocrazia europea cosa avverrebbe? Un vero e proprio golpe?». Per questo, Carpeoro – al secolo Gianfranco Pecoraro, avvocato di lungo corso – chiede apertamente ai lettori di aderire alla raccolta di firme lanciata su “Change.org” da Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, di cui lo stesso Carpeoro è un dirigente. «L’unica speranza degli italiani – dice – è chiedere con un autentico plebiscito le dimissioni del presidente della Repubblica».
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Prove tecniche di rivoluzione, contro il racket del potere Ue
Rivoluzione o cospirazione? Come crolla, un regime autoritario? In genere a farlo implodere non è direttamente la piazza, ma il dissenso interno, pur tra mille contraddizioni e opache trame manipolatorie. Sembra un copione ricorrente, come nel caso della Libia di Gheddafi rovesciata su iniziativa degli ex alleati di Bengasi – incoraggiati dalla Francia, e comunque reduci da una lunghissima cogestione del potere insieme al Colonnello. A smontare il maggiore “impero rigido” del Novecento, l’Unione Sovietica, è stato Mikhail Gorbaciov: non un outsider, ma un alto dirigente del Kgb. Esattamente come Vladimir Putin, l’uomo che poi la Russia l’ha rimessa insieme pezzo su pezzo. Vuoi provare a “smontare” l’Unione Europea per trasformarla in qualcosa di meglio dell’attuale aborto? Non puoi fare a meno di un “insider” di altissimo livello, di un veterano come Paolo Savona (non a caso temutissimo dagli attuali gestori dell’infernale crisi che tiene in ostaggio l’intera Europa, sotto il ricatto finanziario permanente). Altro dettaglio: quando la storia cambia passo, il vecchio potere sembra improvvisamente antico, paleozoico, surreale. Lo sono le sue parole arcaiche e logore, i suoi slogan polverosi. Balbettano, i potenti, increduli di fronte al baratro che si va aprendo. E balbettano, altrettanto disorientati, i grandi media – quelli che hanno smesso di raccontare il mondo, e quindi hanno subito le sorprese della Brexit, di Trump, del referendum contro Renzi, delle ultime elezioni italiane.Finisce nella bufera, in Italia, il presidente della Repubblica, accusato di non aver saputo resistere – in nome della dignità nazionale – alle midiciali pressioni del grande potere apolide che ha in mano l’Europa. E’ un potere senza patria, industriale e finanziario, neo-aristocratico e segretamente supermassonico. Un potere globalista e ricchissimo, infinitamente più forte – per il momento – delle piccole, residue sovranità nazionali ridotte a elemosinare decimali di deficit e briciole di flessibilità. Un sistema che, per primo, Paolo Barnard ha definito neo-feudale: svuotata la democrazia, piegata o “comprata” l’ex sinistra sindacale dei diritti, i signori del neoliberismo (peggiorato ulteriormente, in Europa, dalla versione ordoliberista teutonica, stolidamente ottocentesca e ottusamente mercantile, sleale e imbrogliona) hanno compiuto una restaurazione storica e drammaticamente spettacolare. Il potere, semplicemente, è tornato nelle mani di un’élite pre-democratica e pre-moderna, di tipo medievale. Gli ordini non si discutono: se il vero potere decreta che uno Stato non può più ricorrere al deficit, la discussione è finita. Pena, lo scatenarsi dei “mercati”. Una logica intimidatoria e brutalmente esplicita, di stampo mafioso. Una sorta di racket, al quale gli Stati ex-sovrani devono sottoporsi, senza che i cittadini-elettori siano mai stati interpellati. Fin qui, il copione di ieri. Quello che oggi sta letteralmente franando.Nelle parole che Sergio Mattarella ha rivolto alla nazione immediatamente dopo il “gran rifiuto” opposto alla nomina di Savona, risuona la visione macro-economica del sistema che il neoliberismo – vera e propria teologia dogmatica – ci ha fatto credere l’unica possibile. Per questo, Mattarella la presenta come ovvia: nel suo pensiero c’è posto per un solo modo di risolvere le crisi, e cioè tagliando il deficit pubblico. Una sola fede, una sola religione: quella che il neoliberismo ha imposto a mano armata, con formidabile efficacia, colonizzando l’immaginario universale – scuole, media, governi, editoria, università. Lo Stato deve dimagrire: non ci sono alternative, diceva Margaret Thatcher nel 1980. Peccato che la cura dimagrante imposta dal vero potere e inaugurata da Mario Monti abbia depresso l’economia al punto da far esplodere quel debito che si pretendeva di abbattere. Sono state colpite famiglie e aziende: meno lavoro, risparmi erosi, meno entrate fiscali. Risultato scontato: si è allargata la forbice tra debito e Pil. Come uscirne? Nell’unico modo possibile: facendo esattamente l’opposto. Investimenti a deficit, quindi più lavoro e più Pil, più entrate fiscali e, alla fine, riduzione proporzionale del debito. E’ semplice, in teoria. Ma sembra impossibile.I peggiori politici che un paese come l’Italia abbia mai avuto – gli eroi della Seconda Repubblica – hanno potuto sgranare impunemente il rosario dei falsi dogmi del neoliberismo. L’hanno fatto sempre, a reti unificate, mai contraddetti né interrogati dalla stampa. Un quarto di secolo si è giocato interamente solo all’interno di una soltanto delle narrazioni possibili, quella del neoliberismo, ulteriormente limitato dai vincoli dell’ordoliberismo europeo. Nessuno s’è mai chiesto come abbia fatto, il Giappone, a vivere benissimo con un debito pubblico al 200% del Pil, senza l’ombra di attacchi speculativi – impossibili, con moneta sovrana e una banca centrale che fa il suo mestiere di prestatore di ultima istanza. Nessuno in fondo si è mai chiesto niente di fondamentale, nell’Italia ipnotizzata per vent’anni dal finto duello tra Prodi e Berlusconi, entrambi al servizio (Prodi più di Berlusconi) del sommo potere neoliberista e privatizzatore. Ora, improvvisamente, il Re si scopre nudo: arriva a bloccare la nomina di un ministro, solo perché sgradita ai boss della finanza che occupano militarmente i palazzi europei. Gli italiani, a loro volta, scoprono che il loro voto è stato perfettamente inutile, e ormai diffidano delle istituzioni: temono che siano state colonizzate da poteri stranieri. C’è gente che queste cose le ha dette e scritte per vent’anni. La novità è che ora sono entrate clamorosamente a far parte dell’agenda politica, grazie a due movimenti eterodossi: uno ex-secessionista, l’altro creato dal nulla sul web.Rivoluzione o cospirazione? Come crolla, un regime autoritario? In genere a farlo implodere non è direttamente la piazza, ma il dissenso interno, pur tra mille contraddizioni e opache trame manipolatorie. Sembra un copione ricorrente, come nel caso della Libia di Gheddafi rovesciata su iniziativa degli ex alleati di Bengasi – incoraggiati dalla Francia, e comunque reduci da una lunghissima cogestione del potere insieme al Colonnello. A smontare il maggiore “impero rigido” del Novecento, l’Unione Sovietica, è stato Mikhail Gorbaciov: non un outsider, ma un alto dirigente del Kgb. Esattamente come Vladimir Putin, l’uomo che poi la Russia l’ha rimessa insieme pezzo su pezzo. Vuoi provare a “smontare” l’Unione Europea per trasformarla in qualcosa di meglio dell’attuale aborto? Non puoi fare a meno di un “insider” di altissimo livello, di un veterano come Paolo Savona (non a caso temutissimo dagli attuali gestori dell’infernale crisi che tiene in ostaggio l’intera Europa, sotto il ricatto finanziario permanente). Altro dettaglio: quando la storia cambia passo, il vecchio potere sembra improvvisamente antico, paleozoico, surreale. Lo sono le sue parole arcaiche e logore, i suoi slogan polverosi. Balbettano, i potenti, increduli di fronte al baratro che si va aprendo. E balbettano, altrettanto disorientati, i grandi media – quelli che hanno smesso di raccontare il mondo, e quindi hanno subito le sorprese della Brexit, di Trump, del referendum contro Renzi, delle ultime elezioni italiane.
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Renzi: il veto su Paolo Savona imposto da Draghi e Visco
Mattarella nell’angolo: finito nel mirino di 5 Stelle e Lega dopo esser stato “costretto” a bocciare Savona, su pressione di Ignazio Visco (Bankitalia) e Mario Draghi (Bce). Lo scrive sul “Giornale” Augusto Minzolini, citando nientemeno che Matteo Renzi. Per spiegare l’avvitarsi esplosivo della crisi istituzionale, racconta Minzolini, l’ex segretario del Pd ha confidato ai suoi che «Mattarella in questi giorni ha ascoltato molto Draghi e Visco, che vedono Savona come fumo negli occhi». Tra l’altro, ha aggiunto Renzi, «quello che dice Savona sugli errori fatti da Bankitalia nel trattare i problemi delle piccole banche o il bail-in, io lo firmerei». Quindi, aggiunge Minzolini, con Bruxelles, Berlino, Draghi, Visco che premevano, Mattarella «non ha potuto non mettere quel “veto” su Savona». E ha dovuto accettare un grande rischio, quello su cui persino D’Alema giorni fa lo aveva messo in guardia: «Se il presidente dice no a Savona, rischia di ritrovarsi di nuovo di fronte lo stesso problema dopo le elezioni. Con Salvini che, però, gli metterà sul tavolo una maggioranza dell’80%». Già, con quel “no” ora Mattarella rischia di diventare l’obiettivo di una campagna elettorale, di essere sfiduciato dal paese. Ecco perché – anziché Cottarelli – sarebbe stato meglio per il Quirinale «rifugiarsi dietro a qualche precedente, mettere in piedi un governo istituzionale, guidato da uno dei due presidenti delle Camere, come fece Francesco Cossiga nell’87».Osservazioni che Minzolini coglie fra i retroscena di una crisi vertiginosa, innescata dal braccio di ferro sull’ex eurista e neo-euroscettico Paolo Savona. Inutili gli incontri in extremis tra Mattarella, Salvini e Di Maio, prima della visita conclusiva di Conte al Quirinale. «Tutti sono rimasti sulle loro posizioni». In realtà, si era già capito che le missioni del pomeriggio al Quirinale del leader della Lega e poi del capo dei 5 Stelle, «terrorizzato dal rischio di andare nuovamente alle urne», si erano risolte in un fallimento. Dice Giancarlo Giorgetti, numero due della Lega: «Se su Savona c’è il no di Berlino e dei poteri forti – ha tagliato corto Salvini – significa che è il ministro giusto. Se non lo vogliono si torna a votare». Scuro in volto anche Di Maio: «Qui finisce male, la posizione di Mattarella è incomprensibile». E Mattarella? Minzolini lo descrive «fuori di sé», irremobivile di fronte ai suoi interlocutori: «Dovranno spiegare agli italiani quello che succederà da domani in poi sui mercati». La verità, aggiunge Minzolini, è che il “caso Savona” è diventato alla fine l’elemento catalizzatore del “non detto” di queste settimane: le prerogative istituzionali del capo dello Stato, i rapporti con il sistema Ue-Bce attraverso Bankitalia.«Ci sono sono state tutte le contraddizioni, che, piano piano, sono venute in luce nel “contratto” di governo», scrive Minzolini. «E la montagna di parole con cui i mediatori hanno tentato di coprire tutto questo negli ultimi giorni, quello spesso manto di ipocrisia, non è bastata per raggiungere un compromesso. Sicuramente non è bastata la dichiarazione di Savona». Secondo l’ex direttore berlusconiano del Tg1, si è tentata «una mediazione impossibile» per “sdoganare” «un personaggio come Savona con il suo profilo, la sua personalità, la sua storia al ministero dell’economia». Delle due l’una: Savona all’economia «avrebbe avuto il significato di un cedimento di Mattarella, per cui l’influenza che il Quirinale via via è venuto ad assumere nei settennati di Scalfaro, Ciampi e, soprattutto, Napolitano, sarebbe diventata un pallido ricordo». Se invece Salvini avesse accettato l’esclusione del professore, «avremmo avuto il paradosso che il primo governo “sovranista” di questo paese sarebbe stato il primo a essere condizionato platealmente dalla Ue e dalla Germania, nella scelta del ministro dell’economia». Non si scappa, sottolinea Minzolini: «Ci sarebbe stato un vincitore e un perdente. E nessuno era nelle condizioni di poter accettare una sconfitta».Chi rischia di più, ora? Ovviamente il Quirinale, secondo Claudio Borghi: «Mattarella e compagni non sono lucidi: stanno facendo a Salvini il favore che l’establishment americano ha fatto a Trump», confida il “cervello” economico della Lega. «Le hanno provate tutte, anche a dividere il ministero dell’economia in due per impedire a Savona di partecipare ai vertici europei». La verità, secondo Borghi, è che questa crisi non pone solo il problema del nostro rapporto con l’Europa, ma anche di quanto è avvenuto nel 2011: l’Italia è ancora un paese sovrano? «È una questione che non nasce ora», aggiunge Borghi, citato da Minzolini. «Lo sa benissimo Berlusconi, che ha l’occasione di vendicarsi per tutto quello che gli hanno fatto. Ieri c’è stato un capo dello Stato che su ordine della Ue ha fatto fuori un premier. Oggi c’è un capo dello Stato che ha posto un veto sulla nomina di un ministro, sempre su ordine di Bruxelles». Ieri Napolitano, oggi Mattarella. «Tutti i nodi sono venuti al pettine». E proprio sul nome di Savona, chiosa Minzolini, «è andato in scena lo scontro tra due mondi».Mattarella nell’angolo: finito nel mirino di 5 Stelle e Lega dopo esser stato “costretto” a bocciare Savona, su pressione di Ignazio Visco (Bankitalia) e Mario Draghi (Bce). Lo scrive sul “Giornale” Augusto Minzolini, citando nientemeno che Matteo Renzi. Per spiegare l’avvitarsi esplosivo della crisi istituzionale, racconta Minzolini, l’ex segretario del Pd ha confidato ai suoi che «Mattarella in questi giorni ha ascoltato molto Draghi e Visco, che vedono Savona come fumo negli occhi». Tra l’altro, ha aggiunto Renzi, «quello che dice Savona sugli errori fatti da Bankitalia nel trattare i problemi delle piccole banche o il bail-in, io lo firmerei». Quindi, aggiunge Minzolini, con Bruxelles, Berlino, Draghi, Visco che premevano, Mattarella «non ha potuto non mettere quel “veto” su Savona». E ha dovuto accettare un grande rischio, quello su cui persino D’Alema giorni fa lo aveva messo in guardia: «Se il presidente dice no a Savona, rischia di ritrovarsi di nuovo di fronte lo stesso problema dopo le elezioni. Con Salvini che, però, gli metterà sul tavolo una maggioranza dell’80%». Già, con quel “no” ora Mattarella rischia di diventare l’obiettivo di una campagna elettorale, di essere sfiduciato dal paese. Ecco perché – anziché Cottarelli – sarebbe stato meglio per il Quirinale «rifugiarsi dietro a qualche precedente, mettere in piedi un governo istituzionale, guidato da uno dei due presidenti delle Camere, come fece Francesco Cossiga nell’87».
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Scie in aumento, Mini: la guerra climatica ormai è realtà
La frequenza delle scie nei nostri cieli (scie di varie forme, dimensioni e colori) si è intensificata. Molti ormai le chiamano “scie chimiche”, ma l’ufficialità continua a negare la loro esistenza. Militari dell’aeronautica e grande stampa, servizi meteo, scienziati e ministri ripetono che si tratta di un fenomeno “normale”, giustificato dal traffico aereo intensificato. Non la pensa così il generale Fabio Mini, già a capo della missione Nato in Kosovo. Per l’alto ufficiale, il fenomeno è anomalo: durante la guerra in Kosovo – ricorda Mini – la manipolazione delle nubi aveva un’importanza strategica ed è stata attuata. «Si possono creare o dissolvere artificialmente e rappresentano uno strumento di guerra», riassume il sito “Ereticamente”, riportando recenti interviste rilasciare dal generale. «Si usano sostanze chimiche (sodio, bario, alluminio, polimeri) che vengono impiegate per le deviazioni delle onde elettromagnetiche». Fabio Mini esorta i cittadini a pretendere la verifica, l’ammissione da parte delle autorità, facendo pressioni per ottenere accertamenti e informazioni ufficiali rilasciate da autorità competenti e di responsabilità: sanità e difesa, aeronautica, ministero dell’agricoltura e della ricerca scientifica. Obiettivo: verificare l’esistenza di prove dettagliate e inconfutabili.«Riguardo alla questione della geoingegneria – avverte Dane Wigington sul sito “NoGeoingegneria” – le porte di tutti i rappresentanti del governo e di tutte le agenzie governative sono state sbarrate. I responsabili delle operazioni di irrorazione proteggono questi programmi negli ultimi decenni. Le agenzie governative che si occupano di qualità dell’aria e dell’acqua sono state strutturate in modo tale da mascherare la montagna di composti tossici originati dai programmi di modificazione climatica e meteorologica». Come Mini, anche Wigington esorta a «fornire dati credibili e inattaccabili per poi metterli nelle mani di autorità competenti e spingerle ad occuparsene attivamente». La lista di possibili interlocutori è infinita, aggiunge “Ereticamente”: «Si passa da chi si occupa di questioni ambientali, cibo biologico, malati di Alzheimer, autismo e Adhd a settori quali l’allevamento, la forestale, il giornalismo». In una recente intervista con Enzo Pennetta, lo stesso Mini ricorda che ormai «la guerra è diventata un illecito del diritto internazionale e non è più la prosecuzione della politica, ma la sua negazione, il suo fallimento».Una caratteristica delle guerre moderne, aggiunge Mini, è anche la perdita di consapevolezza sulla verità: e in questo, la tecnologia sa fare miracoli. «Se tali armi sono state veramente impiegate, si tratta di una violazione del diritto internazionale e dei diritti umani delle vittime». Secondo il professor Pennetta, il cinema americano prepara lo spettatore ad “abituarsi” alla guerra climatica, attraverso immagini più o meno subliminali, dal 1959. Oggi, il “Weather Channel” allarma sui disastri naturali milioni di spettatori su schermi flat e smartphone, come “previsto” (saputo in anticipo?) dalla propaganda militare di Disney nel 1959 con il film “Eyes in Outer Space”, prodotto in collaborazione col Pentagono. «Il film usa musica e animazioni per speculare sull’uso della tecnologia dei satelliti militari lanciati nello spazio, insieme ad una rete di difesa coordinata ed a certi strumenti per modificare il clima. Il controllo del clima, la guerra che minaccia l’ambiente, appunto. Quel film ritrae un ordine futuristico di satelliti e armi spaziali che fanno parte di un sistema di totale controllo climatico militare indirizzato dal presidente Kennedy. E’ stato previsto che satelliti in grado di tracciare il clima avrebbero permesso alle forze militari statunitensi di predire i modelli climatici per progettare attacchi coordinati contro fenomeni naturali nefasti anticipandoli di mesi».Il mondo attuale, che “copre” certi progetti di geoingegneria, armi chimiche, elettromagnetiche e spaziali – conclude “Eticamente”, citando Pennetta – è stato anticipato dal film di Walt Disney in stretta collaborazione con il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti. Ci dà una prospettiva storica di come la propaganda statale venga usata per condizionare una deviazione culturale programmata in supporto all’uso della tecnologia militare come le armi usate contro il mondo naturale». Inutile stupirsi se le “scie chimiche” non trovano cittadinanza sui media, se non per il facile sarcasmo delle cosiddette “bufale”. «Siamo in piena guerra dell’informazione da cui, di riflesso, scaturiscono tutte le altre guerre», sintetizza “Ereticamente”. «Una guerra a colpi di mezze verità, bufale, bufale su verità, verità su bufale con tutti i vari incroci ed intrecci che ne derivano». Secondo il blog, «il diavolo si diverte da sempre a mischiare le carte in tavola con grandi verità condite da grandi porcate e grandi menzogne che, tra le righe, nascondono verità». Del gioco fa parte anche il fantastico “algoritmo anti-bufale” messo a punto da Google, «che in sostanza ci dice: le bufale le decido io, tutto il resto è la verità».In questo clima di guerra all’ultimo scoop e bombardamento mediatico propagandista, spunta un tema che sta a cuore a tutti, di cui ci si preoccupa o di cui si ride: «Le scie chimiche, il clima impazzito, la guerra climatica o ambientale innaffiata ogni giorno dalla guerra della disinformazione». Aggiunge “Ereticamente”: «Le scie chimiche associate al clima impazzito ed a fenomeni di manipolazione di disastri naturali come terremoti, tsunami, cataclismi e siccità non sono più materia di ‘bufale’». Una vera e propria guerra ambientale è già in atto, afferma il generale Mini: «E’ guerra climatica, clima modificato con agenti chimici». Il protocollo ha un nome evocativo: “Owning the Wheather”, possedere il clima. Dal 2007, il generale affronta la delicata questione delle armi di nuova generazione, destinate a provocare disastri solo apparentemente naturali. «Ha osservato che le scie chimiche che segnano i nostri cieli non sono affatto “di condensa”, chiarendo ogni dubbio in merito». Mini spiega che c’è qualcosa di più della classica disinformazione dei media: in ambito militare esiste una pratica chiamata “denial of service”, «in base alla quale non solo occorre negare l’evidenza, la verità e la realtà, ma bisogna negare anche l’informazione». E sottolinea: «Negare l’informazione è già, di per sé, un atto di guerra».Tradotto: «Le persone e interi paesi non devono essere informati», A volte, questa regola «porta a vere catastrofi, come nel caso dello tsunami in Indonesia», riassume “Ereticamente”, citando Mini: «Si poteva avvertire quella gente, ma si sono verificate interruzioni nella trasmissione delle informazioni per via di anelli mal funzionanti o volutamente non funzionanti che hanno impedito la comunicazione». Si torna al punto di partenza: la guerra dell’informazione a tutti i livelli. La nuova arma di distruzione di massa? E’ la “bomba climatica”: «Si sta lavorando a quest’arma di distruzione in segreto, per ottenere vantaggi inimmaginabili su scala mondiale», dichiara il generale. «Alluvioni, terremoti, tsunami, siccità, cataclismi». Uno scenario orwelliano, purtroppo non fantapolitico. «E’ il risultato reale di certe progettazioni in materia di tecnologie militari che la gente non può e non deve conoscere», scrive “Ereticamente”. In campo militare non esiste una moralità che impedisca di varcare un certo limite. «Ciò che si può fare si fa», ammette il generale: per ottenere un vantaggio, si usano tecnologie «senza fare test sufficienti», pur di sperimentarne gli effetti direttamente sul campo.La capacità di condizionare l’ambiente sarebbe ormai una realtà, in ambito militare: potrebbe provocare tornado, terremoti, tsunami, uragani. «Si controlla il clima, lo spazio atmosferico, e si conducono operazioni belliche in sicurezza. S’irrorano le nubi con ioduro d’argento, polimeri e altre sostanze chimiche per spostarle o dissolverle», scrive “Ereticamente”. Il generale Mini racconta del “Progetto Seal” avviato con fondi americani e inglesi nel 1946 per indurre piccoli tsunami. Lo scienziato che conduceva gli esperimenti in Australia, Thomas Leech, si spaventò e bloccò il lavoro, ma sicuramente quegli esperimenti furono ripresi e perfezionati in seguito. Con un articolo pubblicato dalla rivista di geopolitica “Limes”, Mini ha divulgato il progetto dell’aeronautica militare statunitense risalente al 1995. Scie chimiche? Un reporter come Gianni Lannes sostiene che l’Italia si oppose a certi sorvoli già ai tempi di Pertini, per poi autorizzarli a partire dal 2001, in piena era Bush. In Sicilia la popolazione si è opposta alle maxi-antenne dell’installazione strategica Muos di Niscemi, collegata al sistema Haarp per il controllo militare mediante onde radio che “rimbalzerebbero” sulla ionosfera, utilizzando un “microfilm” in sospensione – diffuso dalle scie degli aerei? Tante ipotesi, ma nessuno ha ancora spiegato ufficialmente che cosa sono, quelle scie bianche che da meno di vent’anni “infestano” i nostri cieli.La frequenza delle scie nei nostri cieli (scie di varie forme, dimensioni e colori) si è intensificata. Molti ormai le chiamano “scie chimiche”, ma l’ufficialità continua a negare la loro esistenza. Militari dell’aeronautica e grande stampa, servizi meteo, scienziati e ministri ripetono che si tratta di un fenomeno “normale”, giustificato dal traffico aereo intensificato. Non la pensa così il generale Fabio Mini, già a capo della missione Nato in Kosovo. Per l’alto ufficiale, il fenomeno è anomalo: durante la guerra in Kosovo – ricorda Mini – la manipolazione delle nubi aveva un’importanza strategica ed è stata attuata. «Si possono creare o dissolvere artificialmente e rappresentano uno strumento di guerra», riassume il sito “Ereticamente”, riportando recenti interviste rilasciare dal generale. «Si usano sostanze chimiche (sodio, bario, alluminio, polimeri) che vengono impiegate per le deviazioni delle onde elettromagnetiche». Fabio Mini esorta i cittadini a pretendere la verifica, l’ammissione da parte delle autorità, facendo pressioni per ottenere accertamenti e informazioni ufficiali rilasciate da autorità competenti e di responsabilità: sanità e difesa, aeronautica, ministero dell’agricoltura e della ricerca scientifica. Obiettivo: verificare l’esistenza di prove dettagliate e inconfutabili.
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Il Guardian: ha ragione l’Italia, il rigore farà esplodere l’Ue
William Hague una volta ha descritto l’euro come un edificio in fiamme senza uscite, e l’esperienza dell’Italia negli ultimi 20 anni ha dimostrato che il leader del partito conservatore aveva assolutamente ragione. L’adesione alla moneta unica è stata decisa alla fine degli anni ’90 come fosse una cosa facile. Uno dei paesi primi firmatari del Trattato di Roma, l’Italia voleva disperatamente entrare nella prima ondata dell’Unione monetaria. Ma non è stato condotto un vero esame sul fatto se un paese come l’Italia – con le sue tendenze inflazionistiche – potesse effettivamente far fronte ai rigori dell’adesione alla moneta unica. Non c’è stato nessun equivalente dei cinque criteri economici di Gordon Brown, criteri che l’allora cancelliere dello scacchiere (figura equivalente al Ministro delle Finanze in altri ordinamenti, ndt) aveva indicato (in aggiunta ai criteri di convergenza di Maastricht, ndt) al fine di valutare la possibilità della Gran Bretagna di unirsi all’Eurozona. Al contrario, quando è diventato chiaro che l’Italia non avrebbe rispettato i criteri di Maastricht, le regole sono state piegate per assicurarsi che il paese entrasse nell’euro. Il risultato: due decenni economici perduti in cui il tenore di vita è rimasto stagnante, motivo per cui l’Italia si è ora allontanata dalla politica mainstream.Un governo di coalizione di due partiti populisti ed euro-scettici – il Movimento 5 Stelle e la Lega – sembra imminente. Sebbene nessuno dei due partiti della coalizione abbia mai apprezzato l’euro, ora entrambi si sono resi pienamente conto di quanta verità sia contenuta nelle parole di Hague. Il loro progetto di accordo politico comprendeva la proposta che l’Ue stabilisse una procedura per l’uscita dall’euro per quei paesi che dimostrassero una “volontà popolare” in tal senso, ma ora questa proposta è stata abbandonata. Non è difficile capire perché. Se i mercati finanziari si convincessero che il nuovo governo populista è seriamente intenzionato ad abbandonare la moneta unica, i titoli di Stato italiani diventerebbero più rischiosi. Gli investitori richiederebbero un rendimento più elevato per detenerli e ciò comporterebbe un aumento dei tassi di interesse di mercato. La Banca Centrale Europea potrebbe correre in aiuto con l’acquisto di titoli italiani, ma sarebbe poco incentivata a venire incontro a un governo a Roma che mostrasse l’intenzione di minare – se non distruggere – l’Unione monetaria.Il nuovo governo si troverebbe coinvolto in una crisi finanziaria. Il sistema bancario traballante dell’Italia crollerebbe e il paese sprofonderebbe in una grave recessione. La disoccupazione aumenterebbe e il Movimento 5 Stelle e la Lega verrebbero incolpati per questo. I populisti diventerebbero rapidamente impopolari. Quindi il nuovo governo italiano si trova nella stessa posizione di tutti gli altri governi che il paese ha avuto negli ultimi due decenni: l’appartenenza alla moneta unica è una maledizione, ma il tentativo di abbandonare l’euro sarebbe ancora peggio. Come la Grecia, l’Italia sta scoprendo che è un po’ tardi per dire che sarebbe stato meglio dotare la costruzione dell’euro di una qualche via di fuga. In realtà è più facile per la Gran Bretagna – con la propria banca centrale e la propria valuta – lasciare l’Ue piuttosto che per l’Italia lasciare l’euro. Ma anche se l’Italia prende le distanze dall’indipendenza monetaria, il nuovo governo ha comunque dei piani fiscali e di spesa che rappresentano una sfida per il modo in cui l’Eurozona è stata gestita fino ad ora. Questi includono un nuovo reddito di cittadinanza, pensioni più generose e tasse più basse. Le stime suggeriscono che queste misure costeranno intorno ai 60 miliardi di euro all’anno – circa il 3,5% del Pil dell’Italia.Ciò farebbe saltare le regole fiscali dell’Eurozona, che impongono limiti severi alla misura in cui può essere concesso un deficit di bilancio. Inoltre, farebbe salire il rapporto debito-Pil dell’Italia – il volume del debito pubblico del paese in relazione alle dimensioni della sua economia – che passerebbe da poco più del 130% del Pil a circa il 150% del Pil. La prospettiva di un deciso allentamento della politica economica spaventa i mercati finanziari e non andrà bene alle altre capitali europee. Ma, in realtà, le politiche fiscali della coalizione hanno senso. Il vero problema risiede nelle assurde regole fiscali deflazionistiche dell’Eurozona. Come ha rilevato Dhaval Joshi della Bca Research, l’Italia è per certi versi simile al Giappone. Entrambi i paesi hanno incontrato difficoltà perché le loro banche in crisi si sono rivelate incapaci di prestare al settore privato. Il Giappone ha risolto questo problema facendo in modo che il settore pubblico concedesse prestiti, anche se ciò significava un forte aumento del suo rapporto debito-Pil. L’Italia è in una posizione peggiore, perché le regole fiscali della zona euro non permettono di gestire maggiori deficit di bilancio. L’Italia ha un indebitamento complessivo – privato e pubblico messi insieme – inferiore a Gran Bretagna, Francia e Spagna, ma per i vincoli fiscali dell’Ue solo il debito pubblico è rilevante. Osserva Joshi: «Di conseguenza, al governo italiano è stato impedito di ricapitalizzare il proprio sistema bancario e l’economia italiana ha ristagnato per un decennio».I responsabili della moneta unica sanno che, così com’è, l’euro è un progetto incompiuto. Potrebbe essere completato dal pacchetto di riforme proposto dal presidente francese Emmanuel Macron, che comporterebbe oltre all’unione monetaria anche l’unione fiscale, presieduta da un ministro delle finanze della zona euro. Non c’è la minima possibilità che Macron possa ottenere l’adesione al suo piano del nuovo governo di Roma, anche se potrebbe assicurarsi il sostegno a tutto campo della Germania. Un’alternativa allo schema di Macron è consentire ai membri della zona euro più libertà per gestire politiche fiscali che soddisfino le loro esigenze, che è ciò che sta chiedendo la coalizione populista italiana. Allo stato attuale, le regole significano che qualsiasi paese in difficoltà può rendersi più competitivo solo attraverso la deflazione interna – tagli di spesa e austerità. L’altra alternativa è lasciar andare alla deriva la situazione così com’è e sperare per il meglio. L’euro è sopravvissuto – a mala pena – a una crisi, ma non ne passerebbe un’altra. Il rischio non è che un paese salti fuori dall’edificio in fiamme, ma che l’edificio finisca per collassare con tutti dentro.(Larry Elliott, “Le politiche dell’Italia hanno senso, sono le regole dell’Eurozona ad essere assurde”, dal “Guardian” del 20 maggio 2018, articolo tradotto da “Voci dall’Estero”).William Hague una volta ha descritto l’euro come un edificio in fiamme senza uscite, e l’esperienza dell’Italia negli ultimi 20 anni ha dimostrato che il leader del partito conservatore aveva assolutamente ragione. L’adesione alla moneta unica è stata decisa alla fine degli anni ’90 come fosse una cosa facile. Uno dei paesi primi firmatari del Trattato di Roma, l’Italia voleva disperatamente entrare nella prima ondata dell’Unione monetaria. Ma non è stato condotto un vero esame sul fatto se un paese come l’Italia – con le sue tendenze inflazionistiche – potesse effettivamente far fronte ai rigori dell’adesione alla moneta unica. Non c’è stato nessun equivalente dei cinque criteri economici di Gordon Brown, criteri che l’allora cancelliere dello scacchiere (figura equivalente al Ministro delle Finanze in altri ordinamenti, ndt) aveva indicato (in aggiunta ai criteri di convergenza di Maastricht, ndt) al fine di valutare la possibilità della Gran Bretagna di unirsi all’Eurozona. Al contrario, quando è diventato chiaro che l’Italia non avrebbe rispettato i criteri di Maastricht, le regole sono state piegate per assicurarsi che il paese entrasse nell’euro. Il risultato: due decenni economici perduti in cui il tenore di vita è rimasto stagnante, motivo per cui l’Italia si è ora allontanata dalla politica mainstream.
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Carotenuto: Iran-Israele, gli oligarchi della prossima guerra
La cattiva notizia? Vogliono trascinarci in guerra, provocando l’Iran. L’altra notizia è altrettanto deprimente: nessuno ha ragione, nessuno racconta tutta la verità. Già analista internazionale per conto dell’intelligence, Fausto Carotenuto offre una visione lucida sull’ennesimo, pericoloso smottamento geopolitico in Medio Oriente: Israele cerca la rissa col presunto nemico di turno, il regime degli ayatollah, confidando nell’appoggio della potente lobby ebraica americana e nel presidente Trump, che ha appena trasferito l’ambasciata statunitense a Gerusalemme, provocando la reazione dei palestinesi di Gaza guidati dagli sciiti di Hamas, vicini a Teheran. In più, Netanyahu ha esibito un dossier del Mossad che dimostra la progressione nucleare dell’Iran, preparando lo strappo della Casa Bianca, ritiratasi dall’accordo siglato da Obama. Tutto vero, dice Carotenuto in web-streaming per “Coscienze in Rete”, ma la realtà è un’altra. Non ci sono buoni e cattivi, ognuno recita la sua parte. E il film dell’orrore prosegue imperterrito, verso esiti particolarmente rischiosi, essenzialmente per un motivo: il rifiuto, da parte della destra reazionaria che oggi governa Israele, di fare la pace con i palestinesi. Cosa che metterebbe fine a tutte le altre guerre parallele già in corso, in cui ogni attore fa leva sull’alibi irrisolto della Palestina per alimentare il vortice artificioso della tensione.Ognuno ha una parte di ragione, ma nessuno la racconta giusta: la destra israeliana investe sulla paura ben sapendo che Israele «dispone di un territorio così piccolo che, in caso di guerra, potrebbe essere invaso in mezza giornata». Al tempo stesso, Tel Aviv – che denuncia il pericolo del nucleare iraniano – finge di non sapere di disporre di 230 testate atomiche: «Un potenziale pari almeno a quello della Francia e probabilmente della Gran Bretagna, tale da mettere Israele in grado di colpire anche le capitali europee, con missili o almeno con aerei». Sul fronte opposto, non è che l’Iran sia un modello tranquillizzante: «E’ un paese imperialista, fautore di un Islam ostile all’Occidente, e che persegue un suo cinico disegno di potenza regionale». La Russia? «In tanti vedono in Putin una sorta di pacificatore». Ma, al di là dell’effettivo ruolo di stabilizzazione attualmente svolto, il Cremlino «non fa altro che gli interessi della potenza russa». A sua volta, il fronte islamico è spaccato: e gli sciiti iraniani sono quelli che più si sono avvantaggiati dall’aggressione occidentale contro paesi sunniti come l’Iraq. Per l’Occidente, una sequenza di autogol a catena: oggi i soldati di Teheran combattono in Siria al fianco di Assad, il presidente che Obama voleva rovesciare. E in Siria si sono saldati con la potente milizia sciita di Hezbollah, proveniente dal Libano.Gli apprendisti stregoni che dopo l’11 Settembre hanno dato alle fiamme il Medio Oriente devastando l’intera regione, dall’Iraq alla Siria, dalla Libia allo Yemen, oggi vedono Israele accerchiato da nemici filo-iraniani. A sua volta, lo Stato ebraico enfatizza il pericolo per invocare come sempre il supporto degli Usa, senza il quale Tel Aviv non potrebbe disporre del temibile apparato militare che ne fa la principale potenza dell’area. Facile profeta, anni fa, il generale americano Wesley Clark: rivelò che i neocon firmatari del Pnac, il Piano per un Nuovo Secolo Americano, prima ancora del Duemila avevano messo nel mirino tutti i paesi – dall’Afghanistan alla Siria – poi effettivamente colpiti dalle guerre “per conto terzi” a cui stiamo assistendo, con strascichi grottechi che si estendono alla Somalia, dove miliziani filo-sauditi combattono contro guerriglieri armati dal rivale Qatar. Smisurate follie innescate dalla Cia e dal Mossad, che hanno regalato consenso e influenza territoriale proprio all’Iran, l’unico paese – della famosa lista nera – non ancora attaccato direttamente. Succederà a breve? Il rischio è concreto, ammette Carotenuto: ma in caso di guerra, aggiunge, Teheran si rivelerà un osso durissimo. E in ogni caso, prima o poi, avrà l’atomica: raggiungerà cioè una parità strategica con Israle, che già oggi potrebbe cancellare l’Iran a suon di bombe.Carotenuto invita a leggere la situazione evitando semplificazioni o, peggio, l’errore tipico delle tifoserie che parteggiano per gli ipotetici buoni contro gli altrettanto ipotetici cattivi. Si fa presto a dire “Israele”, “l’Iran”, “gli Usa”, come se in guerra fossero intere nazioni. Si tratta di élite pericolose, di oligarchie nascoste. La guerra la fanno davvero, ma il più delle volte sotto falsa bandiera – utilizzando il terrorismo – e comunque agitando retoriche patriottiche che non corrispondono mai alle vere intenzioni degli oligarchi che intessono trame dinamitarde, ogni giorno più pericolose. Da decenni il Medio Oriente petrolifero è la polveriera del mondo: possono cambiare gli attori e il copione può subire variazioni, ma la sostanza non cambia. L’uomo che volle fermare una volta per tutte questa follia – Yitzhak Rabin – fu assassinato nel ‘95 a Tel Aviv: non da palestinesi, ma da un estremista ebraico. Da allora, la situazione è preciptata: l’11 Settembre, le guerre “americane”, l’orrore dell’Isis e l’affermarsi della potenza iraniana, a sua volta – sostiene Carotenuto – controllata da un gruppo di potere “oscuro” che non finirà mai in televisione. Tutti si guardano in cagnesco, col dito sul grilletto. Il pericolo di un’esplosione cresce. Ma i popoli della regione non hanno mai avuto una sola occasione per parlarsi e chiarirsi, in modo trasparente. A dominare, più che mai, è il vecchio copione della guerra, fondato sulla menzogna di chi agita bandiere ma pensa soprattutto ai soldi, sapendo che in ogni caso il “vortice della tensione” è l’alimento perfetto per rendere eterna la logica aberrante del conflitto, che pare destinata a non finire mai. Fino a quando?La cattiva notizia? Vogliono trascinarci in guerra, provocando l’Iran. L’altra notizia è altrettanto deprimente: nessuno ha ragione, nessuno racconta tutta la verità. Già analista internazionale per conto dell’intelligence, Fausto Carotenuto offre una visione lucida sull’ennesimo, pericoloso smottamento geopolitico in Medio Oriente: Israele cerca la rissa col presunto nemico di turno, il regime degli ayatollah, confidando nell’appoggio della potente lobby ebraica americana e nel presidente Trump, che ha appena trasferito l’ambasciata statunitense a Gerusalemme, provocando la reazione dei palestinesi di Gaza guidati dagli sciiti di Hamas, vicini a Teheran. In più, Netanyahu ha esibito un dossier del Mossad che dimostra la progressione nucleare dell’Iran, preparando lo strappo della Casa Bianca, ritiratasi dall’accordo siglato da Obama. Tutto vero, dice Carotenuto in web-streaming per “Coscienze in Rete”, ma la realtà è un’altra. Non ci sono buoni e cattivi, ognuno recita la sua parte. E il film dell’orrore prosegue imperterrito, verso esiti particolarmente rischiosi, essenzialmente per un motivo: il rifiuto, da parte della destra reazionaria che oggi governa Israele, di fare la pace con i palestinesi. Cosa che metterebbe fine a tutte le altre guerre parallele già in corso, in cui ogni attore fa leva sull’alibi irrisolto della Palestina per alimentare il vortice artificioso della tensione.
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Crolla un’epoca di abusi, se la Torino-Lione non è più tabù
«Se proprio bisogna spendere tanti miliardi per “bucare” qualcosa, si perfori il sottosuolo di Torino per dotare il capoluogo piemontese di una vera rete metropolitana: vorrebbe dire fermare migliaia di auto, migliorare la salute della città più inquinata d’Italia e regalare ai pendolari due ore di vita ogni giorno, contro il famoso quarto d’ora che la Torino-Lione farebbe risparmiare agli improbabili passeggeri della linea ferroviaria ad alta velocità». Parola di Gianna De Masi, già assessore ambientalista di Rivoli, terza città della provincia per numero di abitanti, alla vigilia dell’ennesimo corteo promosso dai NoTav per celebrare i trent’anni di opposizione all’infrastruttura più controversa d’Europa. «Ormai la Francia aspetta solo un cenno per poter dire addio a questo progetto faraonico e completamente inutile», sostengono gli attivisti valsusini. «Sono gli stessi tecnici di Palazzo Chigi, oggi, a confermare i dati da noi forniti da almeno dieci anni», puntualizza il professor Angelo Tartaglia del Politecnico torinese: la Torino-Lione (costosissima, devastante per l’ambiente, pericolosa per la salute con cantieri “infiniti” tra montagne piene di amianto) non servirebbe a niente, dato che il trasporto italo-francese è al tramonto e l’attuale linea internazionale Torino-Modane che già attraversa la valle di Susa potrebbe reggere da sola un incremento del 900% del traffico, secondo le autorità elvetiche incaricate dall’Unione Europea di monitorare i collegamenti transalpini.