Archivio della Categoria: ‘segnalazioni’
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Di Maio: niente bavaglio al web, l’Italia si opporrà all’Ue
Sono contento che dopo anni di battaglie oggi ci sia un consenso pressoché unanime nell’affermare che lo sviluppo di Internet, della banda larga, l’accesso alla Rete per tutti e la velocità con cui i cittadini possono operare sul web, sia diventata una cosa scontata. Direi uno dei diritti inalienabili dei cittadini. Tuttavia, ancora oggi e lo voglio dire in questa occasione, la Rete sta correndo un grave pericolo. E il pericolo arriva direttamente dall’Europa e si chiama riforma del copyright. La scorsa settimana è passata una linea che maturava dopo almeno due anni di contrattazioni. Una linea controversa, proposta inizialmente dalla Commissione Europea, che riporta due articoli che potrebbero mettere il bavaglio alla Rete così come noi oggi la conosciamo. Il primo prevede un diritto per gli editori, i grandi editori di giornali, di autorizzare o bloccare l’utilizzo digitale delle loro pubblicazioni introducendo anche una nuova remunerazione per l’editore, la cosiddetta link tax. In poche parole quando noi condividiamo un articolo ed escono quelle tre o quattro righe al di sotto del link, ecco quelle tre o quattro righe verrebbero tassate. Dicono pure che sia un modo per migliorare la qualità dell’informazione.L’Europa dovrebbe puntare sulla cultura e sull’istruzione, per fare in modo che i suoi cittadini capiscano cos’è una fake news; invece preferisce inondare di nuove tasse perfino le tre righe che escono quando condividiamo un articolo o un’informazione in generale. Il secondo articolo è perfino più pericoloso del primo, perché impone alle società che danno accesso a grandi quantità di dati di adottare misure per controllare ex ante tutti i contenuti caricati dagli utenti. Praticamente, qualunque cosa venga caricata che abbia anche solo una parvenza di ledere il diritto d’autore, e con questo mi riferisco a qualsiasi immagine per esempio, e sottolineo qualsiasi, potrebbe essere bloccata da una piattaforma privata. Praticamente deleghiamo a delle multinazionali – e neanche loro credo lo vogliano – che spesso nemmeno sono europee, il potere di decidere cosa debba essere o meno pubblicato. Cosa è giusto o sbagliato. Cosa i cittadini devono sapere e cosa non devono sapere. Se non è un bavaglio questo ditemi voi cos’è un bavaglio. E pensiamo anche alle piccole e medie imprese di questo settore, che non avranno mai la potenza economica per affidarsi ad un algoritmo che decide cosa è giusto e cosa è sbagliato.Quindi mentre si parla di dati statistici che ci vedono occupare la 25a posizione nella classifica dei 28 Stati membri dell’Unione Europea in merito ai progressi del settore digitale. Mentre il quadro sull’utilizzo delle tecnologie Ict da parte di cittadini e imprese mostra un impiego sempre più diffuso ed evoluto di queste tecnologie nelle attività economiche e nella vita quotidiana, l’Unione Europea ha preparato un bavaglio per limitare la libertà d’espressione dei cittadini. È inaccettabile. E come governo ci opporremo. Faremo tutto quello che è in nostro potere per contrastare la direttiva al Parlamento Europeo e, qualora dovesse passare così com’è, dovremo fare una seria riflessione a livello nazionale sulla possibilità o meno di recepirla. Perché Internet dev’essere mantenuto libero, indipendente, al servizio dei cittadini. Nessuno può permettersi di fare azioni di censura preventiva, nemmeno se quel qualcuno si chiama Commissione Europea. Questo provvedimento, contro il buon senso, ci riporterebbe indietro di vent’anni e consentirebbe di concentrare il potere nelle mani di poche persone, di poche piattaforme e di poche multinazionali.Questa direttiva è la plastica dimostrazione che qualcosa in quei palazzi, e mi riferisco al Parlamento Europeo in questo caso, c’è qualcosa che non funziona. E questo qualcosa è una città intera di lobbisti che si muovono all’interno delle istituzioni comunitarie senza l’obbligo di dire cosa fanno, chi rappresentano, con chi parlano, quanto guadagnano e da chi sono pagati. Intendo una città intera di lobbisti che influenza il processo decisionale non a caso, perché stiamo parlando di almeno 30mila lobbisti che ogni giorno entrano in quei palazzi. Non hanno l’obbligo di dichiarare qual è il loro mestiere e possono facoltativamente iscriversi ad un “registro di trasparenza”. Viene sollecitata sin dal 2008 la creazione di un registro obbligatorio per i rappresentanti d’interessi specifici attivi nelle istituzioni dell’Ue, sottolineando come solo uno strumento simile assicurerebbe il pieno rispetto da parte di quest’ultimi del loro codice di condotta. Stranamente non se n’è mai fatto nulla. Il governo italiano non può accettare passivamente un provvedimento studiato e preparato a tavolino dalle lobby dei grandi editori multimiliardari che spostano e occultano il diritto all’informazione. Non è bastato lo scandalo di Cambridge Analityca per fare capire a questi signori che il potere non deve essere accentrato nelle mai di pochi, ma condiviso con i cittadini.(Luigi Di Maio, estratto del post “Salviamo la Rete dal bavaglio europeo: #NoLinkTax”, pubblicato sul “Blog delle Stelle” il 29 giugno 2018).Sono contento che dopo anni di battaglie oggi ci sia un consenso pressoché unanime nell’affermare che lo sviluppo di Internet, della banda larga, l’accesso alla Rete per tutti e la velocità con cui i cittadini possono operare sul web, sia diventata una cosa scontata. Direi uno dei diritti inalienabili dei cittadini. Tuttavia, ancora oggi e lo voglio dire in questa occasione, la Rete sta correndo un grave pericolo. E il pericolo arriva direttamente dall’Europa e si chiama riforma del copyright. La scorsa settimana è passata una linea che maturava dopo almeno due anni di contrattazioni. Una linea controversa, proposta inizialmente dalla Commissione Europea, che riporta due articoli che potrebbero mettere il bavaglio alla Rete così come noi oggi la conosciamo. Il primo prevede un diritto per gli editori, i grandi editori di giornali, di autorizzare o bloccare l’utilizzo digitale delle loro pubblicazioni introducendo anche una nuova remunerazione per l’editore, la cosiddetta link tax. In poche parole quando noi condividiamo un articolo ed escono quelle tre o quattro righe al di sotto del link, ecco quelle tre o quattro righe verrebbero tassate. Dicono pure che sia un modo per migliorare la qualità dell’informazione.
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Petizione a valanga: no al bavaglio al web imposto dall’Ue
Ferma lo strumento della censura – #SalvaInternet. Internet, come sapete, è in pericolo! Il Parlamento Europeo sta attualmente progettando di rendere più severa la legge sul diritto d’autore, che limiterebbe in modo massiccio la vostra libertà su Internet. Cosa ci si può aspettare? Tra luglio e settembre il Parlamento Europeo deciderà in merito a una nuova riforma del diritto d’autore. Ciò potrebbe modificare radicalmente le leggi sul diritto d’autore in tutta l’Ue. Invece di sostenere gli autori come originariamente previsto, tale riforma potrebbe alla fine ritorcersi contro e imporre loro un onere. In particolare, gli articoli 11 e 13 della riforma comporterebbero enormi restrizioni, non solo per i consumatori. Anche gli autori stessi ne risentirebbero in virtù di questi nuovi regolamenti. Copyright Aggiuntivo: l’articolo 11 della proposta della Commissione Europea si concentra principalmente sul diritto d’autore accessorio dei fornitori di informazioni. Diritti di stampa più specifici proteggeranno i contenuti di questi fornitori e richiederanno una licenza acquistata per poter essere utilizzata da altri. Sono interessati soprattutto i grandi portali di notizie e le pagine degli aggregatori, poiché i testi citati potrebbero essere visti come una violazione del diritto d’autore ai sensi di queste nuove leggi.Il problema è semplice: una gran parte dei fornitori di notizie su Internet sono finanziati attraverso le visualizzazioni che ricevono sulle pagine e dal guadagno pubblicitario conseguente, un guadagno generato dagli utenti che visitano il loro sito tramite link esterni. Se una piattaforma non è disposta o in grado di pagare queste tasse di licenza, perderebbe quelle visualizzazioni di pagina. La legge proposta, originariamente pensata per supportare questi fornitori, ora toglierà i loro mezzi di esistenza. Il filtro usato: l’attuazione dell’articolo 13 comporta un filtraggio totale in tempo reale di tutti i contenuti che saranno caricati su Internet: ogni pacchetto di dati caricato su internet viene scansionato automaticamente da un algoritmo potenzialmente soggetto a errori. Questo è paragonabile all’algoritmo implementato da YouTube, che spesso cancella erroneamente contenuti non protetti dalle leggi sul copyright.Se si pensa alla prospettiva di un algoritmo che preanalizzi tutti i contenuti che vengono caricati su Internet, si compie un ulteriore passo verso la distopia orwelliana del “1984″. Siamo sull’orlo di una riforma drastica che potrebbe cambiare la cultura di Internet per sempre. La nostra richiesta all’Ue: chiediamo che il Parlamento Europeo non compia lo stesso errore compiuto dalla Commissione giuridica il 20 giugno 2018. Chiediamo che il Parlamento Europeo voti contro la riforma della legge sul diritto d’autore nel mercato interno digitale, in particolare gli articoli 11 e 13. Chiediamo di rappresentare le opinioni e i valori dei cittadini e di difenderne la libertà. Unisciti a noi, restiamo uniti per un Internet libero.(Change.org, testo della petizione contro il “bavaglio” che l’Ue apporrebbe al web, su proposta del tedesco Günther Oettinger, noto per aver minacciato gli italiani, a cui “i mercati” avrebbero insegnato come votare).Ferma lo strumento della censura – #SalvaInternet. Internet, come sapete, è in pericolo! Il Parlamento Europeo sta attualmente progettando di rendere più severa la legge sul diritto d’autore, che limiterebbe in modo massiccio la vostra libertà su Internet. Cosa ci si può aspettare? Tra luglio e settembre il Parlamento Europeo deciderà in merito a una nuova riforma del diritto d’autore. Ciò potrebbe modificare radicalmente le leggi sul diritto d’autore in tutta l’Ue. Invece di sostenere gli autori come originariamente previsto, tale riforma potrebbe alla fine ritorcersi contro e imporre loro un onere. In particolare, gli articoli 11 e 13 della riforma comporterebbero enormi restrizioni, non solo per i consumatori. Anche gli autori stessi ne risentirebbero in virtù di questi nuovi regolamenti. Copyright Aggiuntivo: l’articolo 11 della proposta della Commissione Europea si concentra principalmente sul diritto d’autore accessorio dei fornitori di informazioni. Diritti di stampa più specifici proteggeranno i contenuti di questi fornitori e richiederanno una licenza acquistata per poter essere utilizzata da altri. Sono interessati soprattutto i grandi portali di notizie e le pagine degli aggregatori, poiché i testi citati potrebbero essere visti come una violazione del diritto d’autore ai sensi di queste nuove leggi.
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Spread e Salvini, la paura secondo Mattarella (e Oettinger)
Abbiate molta paura dello spread, cari italiani, e nessuna paura – invece – di quel mestatore di Matteo Salvini, che investe proprio sulle vostre paure. La paura “non olet”, come la pecunia: dipende da chi la usa, e contro chi. Il bieco Salvini sbaglia, quando punta sulla paura per incassare voti, mentre il presidente della Repubblica può permettersi di pigiare lo stesso tasto – quello del panico – se si tratta di fermare il governo Conte, salvo poi denunciare la paura come sport impraticabile e pericoloso. Corsi e ricorsi, ma la fonte è sempre la stessa: Sergio Mattarella. Il 27 maggio, dal Quirinale, il capo dello Stato ha evocato l’apocalisse, nel caso in cui Paolo Savona avesse raggiunto il ministero dell’economia. Giusto un mese dopo, a San Patrignano, ha rivolto un analogo monito alla nazione, ma di segno opposto: l’Italia deve scrollarsi di dosso il fantasma della paura, agitato appena quattro settimane prima per interferire – forzando la Costituzione, secondo eminenti giuristi – nella formazione del legittimo governo voluto dagli italiani. In altre parole: è bene che il popolo, prima di avere paura, ascolti i giusti consigli di chi gli spiega di cosa avere paura. Magari quelli del tedesco Günther Oettinger, secondo cui “i mercati” insegneranno agli italiani come votare.«L’incertezza sulla nostra posizione nell’euro ha posto in allarme gli investitori e i risparmiatori, italiani e stranieri, che hanno investito nei nostri titoli di Stato e nelle nostre aziende», scandì Mattarella il 27 maggio. «L’impennata dello spread, giorno dopo giorno, aumenta il nostro debito pubblico e riduce le possibilità di spesa dello Stato per nuovi interventi sociali». Ancora: «Le perdite in Borsa, giorno dopo giorno, bruciano risorse e risparmi delle nostre aziende e di chi vi ha investito. E configurano rischi concreti per i risparmi dei nostri concittadini e per le famiglie italiane». Lo spread, manovrato da banche franco-tedesche in mano a poteri ostili alla nascita del governo Conte, in quei giorni di alta tensione politico-istituzionale stava infatti salendo. «Occorre fare attenzione anche al pericolo di forti aumenti degli interessi per i mutui, e per i finanziamenti alle aziende», aggiunse Mattarella. «In tanti ricordiamo quando – prima dell’Unione Monetaria Europea – gli interessi bancari sfioravano il 20 per cento». E concluse: «È mio dovere, nello svolgere il compito di nomina dei ministri – che mi affida la Costituzione – essere attento alla tutela dei risparmi degli italiani».A caldo, Luigi Di Maio – oggi vicepremier e ministro – arrivò a invocare l’impeachment per il presidente della Repubblica. Prima ancora di boicottare la nomina di Savona all’economia, Mattarella aveva compiuto un gesto assolutamente inedito: aveva “invitato” l’allora presidente del Consiglio incaricato, Giuseppe Conte, a consultare il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, notoriamente vicinissimo a Mario Draghi. Sul piano formale, Bankitalia è ancora un ente di diritto pubblico, ma quasi il 100% dell’azionariato è in mano a istituti di credito privati, banche e assicurazioni. La stessa Bce – vero dominus della politica europea, su mandato tedesco – è di fatto una corporazione bancaria privata. Non è sovrana la gestione dell’euro, ed è violentemente privatistica l’intera conduzione dell’Unione Europea, improntata all’ordoliberismo e gestita da una Commissione di non-eletti, “consigliati” da 1500 lobbisti che, di fatto, dettano le direttive europee in base agli interessi economici e finanziari delle maggiori multinazionali, industriali e finanziarie. Un potere di cui avere rispetto e timore, dice Oettinger (lo stesso che oggi promuove il bavaglio al web). Un potere, ribadì Mattarella, di cui gli italiani farebbero bene ad avere paura, se tenessero all’incolumità dei loro risparmi.Visitando la comunità di recupero per tossicodipendenti più famosa d’Italia, creata da Vincenzo Muccioli, Mattarella è tornato sul tema della paura a un mese dal varo del governo “gialloverde”, che ha proiettato Salvini come protagonista europeo nella politica sull’immigrazione, critico anche con la tolleranza dell’illegalità diffusa che vige nei campi Rom. «Non bisogna arrendersi alla paura», ha detto il capo dello Stato, davanti alle telecamere. «Il tessuto solidale di un paese è il bene comune prezioso, e questo va sempre considerato a partire da chi ha responsabilità pubbliche», ha aggiunto. «Qui si respira solidarietà, e questo è un patrimonio del nostro popolo: nel Dna degli italiani vi è la solidarietà». Il presidente sottolinea l’importanza di «costruire questo tessuto relazionale che rende la vita più gradevole». Il Quirinale? Deve «rappresentare l’unità dell’Italia, la sua coesione, il suo modo di sentirsi legata entro di essa, con tutti i cittadini legati a un destino comune: questa è l’unità vera del nostro paese». Una retorica umanitaria, che ignora le esasperanti vessazioni imposte dall’Ue alla “cominità solidale” e sembra piuttosto voler stridere con la presunta disumanità rinfacciata ogni giorno allo “sceriffo” Salvini, l’uomo che voleva Paolo Savona al ministero dell’economia, nonostante il professore avesse studiato anche un piano per uscire dall’euro in caso di emergenza.E mentre il collega Oettinger – l’uomo dello spread – si prepara a dirigere l’ultima grottesca crociata contro il popolo sovrano (stavolta colpendo la libertà del web, come dimostra il successo della petizione di “Change.org” contro l’iniziativa-bavaglio), il partito che lanciò Matterella al Quirinale, il Pd, ha perso la presa anche sulle “Regioni rosse”, a conferma di un cambiamento epocale in corso. Nel frattempo sta volando, nei consensi, proprio il governo Conte, sostanzialmente incoraggiato – per ora – da qualcosa come 7 italiani su 10. Un rarissimo esempio di unità nazionale e di coesione politica, per un’Italia che finalmente preoccupa i signori di Bruxelles, di Berlino e Parigi, i boss finanziari di Francoforte e i loro amici fraterni di Bankitalia. La notizia, probabilmente, che è il paese – dopo vent’anni di crisi – ha smesso di avere paura di chi vorrebbe che vivesse per sempre in stato di soggezione e inferorità. Lo spaventoso spread evocato da Mattarella il 27 maggio? Si è sgonfiato subito, per intervento della finanza statunitense. Le prove tecniche di sovranità, per l’Italia, sono appena cominciate. In mare è tempestoso, la strada è lastricata di trappole. Ma la sensazione è che – al di là dei moniti, dei consigli e degli avvertimenti, più o meno istituzionali – gli italiani abbiano intenzione di tirare dritto, serrando i ranghi attorno al governo che il vecchio establishment (inclusi i grandi media) vive come un affronto insopportabile, di cui – in questo caso sì – avere davvero paura.Abbiate molta paura dello spread, cari italiani, e nessuna paura – invece – di quel mestatore di Matteo Salvini, che investe proprio sulle vostre paure. La paura “non olet”, come la pecunia: dipende da chi la usa, e contro chi. Il bieco Salvini sbaglia, quando punta sulla paura per incassare voti, mentre il presidente della Repubblica può permettersi di pigiare lo stesso tasto – quello del panico – se si tratta di frenare il governo Conte, salvo poi denunciare la paura come sport impraticabile e pericoloso? Corsi e ricorsi, ma la fonte è sempre la stessa: Sergio Mattarella. Il 27 maggio, dal Quirinale, il capo dello Stato ha evocato l’apocalisse, nel caso in cui il pericolosissimo Paolo Savona, già ministro con Ciampi, avesse raggiunto il ministero dell’economia. Giusto un mese dopo, a San Patrignano, lo stesso Mattarella ha rivolto un analogo monito alla nazione, ma di segno opposto: l’Italia deve scrollarsi di dosso il fantasma della paura, agitato appena quattro settimane prima per interferire – forzando la Costituzione, secondo eminenti giuristi – nella formazione del legittimo governo voluto dagli italiani. In altre parole: è bene che il popolo, prima di avere paura, ascolti i saggi consigli di chi gli spiega di cosa avere paura? Magari quelli del tedesco Günther Oettinger, secondo cui “i mercati” insegneranno agli italiani come votare?
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Via la Troika, la Grecia non esiste più: le hanno rubato tutto
E finalmente la Troika lascia la Grecia. Spremuta fino all’osso e dissanguata. Una guerra avrebbe fatto meno danni. Era arrivata perché la Grecia non aveva fatto i compiti e aveva un debito troppo elevato. La Grecia è entrata nel 2010 nel “programma di aiuti” Ue col rapporto debito/Pil al 146%. Tutti a dire “Grecia sprecona”. Oggi è al 180%: gli imperscrutabili successi della Troika. La Grecia è un paese devastato. Neppure una guerra avrebbe prodotto tanti danni. Il potere d’acquisto dei greci è crollato del 28,3% dal 2008 mentre la bolletta fiscale è salita da 49 a 50 milioni. Le famiglie che vivono in estrema povertà sono il 21% (dati Eurostat), il doppio del 2010. L’importo delle pensioni – tagliate 13 volte – è calato in media del 14% e a inizio 2019 è prevista un’altra sforbiciata. Il settore pubblico ha perso 200.000 posti di lavoro in otto anni. Nel 2017 ben 133.000 persone (+333%) hanno rinunciato all’eredità perché non avevano i soldi per pagare le tasse. La Grecia è una entità astratta. Solo geografica. Come un corpo abbandonato in un vicolo dal vampiro che lo ha prosciugato dell’ultima goccia di sangue. Tale e quale.La Grecia impiegherà decenni per riprendersi, perché non ha più beni. Né pubblici né privati. Tutto venduto. Svenduto. Francia e soprattutto Germania hanno acquisito a prezzi da Eurospin. La Grecia ha “goduto” di tre tranche di “aiuti” per un totale di circa 240 miliardi di euro usciti dai bilanci di 19 paesi. Sono serviti esclusivamente a mettere in sicurezza le banche tedesche e francesi dall’esposizione in titoli di Stato greci. Intanto emerge che la Germania è stata un grande beneficiario del “programma di salvataggio” della Grecia e ha guadagnato dal 2010 al 2017 in totale 2,9 miliardi dagli interessi, come è emerso dalla risposta del governo tedesco ad un’interrogazione del partito dei verdi. Evviva! Ma non finisce qui. La Troika lascia la Grecia con l’ultimo monito. Oltre a un ulteriore taglio delle pensioni a partire dal 2019 e a ulteriori privatizzazioni (non si sa cosa ci sia ancora da privatizzare) la Grecia deve mantenersi in avanzo primario. Fino al 2060 (per altri 42 anni!!) deve mantenere un avanzo primario del 2%.(Stefano Alì, “La troika lascia la Grecia: evviva, ma la Grecia non esiste più”, dal blog “Il Cappello Pensatore” del 24 giugno 2018. Mentre i media mainstream salutano la “fine della crisi” per Atene, con la cessazione del commissariamento formale – che la Troika Ue ora affida in esclusiva al governo Tsipras, la Grecia ha perso completamente il controllo su tutte le infrastrutture statali, ha falcidiato salari e pensioni, ha ridotto la popolazione la fame, ha lasciato i bambini senza i necessari medicinali, neppure negli ospedali. Porti e aeroporti non sono più in mani greche, ma straniere. E tutte le reti di servizi, ieri statali, oggi sono private. Tecnicamente, la Grecia “fuori pericolo” non esiste più, come Stato. «Se la Germania avesse dovuto passare ciò che ha passato la Grecia – scrive Efthymis Angeloudis in un post ripreso da “Gli Stati Generali” – una pensione di 1200 euro sarebbe ora ridotta a 750 euro, ad esempio; ci sarebbero 14 milioni di disoccupati, e negli ospedali i pazienti sarebbero costretti a portarsi le bende da casa»).E finalmente la Troika lascia la Grecia. Spremuta fino all’osso e dissanguata. Una guerra avrebbe fatto meno danni. Era arrivata perché la Grecia non aveva fatto i compiti e aveva un debito troppo elevato. La Grecia è entrata nel 2010 nel “programma di aiuti” Ue col rapporto debito/Pil al 146%. Tutti a dire “Grecia sprecona”. Oggi è al 180%: gli imperscrutabili successi della Troika. La Grecia è un paese devastato. Neppure una guerra avrebbe prodotto tanti danni. Il potere d’acquisto dei greci è crollato del 28,3% dal 2008 mentre la bolletta fiscale è salita da 49 a 50 milioni. Le famiglie che vivono in estrema povertà sono il 21% (dati Eurostat), il doppio del 2010. L’importo delle pensioni – tagliate 13 volte – è calato in media del 14% e a inizio 2019 è prevista un’altra sforbiciata. Il settore pubblico ha perso 200.000 posti di lavoro in otto anni. Nel 2017 ben 133.000 persone (+333%) hanno rinunciato all’eredità perché non avevano i soldi per pagare le tasse. La Grecia è una entità astratta. Solo geografica. Come un corpo abbandonato in un vicolo dal vampiro che lo ha prosciugato dell’ultima goccia di sangue. Tale e quale.
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Golpe europeo contro la libertà del web, l’Italia si opponga
Il diavolo non è poi brutto come lo si dipinge? In compenso, l’Unione Europea è peggio: come un monarca dispotico, ordina che sia imbavagliato il bambino che si è permesso di gridare che “il re è nudo”. Così, esercitando un arbitrio che ha la forza grottesca di un sopruso arcaico, Bruxelles prova a spegnere le antenne del popolo, quelle che i cittadini-elettori hanno ascoltato per poi decidere da chi farsi governare. E’ pensabile, una Brexit senza il web? E’ immaginabile una vittoria di Trump senza i social media? E una sconfitta di Renzi senza Facebook? Un governo “gialloverde” senza la Rete? No, appunto. Ed è per questo che il potere centrale del nuovo Sacro Romano Impero – con i suoi complici principali, i grandi media – sta preparando la spallata finale alla libertà di Internet: il divieto di far circolare idee, parole e immagini – tramite link, come finora si è fatto – sotto minaccia di violazione del copyright. Un bavaglio medievale, universale, bloccando alla fonte ogni notizia tramite filtri sulle piattaforme di distribuzione, cominciando da Google e Facebook. In pratica: la fine del web come l’abbiamo conosciuto, fondato sulla libera circolazione (immediata) di segnalazioni, opinioni, fatti e analisi, contenuti normalmente oscurati da giornali e televisioni.Un gesto orwelliano, da tirannide asiatica d’altri tempi: è il 2018, eppure l’Unione Europea è questa. Non riconosce cittadini, vuole soltanto sudditi. E ha una paura maledetta che i sudditi si ribellino, ridiventando cittadini. Il killer prescelto per l’operazione è ovviamente tedesco e risponde al nome di Günther Oettinger, il simpaticone che – all’indomani del voto italiano del 4 marzo – spiegò che sarebbero stati “i mercati”, o meglio i signori occulti dello spread, a insegnare agli italiani come votare nel modo giusto, evitando cioè di rinnovare la loro fiducia a gentaglia come Salvini e Di Maio. Come sempre, Bruxelles cerca di ammantarsi di una parvenza di legalità: la Commissione Europea, organismo non-eletto e forte di poteri paragonabili a quelli delle “giunte militari” di sudamericana memoria, stavolta utilizza la foglia di fico del Parlamento Europeo (eletto, ma senza potere) per ricevere l’ipotetica legittimità politica dell’abuso, che verrebbe incoraggiato con il voto di Strasburgo il 4 luglio. Da qui il conto alla rovescia della petizione lanciata da Claudio Messora su “ByoBlu” e ripresa da “Change.org”, che in pochi giorni ha raccolto quasi mezzo milione di firme, in Italia, per tentare di convincere gli europarlamentari a non votare il piano Oettinger, in base al quale non sarebbe più possibile far circolare, su blog e social, i testi, le idee e le immagini che in questi anni hanno fatto informazione.L’intento è evidente: “spegnere” le fonti che hanno sopperito al colpevole silenzio dei grandi media, sostituendo in modo prezioso la non-informazione di giornali e televisioni, canali mainstream reticenti e omertosi, largamente difettosi quando non direttamente mafiosi, docili strumenti nelle mani di editori collusi con il potere centrale che trama contro le democrazie per svuotarle e depredarle. Senza informazione non c’è democrazia, ed è normale quindi che l’oligarchia si premuri innanzitutto di imbavagliare la libertà di espressione. Prima hanno ridotto i giornali a carta straccia, e le televisioni a salotti tragicomicamente impermeabili a qualsiasi verità. E ora, dato che il pubblico ha aggirato i grandi media rivolgendosi al web – in Italia il 50% dei cittadini dichiara di informarsi ormai solo sulla Rete – ecco il supremo bavaglio a Internet, con l’espediente della tutela del copyright. Con l’alibi della (giusta) sanzione contro gli abusi, si mette il bavaglio alla prima fonte di notizie per 30 milioni di persone, nel nostro paese. Difficile credere che un simile attentato alla libertà possa essere accettato come costituzionale, in Italia.Beninteso: è più che legittima la tutela del copyright, ove si impedisca di eseguire dei pedestri copia-e-incolla non autorizzati. Ma il legislatore Ue va ben oltre: impedirà addirittura che, su blog e social, vengano caricate segnalazioni ipertestuali: in pratica, sarebbe la fine dei link, cioè dell’anima stessa di Internet. Vietato riportare frasi, estratti, dichiarazioni. Vietato certificare le fonti di provenienza. Vietato veicolare – mediante collegamento diretto – i contenuti più interessanti. In altre parole: la fine del web, la morte della libertà d’opinione. Il sovrano europeo pensa di fermare, letteralmente, l’orologio della storia: vuol far diventare lento e disfunzionale ciò che oggi è veloce, immediato. Una pazzia anacronistica, come quella di chi schierasse i carri armati nelle strade. L’essenza stessa del web è la rapidità, la circolazione di notizie in tempo reale: e il web è diventato il più potente vettore economico del nostro tempo. Ostacolarlo significa arrecare un danno di portata incalcolabile alla dinamica economica del terzo millennio, riportando l’Europa al medioevo anche sul piano civile, oltre che economico e politico.Non è strano che a organizzare il golpe sia l’Unione Europea, che i suoi carri armati (finanziari) li ha già spediti ovunque, a fare strage di democrazia. Resta da vedere come reagiranno le anime morte del Parlamento Europeo il 4 luglio, sotto la pressione dell’opinione pubblica. E soprattutto: c’è da capire come risponderà, al golpe, il governo italiano. Salvini “esiste” soprattutto su Twitter, i 5 Stelle sono nati dalla Rete. Il cielo stellato è stato inquadrato dal cannocchiale di Galileo, che adesso l’ultima reincarnazione del cardinale Bellarmino – il fantoccio Oettinger e i suoi mandanti – sta per fare a pezzi. Questa Ue si comporta come una dittatura di colonnelli: nasce morta e condannata dalla storia. E’ destinata alla sconfitta, ma a che prezzo? Quanto durerebbe, il blackout, prima del ripristrino della democrazia? Quanti altri danni produrrebbero, nel frattempo, i golpisti del web? Nessun aiuto, intanto, da giornali e televisioni: gli operatori ufficiali dell’informazione, ancora una volta, tacciono. Non una parola, da loro, sulla più importante notizia – la peggiore – che abbia investito il pubblico italiano. Tacciono, giornali e televisioni, sul golpe in atto. Sperano, probabilmente, che il colpo di Stato riesca. Si comportano come fossero complici dei golpisti. Se c’è un’occasione per dimostrare che il “governo del cambiamento” non è solo un modo di dire, è questa: se c’è un “no” che l’Italia deve pronunciare, forte e chiaro, è proprio questo, contro il golpe che vorrebbe spegnere il web.(Su Change.org la petizione contro il bavaglio al web che l’Ue vorrebbe imporre).Il diavolo non è poi brutto come lo si dipinge? In compenso, l’Unione Europea è peggio: come un monarca dispotico, ordina che sia imbavagliato il bambino che si è permesso di gridare che “il re è nudo”. Così, esercitando un arbitrio che ha la forza grottesca di un sopruso arcaico, Bruxelles prova a spegnere le antenne del popolo, quelle che i cittadini-elettori hanno ascoltato per poi decidere da chi farsi governare. E’ pensabile, una Brexit senza il web? E’ immaginabile una vittoria di Trump senza i social media? E una sconfitta di Renzi senza Facebook? Un governo “gialloverde” senza la Rete? No, appunto. Ed è per questo che il potere centrale del nuovo Sacro Romano Impero – con i suoi complici principali, i grandi media – sta preparando la spallata finale alla libertà di Internet: il divieto di far circolare idee, parole e immagini – tramite link, come finora si è fatto – sotto minaccia di violazione del copyright. Un bavaglio medievale, universale, bloccando alla fonte ogni notizia tramite filtri sulle piattaforme di distribuzione, cominciando da Google e Facebook. In pratica: la fine del web come l’abbiamo conosciuto, fondato sulla libera circolazione (immediata) di segnalazioni, opinioni, fatti e analisi, contenuti normalmente oscurati da giornali e televisioni.
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Oscurare il web: una firma contro l’ultima vergogna dell’Ue
Ci stanno provando in tutti i modi da tempo, negli Stati Uniti e, soprattutto, in Europa. Chi segue questo blog sa come la penso: da quando l’establishment ha perso il controllo della Rete e soprattutto dei social media, veicolando idee non mainstream e favorendo l’affermazione di movimenti alternativi, quelli che vengono sprezzamentemente definiti “populisti”, ogni pretesto è buono per favorire misure per limitare la libertà di pensiero. Ci hanno provato usando l’ariete delle “fake news” e il tentativo è ancora in corso, in queste ore stanno usando un altro grimaldello, il copyright. Come ha denunciato, in perfetta solitudine, Claudio Messora su “ByoBlu”, la Commissione Affari Legali del Parlamento Europeo, su proposta dell’immancabile commisario tedesco Oettinger, ha dato il primo via libera alla legge sul copyright, che di fatto, se verrà approvata anche in Aula, permetterà di introdurre misure censorie. L’articolo 11, instaura la cosiddetta “tassa sui link”. Non stiamo parlando, a scanso di equivoci di film o di canzoni o di interi libri, ma stiamo parlando del testo che, citato testualmente si riferisce, “anche ai più piccoli frammenti di articoli contenenti notizie”, che “devono avere una licenza”. Avete presente quel piccolo testo di anteprima che appare a fianco o sotto a un link, in mancanza del quale nessuno sano di mente si sogna di cliccare? Ecco, anche quello dovrebbe disporre di un’adeguata licenza!Spiega Messora, che così continua: «Secondo l’articolo 13 “le piattaforme online sono responsabili per le violazioni del copyright dei loro utenti” e “devono in ogni caso implementare filtri preventivi sugli upload”. Significa che gli algoritmi rigetteranno a priori qualunque contenuto che “potrebbe” violare il copyright, prima ancora che appaia online. Ma gli algoritmi non sono immuni ai falsi positivi e non possono certamente distinguere gli usi ammissibili, come le parodie, i meme, il diritto di critica… Non c’è nessuna concessione al concetto stesso di “Fair Use”. Ecco, ad esempio sarà impossibile pubblicare la foto di chicchessia con una scritta sotto, appunto i meme, a meno che quella foto non l’abbiate scattata voi stessi, e anche così sarete comunque giudicati “colpevoli” a meno che non vi dimostriate “innocenti” e non conduciate lunghe battaglie per riportare online i vostri contenuti». Il messaggio è chiaro: se questa legge passerà, la diffusione di contenuti politici potrà avvenire solo senza il supporto di immagini, perché è evidente che il singolo cittadino mai potrà procurarsi le foto di un primo ministro o della guerra in Siria. E anche la citazione di brani di articoli potrebbe portare alla soppressione della vostra pagina Facebook o del vostro account Twitter.Insomma, se questa legge dovesse entrare in vigore, i blog e le pagine politiche sui social media con foto “non autorizzate” potebbero essere cancellate d’ufficio, privando la Rete di uno strumento di supporto ormai indispensabile. Quale attrattiva potrebbero avere avere pagine di solo testo? Volete davvero che la Rete venga ridotta a un’immensa bacheca di foto di gattini (solo i vostri, perché gli altri violerebbero il copyright)? Claudio Messora ha lanciato una petizione contro questo provvedimento, che sarà votato in aula a Bruxelles il 4 luglio. Lo scopo è di suscitare una sollevazione della Rete e siccome le grandi testate stanno, ovviamente, ignorando la notizia, l’unica possibilità è di innescare un passaparola che induca decine di migliaia di cittadini a firmare questa petizione. Io ho firmato. E tu? Mancano pochi giorni, non perdere tempo!(Marcello Foa, “L’ultima della Ue: il web senza immagini (e senza idee). Si chiama censura. Io non ci sto. E tu?”, dal blog di Foa sul “Giornale” del 24 giugno 2018).Ci stanno provando in tutti i modi da tempo, negli Stati Uniti e, soprattutto, in Europa. Chi segue questo blog sa come la penso: da quando l’establishment ha perso il controllo della Rete e soprattutto dei social media, veicolando idee non mainstream e favorendo l’affermazione di movimenti alternativi, quelli che vengono sprezzamentemente definiti “populisti”, ogni pretesto è buono per favorire misure per limitare la libertà di pensiero. Ci hanno provato usando l’ariete delle “fake news” e il tentativo è ancora in corso, in queste ore stanno usando un altro grimaldello, il copyright. Come ha denunciato, in perfetta solitudine, Claudio Messora su “ByoBlu”, la Commissione Affari Legali del Parlamento Europeo, su proposta dell’immancabile commisario tedesco Oettinger, ha dato il primo via libera alla legge sul copyright, che di fatto, se verrà approvata anche in Aula, permetterà di introdurre misure censorie. L’articolo 11, instaura la cosiddetta “tassa sui link”. Non stiamo parlando, a scanso di equivoci di film o di canzoni o di interi libri, ma stiamo parlando del testo che, citato testualmente si riferisce, “anche ai più piccoli frammenti di articoli contenenti notizie”, che “devono avere una licenza”. Avete presente quel piccolo testo di anteprima che appare a fianco o sotto a un link, in mancanza del quale nessuno sano di mente si sogna di cliccare? Ecco, anche quello dovrebbe disporre di un’adeguata licenza!
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Così l’Ue prepara il bavaglio al web: fine dei link e dei social
Vietato postare contenuti altrui, vietato far circolare link e idee. In altre parole: sarà svuotato e sterilizzato il web, stando ai “muggiti” che salgono dall’Unione Europea, cioè dalla roccaforte burocratica dove i governi – ridotti a passacarte delle grandi lobby – assistono con terrore all’insorgenza democratica che, in tutta Europa, i media mainstream chiamano “populismo”. «Addio meme, addio upload libero di foto e filmini sul web», scrive Emanuele Bonini sulla “Stampa”. «Il Parlamento Europeo è pronto alla stretta su Internet in nome dei diritti d’autore». La commissione giuridica, infatti, ha appena approvato le proposte di modifica della legislazione comunitaria sui copyright, «dando il proprio benestare a norme che aprono la strada a possibili future tasse per la pubblicazione di link di articoli di giornale e a filtri che blocchino, sulle grandi piattaforme, contenuti audio-visivi in tutto o in parte protetti da diritti». Sarebbe, tecnicamente, la fine del web come lo consciamo oggi, fondato sulla circolazione illimitata di notizie, analisi e idee. La questione è controversa, scrive la “Stampa”: per il legislatore europeo c’è «l’esigenza di tutelare i diritti intellettuali», mentre per l’internauta «una mossa di questo tipo rappresenta un restringimento delle maglie della rete». Un vero e proprio bavaglio.Le nuove norme, di fatto, «impongono a tutti di pagare per ogni contenuto protetto», aggiunge Bonini. «Con la riscrittura delle regole così come proposta – spiega – tutti i grandi operatori dovranno sviluppare un sistema per controllare cosa si intende caricare». Attenzione dunque a YouTube, Instagram, eBay, Facebook. «Un video con immagini o brani tutelati da licenze non potrà essere condiviso, così come una foto, anche quella da usare eventualmente per i meme». Non ci saranno grandi alternative, avverte la “Stampa”: o si impedirà la pubblicazione del contenuto, o si dovrà far pagare per consultarlo. E non è tutto: sempre in nome della tutela dei diritti intellettuali e del loro rispetto, «ci saranno limitazioni alle notizie e agli articoli che gli aggregatori di notizie possono mostrare». La Commissione Europea chiedeva una “link tax”, cioè una vera e propria tassa sui collegamenti ipertestuali, in base al principio per cui “chi clicca, paga”, se vuole tenersi informato. L’esecutivo comunitario «prevedeva nello specifico che chiunque usi “snippet” di contenuti giornalistici on-line debba prima ottenere una licenza dall’editore, diritto valido per vent’anni a partire dalla pubblicazione».La commissione giuridica del Parlamento Europeo ha trovato una sorta di compromesso, secondo Bonini, nella limitazione degli elementi di un articolo che gli aggregatori possono mostrare e condividere senza far scattare il pagamento automatico del copyright. Cioè: se un indirizzo web incorpora un estratto breve (o solo il titolo di un articolo), non scatta la tassa. Secondo il tedesco Axel Voss, esponente del partito della Merkel, si tratta di innovazioni doverose. «Creatori e editori di notizie devono adattarsi al nuovo mondo di Internet come funziona oggi», dice Voss, relatore del provvedimento in commissione giuridica. L’europarlamentare ricorda che artisti ed editori di notizie, «specialmente quelli più piccoli», non vengono pagati «a causa delle pratiche di potenti piattaforme di condivisione dei contenuti online e aggregatori di notizie». Un modo di fare «sbagliato, che intendiamo correggere», dice, perché il principio di un’equa retribuzione il lavoro svolto «dovrebbe applicarsi a tutti, ovunque, sia nel mondo fisico che on-line». Agendo sul copyright, Strasburgo sostiene di proporre un equilibrio tra le esigenze dei proprietari dei diritti d’autore e quelle dei consumatori: se da una parte si introducono limiti all’uso di prodotti sotto licenza, dall’altra si abbassa da 20 a 5 anni il periodo di protezione sulla Rete. Se la riforma passa, addio web: il successo della Rete si basa infatti sulla circolazione, libera e istantanea, di contenuti gratuti.Vietato postare contenuti altrui, vietato far circolare link e idee. In altre parole: sarà svuotato e sterilizzato il web, stando ai “muggiti” che salgono dall’Unione Europea, cioè dalla roccaforte burocratica dove i governi – ridotti a passacarte delle grandi lobby – assistono con terrore all’insorgenza democratica che, in tutta Europa, i media mainstream chiamano “populismo”. «Addio meme, addio upload libero di foto e filmini sul web», scrive Emanuele Bonini sulla “Stampa”. «Il Parlamento Europeo è pronto alla stretta su Internet in nome dei diritti d’autore». La commissione giuridica, infatti, ha appena approvato le proposte di modifica della legislazione comunitaria sui copyright, «dando il proprio benestare a norme che aprono la strada a possibili future tasse per la pubblicazione di link di articoli di giornale e a filtri che blocchino, sulle grandi piattaforme, contenuti audio-visivi in tutto o in parte protetti da diritti». Sarebbe, tecnicamente, la fine del web come lo consciamo oggi, fondato sulla circolazione illimitata di notizie, analisi e idee. La questione è controversa, scrive la “Stampa”: per il legislatore europeo c’è «l’esigenza di tutelare i diritti intellettuali», mentre per l’internauta «una mossa di questo tipo rappresenta un restringimento delle maglie della rete». Un vero e proprio bavaglio.
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Crisi-migranti: fratture e minacce, ora l’Ue può esplodere
I paesi di Visegrad le voltano la schiena. Il falco di Baviera Horst Seehoofer è pronto a scavarle la fossa sotto i piedi. L’Italia per la prima volta prova a rivoltarlesi contro. E il Trattato di Schengen sembra a un passo dalla rottamazione. Insomma, «la cancelliera Angela Merkel e l’Europa disegnata a sua immagine e somiglianza tremano, traballano e si sgretolano». Il tutto, scrive Gian Micalessin sul “Giornale”, a meno di una settimana da un Consiglio Europeo in cui l’Unione «dovrà decidere come uscire da quella crisi dei migranti che rischia di distruggerla». Ma la resa dei conti, aggiunge Micalessin, inizia dal peccato originale: anzi, dalla “peccatrice”, cioè «da quella Angela Merkel colpevole di aver spalancato le porte a un fenomeno migratorio di cui non comprese la devastante portata». Tre anni dopo, la prima a subirne le conseguenze è proprio lei: Seehofer attacca a muso duro una cancelliera pronta a licenziarlo pur di frenare il “masterplan” anti-immigrazione con cui il falco della Csu bavarese vorrebbe respingere alla frontiera chiunque si è visto rifiutare l’asilo in un altro paese o non è in grado di esibire un documento. «Sarebbe la prima volta al mondo che uno licenzia un ministro soltanto perché si preoccupa e si prende cura della sicurezza e dell’ordine del suo paese», dichiara Seehofer.«Io sono presidente della Csu, uno dei tre partiti della coalizione di governo, e guido il mio partito con totale sostegno», aggiunge Seehofer: «Se qualcuno nella cancelleria è insoddisfatto del lavoro del ministro dell’interno, allora deve porre fine alla coalizione». Ma mentre la cancelliera si arrovellava per tenere in piedi la sua stessa casa, osserva Micalessin, a oriente veniva giù un altro pezzo d’Europa: i paesi del blocco di Visegrad, Ungheria in testa, guidavano la rivolta contro il vertice preparatorio tra Italia, Spagna, Francia, Germania e Austria (ma forse anche Bulgaria, Olanda e Belgio) che domenica dovrebbe segnare le tappe d’avvicinamento al Consiglio d’Europa del 28 giugno sul tema migranti. Il pomo della discordia capace d’innescare la sollevazione di Ungheria, Polonia, Slovacchia e Repubblica Ceca è come sempre la ripartizione dei richiedenti asilo. Un argomento considerato una sorta d’inviolabile tabù dai quattro paesi dell’Est europeo. «Apprendiamo che ci sarà un mini-summit, ma noi non vi parteciperemo perché questo è contrario alle abitudini dell’Ue», annuncia il premier ungherese Viktor Orban, spiegando che il responsabile dell’organizzazione dei summit «è il presidente del Consiglio Ue Donald Tusk e non la Commissione Europea».Prima ancora che succedesse tutto questo, annota sempre il “Giornale”, le linee guida della Merkel erano state messe in dubbio anche da un Giuseppe Conte «costretto a confrontarsi con l’ignobile bozza di lavoro sottopostaci in vista dello stesso vertice preparatorio». Una bozza che ribadiva l’obbligo di riprenderci, con tante scuse, i migranti sbarcati sulle nostre coste e poi «acciuffati al confine di altri paesi dopo esser sgusciati tra le maglie dei controlli». Non illudiamoci, insiste Micalessin: la rivolta di Conte, «prontissimo nel rispedire al mittente la bozza minacciando il ritiro dell’Italia», è una nota più che positiva ma «non è certamente una vittoria definitiva». Lo scontro tra Seehofer e la cancelliera? «Dimostra inequivocabilmente come dietro la sopravvivenza di quella clausola iniqua ci fosse il tentativo della Merkel d’abbassare il livello dello scontro con il proprio ministro dell’interno». E la reazione dell’Italia, con la cancellazione della clausola? «Ha dato fuoco alle polveri – chiosa Micalessin – ma anche messo a nudo lo stato di decomposizione in cui versa ormai l’Unione».I paesi di Visegrad le voltano la schiena. Il falco di Baviera Horst Seehoofer è pronto a scavarle la fossa sotto i piedi. L’Italia per la prima volta prova a rivoltarlesi contro. E il Trattato di Schengen sembra a un passo dalla rottamazione. Insomma, «la cancelliera Angela Merkel e l’Europa disegnata a sua immagine e somiglianza tremano, traballano e si sgretolano». Il tutto, scrive Gian Micalessin sul “Giornale”, a meno di una settimana da un Consiglio Europeo in cui l’Unione «dovrà decidere come uscire da quella crisi dei migranti che rischia di distruggerla». Ma la resa dei conti, aggiunge Micalessin, inizia dal peccato originale: anzi, dalla “peccatrice”, cioè «da quella Angela Merkel colpevole di aver spalancato le porte a un fenomeno migratorio di cui non comprese la devastante portata». Tre anni dopo, la prima a subirne le conseguenze è proprio lei: Seehofer attacca a muso duro una cancelliera pronta a licenziarlo pur di frenare il “masterplan” anti-immigrazione con cui il falco della Csu bavarese vorrebbe respingere alla frontiera chiunque si è visto rifiutare l’asilo in un altro paese o non è in grado di esibire un documento. «Sarebbe la prima volta al mondo che uno licenzia un ministro soltanto perché si preoccupa e si prende cura della sicurezza e dell’ordine del suo paese», dichiara Seehofer.
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La Terra ora ci presenta il conto di un mondo senza giustizia
Guardate che non basta, raddrizzare uno sviluppo – finora ingiusto – sostituendolo con il miraggio di una crescita economica globale finalmente equa. La voce “decrescita” (del Pil) risulta sempre sgradevole, dissonante, preoccupante: ma è purtroppo coerente con tutte le previsioni sistemiche dei climatologi, che danno alla Terra altri vent’anni, al massimo, prima del collasso ecologico che già sta avanzando in modo inquietante, con le temperature balneari registrare alle Svalbard e lo scioglimento inesorabile della calotta artica. Nel lontanissimo ‘700, il padre della fisica Isaac Newton predisse – in base a complessi calcoli – che le risorse terrestri si sarebbero esaurite entro il 2060: un pronostico, sottolinea il saggista Gianfranco Carpeoro – sinistramente coincidente con quello del governo Usa, secondo cui fra quarant’anni, di questo passo, arriveremo alla morte biologica degli oceani. Ragionamenti che possono apparire letterari e strampalati, semplici suggestioni millenaristiche calate in un mondo distratto dai mondiali di calcio o appassionato al derby Italia-Francia su Salvini, gli sbarchi selvaggi e l’opaco traffico malavitoso gestito dalle Ong. Vero, l’Europa ladrona nega all’Italia un’espansione vitale del deficit, mentre c’è chi muore in mare per un tozzo di pane. E se si tracolla tutti, sotto la furia di un pianeta stremato dai nostri abusi suicidi?
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L’esodo condanna l’Africa, e gli africani saranno 2,5 miliardi
«Incentivare la popolazione giovane locale ad abbandonare la propria terra e rinunciare a ogni possibilità e speranza di sviluppo dell’economia nazionale non è la soluzione, ma parte del problema». Lo afferma l’economista Ilaria Bifarini, “bocconiana redenta” e autrice del saggio “I coloni dell’austerity”, ovvero “Africa, neoliberismo e migrazioni di massa”. La popolazione africana, scrive Bifarini sul suo blog, sta subendo un’esplosione demografica senza precdenti. Se nel 1960 contava meno di 300 milioni di abitanti (285 per l’esattezza) oggi si attesta a circa un miliardo e duecento milioni di persone. Secondo le stime dell’Onu in pochi decenni raddoppierà: nel 2050 gli africani ammonteranno a qualcosa come 2 miliardi e 500 milioni di persone. Secondo la teoria economica della cosiddetta “transizione demografica”, ogni popolazione umana tende a passare da una situazione iniziale negativa – elevata mortalità e alta fecondità – a una situazione più favorevole, con parametri invertiti: scarsa mortalità e bassa fecondità. La transizione, spiega Bifarini, avviene con un’iniziale riduzione del livello di mortalità, cui fa seguito un consistente aumento del tasso di crescita demografica, che si attesterà presto intorno allo zero grazie a una riduzione del livello di fecondità, completando così il percorso della transizione demografica.Generalmente, prosegue l’analista, a innescare questo processo sono le migliori condizioni igienico-sanitarie raggiunte: proprio la salute ingenera un declino del tasso di mortalità. «Ne segue un mutamento di stile di vita della popolazione adulta, che rivolgerà ai figli maggiori cure e aspettative e sceglierà spontaneamente di pianificare una riduzione delle nascite». Questa transizione, che nei paesi sviluppati è avvenuta nel XIX e nella prima parte del XX secolo, nella seconda metà del Novecento si è estesa a molti dei paesi in via di sviluppo, ad eccezione proprio dell’Africa. «L’Africa subsahariana costituisce un unicum, nel panorama demografico contemporaneo», scrive Ilaria Bifarini: a sud del Sahara, «a fronte di una mortalità che ha conosciuto una diminuzione generalizzata negli ultimi decenni, persiste un tasso di fecondità tra i più elevati nel mondo». Si muore molto meno, ma si continua a nascere “troppo”. «È venuta a concretizzarsi una spirale nefasta, nota come “trappola malthusiana”, che rende impossibile adeguare l’aumento della produzione e delle risorse alimentari in modo da compensare il forte incremento della domanda legato a una crescita esponenziale della popolazione».Attivo alla fine del ‘700, l’inglese Thomas Robert Malthus sostenne che l’incremento demografico avrebbe spinto a coltivare terre sempre meno fertili, con conseguente penuria di generi di sussistenza, fino a giungere all’arresto dello sviluppo economico: secondo Malthus, infatti, la popolazione tenderebbe a crescere in progressione geometrica, quindi più velocemente della disponibilità di alimenti (che crescerebbero invece in progressione aritmetica). Di fatto, il fenomeno geo-economico noto come “trappola malthusiana” condanna i paesi colpiti a una situazione di vera e propria stagnazione economica. Per spezzare la trappola in cui ormai si trovano gran parte dei paesi dell’Africa subsahariana, secondo Ilaria Bifarini sono necessarie «politiche economiche e sociali orientate alla qualificazione della forza lavoro e all’educazione sessuale della popolazione». Viceversa, «l’unica via di fuga, per una fetta sempre più ampia di giovani condannati alla disoccupazione, rimarrà quella dell’emigrazione, che non fa altro che aggravare la condizione di sottosviluppo del continente». In altre parole: ogni migrante che sbarca sulle coste del Mediterraneo aggrava la crisi dell’Africa, sottraendole preziose risorse umane.«Incentivare la popolazione giovane locale ad abbandonare la propria terra e rinunciare a ogni possibilità e speranza di sviluppo dell’economia nazionale non è la soluzione, ma parte del problema». Lo afferma l’economista Ilaria Bifarini, “bocconiana redenta” e autrice del saggio “I coloni dell’austerity”, ovvero “Africa, neoliberismo e migrazioni di massa”. La popolazione africana, scrive Bifarini sul suo blog, sta subendo un’esplosione demografica senza precdenti. Se nel 1960 contava meno di 300 milioni di abitanti (285 per l’esattezza) oggi si attesta a circa un miliardo e duecento milioni di persone. Secondo le stime dell’Onu in pochi decenni raddoppierà: nel 2050 gli africani ammonteranno a qualcosa come 2 miliardi e 500 milioni di persone. Secondo la teoria economica della cosiddetta “transizione demografica”, ogni popolazione umana tende a passare da una situazione iniziale negativa – elevata mortalità e alta fecondità – a una situazione più favorevole, con parametri invertiti: scarsa mortalità e bassa fecondità. La transizione, spiega Bifarini, avviene con un’iniziale riduzione del livello di mortalità, cui fa seguito un consistente aumento del tasso di crescita demografica, che si attesterà presto intorno allo zero grazie a una riduzione del livello di fecondità, completando così il percorso della transizione demografica.
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Lilli e i suoi fratelli, la guerra dei media contro il popolo bue
Va bene tutto, tranne la verità: come quando cade un regime, e gli organi del vecchio potere annaspano, manifestando rabbia e paura, come di fronte a orde di rivoluzionari scatenati. E’ livido il bombardamento quotidiano, il grottesco fuoco di sbarramento che il mainstream – a prescindere – riversa contro il neonato governo gialloverde. Editorialisti e giornalisti da salotto, esperti sostanzialmente nell’arte del baciamano, oggi sembrano rivoltosi sulle barricate: a Elsa Fornero perdonavano tutto, inclusi gli spargimenti di sangue, mentre sui 5 Stelle e sulla Lega si avventano come mastini. Imperdonabile, il voto degli italiani il 4 marzo: e, visto che il popolo bue ha evidentemente sbagliato a votare, gli addetti alla verità stanno facendo gli straordinari per dimostrare agli elettori grillini e leghisti che non l’avranno vinta: loro, gli euro-cantori dell’establishment, in ogni caso non si arrenderanno alla storia; resisteranno – come gli ultimi giapponesi sull’isoletta – alla marea furibonda del “popolo degli abissi”, espressione che Giulio Sapelli mutua da Jack London. Provare per credere: da manuale di boxe il trattamento che Lilli Gruber ha riservato al cattivone Matteo Salvini, reo di aver osato costringere l’Unione Europea a meditare sulla politica per i migranti, fermando una nave e facendo imbestialire il nemico numero uno dell’Italia, il supermassone reazionario Emmanuel Macron, di scuola Rothschild.A Salvini, in prima serata, “Lady Bilderberg” ha riservato tutte le domande tenute nel cassetto per anni, mai poste a nessuno in precedenza: ma più che le risposte del neo-ministro, a fare notizia era l’evidente dispetto dipinto sul volto dell’dell’ex anchorman del Tg2 craxiano, poi eletta europarlamentare dell’Ulivo prima di tornare, come se niente fosse, a fare “informazione”. Dietlinde Gruber, detta Lilli, di fronte al capo leghista ha sfoderato un piglio bellicoso da Watergate – ma Bob Woodward e Carl Bernstein, vincitori del Pulitzer, mai avrebbero accettato (per dignità professionale) di farsi arruolare ufficialmente tra le fila degli avversari politici di Nixon. E se proprio fossero stati invitati al Bilderberg, avrebbero messo in messo in piazza qualche notizia, intercettata tra quelle segrete stanze. La giornalista de La7 invece partecipa ai “caminetti” a porte chiuse, di cui non riferisce nulla ai suoi telespettatori, e poi – come se niente fosse – carica Salvini a testa bassa, ricordandogli che George Soros è in realtà un grand’uomo, un vero filantropo, essendo la sua Open Society dedita essenzialmente a opere di bene. Lui, Soros: il più celebre speculatore della storia, il più noto supermassone di potere, profeta delle rivoluzioni colorate e ispiratore di “home jobs” insanguinati come il golpe in Ucraina, coi cecchini sui tetti a sparare sulla polizia di Yanukovich per poi far ricadere la colpa sul governo, da abbattere con mezzi criminali.Dopo aver terremotato l’Africa, l’élite francese neoliberista e neocoloniale gioca allo scaricabarile e prova a colpire direttamente l’Italia, anche per distrarre un’opinione pubblica che, oltralpe, ha già perso la fiducia che aveva nell’oscuro, opaco Macron, sodale occulto dei peggiori Soros in circolazione? Niente paura: a reti unificate, le testate italiane – giornali che più nessuno legge – si schierano compatte col francese e contro l’italiano, scelgono il paese che sta cercando di sfrattare l’Italia dalla Libia e si avventano contro il ministro che ha avuto l’ardire di rimettere in discussione l’ipocrisia europea. Salvini fa politica: per la prima volta, un italiano riesce a spaccare in due la Germania e a dividere Berlino da Parigi. Ragione in più per trattarlo da nemico pubblico, in Italia. A malmenarlo, con inaudita violenza, è proprio la Gruber, che utilizza una scheda televisiva per dimostrare che la Francia ha accolto più rifugiati, rispetto all’Italia. Salvini però la smentisce all’istante: i dati esibiti a “Otto e mezzo” sono vecchi, risalgono al 2015. La verità, oggi, è ribaltata: l’Italia accoglie, la Francia non più. Dati ufficiali, del Viminale: una notizia, in teoria – ma non per Lilli Gruber e soci: a loro, le notizie sono l’ultima cosa che interessano, impegnati come sono nella loro rabbiosa crociata contro il popolo italiano e i mascalzoni che ha osato mandare al governo.Va bene tutto, tranne la verità: come quando cade un regime, e gli organi del vecchio potere annaspano, manifestando rabbia e paura, nemmeno fossero di fronte a orde di rivoluzionari scatenati. E’ livido il bombardamento quotidiano, il grottesco fuoco di sbarramento che il mainstream – a prescindere – riversa contro il neonato governo gialloverde. Editorialisti e giornalisti da salotto, esperti sostanzialmente nell’arte del baciamano, oggi sembrano rivoltosi sulle barricate: a Elsa Fornero perdonavano tutto, inclusi gli spargimenti di sangue, mentre sui 5 Stelle e sulla Lega si avventano come mastini. Imperdonabile, il voto degli italiani il 4 marzo: e, visto che il popolo bue ha evidentemente sbagliato a votare, gli addetti alla verità stanno facendo gli straordinari per dimostrare agli elettori grillini e leghisti che non l’avranno vinta: loro, gli euro-cantori dell’establishment, in ogni caso non si arrenderanno alla storia; resisteranno – come gli ultimi giapponesi sull’isoletta – alla marea furibonda del “popolo degli abissi”, espressione che Giulio Sapelli mutua da Jack London. Provare per credere: da manuale di boxe il trattamento che Lilli Gruber ha riservato al cattivone Matteo Salvini, reo di aver osato costringere l’Unione Europea a meditare sulla politica per i migranti, fermando una nave e facendo imbestialire il nemico numero uno dell’Italia, il supermassone reazionario Emmanuel Macron, di scuola Rothschild.
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Tav, binario morto: fine della Torino-Lione voluta dall’élite?
Sindaco di Torino dal 2001 al 2011, Chiamparino esprime al meglio la storica conversione neoliberista dell’ex sinistra piemontese, passata dalla lotta operaia sotto le bandiere del Pci alle platee del Lingotto all’ombra del Pd veltroniano e renziano. Dopo aver gestito le Olimpiadi Invernali 2006 che hanno ridato fiato all’economia torinese prostrata dal declino della Fiat, Chiamparino è passato – in modo disinvolto – dalla guida della città alla presidenza della Compagnia di San Paolo, potentissima fondazione bancaria del primo istituto di credito italiano, per poi tornare tranquillamente alla politica: oggi è presidente della Regione Piemonte. “Siete praticamente finiti”, disse cordialmente ai NoTav nel 2010, festeggiando quella che immaginava fosse la fine della resistenza popolare della valle di Susa contro la maxi-opera. “Siete rimasti in quattro gatti”, disse ai militanti, che risposero con una marcia di 40.000 persone. Da allora, la battaglia NoTav si è letteralmente incendiata, anche con pesanti strascichi giudiziari. E nel frattempo è cambiata la percezione nazionale del fenomeno: decine di personaggi pubblici – scrittori, cantanti, attori, registi – si sono schierati dalla parte dei valligiani, bocciando la Torino-Lione come una inutile, pericolosa devastazione.La novità è che, dopo le elezioni del 4 marzo, questo pensiero è diventato maggioranza, nel paese: il governo gialloverde frena, sui cantieri valsusini. I penstastellati dovranno “passare sul corpo di Chiamparino” se vogliono cestinare la Torino-Lione? Si tranquillizzi, gli risponde il ministro grillino Danilo Toninelli: in valle di Susa potrebbe non passare nessun treno. Al che, Chiamparino rilancia e “convoca” a Torino l’esecutivo, che però risponde picche. Un affronto, per il presidente della Regione: «L’esempio che arriva dal governo non è di rispetto istituzionale», dice Chiamparino, irritato anche con Salvini, “colpevole” di avergli ricordato che «il contratto di governo prevede, per tutte le grandi opere, una nuova analisi costi-benefici». Chiamparino attacca il neo-ministro dell’interno, definendolo «un primo ministro ombra, in campagna elettorale permanente, che non mostra alcun rispetto istituzionale». Davvero? «Se pensava di farsi da solo il monologo sulla Torino-Lione e altre opere che invece dovranno passare da una seria analisi costi-benefici previste nel contratto di governo, strumentalizzando ai fini politici la sua carica istituzionale, è stato servito», replicano i parlamentari piemontesi del Movimento 5 Stelle, chiudendo il caso della mancata partecipazione del governo al summit torinese.Ancora più dura la risposta leghista: «Se un governatore fantasma, sparito da Torino e dal Piemonte, si ricorda di esistere solo per attaccare Salvini e la Lega, significa che l’incontro sulle infrastrutture era solo un pretesto», dice Riccardo Molinari, capogruppo della Lega alla Camera e segretario regionale del Piemonte. «Chiamparino sa bene che il mio ministero sta lavorando alacremente per una “project review” di certe importanti opere della sua regione», precisa lo stesso Toninelli: «Quando sarà il momento, saremo noi a convocare un tavolo istituzionale con tutte le parti in causa». E aggiunge: «Il governo è cambiato: forse il presidente Chiamparino ha difficoltà a farsene una ragione». L’esecutivo è cambiato perché gli italiani hanno votato, democraticamente. E hanno scelto Lega e 5 Stelle: di questo, proprio, l’establishment sembra non riuscire a capacitarsi. E tra le macerie dell’ex centrosinistra, tutto quello che riesce a pigolare il Pd è la paura che venga cancellato il maxi-appalto del secolo, per il super-treno che nessuno vuole – a parte Chiamparino e la potente lobby dell’alta velocità valsusina, che in trent’anni non ha mai trovato modo di spiegare, al popolo, a cosa (e a chi) servirebbe davvero, quel maledetto treno, destinato a restare in eterno – secondo tutti gli esperti – nient’altro che un patetico, miliardario binario morto.«Dovranno passare sul mio corpo», avverte Sergio Chiamparino, ultimo guardiano politico della linea Tav Torino-Lione. Clinicamente morto, come progetto strategico, il Tav della valle di Susa resta il supremo totem del super-potere oligarchicoche ha fatto carne di porco della democrazia europea, criminalizzando ogni voce di dissenso. Banche, partiti, mafia e maxi-opere: per 25 anni le grandi lobby hanno dettato legge, affidando interi tratti della rete ferroviaria superveloce direttamente alla criminalità organizzata, come denunciato da Ferdinando Imposimato. Nel suo “Libro nero dell’alta velocità”, un analista come Ivan Cicconi vede “il futuro di Tangentopoli”, tra «scelte note e occulte, bugie consapevoli e inconsapevoli», come il “finto” finanziamento privato. Il giallista Massimo Carlotto spiega che le grandi opere sono notoriamente «una lavanderia per riciclare denaro sporco». Rischi sistemici inevitabili? Inconvenienti in agguato in ogni maxi-appalto? Ma nel caso della valle di Susa è peggio: perché l’ipotetica linea-doppione, fotocopia dell’attuale Torino-Modane che già collega Italia e Francia via traforo del Fréjus, è completamente inutile. Lo dicono 360 esperti dell’università italiana e lo conferma la stessa autorità elvetica incaricata dall’Ue di monitorare i trasporti transalpini. L’utilità della Torino-Lione? Una leggenda metropolitana. Ma non per Sergio Chiamparino e il gruppo di potere che rappresenta.