Archivio della Categoria: ‘segnalazioni’
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Il gas non era nervino, il bimbo non era migrante: scrivetelo
Il gas in Siria non era nervino, e il bimbo in lacrime non era un immigrato messicano. Foto-simbolo, veicolate dai media per attaccare Assad e Trump. Ma i giornalisti, si domanda Marcello Foa, non si scusano mai? Certo non con lui, che ha appena querelato “L’Espresso”: il settimanale del gruppo De Benedetti ha scritto che la cassa-fantasma della Lega sarebbe in Svizzera. L’articolo, firmato da Vittorio Malagutti, lascia intendere che proprio Foa, editorialista del “Giornale”, avrebbe avuto un ruolo-chiave in questa misteriosa e sofisticata operazione. «L’articolo è così bislacco e la tesi proposta talmente infondata nelle argomentazioni, nonché colma di fantasiose e diffamanti insinuazioni, da essere semplicemente ridicola», scrive Foa, sul suo blog nella versione online del quotidiano diretto da Alessandro Sallusti. Protesta Foa: non è stato neppure interpellato dal giornalista de “L’Espresso” che l’ha citato, «violando le più elementari norme del giornalismo d’inchiesta». E questo, aggiunge Foa, «la dice lunga sulla serietà di una testata un tempo autorevole». Se Malagutti avesse telefonato a Foa, scrive l’interessato, «gli avrei detto che il pranzo a Lugano con Steve Bannon, citato nell’inchiesta come episodio fondamentale, era talmente segreto che si è svolto alla presenza, tra gli altri, di Roberto Antonini, un giornalista della televisione svizzera “Rsi” (il quale diede conto pubblicamente dell’evento) e di Danilo Taino del “Corriere della Sera”. Non c’è che dire, un tavolo di loschi congiurati».«Al solo pensiero che si possa fare un’inchiesta con questi criteri a me scappa davvero da ridere», aggiunge Foa. Il famoso articolo de “L’Espresso”? «Giornalisticamente rappresenta il nulla assoluto. Non c’è niente: non una notizia, non un’analisi. Solo illazioni e fantasiose connessioni per tentare di giustificare l’astrusità di un titolo sensazionalistico e intenzionalmente diffamatorio perché non circostanziato». In altre parole: «Giornalismo di bassa lega, robaccia. L’ennesimo sintomo del declino, anzi della decomposizione di una testata un tempo gloriosa», che ormai «si sta liquefacendo da sè, sconfessata dalla maggior parte dei lettori che non legge più “L’Espresso” da tempo». Per contro, secondo Foa, l’articolo «goffamente diffamatorio» del settimanale «evoca, ancora una volta, il concetto di “fake News”, soprattutto di quelle che la grande stampa mainstream diffonde ogni giorno, senza mai avere l’onestà di rettificare i propri errori». Ricordate l’attacco con armi chimiche a Douma, quello che suscitò le ire di Macron e che indusse Trump a sparare un po’ di missili sulla Siria? Nell’aprile scorso, alcuni osservatori – tra cui lo stesso Foa – sollevarono dubbi sull’attendibilità di quelle accuse. Ma quei dubbi «non trovarono spazio sulla stampa, che, in coro, grondava indignazione».Ebbene, la missione d’inchiesta dell’Opac, l’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, ha appena pubblicato un rapporto da cui risulta che non è stata trovata nessuna traccia di gas nervino a Douma. «Ma come al solito – sottolinea Foa, sul “Giornale” – a dare la notizia con la giusta evidenza sono stati solo blogger e siti alternativi. E come sempre, la grande stampa, salvo rare eccezioni, l’ha ignorata». Dalla Siria agli Stati Uniti: «Chi non si è commosso davanti alla foto straziante del bambino messicano che piange disperato dopo essere stato separato dai genitori? Quell’immagine – ricorda Foa – è diventata il simbolo della protesta contro le misure del governo Trump (e da quest’ultimo poi ritirate). Era troppo bella, troppo emozionante per non essere vera! Peccato che non lo fosse: in realtà è stata scattata durante una manifestazione di protesta a Dallas, il 10 giugno». Le sbarre? «Non erano di una prigione, ma di gabbie simboliche. E il bambino non è mai stato separato dai genitori. Recitava». Ai media, però, «è bastato prendere quello scatto e pubblicarlo decontestualizzato per scatenare l’indignazione internazionale. E ancora una volta solo in pochi hanno denunciato l’inganno, la grande stampa non ha mai rettificato».Proprio alla sistematica manipolazione dell’informazione, Marcello Foa ha dedicato il suo ultimo saggio, “Gli stregoni della notizia. Atto secondo”. Un lavoro in linea con un altro ottimo lavoro, che Foa segnala: è il saggio Enrica Perucchietti “Fake News. Dalla manipolazione dell’opinione pubblica alla post-verità”, che Foa considera un complemento ai suoi studi, tanto da averne scritto l’introduzione. «Come tutti gli autori davvero controcorrente – dice Foa – l’autrice è affascinata da Orwell e dal suo capolavoro “1984”. In quest’opera tenta, a mio avviso con successo, di rileggere le dinamiche della nostra società alla luce di alcuni concetti fondamentali del grande autore britannico». Non si tratta ovviamente di una banale trasposizione, né di un’inutile e stantia ricostruzione a posteriori: non è una visita in un virtuale museo di Orwell, bensì «un viaggio palpitante e preoccupato nella nostra realtà, che appare agli occhi dell’autrice come geneticamente modificata, mentre mai come ora – soprattutto per chi fa il giornalista – c’è bisogno di autenticità, di aderenza alla realtà, di onestà intellettuale. E il libro della Perucchietti – conclude Foa – rappresenta un ottimo antidoto ai veleni che difformano l’informazione quotidiana».Il gas in Siria non era nervino, e il bimbo in lacrime non era un immigrato messicano “intrappolato” dal governo Usa. Foto-simbolo, veicolate dai media per attaccare Assad e Trump. Ma i giornalisti, si domanda Marcello Foa, non si scusano mai? Certo non con lui, che ha appena querelato “L’Espresso”: il settimanale del gruppo De Benedetti ha scritto che la cassa-fantasma della Lega sarebbe in Svizzera. L’articolo, firmato da Vittorio Malagutti, lascia intendere che proprio Foa, editorialista del “Giornale”, avrebbe avuto un ruolo-chiave in questa misteriosa e sofisticata operazione. «L’articolo è così bislacco e la tesi proposta talmente infondata nelle argomentazioni, nonché colma di fantasiose e diffamanti insinuazioni, da essere semplicemente ridicola», scrive Foa, sul suo blog nella versione online del quotidiano diretto da Alessandro Sallusti. Foa non è stato neppure interpellato dal giornalista de “L’Espresso” che l’ha citato, «violando le più elementari norme del giornalismo d’inchiesta». E questo, aggiunge, «la dice lunga sulla serietà di una testata un tempo autorevole». Se Malagutti gli avesse telefonato, scrive Foa, «gli avrei detto che il pranzo a Lugano con Steve Bannon, citato nell’inchiesta come episodio fondamentale, era talmente segreto che si è svolto alla presenza, tra gli altri, di Roberto Antonini, un giornalista della televisione svizzera “Rsi” (il quale diede conto pubblicamente dell’evento) e di Danilo Taino del “Corriere della Sera”. Non c’è che dire, un tavolo di loschi congiurati».
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Mattarella, blitz contro Salvini sui migranti. Cade il governo?
Comuque vada a finire, l’ennesimo braccio di ferro tra Salvini e l’establishment non farà che aumentare il peso politico dell’attuale ministro dell’interno, ostacolato ancora una volta dal presidente della Repubblica, lo stesso Sergio Mattarella che aveva sbarrato le porte del ministero dell’economia a Paolo Savona, sostenuto proprio dal leader leghista. Ora il capo dello Stato ha imposto lo sbarco a Trapani dei migranti a lungo trattenuti a bordo della nave Diciotti della Guardia Costiera, alcuni dei quali – secondo l’accusa – colpevoli di aver minacciato l’equipaggio del rimorchiatore che li aveva tratti in salvo al largo della Libia, ma che stava per riportarli sul litorale nordafricano. Sull’argine al flusso incontrollato di migranti, Salvini ha scommesso tutto: è l’arma vincente che smschera l’ipocrisia tecnocratica dell’Ue, che obbliga l’Italia a sostenere da sola i costi dell’accoglienza nel Mediterraneo, imbrigliandola però nella stretta finanziaria del pareggio di bilancio. Una camicia di forza che impedisce al governo gialloverde di attuare le sue promesse elettorali: reddito di cittadinanza, Flat Tax, riforma della legge Fornero sulle pensioni. «Governeremo trent’anni», aveva appena annunciato Salvini a Pontida. Ma ora, dopo l’ultimo schiaffo di Mattarella, c’è chi scommette che l’esecutivo presieduto da Conte potrebbe cadere nel giro di pochi giorni.Le eventuali dimissioni del “governo del cambiamento”, che farebbero felici tutti i nemici dell’Italia – da Parigi a Berlino, da Bruxelles a Francoforte – sarebbero ovviamente una tragedia per l’opposizione post-renziana, ormai tenuta in vita solo dal tifo anti-Salvini orchestrato dai media mainstream e da eterne comparse come Laura Boldrini a Roberto Saviano. L’attacco concentrico contro la Lega, vero perno dell’ipotesi sovranista europea sorretta a distanza dalla presidenza Trump, ha assunto tratti spettacolari: ai puntuali sgambetti di Mattarella si somma l’iniziale attacco della finanza neoliberista franco-tedesca sotto forma di spread, seguito dalla clamorosa gita turistica di Macron, invitato a Roma da Papa Bergoglio come super-ospite, dopo che il presidente francese, uomo Rothschild ed esponente della supermassoneria reazionaria, si era esercitato a insultare l’Italia e gli italiani. Macron, che dà lezioni all’Italia sui diritti umani, ha ordinato il pestaggio dei migranti al confine di Ventimiglia e fatto intervenire la gendarmeria transalpina a Bardonecchia, violando gli accordi di frontiera tra i due paesi.Dulcis in fundo, il macigno che la magistratura ha caricato sulle spalle di Salvini, costretto a rispondere – in solido – di 49 milioni “fantasma”, teoricamente scomparsi dalle casse del partito durante la gestione Bossi e ora messi in conto alla Lega salviniana, con provvedimento esecutivo, senza neppure attendere il secondo grado di giudizio. Una sentenza, quella sui presunti fondi scomparsi, che equivale a privare la Lega della possibilità di fare politica, esercitando il mandato democratico ottenuto dagli elettori il 4 marzo. Variegate forze – dalla Bce alla Banca d’Italia, dall’Ubi (l’unione della banche italiane) fino a Confindustria – stanno combattendo all’arma bianca contro la possibilità che il governo gialloverde possa durare. Pericolosi, ovviamente, i distinguo di alcuni grillini di peso: il ministro della difesa Elisabetta Trenta contesta a Salvini le modalità del blocco dei porti, mentre il presidente della Camera, Roberto Fico, invoca il valore dell’accoglienza “senza se e senza ma”, bocciando di fatto la politica del governo sull’immigrazione.Nelle ultime settimane, intanto, emerge finalmente l’altra verità sul traffico di migranti promosso dalle Ong sostenute dalla rete Open Society di George Soros: non si tratterebbe di un “esodo della disperazione”, ma di un trasferimento di massa programmato. Decine di migliaia di africani (non i più poveri, solo quelli che possono permettersi di pagare i trafficanti) verrebbero incoraggiati a lasciare i loro paesi con il miraggio di un welfare assistenziale generoso, in Italia e nel resto d’Europa. Naturalmente il problema-Africa è devastante, nelle sue proporzioni: Salvini lo utilizza ruvidamente in chiave anti-Ue, mentre i “vedovi” della sinistra di potere lo cavalcano, disperatamente, solo in funzione anti-Salvini. Spuntando – con l’aiuto del Quirinale – l’arma principale dell’Italia contro i diktat di Bruxelles, la corda potrebbe spezzarsi: Salvini sa che la maggioranza degli italiani è con lui, nuove elezioni potrebbero trasformarsi in plebliscito. Resta però da capire come la vede il convitato di pietra del governo Conte: cioè Donald Trump, che sembra puntare proprio sul governo gialloverde per “smontare” l’euro-orrore capitanato dalla Germania merkelizzata.Comuque vada a finire, l’ennesimo braccio di ferro tra Salvini e l’establishment non farà che aumentare il peso politico dell’attuale ministro dell’interno, ostacolato ancora una volta dal presidente della Repubblica, lo stesso Sergio Mattarella che aveva sbarrato le porte del ministero dell’economia a Paolo Savona, sostenuto proprio dal leader leghista. Ora il capo dello Stato ha imposto lo sbarco a Trapani dei migranti a lungo trattenuti a bordo della nave Diciotti della Guardia Costiera, alcuni dei quali – secondo l’accusa – colpevoli di aver minacciato l’equipaggio del rimorchiatore che li aveva tratti in salvo al largo della Libia, ma che stava per riportarli sul litorale nordafricano. Sull’argine al flusso incontrollato di migranti, Salvini ha scommesso tutto: è l’arma vincente che smschera l’ipocrisia tecnocratica dell’Ue, che obbliga l’Italia a sostenere da sola i costi dell’accoglienza nel Mediterraneo, imbrigliandola però nella stretta finanziaria del pareggio di bilancio. Una camicia di forza che impedisce al governo gialloverde di attuare le sue promesse elettorali: reddito di cittadinanza, Flat Tax, riforma della legge Fornero sulle pensioni. «Governeremo trent’anni», aveva appena annunciato Salvini a Pontida. Ma ora, dopo l’ultimo schiaffo di Mattarella, c’è chi scommette che l’esecutivo presieduto da Conte potrebbe cadere nel giro di pochi giorni.
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Auto elettrica Eni-Enel, l’Italia potrebbe stupire il mondo
Ministro Di Maio, ma perché noi italiani non potremmo sorprendere tutti, per una volta? Disponiamo di due colossi, Eni ed Enel, in grado di trasformarsi in attori mondiali di primo piano nel nuovo business planetario dei veicoli elettrici. «Quello che sta accadendo è lo sbattere assieme di due industrie come non è mai accaduto prima nella storia», assicura Erik Fairbairn di Pod Point Ltd, l’azienda di punta inglese per le stazioni di ricarica degli “electric vehicles” (auto, scooter, camion, bus). Una frase lapidaria, sottolinea Paolo Barnard, che descrive «uno dei fenomeni più impensati ed eclatanti dell’economia globale», ovvero «la forzata fratellanza dei colossi del petrolio con quelli dell’elettricità a fronte della rivoluzione mondiale degli “Ev”, nella consapevolezza che il futuro del motore a combustione è segnato». Infatti, Big Oil e Big Utilities si sono lanciate insieme con acquisizioni miliardarie per non perdere una grossa fetta dell’industria dei trasporti di domani, che sarà sempre più a “carburante” elettrico: un affare globale da trilioni di dollari, euro, yuan e yen. La Royal Dutch Shell, aggiunge Barnard, ha calcolato ormai con certezza che il settore perderà oltre 10 milioni di barili di petrolio al giorno per il consumo nei trasporti entro il 2040, a favore dell’elettricità. Di più: la Cina ha stabilito per legge la più alta quota obbligatoria al mondo di “Ev” sul suo mercato, e nelle aziende, entro il 2030.Il governo del gigante asiatico ha stanziato 50 miliardi di dollari d’incentivi per gli “electric vehicles” per i prossimi due anni: Pechino sarà il maggior mercato di veicoli “Ev” del pianeta entro 12 anni, con una richiesta da far impallidire il resto del mondo. «La Volkswagen l’ha capito da un pezzo e ha sborsato subito un anticipo di 10 miliardi per arrivare per prima in Cina (poi la gente si chiede perché la Germania vince)». Per i prossimi sette anni, prosegue Barnard, aziende come Volkswagen, Bmw, Ford e Toyota hanno investito un totale di 165 miliardi di dollari nei veicoli elettrici, «non solo perché gli idrocarburi stanno distruggendo il clima e saranno man mano banditi, ma anche (più cinicamente) perché la tecnologia ha già oggi superato i due ostacoli maggiori allo sviluppo degli “Ev”, che erano l’autonomia (oggi siamo oltre i 500 km con una carica) e i tempi per le ricariche (le batterie Toshiba ricaricano un’auto in 6 minuti)». E poi, appunto, c’è l’immensa torta del mercato cinese. Per questo, oggi, le stime della maggiori “consultancies” internazionali danno il mercato globale degli “Ev” in crescita a ritmi pazzeschi: si parla dell’8.600% (ottomilaseicento per cento) nei prossimi 22 anni. E qui, scrive Barnard rivolgendosi a Di Maio, l’Italia potrebbe avere un’idea dirompente che la proietterebbe ai primi posti al mondo nella Disruption, la rivoluzione del lavoro indotta dalle nuove tecnologie, rilanciando economia e occupazione.Basterebbe che Eni ed Enel, cioè Big Oil e Big Utility in Italia, si lanciassero in una joint-venture «ben oltre il solito mercato delle stazioni di ricarica per “Ev”». Secondo Barnard potrebbero unire le loro imponenti forze (tecnologie avanzate, risorse e know-how) per sbarcare sul mercato dei produttori di veicoli elettrici, «in diretta competizione coi leader mondiali come Volkswagen, Bmw o Tesla, per anche superarli e divenire protagonisti di quello che è destinato a essere il più ricco mercato globale dei trasporti su terra». Ragiona Barnard: Eni ed Enel sono “sorelle”, insieme al ministero del Tesoro, e quindi – nel giro di neppure vent’anni – le ricadute sarebbero immense, per lo Stato e per l’economia, per il lavoro e per l’ambiente. «Un picco verso l’alto di Pil fra meno di vent’anni non è futurismo», assicura Barnard. Al contrario, sarebbe «l’occupazione e la società dei nostri figli alle elementari o alle medie adesso, ma anche di molti di noi, e con ricadute essenziali sui pensionati per ovvi motivi». Eni ed Enel potrebbero cioè attuare la Disruption del settore auto, senza più Sergio Marchionne e John Elkann. Basterebbe allineare l’Italia alle maggiori potenze economiche, dove i giganti petroliferi si stanno “gemellando” con i giganti delle utilities, mettendo in campo un’arma in più: la capacità competitiva del binomio Eni-Enel.Mentre il fenomeno si concentra sulla distribuzione del nuovo “carburante” elettrico, scrive Barnard, citando joint-ventures «tutte dedicate alle stazioni di ricarica degli “Ev”», non risulta che nessuno dei colossi mondiali abbia ancora pensato di «usare il proprio strapotere economico e tecnologico per entrare nel mercato dei veicoli, non solo rifornirli». E c’è un buon motivo, spiega Barnard: nella quasi totalità dei casi studiati – Usa e Gran Bretagna, Svezia, Giappone, Germania, Francia, Cina – i giganti esteri di petrolio e utilities risiedono in paesi con industrie automobilistiche già in prima linea negli “Ev”. Non l’Italia, però: «La sparpagliata anglo-olandese-italiana Fiat Chrysler Automobiles ha annunciato, con l’evidente riluttanza di Marchionne ben espressa alla “Reuters” nel gennaio 2018, un misero investimento di 9 miliardi di dollari negli “Ev”, che è quasi un decimo di quello della Volkswagen». Ecco il perché della proposta per l’Italia avanzata da Barnard: un marchio automobilistico Eni+Enel+Ev (col Tesoro).«Si tratta di saper vedere avanti, cioè di avere la cosiddetta “vision”», sottolinea il giornalista: «Sono certo che almeno all’Eni esiste una conoscenza approfondita dei mercati cosiddetti South Asia, China and Southeast Asia, e dell’esplosivo potenziale d’acquisto che stanno sviluppando, tale da umiliare tutto l’Occidente fra una manciata d’anni». Quindi, un’impresa come quella delineata non nascerebbe certo senza un mercato, anzi: e domani, quando «le vendite internazionali di “Ev” saranno a 9 zeri e straripanti», è facile prevedere quale indotto di lavoro l’industria automobilistica Eni+Enel+Ev creerebbe in un paese come l’Italia, che – ricorda Barnard – è ancora la prima nazione al mondo «per densità di piccole medie imprese». Praterie sconfinate di occupazione: dall’impiego negli stabilimenti alla costruzione delle infrastrutture sul territorio per le colonne di ricarica. Barnard insiste sul potenziale rivoluzionario della Disruption in atto: Artificial Intelligence e Machine Learning stanno cambiando volto al lavoro sul pianeta, facendo sparire mestieri e creandone di nuovi. Una delle applicazioni più studiate, e su cui sono stati investiti enormi capitali, sono le auto “driverless”: «E’ solo una questione di quando arriveranno, non “se”».E quindi, insiste Barnard, «un’Italia con due colossi tecnologici nazionali, Eni+Enel, già lanciati nel settore automobilistico e dei trasporti con gli “Ev”, diverrebbe anche leader delle “driverless”, con gli sbocchi economici e d’occupazione che si possono immaginare». Cosa stiamo aspettando, se è vero che – per la prima volta nella storia – i giganti del petrolio e quelli delle utilities marciano insieme, mentre l’industria dell’auto sta investendo centinaia di miliardi nei veicoli elettrici? «Non vedo perché il nostro gigante del petrolio, Eni, e il nostro gigante utility, Enel, non possano unire le loro grandi tecnologie per non solo competere nel settore rifornimenti, ma proprio per ridare all’Italia un marchio dell’auto del futuro, per la felicità del Tesoro a Roma, del Pil e dell’occupazione». Scrive Barnard, rivolto a Di Maio: «Ministro, il lavoro per gli italiani non si crea con decreti a mo’ di cerotti occupazionali appiccicati di qua e di là in quello che è un bagno di sangue di disoccupazione a due cifre. Il vero lavoro duraturo, a vita e remunerato bene – aggiunge Barnard – si crea solo con una “vision” di grande respiro». Per una volta, conclude il giornalista, l’Italia potrebbe tornare a stupire tutti, se solo lo volesse.Ministro Di Maio, ma perché noi italiani non potremmo sorprendere tutti, per una volta? Disponiamo di due colossi, Eni ed Enel, in grado di trasformarsi in attori mondiali di primo piano nel nuovo business planetario dei veicoli elettrici. «Quello che sta accadendo è lo sbattere assieme di due industrie come non è mai accaduto prima nella storia», assicura Erik Fairbairn di Pod Point Ltd, l’azienda di punta inglese per le stazioni di ricarica degli “electric vehicles” (auto, scooter, camion, bus). Una frase lapidaria, sottolinea Paolo Barnard, che descrive «uno dei fenomeni più impensati ed eclatanti dell’economia globale», ovvero «la forzata fratellanza dei colossi del petrolio con quelli dell’elettricità a fronte della rivoluzione mondiale degli “Ev”, nella consapevolezza che il futuro del motore a combustione è segnato». Infatti, Big Oil e Big Utilities si sono lanciate insieme con acquisizioni miliardarie per non perdere una grossa fetta dell’industria dei trasporti di domani, che sarà sempre più a “carburante” elettrico: un affare globale da trilioni di dollari, euro, yuan e yen. La Royal Dutch Shell, aggiunge Barnard, ha calcolato ormai con certezza che il settore perderà oltre 10 milioni di barili di petrolio al giorno per il consumo nei trasporti entro il 2040, a favore dell’elettricità. Di più: la Cina ha stabilito per legge la più alta quota obbligatoria al mondo di “Ev” sul suo mercato, e nelle aziende, entro il 2030.
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Ma non fuggono dalla fame, gli africani che sbarcano da noi
Gli immigrati che arrivano in Europa dall’Africa sono per lo più (oltre l’80%) giovani maschi, di età compresa tra i 18 e i 34 anni, che viaggiano da soli. Le coppie e le famiglie sono una minoranza. Provengono da una serie di paesi dell’Africa subsahariana, anche se quest’anno c’è stato un picco di emigranti tunisini, con una prevalenza dall’Africa centrale e occidentale, da paesi come Nigeria, Senegal, Camerun, Costa d’Avorio, Ghana. La loro condizione sociale? Non è facile dirlo, perché ci sono situazioni anche molto diverse tra loro. Va detto, comunque, che esiste sul tema dell’immigrazione un falso mito: la maggioranza non fugge da situazioni di estrema povertà. In genere sono persone provenienti da centri urbani, ed è lì che maturano l’idea di lasciare il paese. Dunque mi sembra corretto sostenere che il grosso dei migranti appartenga al ceto medio: persone non ricche, ma nemmeno povere, in grado di pagare profumatamente chi organizza i viaggi. Un paio d’anni fa, in un’intervista, il ministro dei Senegalesi all’Estero ha detto: «Qui non parte gente che non ha nulla, parte gente che vuole di più». L’idea diffusa in Africa è che basta arrivare in Europa per godere del benessere, senza considerare però che dietro la ricchezza prodotta ci sono dei sacrifici.Ad alimentare questa illusione sono vari fattori. Uno su tutti: i trafficanti, che come è noto gestiscono la gran parte dei viaggi verso l’Europa. Sono loro che rafforzano questa idea, lo fanno ovviamente per procurarsi clienti. È utile sottolineare che il 13 giugno è stato pubblicato dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (Unodc) un rapporto dal quale emerge che nel 2016 queste organizzazioni criminali hanno trasportato almeno 2,5 milioni di persone, delle quali quasi 400.000 verso l’Italia, ricavandone in tutto da 5,5 a 7 miliardi di dollari. Il rapporto spiega dettagliatamente come funziona l’avvicinamento ai clienti, l’opera di convincimento, nonché quali sono le varie tariffe. Chi arriva in Europa, per lo più, non fa altro che alimentare verso i propri parenti e amici in Africa l’idea che sia giunto ad un traguardo per cui vale la pena spendere e rischiare. La tendenza è quella di descrivere situazioni positive, anche quando non lo sono, per giustificare la propria scelta. Ma va detto che spesso, in effetti, chi arriva non ha nulla di cui lamentarsi: siccome quasi tutti chiedono e ottengono asilo, almeno nei primi anni godono di un sistema di protezione e di assistenza da far invidia a chi non è ancora partito.Le traversate nel deserto, i campi di detenzione libici, le tragedie nel Mediterraneo: non dovrebbero rappresentare un deterrente nei confronti di chi vuole partire? Il punto è che queste situazioni le conosciamo più noi che loro. L’accesso ai mezzi d’informazione degli africani, anche di coloro che vivono nelle città, è molto limitato. Detto ciò, molti conoscono i rischi e sono disposti ad accettarli, così come non si può escludere che molti altri, magari in un primo momento intenzionati a partire, desistano proprio alla luce di queste tragedie. A tal proposito vorrei sottolineare l’importanza del lavoro di controinformazione che stanno svolgendo alcuni soggetti in Africa. Alcuni governi, così come molte conferenze episcopali africane, si stanno spendendo per spiegare ai giovani quanto costa, quanto si rischia e quanto poco si ottiene, nel lungo periodo, ad emigrare in paesi dove non c’è occupazione né possibilità concreta di integrazione economica e sociale. Stanno svolgendo questo lavoro i governi del Senegal e del Niger – dal 2014 anche quello del Mali, il quale sta facendo una forte propaganda per dimostrare che un paese dal quale emigrano i suoi cittadini più giovani e forti non crescerà mai. E ancora: quello della Sierra Leone, a partire dall’anno scorso e in collaborazione con le autorità religiose, sia cristiane che islamiche. Sono piccoli passi in avanti che incoraggiano i giovani non a fuggire ma a restare, per migliorare il proprio paese.L’ultimo rapporto dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) parla di oltre 60 milioni di profughi in generale. Se poi parliamo di rifugiati, ovvero di persone che fuggono all’estero da guerre e persecuzioni, la cifra è di circa 20 milioni. Di questi, soltanto una minoranza esigua arriva in Italia, chiede asilo e lo ottiene: per quantificare, nel 2015 sono stati 3.555, nel 2016 4.940 e nel 2017 6.578. Perché sono così pochi? Perché la maggior parte di chi fugge da una guerra trova asilo appena varca il confine; del resto, la Convenzione di Ginevra prevede che il profugo chieda tempestivamente asilo nel primo paese che ha firmato la Convenzione in cui mette piede. C’è poi un secondo motivo: chi fugge sotto la minaccia di persecuzione e di guerra cerca di rimanere il più vicino a casa perché l’idea è quella di tornarci il prima possibile.Quanto incide sull’emigrazione anche lo sfruttamento delle risorse? C’è il land grabbing, ossia l’accaparramento delle terre da parte di paesi stranieri o industrie. Sicuramente sono fattori che hanno una loro incidenza. Le responsabilità vanno trovate anzitutto nei governi africani, i quali – per restare al tema del land grabbing – preferiscono vendere le terre ad industrie o a paesi che hanno fame di terre coltivabili (Cina, India, Arabia Saudita) incassando subito del denaro piuttosto che incentivare l’agricoltura locale anche tramite investimenti. L’Africa è ricca di risorse minerarie, penso al cobalto ma soprattutto al petrolio, il quale viene acquistato e pagato dalle compagnie, ma il problema è capire dove vanno a finire i soldi. Nel 2014, su 77 miliardi di dollari che avrebbe dovuto incassare l’ente nazionale del petrolio nigeriano, 14 non sono mai stati depositati. Sono finiti in qualche conto corrente, mentre sarebbero dovuti servire per lo sviluppo sociale del paese. La Nigeria, pur essendo il primo produttore di petrolio del continente, importa il greggio già raffinato dall’estero.L’Africa da oltre 20 anni registra una crescita economica notevole, e in prima fila ci sono i paesi da cui proviene la maggior parte dei migranti, solo che queste risorse vengono dilapidate o se ne giovano poche élite. Al recente Consiglio Europeo, gli Stati si sono impegnati a contribuire ulteriormente al Fondo Ue per l’Africa inviando altri 500 milioni. È un modo per “aiutarli a casa loro” o per alimentare la corruzione? Questi 500 milioni sono un ulteriore quantitativo, che si aggiunge ai miliardi che ogni anno vengono destinati all’Africa dalla cooperazione allo sviluppo di Stati Uniti ed Europa. Infatti quando sento invocare un “Piano Marshall per l’Africa” resto basita, perché di risorse ne vengono già inviate in modo ingente, ma i destinatari, cioè i governi, sono poco affidabili. Un esempio: in Somalia, che è uno dei paesi maggiormente assistiti, la Banca Mondiale qualche anno fa ha dimostrato che ogni 10 dollari che vengono elargiti al governo, 7 spariscono nel nulla.E’ possibile che, dove è forte la presenza del radicalismo islamico, quei soldi che spariscono nel nulla finiscano ad arricchire i gruppi jihadisti? Chi lo sa. Certo è che questi gruppi hanno fonti di reddito molto robuste e sponsor molto potenti. Inoltre sono spesso invischiati in traffici illegali: spaccio di droga, di armi, bracconaggio. Anni fa si è scoperto che gli Al Shabaad della Somalia ottengono circa il 40% dei proventi dalla vendita di zanne di elefante. Considerate che in Kenya c’è un detto: “Oggi è stato ucciso un elefante, domani sarà ucciso un uomo”, proprio per sottolineare la correlazione tra bracconaggio e terrorismo. Una ricerca delle Nazioni Unite rivela che nel 2050 ci sarà un’ulteriore crescita demografica dell’Africa e un declino dell’Occidente. L’immigrazione di massa come fenomeno sempre più ineluttabile? Anzitutto si tratta di proiezioni, non di dati certi. Non è affatto detto che tra trent’anni la situazione rimarrà la stessa di oggi, in termini demografici.Delle buone politiche familiari e un cambio culturale potrebbero invertire la tendenza demografica in Occidente, così come è possibile in primo luogo che la popolazione africana non aumenterà come l’Onu prevede (già si registra una piccola variazione verso il basso rispetto ai pronostici di pochi anni fa) e poi che l’Africa diventi finalmente un continente in grado di svilupparsi e di convincere i propri giovani a non fuggire alimentando i traffici clandestini di migranti. A mio avviso il modus operandi di molte Ong è molto discutibile, perché entrano in contatto diretto con i trafficanti e prevedono il trasbordo quasi in acque territoriali libiche per poi dirigersi verso l’Italia, anche se battono bandiera di un altro Stato e se il porto più vicino sarebbe altrove. Già il precedente governo, con il ministro Minniti, aveva sollevato il problema e aveva pensato di prendere provvedimenti. Il nuovo governo si sta dimostrando solo più determinato, ma l’intento è rimasto quello di far rispettare la sovranità nazionale e le leggi internazionali.Chiudere i porti significa smettere di “restare umani”? L’Europa in generale, ma nello specifico l’Italia, sono molto lontane dalla fase più prospera della loro storia: gli ultimi dati ci parlano di 5 milioni di italiani in povertà assoluta e centinaia di migliaia di italiani emigrano all’estero; l’Italia è 20esima tra i paesi di emigrazione. In questa situazione, è solo giusto impedire a delle persone di raggiungere un paese che può assisterli nel breve periodo, ma che non è in grado di garantire loro un futuro dignitoso. Chi arriva dall’Africa in Italia ha remotissime possibilità di costruirsi una vita: il più delle volte è destinato a vivere di espedienti, a lavorare in nero e in condizioni disumane magari in qualche campo di pomodori oppure ad ingrossare le fila della criminalità organizzata. Chiudere i porti può essere un modo per scoraggiare i viaggi clandestini. È importante che si alimenti il passaparola tra migranti stessi. Esistono tantissime testimonianze di giovani che hanno iniziato il viaggio verso l’Europa ma che non sono riusciti ad arrivare a destinazione, i quali affermano che se lo avessero saputo non avrebbero speso soldi e sprecato anni della propria vita per un’impresa così aleatoria. L’unico modo per scoraggiare questi progetti senza futuro è proprio quello di dimostrare che il viaggio della speranza è un’illusione, che a destinazione non si arriva: e chiudere i porti è il messaggio più netto che possa giungere.(Anna Bono, dichiarazioni rilasciate a Federico Cenci per l’intervista “Bisogna scoraggiare gli africani a emigrare, ecco perché”, pubblicata da “In Terris” l’11 luglio 2018. Africanista dell’università di Torino, la professoressa Bono ha pubblicato importanti studi sul fenomeno dell’immigrazione di origine africana).Gli immigrati che arrivano in Europa dall’Africa sono per lo più (oltre l’80%) giovani maschi, di età compresa tra i 18 e i 34 anni, che viaggiano da soli. Le coppie e le famiglie sono una minoranza. Provengono da una serie di paesi dell’Africa subsahariana, anche se quest’anno c’è stato un picco di emigranti tunisini, con una prevalenza dall’Africa centrale e occidentale, da paesi come Nigeria, Senegal, Camerun, Costa d’Avorio, Ghana. La loro condizione sociale? Non è facile dirlo, perché ci sono situazioni anche molto diverse tra loro. Va detto, comunque, che esiste sul tema dell’immigrazione un falso mito: la maggioranza non fugge da situazioni di estrema povertà. In genere sono persone provenienti da centri urbani, ed è lì che maturano l’idea di lasciare il paese. Dunque mi sembra corretto sostenere che il grosso dei migranti appartenga al ceto medio: persone non ricche, ma nemmeno povere, in grado di pagare profumatamente chi organizza i viaggi. Un paio d’anni fa, in un’intervista, il ministro dei Senegalesi all’Estero ha detto: «Qui non parte gente che non ha nulla, parte gente che vuole di più». L’idea diffusa in Africa è che basta arrivare in Europa per godere del benessere, senza considerare però che dietro la ricchezza prodotta ci sono dei sacrifici.
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Trump contro la Merkel, cioè l’ordoliberismo imposto all’Ue
Il “Washington Post” di Jeff Bezos, patron di Amazon, cioè «uno dei quotidiani che fanno da buca delle lettere al Deep State che non ama Donald Trump», ha puntualmente anticipato la notizia: il Pentagono studia l’ipotesi di ritirare dalla Germania i 35.000 soldati americani che vi sono dislocati, presenza che data dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. «I soliti portavoce hanno smentito, ma senza affannarsi», scrive Fulvio Scaglione su “Linkiesta”: sono studi, dicono ufficialmente, che si fanno con regolarità per verificare il rapporto costi-benefici degli investimenti della difesa. Quindi l’ipotesi è stata presa in esame, ed chiaro che anche solo parlarne è un fatto clamoroso, osserva Scaglione, specie se si pensa che Trump «ha accumulato un intero catalogo di attacchi alla Germania di Angela Merkel, dalle critiche sulle politiche migratorie (comprensive di pubblici apprezzamenti nei confronti di Horst Seehofer, il rivale della cancelliera) alle ironie sul tasso di criminalità, dalle pressioni perché venga mandato a monte il progetto del gasdotto South Stream 2 in arrivo dalla Russia (a favore, chiaro, del gas americano) ai dazi sulle esportazioni tedesche di acciaio e alluminio». Forse la Merkel “se l’era cercata”, «andando negli Usa a fare a Trump la predica sul Muro al confine con Messico, lei che aveva convinto l’Europa a sganciare sei miliardi di euro a Erdogan perché il Muro lo facesse la Turchia».Ma le “caramelle” che Trump ha messo sul tavolo dell’ultimo G7, unite alla firma negata al comunicato finale, sono state uno schiaffo. «Se poi fosse confermato il progetto di ritirare le truppe (e magari spostarle nella fedele Polonia, come si vocifera), capiremmo che Trump vuole anche ritirare la delega a garante del sistema euro-atlantico che la Germania storicamente detiene, un po’ come il Giappone la detiene in Asia», aggiunge Scaglione. Perché Trump ce l’ha con la Germania? Dalla Casa Bianca, scrive “Linkiesta”, si nota con evidenza che negli ultimi anni l’Unione Europea ha avuto una sola guida (quella tedesca) e una sola politica: quella decisa, o consentita, dalla Germania. Mortificare la Merkel, approfittando delle sue attuali difficoltà, significa mortificare tutta la gestione tecnocratica dell’orribile Ue. All’America, secondo Scaglione, possono dare fastidio – Cina e Russia a parte – solo le grandi coalizioni a forte impatto economico, come appunto l’Unione Europea. «In altre parole: stronchi la Germania e tagli la testa alla Ue». Trump denuncia lo scarso contributo che la Germania offre alle spese della Nato. Su Twitter ha scritto che la Germania «versa (lentamente) l’1% del proprio Pil alla Nato», mentre gli Usa versano il 4% di un Pil molto più grande. Il messaggio: «Proteggiamo l’Europa (il che è una buona cosa) al prezzo di un grande sforzo economico».E da questo a temere che Trump abbia in mente un ridimensionamento dell’impegno Usa nella Nato per alcuni il passo è breve, scriove Scaglione: soprattutto negli Usa, in quel complesso militar-industriale che condiziona in modo molto pesante la politica americana, arricchendosi con guerre e impegni militari. E siamo all’oggi: l’11 e 12 luglio Trump sarà a Bruxelles per il summit della Nato, il 13 sarà a Londra per incontrare Theresa May che organizza la Brexit e il 16 a Helsinki per vedersi con Vladimir Putin. «Un filotto che fa fibrillare molte cancellerie, e infatti già si agitano gli sherpa: ex ambasciatori, esperti e giornalisti impegnati a sottolineare quanto sarebbe rischioso, per l’Europa, se il criticone Trump, magari incautamente perché è uno sciocco, promettesse chissà che allo Zar». E allora, aggiunge Scaglione, «vai con il Russiagate e le bufale accluse, mentre ancora aspettiamo le famose chiarissime prove dell’avvelenamento col gas nervino “made in Russia” di Skripal padre e figlia».È chiaro, chiosa “Linkiesta”: se produci carri armati e bombardieri, ti fa comodo annunciare un giorno sì e uno no che il nemico è alle porte. Ma i governi di Francia, Germania, Italia e Spagna credono davvero che l’Armata Rossa aspetti solo il momento di marciare verso Ovest? E che non ci sarebbero stati Trump, Brexit, Catalogna e governo gialloverde in Italia se gli hacker russi non avessero digitato come pazzi? Quello che la Ue non riesce a capire, sostiene Scaglione, è che siamo entrati in un mondo nuovo: «La vecchia idea che tutti insieme si commercia, si guadagna e si sorride è morta con la crisi finanziaria del 2008. E l’idea, ancor più vecchia, che basta nascondersi sotto le gonne dello Zio Sam, delle sue rivoluzioni colorate e dei suoi convenienti cambi di regime, è morta in Ucraina e in Siria». Beninteso: «Non è Trump che ha cambiato il mondo, è il mondo cambiato che ha fatto arrivare lui alla Casa Bianca. La Ue è un nano politico anche perché non vuole accettarlo. E prima di decidere alcunché si chiede “ma questo piacerà o non piacerà a Putin?”, mentre il suo vero problema è quel che piace o non piace a Trump».Il “Washington Post” di Jeff Bezos, patron di Amazon, cioè «uno dei quotidiani che fanno da buca delle lettere al Deep State che non ama Donald Trump», ha puntualmente anticipato la notizia: il Pentagono studia l’ipotesi di ritirare dalla Germania i 35.000 soldati americani che vi sono dislocati, presenza che data dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. «I soliti portavoce hanno smentito, ma senza affannarsi», scrive Fulvio Scaglione su “Linkiesta”: sono studi, dicono ufficialmente, che si fanno con regolarità per verificare il rapporto costi-benefici degli investimenti della difesa. Quindi l’ipotesi è stata presa in esame, ed chiaro che anche solo parlarne è un fatto clamoroso, osserva Scaglione, specie se si pensa che Trump «ha accumulato un intero catalogo di attacchi alla Germania di Angela Merkel, dalle critiche sulle politiche migratorie (comprensive di pubblici apprezzamenti nei confronti di Horst Seehofer, il rivale della cancelliera) alle ironie sul tasso di criminalità, dalle pressioni perché venga mandato a monte il progetto del gasdotto South Stream 2 in arrivo dalla Russia (a favore, chiaro, del gas americano) ai dazi sulle esportazioni tedesche di acciaio e alluminio». Forse la Merkel “se l’era cercata”, «andando negli Usa a fare a Trump la predica sul Muro al confine con Messico, lei che aveva convinto l’Europa a sganciare sei miliardi di euro a Erdogan perché il Muro lo facesse la Turchia».
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Da Fassino a Salvini, il sovranismo nato nel 2005 in val Susa
Matteo Salvini si rassegni: dovrà davvero governare, ininterrottamente, per i prossimi trent’anni. Chi lo dice? La statistica. O meglio: la cronometrica precisione (a rovescio) delle famosissime previsioni-auspicio formulate da Piero Fassino. «Trent’anni di Salvini? Vediamo se gli darannoi i voti», ha detto l’ex dirigente del Pci-Pds, quindi ex ministro, ex capo dei Ds ed ex sindaco di Torino. Non gli era bastato, scrive Massimo Mazzucco, il celebre pronostico su Beppe Grillo, messo alla porta quando chiese – provocatoriamente – di partecipare alle inedite primarie del neonato Pd. «Grillo vuole governare? Fondi un suo partito – disse Fassino – e poi vediamo se prenderà i voti». Non pago, in qualità di primo cittadino torinese, lo stesso Fassino concesse una spassosa replica, rivolgendosi a Chiara Appendino, allora all’opposizione, portavoce a Torino della forza politica puntualmente fondata, nel frattempo, da Grillo: «Vuole governare lei? Si candidi come sindaca, e vedremo se la eleggono». La Appendino oggi siede al posto di Fassino, mentre gli uomini di Grillo governano l’Italia insieme a Salvini? C’è il rischio che lo facciano in eterno, dice Mazzucco sul blog “Luogo Comune”, stando all’ormai leggendaria chiaroveggenza fassiniana: «Ora, con il suo nuovo vaticinio – se la ride Mazzucco – Fassino ha appena regalato trent’anni di dominio politico a Matteo Salvini. Che uomo fantastico, questa “punta di diamante” del Pd».Tutto si può imputare, a Fassino, tranne la mancanza di schiettezza. Gran faticatore della politica, vissuta come missione palingenetica ai tempi eroici del Pci berlingueriano, Piero il Lungo – come lo ribattezzò Giampaolo Pansa – incarna bene le luci e le ombre, in versione sabauda, dell’ex sinistra incarnata dall’Elefante Rosso. Una sinistra rivoluzionaria solo a parole, ma in realtà prudentemente riformista, che visse il trauma della caduta del Muro di Berlino come la fine di un universo marmoreo e basato, per settant’anni, sull’indicibile tradimento di una grande promessa. Più di ogni altra città Italia, forse, proprio Torino ha rivelato la natura doppia di quello che fu il partito di Togliatti: orizzonti quasi onirici di riscatto sociale per il Quarto Stato ma, al tempo stesso, estremo pragmatismo nell’azione di governo, attraverso l’inedita alleanza di potere – non dichiarata – con il vertice industriale e finanziario dell’ex capitale Fiat, alle prese col declino operaio e l’incerta riconversione post-industriale. Negli anni più sguaiati del berlusconismo, con Roma e Milano trasformate in trincee mediatiche per scatenare la caccia all’immigrato clandestino presentato come pericoloso criminale, Torino ha brillato per misura, equilibrio e capacità di integrazione, smussando gli spigoli e investendo al meglio nelle strategie di convivenza: la città di Fassino e Chiamparino, che nell’immediato dopoguerra esibiva cartelli-vergogna del tipo “non si affittano case ai meridionali”, è diventata la metropoli italiana probabilmente più tollerante e con meno problemi di micro-criminalità, proprio grazie alle politiche sociali sapientemente messe in atto dagli esponenti del futuro Pd.A cancellare però l’illusione che il consenso politico possa essere eterno, anche quando motivato da solide ragioni come la buona amministrazione di una grande città, ha provveduto un territorio periferico ma contiguo, la valle di Susa, da sempre “seconda casa” dei torinesi che amano la montagna e lo sci. Spaventata dal progetto di una maxi-opera faraonica come la linea Tav Torino-Lione, potenzialmente devastante e classificata come desolatamente inutile dai massimi esperti dell’università italiana, la valle di Susa – una comunità di quasi centomila abitanti, orientata a sinistra anche in virtù della sua tradizione antifascista – si è sentita letteralmente tradita dai suoi storici rappresentanti politici. Gli uomini del centrosinistra rimasero risolutamente sordi di fronte alla protesta popolare esplosa nel 2005 in forma di esemplare rivolta nonviolenta, capitanata dai sindaci in fascia tricolore: una quasi-sommossa, che riuscì a fermare per ben cinque anni l’avvio dei cantieri. Per la valle di Susa, dalla sponda prodiana, si spesero comunisti come Paolo Ferrero e verdi come Edo Ronchi – ma non Sergio Chiamparino, passato disinvoltamente dalla guida di Torino a quella della Compagnia di San Paolo, potente fondazione bancaria, per poi tornare tranquillamente alla politica nei panni di presidente della Regione Piemonte, come se finanza e democrazia oggi non rappresentassero un bionomio stridente.Dalla parte dei valsusini si è invece schierato in modo nettissimo Beppe Grillo, protagonista di interventi decisivi – a livello politico – per rinfrancare la popolazione, con la promessa che non sarebbe più stata abbandonata al suo destino di paura, angoscia e rabbia. E’ come se il Movimento 5 Stelle avesse conquistato Torino partendo proprio dalla negletta valle di Susa, territorio accanitamente emarginato e isolato, infine anche criminalizzato. Con almeno dieci anni di anticipo sul resto del paese, proprio la valle di Susa – nel 2005 – sperimentò sulla propria pelle il crollo della vecchia politica fondata sulla presunta dicotomia destra-sinistra. Fu chiaro, ai valsusini, che si imponeva un’altra visione del mondo: da una parte la democrazia, cioè il rispetto della sovranità popolare, e dall’altra le oscure ragioni di un’oligarchia finanziaria che, in vent’anni, non ha ancora avuto modo di spiegare chiaramente a cosa mai servirebbe, davvero, quell’ipotetico super-treno che forse al Pd è già costato anche la clamorosa perdita di Torino. Inutilmente, i valsusini si erano rivolti – in prima battuta – proprio a Piero Fassino, figlio di un comandante partigiano della valle. Ma quando Fassino salì in montagna a commemorare i caduti, tra cui gli uomini di suo padre, gli esponenti locali del Pd lo rampognarono soltanto per certe alleanze locali con Forza Italia, e non invece per il silenzio assordante – del partito, e dello stesso Fassino – sulla grande opera percepita dalla popolazione come un’autentica calamità. Così oggi il Pd sembra guardare – con gli occhi smarriti di Fassino – all’inspiegabile trionfo di Salvini, emblema di un’Italia che l’ex centrosinistra ha smesso, da molto tempo, di capire.Matteo Salvini si rassegni: dovrà davvero governare, ininterrottamente, per i prossimi trent’anni. Chi lo dice? La statistica. O meglio: la cronometrica precisione (a rovescio) delle famosissime previsioni-auspicio formulate da Piero Fassino. «Trent’anni di Salvini? Vediamo se gli daranno i i voti», ha detto l’ex dirigente del Pci-Pds, quindi ex ministro, ex capo dei Ds ed ex sindaco di Torino. Non gli era bastato, scrive Massimo Mazzucco, il celebre pronostico su Beppe Grillo, messo alla porta quando chiese – provocatoriamente – di partecipare alle inedite primarie del neonato Pd. «Grillo vuole governare? Fondi un suo partito – disse Fassino – e poi vediamo se prenderà i voti». Non pago, in qualità di primo cittadino torinese, lo stesso Fassino concesse una spassosa replica, rivolgendosi a Chiara Appendino, allora all’opposizione, portavoce a Torino della forza politica puntualmente fondata, nel frattempo, da Grillo: «Vuole governare lei? Si candidi come sindaca, e vedremo se la eleggono». La Appendino oggi siede al posto di Fassino, mentre gli uomini di Grillo governano l’Italia insieme a Salvini? C’è il rischio che lo facciano in eterno, dice Mazzucco sul blog “Luogo Comune”, stando all’ormai leggendaria chiaroveggenza fassiniana: «Ora, con il suo nuovo vaticinio – se la ride Mazzucco – Fassino ha appena regalato trent’anni di dominio politico a Matteo Salvini. Che uomo fantastico, questa “punta di diamante” del Pd».
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Sos Disruption: entro 15 anni sparirà un mestiere su due
Il lavoro di oggi? Sparirà. E quello di domani sarà diverso, gestito in tandem con le macchine. Sta cambiando tutto alla velocità della luce, ma nessuno ce lo sta dicendo: né la politica, né i media, né tantomeno la scuola. Lo afferma Paolo Barnard, il reporter che – per primo, nel saggio “Il più grande crimine” – ricostruì la genesi dell’Ue e dell’Eurozona in termini di criminalità politica da parte dell’élite finanziaria neo-feudale, orientata al “genocidio economico” nel quale si dibatte l’Europa, Italia in primis. Riletto oggi, alla luce della rivoluzione copernicana già in atto nel mondo del lavoro, persino un abominio “golpista” come l’imposizione dell’euro fa quasi sorridere. Motivo: il futuro ci sta venendo addosso con una rapidità inimmaginabile. Più della metà dei mestieri attualmente svolti in Occidente diverranno obsoleti perché antieconomici: al posto di operai, funzionari e ingegneri ci saranno robot evolutissimi, macchine auto-apprendenti forgiate dal Machine Learning garantito da computer “quantistici”. Si chiama Tecnological Disruption, e secondo Barnard è un cambiamento «così potente da trasformare in breve tempo la vita umana sul pianeta Terra». Precedenti nella storia: «La scoperta del fuoco e quella dell’agricoltura, la matematica, la stampa, le macchine a vapore, l’elettricità».Le nuove tecnologie digitali potenziate dall’Artificial Intelligence stanno cambiando davvero tutto: sarà la fine del mondo, così come l’abbiamo conosciuto. E nessuno, a quanto pare, se ne sta accorgendo. Parlano i numeri, già drammatici secondo tutte le proiezioni ufficiali: a livello globale, da 1 a 2 miliardi di lavoratori perderanno il posto entro il 2030, la maggioranza in Occidente. A farne le spese saranno impiegati contabili e amministrativi, aziende manifatturiere e manodopera produttiva, insieme a costruzioni ed estrazioni minerarie, ma anche avvocatura e giudici, lavori di installazione e manutenzione, operatori di gru e trattoristi, meccanici e riparatori. Spariranno posti di lavoro nelle arti e nel design, nell’intrattenimento, nello sport e nei media, insieme a molte mansioni nel settore turistico. In compenso, dalla rivoluzione tecnologica usciranno rafforzati business e finanza, manager, informatica e matematica, architettura e ingegneria, ma anche rappresentanti, camerieri, specialisti in istruzione e formazione, pensatori creativi e manager per la Disruption – nonché farmacisti, infermieri e operatori socio-sanitari.«Entro il 2030 si stima che fino a 375 milioni di posti di lavoro, globalmente, dovranno essere “reskilled”, cioè riqualificati», scrive Barnard nel suo blog. Ad esempio: nel settore manifatturiero, dicono gli esperti, cadranno mansioni nelle mani dell’Artificial Intelligence e della robotica, ma il lavoratore potrà essere re-impiegato in fasi diverse del lavoro, aumentando la produttività: gli servirà però un “reskilling”. Alibaba, colosso cinese dell’e-commerce, ha calcolato che i suoi robot da magazzino risparmiano a ogni magazziniere almeno 50.000 mosse fisiche al giorno, riducendone molto lo stress fisico ma soprattutto liberandogli tempo per aumentarne la produttività ma senza prolungare l’orario di lavoro. Naturalmente, scrive Barnard, Alibaba i suoi dipendenti li ha “reskilled”. Quindi, «l’impresa del “reskilling” di milioni di italiani non è un optional, è l’aria da respirare, e ogni singolo analista al mondo oggi lo dice chiaro: i governi giocano qui il ruolo principale con un intervento generoso nei bilanci». Ma una nazione con vincoli di budget «al limite del sadismo sociale», per citare l’economista Giulio Sapelli, come diavolo farà a riqualificare sul lavoro due o tre milioni di persone?Oltretutto, il “reskilling” è ormai un ordine di scuderia a tappe forzate: «Lasciar languire nella terra di nessuno i lavoratori in transito significa perderli per strada, con danni economici enormi». Si domanda Barnard: «Come farà l’Italia, soffocata nei bilanci dall’Eurozona, quando tutti gli esperti mondiali invocano chiaramente interventi di governo?». Già ora la Disruption, nelle parole di 20.000 imprenditori europei di tutti i settori, «sta imponendo un aumento vertiginoso nella richiesta di alcune professioni, che si prestano per assorbire sia una quota di futuri licenziati (“reskilled”), che i giovani post-laurea». La rivoluzione in arrivo, dice Barnard, avrà bisogno di nuovissime figure professionali, come i rappresentanti di ultima generazione: «Occorrono disperatamente venditori che siano formati prima di tutto a spiegare quei prodotti, poi a venderli a privati e governi, ma anche per raggiungere nuove fasce di clienti». Poi gli analisti dei dati: «Non occorre un dottorato per questa mansione, ma di certo un buon “reskilling” anche in assenza di laurea». Le aziende, aggiunge Barnard, oggi sanno che Big Data è la scoperta “nucleare” del commercio di prodotti e servizi: bisogna quindi «saper analizzare e trarre conclusioni intelligenti dall’immane massa di dati che la Disruption mette a disposizione».«Il successo si gioca qui, nel terzo millennio: la richiesta di analisti dei dati è destinata a esplodere fra pochissimi anni». Per i laureati brillanti «c’è già ora spazio per ricoprire un ruolo dirigente richiestissimo nei maggiori settori di commercio e servizi, cioè il Manager della Disruption: è colui che si specializza nel guidare l’azienda (piccola, media, grande) ma anche il settore pubblico, nella tempesta di cambiamenti che l’era digitale porta ogni minuto». In generale, proprio grazie alla Disruption, entro il 2030 sono previste globalmente 130 milioni di nuove assunzioni in sanità generale e assistenza agli anziani, nonché 50 milioni nelle tecnologie e altri 20 milioni nel settore energetico. Le professioni del tutto nuove che si prevede nascano grazie alla Disruption, spiega Barnard, sono «gli specialisti intra-umani, cioè intelligenza emotiva, capacità di persuasione, gestori delle emozioni umane nel sociale, e i creatori di motivazione; i pensatori creativi in ogni settore, sia scientifico che industriale che amministrativo, poiché essere super-specializzati ma ottuse ‘scatole di dati’ non innova nulla in azienda». E ancora: serviranno «gli ottimizzatori delle energie rinnovabili e gli operatori nella lotta al cambiamento climatico».Ogni singolo esperto in “occupazione & Disruption”, aggiunge Barnard, “grida” sempre la medesima cosa, che la Consultancy McKinsey & Co. ha espresso nel dicembre 2017 con una frase lapidaria: «La moltiplicazione dei lavori potrebbe più che compensare le perdite a causa dell’automazione. Ma nulla accadrà per magia – richiederà che i governi e il business sappiano creare le opportunità». E qui esplode il problema-Italia: chi si farà carico della formazione permanente imposta dalla Disruption, dati gli attuali limiti drammatici imposti alla spesa pubblica? La scuola, scrive Barnard, deve avere una conoscenza avanzatissima della Disruption in continuo aggiornamento, perché è molto probabile che una parte delle competenze insegnate oggi saranno obsolete per il mondo del lavoro nel giro di 5-8 anni, in media. Con un ritardo di questo genere, nelle scuole e università, cosa farà l’Italia? Ha qualche idea in proposito, il governo gialloverde? Il Miur, ministero dell’istruzione, università e ricerca, ammette di essere in emergenza: i dati Ocse dicono che ogni quindicenne italiano usa il computer in classe molto al di sotto della media europea (molto meno dei greci, e quasi un terzo del tempo di un australiano).Sempre per l’Ocse, i docenti italiani sono in assoluto i meno preparati, in Europa, all’era digitale. Ancora: nel Digital Economy Index, l’Italia languisce al 25mo posto su 28 paesi, ha lacune dappertutto. E nella velocità di connessione alla Rete è in fondo alla classifica europea con un umiliante 9.2 Mbps, davanti solo a Grecia e Cipro. Nelle aule si soffre moltissimo, di questo:«Il processo di diffusione della scuola digitale negli ultimi anni è stato piuttosto lento», confessa il Miur, che denuncia «azioni spesso non incisive e non complessive». Aggiunge Barnard: «Sapere è lavoro, ma un buon lavoro – oggi, nella Disruption – significa sapere molto. E con una situazione del genere c’è da mettersi le mani nei capelli». Nessuna area italiana è inclusa tra gli “Innovator leaders” europei. Solo il Piemonte figura tra gli “Strong innovators”, mentre il resto della penisola è in terza posizione, tra i “Moderate innovators”, mentre la Sardegna è relegata tra i “Modest innovators” come Croazia, l’Estremadura, l’Est Europa più povero e arretrato. Una mappa impetosa: «L’Italia non solo sprofonda nell’economia tradizionale (a causa soprattutto dell’Eurozona), ma colpevolmente i suoi governi degli ultimi 15 anni l’hanno tenuta fuori dalla realtà, cioè dalla Disruption, e infatti siamo “gialli”, cioè quasi ultimi nell’innovazione, e dunque fra gli ultimi nelle prospettive di lavoro dei nostri figli».Generalmente, aggiunge Barnard, un paese moderno ospita oltre 900 mestieri. E dato che «una buona parte delle nuove tecnologie della Disruption stanno sbocciando in queste ore o sbocceranno appena domani», è impossibile essere precisi. Ma una cosa è più che evidente: a dettare legge sarà la tecnologia dell’intelligenza artificiale di Machine Learning, «perfetta per sostituire i lavori ripetitivi d’ufficio, per far funzionare la logistica aziendale, per far “pensare” i robot nelle industrie, ma anche per sostituirsi all’umano in compiti complessi all’interno di molti mestieri sofisticati». Giusto per dare al pubblico un’idea del grado di penetrazione del Machine Learning, cioè del fatto che davvero saranno pochissimi i lavori di domani che non avranno almeno in qualche segmento un’intelligenza artificiale a sostituire qualcosa o qualcuno, la Mit Initiative sull’economia digitale «afferma che il mestiere in assoluto più “blidato” contro la Disruption è il… massaggiatore». All’altro estremo, invece, figurano «le mansioni che sembrano davvero destinate a essere falcidiate», ovvero «gli impiegati, i contabili, gli amministrativi in generale».Se è scontato che fra i “colletti blu” (diplomati, ma senza laurea) tanto dovrà cambiare, «molti genitori e studenti ancora non comprendono purtroppo cosa accadrà alle professioni dei “colletti bianchi”, degli specializzati, che siano medici, avvocati, commercialisti, o persino ingegneri informatici (esempio estremo, ma anche fra loro cadranno teste con l’Artrificial Intelligence)». Parla da solo il caso americano: nei primi 15 anni di digitalizzazione dell’economia Usa, ricorda Barnard, le disparità di redditi fra “colletti blu” (licenza liceale) e “colletti bianchi” (lauree) schizzò in alto, perché i secondi – grazie alla formazione digitale universitaria – poterono approfittare dei nuovi lavori ben pagati, gli altri no e subirono in pieno l’impatto devastante del crash bancario del 2008. Addirittura, il fenomeno ha raggiunto un tale livello di gravità che fra i “colletti blu” in America c’è un’epidemia di suicidi per disperazione, descritti in uno studio del 2014 firmato da Anne Case insieme ad Angus Deaton, Premio Nobel per l’Economia. «Vero è che gli Stati Uniti sono un incubo d’abbandono sociale dei deboli, dove il welfare quasi non esiste», ammette Barnard. In compenso, l’Europa si sta auto-sabotando con i tagli sanguinosi al suo welfare.«I criminosi limiti di spesa pubblica che l’Ue impone agli Stati membri – dice Barnard – escludono in via categorica che i vari schemi di Reddito di Cittadinanza abbiano un potere di fuoco sufficiente a evitare al nostro paese un’apartheid fra inclusi ed esclusi nella Disruption». In altre parole: «Finché Eurozona sarà – insiste il giornalista, rivolto ai lettori – il realismo mi costringe a dirvi che l’unica arma che rimane ai vostri figli per difendersi dal destino denunciato da Angus Deaton e Anne Case è una formazione solidissima ai nuovi lavori della Disruption (che non sono solo tecnologia)». Dunque il messaggio per genitori e ragazzi è chiarissimo: «La seconda ondata di digitalizzazione in corso oggi con la Disruption porta soprattutto con sé il pericolo di un enorme divario nei redditi, oltre a una sostanziale dose di lavori perduti». Per mettere al riparo i nostri figli, e i giovani già oggi al lavoro, secondo Barnard c’è una sola arma concreta: per i giovanissimi una formazione scolastica e universitaria più aggiornata possibile, che li presenti al mondo del lavoro come appetibili, e per i già impiegati l’impegno di Stato e aziende nella riqualificazione “a vita”. Il rischio fatale, per l’Italia del lavoro, è di rimanere tragicamente indietro: «Significherebbe un prossimo secolo di arretratezza e bassa economia per tutti i nostri giovani e per i loro figli». Nel 2016 il World Economic Forum lo disse senza mezzi termini: «Chi non si prepara affronterà costi sociali ed economici enormi».Attenzione: qualcosa di analogo a quanto sta per accadere (e di cui nessuno parla) è già avvenuto, nella storia. Per dare un’idea della dimensione planetaria del problema, Barnard cita lo scozzese James Watt: «Nel 1775 diede vita alla più dirompente Disruption della storia con l’invenzione della macchina a vapore». Fece morire di colpo i vecchi mestieri, ma al tempo stesso fece esplodere lo sviluppo sociale umano, il che significa benessere e quindi possibilità democratiche. Per 9.700 anni filati, scrive Barnard, le condizioni di vita del popolo comune «rimasero sostanzialmente identiche, a un livello abominevole, spesso peggio degli animali selvatici». Poi arrivò la Disruption di Watt – e delle scienze post-Galileo con l’elettromagnetismo di Faraday e di Maxwell – e in Occidente tutto cambiò di colpo, perché cambiò il lavoro, aumentarono i redditi e con essi la rivendicazione dei diritti. «E’ vero che la Disruption di allora si portò dietro una buona dose di lacrime e sangue prima di darci la modernità del benessere, che tuttavia furono nulla in confronto a 9.700 anni di standard di vita abietti oltre l’immaginabile. Ma l’altra faccia, gloriosa, di quell’esplosione tecnologica fu di fornire alle lotte sociali mezzi tecnologici di diffusione, e quindi di successo, impensabili prima, fino appunto alla moderna civiltà».Oggi, sottolinea Barnard, la Disruption delle nuove tecnologie digitali potenziate dall’Artificial Intelligence «sta scatenando un’altra storica impennata dell’umanità, che è però di molto superiore a quella di Watt per l’enorme potere tecnologico odierno. E di nuovo, tutto si gioca su come cambierà il lavoro: non chissà quando, ma entro il 2030». Demis Hassabis, Ceo di Google DeepMind (azienda che sta al centro della galassia “Ai”), ha detto: «Il nostro goal è di conquistare l’intelligenza, poi di usarla per risolvere tutti gli altri problemi». Macchine intelligenti, al posto di esseri umani. Ed enorme disparità tra chi resterà al passo e chi sarà tagliato fuori. Lo confermano gli studi delle maggiori “Consultancies” del mondo: Pwc Uk, Deloitte, McKinsey, Accenture. Tutti d’accordo, insieme agli accademici: almeno nella prima fase, la Disruption fondata sull’intelligenza artificiale (robotica, nuove tecnologie), falcerà milioni di posti di lavoro. Ma la stessa Disruption, spiega Barnard, offre possibilità di recupero nella riqualificazione, nell’aumento di richiesta per certe professioni e nel fatto che nasceranno lavori che oggi non esistono.Tutto dipende da due fattori decisivi: la velocità dei governi nel legiferare misure per cavalcare la Disruption, favorendo la nascita dei nuovi lavori, e l’intelligenza dei datori di lavoro «nel capire che l’epoca dell’egoismo del profitto è morta, gli porterà solo fallimenti certi». Il futuro digitale «impone intelligenza», il che significa «coordinamento fra aziende, e fra di esse e lo Stato». Di fatto, avverte Barnard, con la Disruption «oggi saltano le politiche di creazione di lavoro, in Occidente, che i nostri padri e noi abbiamo conosciuto finora». Problema: «I contemporanei di un fenomeno epocale di cambiamento faticano sempre a svegliarsi di fronte al nuovo, e questo si traduce in drammi». Per dire: «Quanti italiani oggi leggono i giornali al mattino cercando ansiosamente notizie sulle politiche del lavoro del ministro Di Maio per la Disruption? Nessuno. Eppure la leadership mondiale non ha più dubbi sul fatto che essa ribalterà, come mai prima nella storia, proprio l’occupazione di numeri impressionanti nel globo». Certo, i politici «hanno il vincolo del breve mandato e l’ossessione cieca del voto-subito entro il mandato, per cui non s’impegneranno mai in politiche e dibattiti che all’italiano medio sembrano fantascienza». Idem per i media: «Sanno che la Disruption è una news che oggi si può vendere agli italiani solo al 300esimo posto dopo la casta, la corruzione, il politici-ladri, gli immigrati, le polemiche Tv, e trattano il tema principalmente come folklore da futuristi. Risultato: non un singolo organo di stampa italiano sta davvero informando su come sarà stravolta l’economia, la politica e la fabbrica sociale di ogni paese moderno per mano della Disruption».E così si compie un circolo vizioso devastante per l’Italia, destinata ad arrancare come fanalino di coda «mentre Francia, Germania, Svezia, Svizzera, Gran Bretagna, Russia, Cina, Sud-Est Asiatico e ovviamente gli Usa si saranno già spartiti l’immensa torta del lavoro e del Pil da Disruption». Risultato: «I giovani italiani nel precariato, in preda alla disoccupazione e ancora disperatamente dipendenti da quel rivolo che gli rimane del risparmio di nonni e genitori degli anni 70’-90’», prigionieri di un paese sempre più confinato tra i “Pigs” con Portogallo, Grecia e Spagna – non più Piigs, annota Barnard, «perché invece l’Irlanda sta capendo e cavalcando la Disruption, è ha già preso il volo da quell’acronimo infame». Ma non è destino degli dèi che debba davvero andare così, aggiunge il giornalista: a sta a noi capire la Disruption per sapere come inciderà sul Pil e sull’occupazione. Ma non c’è tempo da perdere: «La velocità di sviluppo delle nuove tecnologie per il lavoro è talmente forsennata che è già stato calcolato che diversi “skills” – così si chiamano le competenze centrali per la Disruption – che vengono insegnati agli studenti oggi, tempo che gli studenti si presenteranno ai colloqui di lavoro in aziende saranno già obsoleti».In parole semplici: «Mentre tu studi intensamente un’applicazione di Machine Learning per l’edilizia, Machine Learning ne ha scovata una migliore, tu ti presenti al colloquio di lavoro e il datore se ne fa poco, di te». Scrive il Mit di Boston: le tecnologie cambiano i modelli di business e molto spesso questi si traducono in uno sconvolgimento simultaneo del set di “skills” che le aziende richiedono, e questo già oggi crea difficoltà nell’assumere personale. Velocità: «Sarà un problema enorme proprio sul mercato del lavoro dei giovani, e altrettanto enorme per eventuali programmi di apprendistato, che rischiano di diventare degli autogoal con sprechi di finanziamenti enormi», osserva Barnard. Attenzione, però: le stesse tecnologie di Big Data possono dare al governo «un inimmaginabile potere di efficiente governanace». La stessa “cloud” potrà essere usata da tutto il sistema produttivo italiano di beni e servizi in un dialogo diretto, in tempo reale, col ministero dell’istruzione. Pubblico e privato potrebbero scambiarsi informazioni istantanee su «come sta cambiando la natura degli “skills” dentro le aziende, gli ospedali e le varie istituzioni». Lo stesso Miur, come sollecitano gli esperti internazionali, «dovrà avere l’elasticità e la prontezza di riflessi di trasmettere immediatamente a scuola e università il messaggio dei datori di lavoro», per armonizzare domanda e offerta in base ai nuovi parametri in costante evoluzione.Fantascienza? Non ci sono alternative, par di capire. «Questo è il tipo di ambizioso progetto che un paese oggi deve essere in grado d’intraprendere se davvero è serio sulla difesa del lavoro», sostiene Barnard, auspucando «un salto innovativo, in linea con gli attori vincenti nella Disruption». Scrive McKinsey Global: «I governi devono totalmente riconsiderare i modelli scolastici odierni. La questione è urgente, e devono mostrare una leadership di grande coraggio nel riscrivere i curricula. E’ un’elasticità che da decenni il mondo del lavoro attende». Oggi, infatti, il “reskilling” è sulla bocca di tutti gli operatori economici. Per Barnard, a salvare il sistema-Italia sarà un “reskilling” (o “upskilling”) dei lavoratori, da condurre a vita, per ogni settore del Pil italiano. «Dovrà essere intelligente, il che significa innanzi tutto che va fatto in partnership con il settore privato dell’Italia, il quale deve saper dimostrare una “vision” ben oltre la sua tradizionale e provinciale parcellizzazione». Soprattutto, le tecnologie di Big Data «dovranno essere usate da governo e datori di lavoro per “better forecasting data and planning metrics”, cioè saper prevedere le svolte e pianificare con largo anticipo la richiesta dei talenti, su cui poi appunto lanciare in tutto il paese programmi di “reskilling” (o di “upskilling”) con chirurgica precisione».Dunque, secondo Barnard, l’Italia è alla storica sfida dell’occupazione nell’era della Disruption. «Il potere globale di quest’ultima è senza limiti, ma gli Stati possono governarla per tutelare l’impiego nella colossale tempesta dei cambiamenti». In questo sforzo, aggiunge, il governo deve comprendere un aspetto cruciale che distingue le tecnologie della Disruption: si dividono infatti in due rami, quelle di tipo Enabling e quelle di tipo Replacing. «La Disruption porterà sia una richiesta di lavori già esistenti riformulati in nuove versioni, che nuove professioni che oggi non esistono». In questo caso, nella versione Enabling, aprirà vasti bacini di posti di lavoro ma, al tempo stesso, spazzerà via schiere di mestieri perché le macchine “pensanti” li rimpiazzeranno (Replacing, appunto). Ne consegue una scelta politica di orizzonte: «E’ totalmente futile ed economicamente distruttivo continuare a spendere sia fondi pubblici che fondi privati (delle famiglie) per formare giovani, o per incoraggiare lavori, destinati alla categoria dove le tecnologie saranno di tipo Replacing, poiché significa destinare esseri umani a un suicidio lavorativo certo».Per Barnard, l’Italia dovrà quindi «investire massicciamente nell’adozione del maggior numero di tecnologie Enabling per ovvi motivi di creazione di lavoro», ma dovrà anche «essere scaltra nell’incoraggiare quelle che si adattano meglio alla struttura sociale, alla conformazione territoriale e produttiva del nostro paese». Un esempio concreto? «Siamo uno dei popoli più longevi del mondo, perciò la cura extra-ospedaliera dei nostri anziani arricchita dalle nuove tecnologie Enabling del settore è garanzia di creazione d’innumerevoli mansioni a ogni livello di complessità (settore del Personal Care). Sono mansioni che saranno utili a nuovi impieghi sia per i cittadini meno “skilled” che per gli specialisti. La medesima strategia va applicata alla nostra struttura architettonica, geografica, energetica, sempre per generare ampio impiego». Al problema della Disruption, in questi mesi, Barnard ha dedicato il massimo impegno, lavorando in solitudine, convinto che l’umanità sia ormai di fronte «al più dirompente cambiamento occupazionale dal 1775 a oggi», dai tempi della macchina a vapore. «Continuo a ripeterlo: le soluzioni a problemi sistemici devono essere sistemiche, il resto sono truffe vendute da politici cinici a un pubblico stupido, i cui figli poi piangeranno per generazioni».Il lavoro di oggi? Sparirà. E quello di domani sarà diverso, gestito in tandem con le macchine. Sta cambiando tutto alla velocità della luce, ma nessuno ce lo sta dicendo: né la politica, né i media, né tantomeno la scuola. Lo afferma Paolo Barnard, il reporter che – per primo, nel saggio “Il più grande crimine” – ricostruì la genesi dell’Ue e dell’Eurozona in termini di criminalità politica da parte dell’élite finanziaria neo-feudale, orientata al “genocidio economico” nel quale si dibatte l’Europa, Italia in primis. Riletto oggi, alla luce della rivoluzione copernicana già in atto nel mondo del lavoro, persino un abominio “golpista” come l’imposizione dell’euro fa quasi sorridere. Motivo: il futuro ci sta venendo addosso con una rapidità inimmaginabile. Più della metà dei mestieri attualmente svolti in Occidente diverranno obsoleti perché antieconomici: al posto di operai, funzionari e ingegneri ci saranno robot evolutissimi, macchine auto-apprendenti forgiate dal Machine Learning garantito da computer “quantistici”. Si chiama Tecnological Disruption, e secondo Barnard è un cambiamento «così potente da trasformare in breve tempo la vita umana sul pianeta Terra». Precedenti nella storia: «La scoperta del fuoco e quella dell’agricoltura, la matematica, la stampa, le macchine a vapore, l’elettricità».
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Niente bavaglio al web, Strasburgo boccia il piano Oettinger
Sventato, per il momento, il temutissimo “bavaglio” al web. L’aveva predisposto la commissione giuridica del Parlamento Europeo su input della Commissione Ue, in particolare del commissario Günther Oettinger, l’uomo che – all’indomani delle elezioni del 4 marzo – disse che sarebbero stati “i mercati” a insegnare a gli italiani come votare. In pratica: con il pretesto della revisione (necessaria) della tutela del copyright, ferma al 2001, l’Unione Europea avrebbe, di fatto, proibito la libera circolazione di contenuti, idee e immagini su Internet, mettendo a tacere blog e social. Ma il passaggio democratico cercato dalla Commissione – la validazione (peraltro non vincolante) del Parlamento Europeo – ha dato esito negativo: 318 i voti contrari e 278 i favorevoli, più 31 astenuti. Merito anche della tambureggiante opposizione scatenatasi proprio via web, a partire dall’allarme lanciato in Italia da Claudio Messora su “ByoBlu”: quasi un milione le firme raccolte in pochi giorni dalla petizione online su “Change.org”. «Oggi è un giorno importante, il segno tangibile che finalmente qualcosa sta cambiando anche a livello di Parlamento Europeo», afferma Luigi Di Maio il 5 luglio, a poche ore dal voto di Strasburgo.La seduta plenaria dell’Europarlamento, scrive il vicepremier grillino sul “Blog delle Stelle”, ha rigettato il mandato sul copyright al relatore Axel Voss, smontando l’impianto della direttiva-bavaglio. La proposta della Commissione Europea ritorna dunque al mittente, rimanendo lettera morta. Per Di Maio il segnale è chiaro: «Nessuno si deve permettere di silenziare la Rete e distruggere le incredibili potenzialità che offre in termini di libertà d’espressione e sviluppo economico». La direttiva avrebbe infatti costretto a ricorrere a speciali iter autorizzativi – anche a pagamento – per la semplice possibilità di inserire un link: procedura che avrebbe segnato in Europa la fine del web così come lo conosciamo, fondato sulla libera condivisione dei contenuti in tempo reale, attraverso la rete dei social media. «In ogni caso, anche qualora il testo fosse passato al vaglio di Strasburgo – avverte Di Maio – ci saremmo battuti in sede di Consiglio; a livello nazionale saremmo invece stati disposti a non recepirla». Lo disse subito, il leader dei 5 Stelle: se l’Ue dovesse malauguratamente adottare quella norma-vergogna, l’Italia eviterebbe di applicarla.«Voglio ringraziare tutti i nostri rappresentanti a Bruxelles e anche gli altri europarlamentari che hanno deciso di seguirci in questa battaglia per la libertà d’informazione», aggiunge lo stesso Di Maio. «Ora si apre una nuova battaglia: nella prossima plenaria si terrà infatti un dibattito politico e la possibilità di presentare emendamenti». Di Maio si dice sicuro che gli articoli più pericolosi della direttiva – l’11 e il 13 – verranno definitivamente rimossi. «Questa direttiva – spiega – riportava infatti due concetti inaccettabili: il primo prevedeva un diritto per i grandi editori di autorizzare o bloccare l’utilizzo digitale delle loro pubblicazioni introducendo anche una nuova remunerazione, la cosiddetta “link tax”, mentre il secondo imponeva alle società che danno accesso a grandi quantità di dati di adottare misure per controllare ex ante tutti i contenuti caricati dagli utenti». Assicura Di Maio: «Questo governo vigilerà affinché la libertà di Internet venga salvaguardata, senza scendere ad alcun compromesso e rifiutando ogni bavaglio».Sventato, per il momento, il temutissimo “bavaglio” al web. L’aveva predisposto la commissione giuridica del Parlamento Europeo su input della Commissione Ue, in particolare del commissario Günther Oettinger, l’uomo che – all’indomani delle elezioni del 4 marzo – disse che sarebbero stati “i mercati” a insegnare a gli italiani come votare. In pratica: con il pretesto della revisione (necessaria) della tutela del copyright, ferma al 2001, l’Unione Europea avrebbe, di fatto, proibito la libera circolazione di contenuti, idee e immagini su Internet, mettendo a tacere blog e social. Ma il passaggio democratico cercato dalla Commissione – la validazione (peraltro non vincolante) del Parlamento Europeo – ha dato esito negativo: 318 i voti contrari e 278 i favorevoli, più 31 astenuti. Merito anche della tambureggiante opposizione scatenatasi proprio via web, a partire dall’allarme lanciato in Italia da Claudio Messora su “ByoBlu”: quasi un milione le firme raccolte in pochi giorni dalla petizione online su “Change.org”. «Oggi è un giorno importante, il segno tangibile che finalmente qualcosa sta cambiando anche a livello di Parlamento Europeo», afferma Luigi Di Maio il 5 luglio, a poche ore dal voto di Strasburgo.
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Fusione Bayer-Monsanto: l’inferno che attende l’umanità
In che universo è possibile che a due delle corporations mondiali più moralmente corrotte, Bayer e Monsanto, venga permesso di unire le forze, in quello che promette di essere il prossimo stadio nell’acquisizione delle risorse agricole e farmaceutiche del pianeta?Attenzione, anticipo della trama. In questa horror-story di epiche proporzioni non si trova un Mr. Hyde: c’è solo il Dr. Jeckyll. Come nella sceneggiatura di un horror di David Lynch, la Bayer Ag, famosa per i suoi gas venefici, ha finalizzato (per la cifra di 66 miliardi di dollari) l’acquisizione di Monsanto, la multinazionale agro-chimica che dovrebbe essere sul banco degli imputati nel carcere di Guantanamo e appellarsi al Quinto Emendamento [la facoltà di rifiutarsi di rispondere alle domande], invece di godere dell’equivalente societario di protezione ed impunità per i suoi crimini contro l’umanità. Questi sono i privilegi che derivano dall’essere una corporation trasnazionale al di sopra della legge. Com’era prevedibile, la prima cosa che ha fatto Bayer dopo l’acquisizione di Monsanto, carica com’è di bagaglio extra e irregolarità etiche, è stata quella di dare inizio ad una campagna per il miglioramento dell’immagine. Come un cattivo di Hollywood, che cade in un crogiuolo di acciaio fuso e riappare più tardi sotto un’altra forma, la Monsanto è stata orwellianamente ribattezzata “Bayer Crop-Science Division”, il cui motto è: “La scienza per una vita migliore.”E comunque, la stessa Bayer è uno schermo protettivo ben piccolo per la Monsanto, considerando che lei stessa ha una storia costellata di malpratiche corporative. Oltre al suo ben noto business in rimedi per l’emicrania, questa azienda tedesca ha avuto un ruolo significativo nell’introduzione dei gas venefici sui campi di battaglia della Prima Guerra Mondiale. Nonostante il divieto all’uso di armi chimiche risalisse alla Convenzione dell’Aia del 1907, l’amministratore felegato della Bayer, Carl Duisberg, che faceva parte di una speciale commissione istituita dal ministero tedesco per la Guerra, sapeva riconoscere un’opportunità di affari, quando ne vedeva una. Duisberg aveva assistito ai primi test con i gas venefici ed era rimasto favorevolmente impressionato dalla nuova, terribile arma: «Il nemico non saprà neanche se una certa area sarà stata irrorata oppure no, e rimarrà tranquillamente al suo posto fino all’apparire dei sintomi». La Bayer, che aveva appositamente istituito un dipartimento per la ricerca e lo sviluppo degli agenti gassosi, aveva continuato a mettere a punto armi chimiche sempre più letali, come il fosgene e il gas mostarda. «Questo fosgene, che io sappia, è l’arma peggiore», aveva rimarcato Duisberg, con uno stupefacente disprezzo per la vita, quasi stesse parlando dell’ultimo tipo di insetticida. «Raccomando caldamente di utilizzare l’opportunità di questa guerra per provare anche le granate a gas».Duisberg aveva coronato il suo demoniaco desiderio. La possibilità di usare il campo di battaglia come laboratorio e i soldati come cavie era arrivata nella primavera del 1915, quando la Bayer aveva inviato al fronte circa 700 tonnellate di armi chimiche. E’ stato stimato che, il 22 aprile 1915 ad Ypres, Belgio, siano state usate, per la prima, volta circa 170 tonnellate di cloro gassoso contro le truppe francesi. Nell’attacco erano morti quasi 1000 soldati e molte migliaia erano rimasti intossicati. In totale, circa 60.000 persone erano morte nella Prima Guerra Mondiale per l’utilizzo, iniziato dalla Germania, delle armi chimiche prodotte dall’azienda di Leverkusen. Secondo Axel Koehler-Schnura, della “Coalition against Bayer dangers” [Coalizione contro i pericoli della Bayer], «il marchio Bayer richiama alla mente, in modo particolare, lo sviluppo e la produzione di gas venefici. Nondimeno, l’azienda non si è mai ravveduta del suo coinvolgimento negli orrori della Prima Guerra Mondiale. La Bayer non ha neanche preso le distanze dai crimini di Carl Duisberg».Questo comportamento pseudocriminale è continuato praticamente fino in tempi moderni. Mike Papantonio, procuratore degli Stati Uniti e presentatore televisivo, aveva parlato di una delle azioni più esecrabili di questa azienda chimica durante il programma di Thomas Hartmann, “The Big Picture”: «Negli anni ‘80 producevano un agente coagulante per emofiliaci chiamato Fattore VIII. Questo agente coagulante era risultato contaminato da Hiv, e poi, dopo il divieto governativo a venderlo qui, lo avevano esportato in tutto il mondo, infettando gente in tutto il mondo. Questa è solo una parte della storia della Bayer». Papantonio, citando il resoconto annuale della Bayer per il 2014, afferma che sull’azienda pendono 32 differenti procedimenti giudiziari in tutto il mondo. Prima di buttare nel gabinetto i vostri prodotti Bayer e tirare lo sciacquone, mettete magari da parte un’aspirina o due, perché la storia è ancora più brutta. Una delle conseguenze dirette del mostro “Baysanto” sarà un’impennata dei prezzi per gli agricoltori, che hanno già dovuto ridurre il loro tenore di vita a causa di costi insostenibili. «Gli agricoltori, negli ultimi anni, hanno già sperimentato aumenti di prezzo del 300% su ogni cosa, dalle sementi ai fertilizzanti, tutti controllati dalla Monsanto», ha riferito Papantonio ad Hartmann. «E tutti gli analisti sono del parere che questi prezzi sono destinati a salire ancora più in alto a causa di questa fusione».E comunque è difficile immaginare che la situazione possa peggiorare ancora per gli agricoltori americani, che attualmente hanno la percentuale di suicidi più alta di tutte le professioni del paese. Il tasso di suicidi per gli americani impiegati in agricoltura, pesca e silvicoltura è di 84,5/100.000 persone, più del quintuplo di quello di tutta la popolazione in generale. Questa tragica tendenza ricorda quella dell’India dove, una decina di anni fa, milioni di agricoltori avevavno iniziato la transizione dalle tecniche di agricoltura tradizionale a quelle che invece utilizzavano le sementi geneticamente modificate della Monsanto. In passato, seguendo una tradizione millenaria, gli agricoltori conservavano, come sementi, una parte del raccolto e lo riseminavano l’anno successivo. Quell’epoca, dove si seguivano gli schemi e i ritmi ben collaudati della natura, è ormai praticamente finita. Oggi, le sementi geneticamente modificate della Monsanto contengono la cosiddetta tecnologia-Terminator, e le coltivazioni risultanti sono sterili e non più in grado di germinare. In altre parole, la società produttrice delle sementi sta letteralmente giocando a fare Dio con la natura e con le nostre vite. Così, gli agricoltori indiani sono obbligati, ogni anno, a ricomprare a costi proibitivi una nuova fornitura di sementi (insieme al pesticida della Monsanto, il Round-Up).Ma il mondo avrebbe dovuto forse aspettarsi qualcosa di diverso dalla stessa azienda che è stata coinvolta nella produzione dell’agente Orange, usato dall’esercito (americano) nella guerra del Vietnam (1961-1971)? Più di 4,8 milioni di vietnamiti hanno sofferto di patologie connesse al defoliante, sparso su vaste estensioni di terreno coltivabile durante la guerra, che ha distrutto la fertilità del terreno e la produzione agricola del Vietnam. Circa 400.000 vienamiti sono morti a causa dall’uso da parte dell’esercito americano dell’agente Orange, mentre milioni hanno sofferto per la fame, le malattie invalidanti e le malformazioni congenite. Questa è l’azienda a cui abbiamo permesso, insieme alla Bayer, di controllare un quarto delle risorse alimentari del mondo intero. Tutto questo porta a chiedersi: chi è più pazzo? Bayer e Monsanto, o noi, la gente? E’ importante ricordare che la fusione Bayer-Monsanto non avviene in un vuoto corporativo. Fa parte della gara delle aziende agrochimiche mondiali per accaparrarsi le risorse alimentari del mondo. ChemCina ha acquisito la svizzera Syngenta per 34 miliardi di dollari, per esempio, mentre Dow e DuPont hanno costituito un loro impero da 130 miliardi di dollari. In ogni caso, nessuna di queste aziende ha un’immagine lorda di sangue come Bayer e Monsanto, un matrimonio diabolico che minaccia tutta la vita sulla Terra.(Robert Bridge, “Un matrimonio infernale: la fusione Bayer-Monsanto segna la condanna a morte per l’umanità”, da “Strategic Culture” del 30 giugno 2018, tradotto da “Markus” per “Come Don Chisciotte”).In che universo è possibile che a due delle corporations mondiali più moralmente corrotte, Bayer e Monsanto, venga permesso di unire le forze, in quello che promette di essere il prossimo stadio nell’acquisizione delle risorse agricole e farmaceutiche del pianeta?Attenzione, anticipo della trama. In questa horror-story di epiche proporzioni non si trova un Mr. Hyde: c’è solo il Dr. Jeckyll. Come nella sceneggiatura di un horror di David Lynch, la Bayer Ag, famosa per i suoi gas venefici, ha finalizzato (per la cifra di 66 miliardi di dollari) l’acquisizione di Monsanto, la multinazionale agro-chimica che dovrebbe essere sul banco degli imputati nel carcere di Guantanamo e appellarsi al Quinto Emendamento [la facoltà di rifiutarsi di rispondere alle domande], invece di godere dell’equivalente societario di protezione ed impunità per i suoi crimini contro l’umanità. Questi sono i privilegi che derivano dall’essere una corporation trasnazionale al di sopra della legge. Com’era prevedibile, la prima cosa che ha fatto Bayer dopo l’acquisizione di Monsanto, carica com’è di bagaglio extra e irregolarità etiche, è stata quella di dare inizio ad una campagna per il miglioramento dell’immagine. Come un cattivo di Hollywood, che cade in un crogiuolo di acciaio fuso e riappare più tardi sotto un’altra forma, la Monsanto è stata orwellianamente ribattezzata “Bayer Crop-Science Division”, il cui motto è: “La scienza per una vita migliore”.
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Il vino fa grande, nel mondo, l’Italia condannata dalla crisi
Il grande Giorgio Bocca racconta di quando i suoi partigiani discesero dalla montagna cuneese facendo tappa nelle Langhe, dove stapparono bottiglie di Nebbiolo d’autore. Ma il capo della leggendaria dinastia dei Conterno, signori del “re dei vini” sulle alture di Monforte d’Alba, tenne da parte il mitico Barolo come premio speciale, per il giorno in cui le brigate avessero liberato Torino. Sono passati settant’anni, e dell’Italia di Bocca – cresciuto al “Giorno” del maestro Italo Pietra, sull’onda sovranista e democratica dell’Eni di Mattei, vero motore dei decenni del boom – praticamente non c’è più traccia. La patria del made in Italy, già quarta potenza industriale del pianeta, è ridotta a periferia impoverita dell’Eurozona franco-tedesca, un paese depresso e popolato da 10 milioni di nuovi poveri. La “cura” Monti, magnificata dai cantori stipendiati del neoliberismo-catastrofe alla Cottarelli, ha generato la svendita del secolo: l’Italia ha perso il 25% del suo potenziale industriale, ha perduto di colpo qualcosa come 400 miliardi di Pil e ha visto crescere a livelli inauditi la piaga della disoccupazione di massa. E’ l’effetto della “svalutazione interna” prodotta dalla camicia di forza dell’euro, imposta da un’oligarchia neo-feudale che ha cancellato tutti i fondamenti dell’Italia democratica per la quale lottarono i combattenti come Giorgio Bocca.Cronologia di una retrocessione: dalle promesse (mantenute) Piano Marshall all’abominio del pareggio di bilancio, che toglie sovranità al governo. Tutto sembra perduto, si potrebbe dire, tranne alcuni singolari caposaldi italici – tra cui il vino, per esempio? Quello enologico è infatti un settore produttivo tra i più prosperi, insieme a tanta parte della nuova agricoltura: grazie all’impegno di milioni di giovani, ricorda l’economista Nino Galloni, oggi il comparto agroalimentare produce beni per 40 miliardi di euro, che l’Italia non deve più importare. Il vino, invece, lo si esporta largamente: il nostro paese ha scavalcato la Francia, divenendo il primo produttore mondiale (per quantità, non ancora per fatturato) di bottiglie pregiate. Il vino è diventato moda, fa tendenza, fa parlare di sé anche in modo stucchevole, tra guide specialistiche e ristoranti stellati. Ma nella sostanza rappresenta un doppio riscatto: a vincere è l’Italia contadina, che a sua volta fa vincere la green economy vinicola che protegge l’ambiente delle colline più belle del mondo, ricchissime di storia e di paesaggi, sempre più spesso coltivate in modo sostenibile, biologico e persino biodonamico.Il vino è terra vendemmiata e fermentata, che porta in giro per il mondo la sua essenza: è il vero passaporto di una geografia che non ha eguali sul pianeta, per intensità e bellezza, e oggi viaggia – raccontando la sua storia – grazie agli appassionati contadini di questa Italia amata in ogni continente, dal Giappone agli Usa, dove i wine-maker sono accolti quasi come star. Tutti sanno che l’origine della rinascita – fino all’attuale esplosione del prodotto – fu il dramma dell’86, la frode di produttori disonesti e il loro vino velenoso al metanolo. Nacque una normativa severissima, che nel giro di pochi anni lanciò i vini italiani tra i migliori al mondo. Non è solo una storia di Brunelli e di Baroli, di Amaroni. Non c’è da registrare solo il boom pazzesco del Prosecco. Il vino ha ridestato dal letargo l’agricoltura delle Marche e le campagne della Basilicata, le terre del Sagrantino umbro e la Campania, lanciando i nuovi super-rossi della Puglia, i bianchi di Sicilia e di Sardegna. Tutta l’Italia in un bicchiere: il vino è tra i migliori ambasciatori di un paese che non vuole arrendersi, che non intende rassegnarsi alla cupezza di un declino incomprensibile. La lingua italiana è la quarta più insegnata al mondo, dopo l’inglese, lo spagnolo e il cinese. E sempre più spesso, oggi, l’Italia parla – anche – attraverso il suo vino, “voce” inimitabile di terre che la maggior parte del pianeta ci invidia. L’unica cosa che non può fare, il vino, è raccontare quant’è atrocemente ingiusta la crisi inflitta al sistema sociale del Belpaese da cui proviene.Il grande Giorgio Bocca racconta di quando i suoi partigiani discesero dalla montagna cuneese facendo tappa nelle Langhe, dove stapparono bottiglie di Nebbiolo d’autore. Ma il capo della leggendaria dinastia dei Conterno, signori del “re dei vini” sulle alture di Monforte d’Alba, tenne da parte il mitico Barolo come premio speciale, per il giorno in cui le brigate avessero liberato Torino. Sono passati settant’anni, e dell’Italia di Bocca – cresciuto al “Giorno” del maestro Italo Pietra, sull’onda sovranista e democratica dell’Eni di Mattei, vero motore dei decenni del boom – praticamente non c’è più traccia. La patria del made in Italy, già quarta potenza industriale del pianeta, è ridotta a periferia impoverita dell’Eurozona franco-tedesca, un paese depresso e popolato da 10 milioni di nuovi poveri. La “cura” Monti, magnificata dai cantori stipendiati del neoliberismo-catastrofe alla Cottarelli, ha generato la svendita del secolo: l’Italia ha perso il 25% del suo potenziale industriale, ha perduto di colpo qualcosa come 400 miliardi di Pil e ha visto crescere a livelli inauditi la piaga della disoccupazione di massa. E’ l’effetto della “svalutazione interna” prodotta dalla camicia di forza dell’euro, imposta da un’oligarchia neo-feudale che ha cancellato tutti i fondamenti dell’Italia democratica per la quale lottarono i combattenti come Giorgio Bocca.
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Cremaschi: sono 10 milioni (non 5) i nuovi poveri in Italia
Sulla crescita della povertà tutto ciò che che oggi prevale è mistificazione. Innanzitutto i numeri: sono inferiori alla realtà o sono costruiti in modo da far apparire meno grave la situazione, scrive Giorgio Cremaschi su “Micromega”. Dal 2005 l’Istat suddivide i poveri in assoluti e relativi con due diverse classificazioni di reddito. Così oggi ci sarebbero 5 milioni di poveri assoluti e tanti altri milioni di “poveri relativi”. Ma è una distinzione che, secondo Cremaschi, serve solo ad attenuare l’impatto della catastrofe sociale che ha colpito il nostro paese (dopo l’adozione dell’euro). Tra l’altro, aggiunge, i mass media hanno tutti diffuso la notizia che i 5 milioni di poveri assoluti sarebbero il numero più alto dal 2005, come se prima fossero stati di più. No, naturalmente: il 2005 è solo l’anno di avvio della classificazione, e allora i più poveri dei poveri erano solo 1,5 milioni. In tredici anni sono triplicati. Eurostat, l’istituto europeo di statistica, usa piuttosto dei criteri sociali per contare i poveri, partendo da ciò di essenziale a cui essi debbono rinunciare. Sono considerati poveri i cittadini che, tra l’altro, hanno difficoltà a fare un pasto proteico ogni due giorni, a sostenere spese impreviste, a riscaldare a sufficienza la casa, a pagare in tempo l’affitto e a comprarsi un paio di scarpe per stagione e abiti decorosi. Sulla base di questi e altri criteri nel 2017 l’Italia risulta il paese europeo con più poveri. Sono 10,5 milioni, su un totale a livello Ue di 75 milioni. Un numero enorme, quasi pari agli abitanti di tutta la Germania.Ma i vertici europei – in guerra tra loro sull’emergenza-migranti, innescata da feroci ingiustizie contro l’Africa e il Medio Oriente – non fanno nulla per le decine di milioni che nella Ue già ci stanno. «I poveri si contano e poi vengono cancellati dall’agenda politica», sottolinea Cremaschi: sono lavoratori, pensionati, precari e disoccupati, donne e giovani. «Sono la parte più sfruttata e oppressa del mondo del lavoro, sono le prime vittime della lotta di classe dall’alto dei ricchi, che più i poveri aumentano, più vedono accrescere i propri patrimoni». I 14 italiani più ricchi – Ferrero, Del Vecchio, Berlusconi, Armani e gli altri – possiedono beni per un ammontare di 107 miliardi di dollari, come ciò che riescono a mettere assieme milioni di poveri. «Il 5% più ricco del paese detiene il 40% della ricchezza nazionale, cioè 4.000 miliardi». I poveri aumentano, aggiunge Cremaschi, «perché i ricchi sono sempre più ricchi, perché la ricchezza si concentra sempre di più in alto e viene espropriata e rapinata in basso». E così, «la diseguaglianza sociale che dilaga senza freni nel nome del libero mercato è la causa dell’enorme incremento della povertà in Italia e in tutta Europa».Il quadro macroeconomico dell’Eurozona è tristemente noto: «Le misure di austerità e di rigore di bilancio, le privatizzazioni, la flessibilità e la precarietà del lavoro, le politiche fiscali di agevolazioni alle imprese e di riduzione delle tasse ai ricchi, i Jobs Act e le Flat Tax che dilagano in tutta Europa, impoveriscono sempre più persone ed arricchiscono sempre di più una piccola minoranza». Se non si combatte la concentrazione della ricchezza non si può ridurre la povertà, conclude Cremaschi, «ma tutti i governi europei, tecnocratici o populisti che siano, di fronte alla sola ipotesi di contrastare la diseguaglianza redistribuendo ricchezza si fermano atterriti». Cremaschi, sostenitore di “Potere al Popolo”, accusa «anche chi ha preso i voti nel nome della lotta contro le élites», in primis lo stesso Salvini. Alla fine, sostiene Cremaschi, il neo-sovranismo «fa proprio l’imbroglio liberista secondo il quale, per redistribuire ricchezza, prima bisogna produrla». E’ la teoria neoliberista dello “sgocciolamento”, in base alla quale «per dare soldi ai poveri, prima bisogna darne ai ricchi». Per questo, insiste l’ex sindacalista Fiom, «vertici europei per la lotta alla povertà non se ne sono mai fatti». In altre parole: «Contro i ricchi nulla si può, nulla si deve fare: e questo è il primo articolo della “Costituzione reale” della Ue».Sulla crescita della povertà tutto ciò che che oggi prevale è mistificazione. Innanzitutto i numeri: sono inferiori alla realtà o sono costruiti in modo da far apparire meno grave la situazione, scrive Giorgio Cremaschi su “Micromega”. Dal 2005 l’Istat suddivide i poveri in assoluti e relativi con due diverse classificazioni di reddito. Così oggi ci sarebbero 5 milioni di poveri assoluti e tanti altri milioni di “poveri relativi”. Ma è una distinzione che, secondo Cremaschi, serve solo ad attenuare l’impatto della catastrofe sociale che ha colpito il nostro paese (dopo l’adozione dell’euro). Tra l’altro, aggiunge, i mass media hanno tutti diffuso la notizia che i 5 milioni di poveri assoluti sarebbero il numero più alto dal 2005, come se prima fossero stati di più. No, naturalmente: il 2005 è solo l’anno di avvio della classificazione, e allora i più poveri dei poveri erano solo 1,5 milioni. In tredici anni sono triplicati. Eurostat, l’istituto europeo di statistica, usa piuttosto dei criteri sociali per contare i poveri, partendo da ciò di essenziale a cui essi debbono rinunciare. Sono considerati poveri i cittadini che, tra l’altro, hanno difficoltà a fare un pasto proteico ogni due giorni, a sostenere spese impreviste, a riscaldare a sufficienza la casa, a pagare in tempo l’affitto e a comprarsi un paio di scarpe per stagione e abiti decorosi. Sulla base di questi e altri criteri nel 2017 l’Italia risulta il paese europeo con più poveri. Sono 10,5 milioni, su un totale a livello Ue di 75 milioni. Un numero enorme, quasi pari agli abitanti di tutta la Germania.
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Gli italiani tifano per il governo, chi ha “rotto” l’Italia lo odia
Che bella cosa, ‘na jurnata ‘e sole (l’aria serena, dopo la tempesta). Chi l’avrebbe mai detto? L’Italia ha un governo italiano, interamente italiano, di cui gli italiani sembrano contenti se non addirittura orgogliosi, quando finalmente risponde a tono a quel villanzone di Macron, l’ex bankster di casa Rothschid che oggi ha la pretesa di parlare a nome dei francesi. Da quanto tempo non accadeva che gli italiani non fossero costretti a tollerare l’incolore governo in carica? All’epoca di Berlusconi, più della metà del paese si vergognava delle sortite quotidiane del primo ministro. Regnante il suo finto antagonista, Romano Prodi, i suoi stessi elettori ingoiavano, rassegnati, la delusione per le mancate riforme di segno progressista, sostituite regolarmente da spiacevolissimi “sacrifici” sempre imposti, con la collaborazione dei sindacati, agli strati più deboli della società. Poi finì anche quel tipo di spettacolo, e dalla commedia si passò alla tragedia (greca) con l’alto commissario Mario Monti, l’inviato speciale della Germania incaricato di mettere in ginocchio l’Italia, obbligandola ad accettare la crisi come condizione naturale, fisiologica, per un paese rappresentato come inguaribilmente latino, cioè corrotto e chiacchierone, incapace di autodiscipina.Era solo una recita, orrenda. Ma durò anche troppo: il tempo di devastare il Pil e azzoppare l’industria, far sparire il lavoro, far chiudere i negozi e massacrare le pensioni. Un terremoto: erosi i risparmi, crollato il valore degli immobili. Il futuro come incertezza e paura. Poi, dopo il macellaio, vennero i leader tipidi. Il loro compito: ripulire le strade dal sangue, e i telegiornali dalle immagini delle mense della Caritas affollate di esodati e disoccupati sessantenni. Il paese svenduto e smembrato, le serrande abbassate al ritmo di migliaia all’anno. Che poteva farci, il povero Enrico Letta – devoto, come il macellaio – alle stesse regole del rigore imposte dai medesimi poteri? E che altro poteva fare, se non chiacchiere, il suo ambiziosissimo ma vacuo pugnalatore Matteo Renzi? Non una parola, ad esempio, per ripulire la Costituzione dalla lordura del pareggio di bilancio, che umilia la democrazia italiana. Non una sillaba neppure sul Fiscal Compact, analoga punizione biblica inflitta all’Italia sempre dal macellaio e dai suoi tenebrosi mandanti europei, gente che non ha esitato a ridurre alla fame un paese come la Grecia, rimasta senza più neppure i medicinali salvavita per i bambini.Renzi? Fidatevi, annunciò con largo anticipo l’ex ministro socialista Rino Formica: al referendum finirà asfaltato dai “no”, e il suo successore a Palazzo Chigi sarà designato dal Vaticano. Ed ecco quindi Paolo Gentiloni, come previsto dal profeta Formica: l’impalpabile Gentiloni, i cui mormorii sono talmente piaciuti, agli elettori, da far dimezzare il consenso del suo partito, oggi completamente smarritosi tra le brume minacciose di un paese caduto tra le fauci dell’orco sovranista, il Moloch populista che turba i sonni degli eurocrati e dei loro patetici valletti nostrani. Hanno letteralmente sfasciato l’Italia, e accusano i 5 Stelle di velleitarismo pasticcione. Hanno spolpato e svenduto il paese, disarticolando la sua capacità produttiva: oggi in Italia i poveri assoluti sono 5 milioni, numero abnorme che racconta alla perfezione la tragedia di una società devastata, flagellata dalla piaga di una disoccupazione che non ha eguali nella storia della repubblica. Eppure, anziché tacere (ed eventualmente sparire per sempre, almeno dalla scena politica e mediatica) hanno la faccia di bronzo di dare del fascista a Matteo Salvini, il ministro che ha chiesto all’Europa di smetterla di accollare alla sola Italia l’immenso onere dell’accoglienza dei migranti mediterranei.Chissà come li avrebbe giudicati, gli sguaiati squadristi televisivi, un grande giornalista indipendente come l’ex partigiano Giorgio Bocca, regolarmenre fuori dal coro e mai allineato, nella sua lunga carriera, a nessun comodo mainstream. Certo, lo spettacolo racconta una dissonanza cognitiva sconcertante: il paese è a pezzi per colpa di un regime appena caduto, e la cosiddetta informazione spara addosso ai politici che si sono assunti l’onere della ricostruzione. L’eredità di Prodi e Berlusconi, Monti e Renzi rappresenta un disastro molto superiore alle capacità riparatorie di Salvini e Di Maio? Ma almeno questi due outsider hanno accettato la sfida: ci stanno provando. Falliranno? Difficile dirlo. Finiranno anch’essi fagocitati e manipolati dal potere-ombra, dal “pilota automatico” che ha sapientemente declassato l’Italia distraendo l’opinione pubblica dai crimini commessi contro la comunità italiana? Tutto, oggi, sembra dire il contrario. Tutto lascia sperare in un impegno serio e coraggioso per il recupero della sovranità perduta. E fa impressione il consenso di cui oggi gode il governo Conte: per la prima volta, dopo secoli, un esecutivo in carica è sostanzialmente incoraggiato dal 70% della popolazione. Al di là di come andrà a finire, non s’era mai vista una simile coesione nazionale, in tutti i 25 anni dell’infelice, ingloriosa, infame Seconda Repubblica.Che bella cosa, ‘na jurnata ‘e sole (l’aria serena, dopo la tempesta). Chi l’avrebbe mai detto? L’Italia ha un governo italiano, interamente italiano, di cui gli italiani sembrano soddisfatti se non addirittura orgogliosi, quando finalmente risponde a tono a quel villanzone di Macron, l’ex bankster di casa Rothschild che oggi ha la pretesa di parlare a nome dei francesi. Da quanto tempo non accadeva che gli italiani non fossero più costretti a tollerare l’incolore governo in carica? All’epoca di Berlusconi, più della metà del paese si vergognava delle sortite quotidiane del primo ministro. Regnante il suo finto antagonista, Romano Prodi, i suoi stessi elettori ingoiavano, rassegnati, la delusione per le mancate riforme di segno progressista, sostituite regolarmente da spiacevolissimi “sacrifici” sempre imposti, con la collaborazione dei sindacati, agli strati più deboli della società. Poi finì anche quel tipo di spettacolo, e dalla commedia si passò alla tragedia (greca) con l’alto commissario Mario Monti, l’inviato speciale della Germania incaricato di mettere in ginocchio l’Italia, obbligandola ad accettare la crisi come condizione naturale, fisiologica, per un paese rappresentato come inguaribilmente latino, cioè corrotto e chiacchierone, incapace di autodisciplina.