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Mafia, Wall Street e traditori: così è stata svenduta l’Italia
Falcone e Borsellino? Eliminati per un motivo più che strategico. Braccando la mafia, erano risaliti – tramite la pista massonica – ai legami finanziari tra l’élite Usa e la manovalanza italiana della grande operazione che si stava preparando, e che avrebbe devastato la storia del nostro paese: la svendita dell’Italia all’élite finanziaria globalista, che si servì di collaborazionisti di primissimo piano. Obiettivo: mettere le mani sullo Stato, razziando risorse e togliendo servizi vitali ai cittadini. All’indomani della catastrofe di Genova, coi riflettori puntati sullo strano caso delle autostrade “regalate” ai Benetton (e ai loro potenti soci d’oltreoceano), è illuminante rileggere oggi la paziente ricostruzione realizzata già nel 2007 da Antonella Randazzo. Mentre i giudici di Mani Pulite davano agli italiani l’illusione di un cambiamento nel segno della trasparenza, mettendo fine alla corruzione della Prima Repubblica, la finanza aglosassone convocava a bordo del Britannia gli uomini-chiave della futura Italia, assoldati per sabotare il proprio paese. Sarebbero stati agevolati dalla super-speculazione di George Soros sulla lira, che tolse all’Italia il 30% del suo valore, favorendone la svendita a prezzi stracciati. Da allora, un copione invariabile: aziende pubbliche rilevate da imprenditori italiani finanziati dalle stesse banche anglosassoni che avevano progettato il “golpe”. Il grande complotto contro l’Italia che – per primo – proprio Giovanni Falcone aveva fiutato.Era il 1992, all’improvviso un’intera classe politica dirigente crollava sotto i colpi delle indagini giudiziarie. Da oltre quarant’anni era stata al potere. Gli italiani avevano sospettato a lungo che il sistema politico si basasse sulla corruzione e sul clientelismo. Ma nulla aveva potuto scalfirlo. Né le denunce, né le proteste popolari (talvolta represse nel sangue), né i casi di connivenza con la mafia, che di tanto in tanto salivano alla cronaca. Ma ecco che, improvvisamente, il sistema crollava. Cos’era successo da fare in modo che gli italiani potessero avere, inaspettatamente, la soddisfazione di constatare che i loro sospetti sulla corruzione del sistema politico erano reali? Mentre l’attenzione degli italiani era puntata sullo scandalo delle tangenti, il governo italiano stava prendendo decisioni importantissime per il futuro del paese. Con l’uragano di Tangentopoli gli italiani credettero che potesse iniziare un periodo migliore per l’Italia. Ma in segreto, il governo stava attuando politiche che avrebbero peggiorato il futuro del paese. Numerose aziende saranno svendute, persino la Banca d’Italia sarà messa in vendita. La svendita venne chiamata “privatizzazione”.Il 1992 fu un anno di allarme e di segretezza. L’allora ministro degli interni Vincenzo Scotti, il 16 marzo, lanciò un allarme a tutti i prefetti, temendo una serie di attacchi contro la democrazia italiana. Gli attacchi previsti da Scotti erano eventi come l’uccisione di politici o il rapimento del presidente della Repubblica. Gli attacchi ci furono, e andarono a buon fine, ma non si trattò degli eventi previsti dal ministro degli interni. L’attacco alla democrazia fu assai più nascosto e destabilizzante. Nel maggio del 1992, Giovanni Falcone venne ucciso dalla mafia. Egli stava indagando sui flussi di denaro sporco, e la pista stava portando a risultati che potevano collegare la mafia ad importanti circuiti finanziari internazionali. Falcone aveva anche scoperto che alcuni personaggi prestigiosi di Palermo erano affiliati ad alcune logge massoniche di rito scozzese, a cui appartenevano anche diversi mafiosi, ad esempio Giovanni Lo Cascio. La pista delle logge correva parallela a quella dei circuiti finanziari, e avrebbe portato a risultati certi, se Falcone non fosse stato ucciso.Su Falcone erano state diffuse calunnie che cercavano di capovolgere la realtà di un magistrato integro. La gente intuiva che le istituzioni non lo avevano protetto. Ciò emerse anche durante il suo funerale, quando gli agenti di polizia si posizionarono davanti alle bare, impedendo a chiunque di avvicinarsi. Qualcuno gridò: «Vergognatevi, dovete vergognarvi, dovete andare via, non vi avvicinate a queste bare, questi non sono vostri, questi sono i nostri morti, solo noi abbiamo il diritto di piangerli, voi avete solo il dovere di vergognarvi». Che la mafia stesse utilizzando metodi per colpire il paese intero, in modo da spaventarlo e fargli accettare passivamente il “nuovo corso” degli eventi, lo si vedrà anche dagli attentati del 1993. Gli attentati del 1993 ebbero caratteristiche assai simili agli attentati terroristici degli anni della “strategia della tensione”, e sicuramente avevano lo scopo di spaventare il paese, per indebolirlo. Il 4 maggio 1993, un’autobomba esplode in via Fauro a Roma, nel quartiere Parioli. Il 27 maggio un’altra autobomba esplode in via dei Georgofili a Firenze, cinque persone perdono la vita. La notte tra il 27 e il 28 luglio, ancora un’autobomba esplode in via Palestro a Milano, uccidendo cinque persone.I responsabili non furono mai identificati, e si disse che la mafia volesse “colpire le opere d’arte nazionali”, ma non era mai accaduto nulla di simile. I familiari delle vittime e il giudice Giuseppe Soresina saranno concordi nel ritenere che quegli attentati non erano stati compiuti soltanto dalla mafia, ma anche da altri personaggi dalle «menti più fini dei mafiosi» (da “reti-invisibili.net”). Falcone era un vero avversario della mafia. Le sue indagini passarono a Borsellino, che venne assassinato due mesi dopo. La loro morte ha decretato il trionfo di un sistema mafioso e criminale, che avrebbe messo le mani sull’economia italiana, e costretto il paese alla completa sottomissione politica e finanziaria. Mentre il ministro Scotti faceva una dichiarazione che suonava quasi come una minaccia («la mafia punterà su obiettivi sempre più eccellenti e la lotta si farà sempre più cruenta, la mafia vuole destabilizzare lo Stato e piegarlo ai propri voleri»), Borsellino lamentava regole e leggi che non permettevano una vera lotta contro la mafia. Egli osservava: «Non si può affrontare la potenza mafiosa quando le si fa un regalo come quello che le è stato fatto con i nuovi strumenti processuali adatti a un paese che non è l’Italia e certamente non la Sicilia. Il nuovo codice, nel suo aspetto dibattimentale, è uno strumento spuntato nelle mani di chi lo deve usare. Ogni volta, ad esempio, si deve ricominciare da capo e dimostrare che Cosa Nostra esiste» (“La Repubblica” , 27 maggio 1992).I metodi statali di sabotaggio della lotta contro la mafia sono stati denunciati da numerosi esponenti della magistratura. Ad esempio, il 27 maggio 1992, il presidente del tribunale di Caltanissetta Placido Dall’Orto, che doveva occuparsi delle indagini sulla strage di Capaci, si trovò in gravi difficoltà: «Qui è molto peggio di Fort Apache, siamo allo sbando. In una situazione come la nostra la lotta alla mafia è solo una vuota parola, lo abbiamo detto tante volte al Csm» (“La Repubblica”, 28 maggio 1992). Anche il pubblico ministero di Palermo, Roberto Scarpinato, nel giugno del 1992 disse: «Su un piatto della bilancia c’è la vita, sull’altro piatto ci deve essere qualcosa che valga il rischio della vita, non vedo in questo pacchetto un impegno straordinario da parte dello Stato, ad esempio non vedo nulla di straordinario sulla caccia e la cattura dei grandi latitanti» (“La Repubblica”, 10 giugno 1992). Nello stesso anno, il senatore Maurizio Calvi raccontò che Falcone gli confessò di non fidarsi del comando dei carabinieri di Palermo, della questura di Palermo e nemmeno della prefettura di Palermo (“La Repubblica”, 23 giugno 1992).Che gli assassini di Capaci non fossero tutti italiani, molti lo sospettavano. Il ministro Martelli, durante una visita in Sudamerica, dichiarò: «Cerco legami tra l’assassinio di Falcone e la mafia americana o la mafia colombiana» (“La Repubblica”, 23 giugno 1992). Lo stesso presidente del Consiglio, Amato, durante una visita a Monaco, disse: «Falcone è stato ucciso a Palermo, ma probabilmente l’omicidio è stato deciso altrove». Probabilmente, le tecniche d’indagine di Falcone non piacevano ai personaggi con cui il governo italiano ebbe a che fare quell’anno. Quel considerare la lotta alla mafia soprattutto un dovere morale e culturale, quel coinvolgere le persone nel candore dell’onestà e dell’assenza di compromessi, gli erano valsi la persecuzione e i metodi di calunnia tipici dei servizi segreti inglesi e statunitensi. Tali metodi mirano ad isolare e a criminalizzare, cercando di fare apparire il contrario di ciò che è. Cercarono di far apparire Falcone un complice della mafia. Antonino Caponnetto dichiarò al giornale “La Repubblica”, il 25 giugno 1992: «Non si può negare che c’è stata una campagna (contro Falcone), cui hanno partecipato in parte i magistrati, che lo ha delegittimato. Non c’è nulla di più pericoloso per un magistrato che lotta contro la mafia che l’essere isolato».L’omicidio di due simboli dello Stato così importanti come Falcone e Borsellino significava qualcosa di nuovo. Erano state toccate le corde dell’élite di potere internazionale, e questi omicidi brutali lo testimoniavano. Ciò è stato intuito anche da Charles Rose, procuratore distrettuale di New York, che notò la particolarità degli attentati: «Neppure i boss più feroci di Cosa Nostra hanno mai voluto colpire personalità dello Stato così visibili come era Giovanni, perché essi sanno benissimo quali rischi comporta attaccare frontalmente lo Stato. Quell’attentato terroristico è un gesto di paura… Credo che una mafia che si mette a sparare ai simboli come fanno i terroristi… è condannata a perdere il bene più prezioso per ogni organizzazione criminale di quel tipo, cioè la complicità attiva o passiva della popolazione entro la quale si muove» (“La Repubblica”, 27 maggio 1992). Infatti, quell’anno gli italiani capirono che c’era qualcosa di nuovo, e scesero in piazza contro la mafia. Si formarono due fronti: la gente comune contro la mafia, e le istituzioni, che si stavano sottomettendo all’élite che coordina le mafie internazionali. Quell’anno l’élite anglo-americana non voleva soltanto impedire la lotta efficace contro la mafia, ma voleva rendere l’Italia un paese completamente soggiogato ad un sistema mafioso e criminale, che avrebbe dominato attraverso il potere finanziario.Come segnalò il presidente del Senato Giovanni Spadolini, c’era in atto un’operazione su larga scala per distruggere la democrazia italiana: «Il fine della criminalità mafiosa sembra essere identico a quello del terrorismo nella fase più acuta della stagione degli anni di piombo: travolgere lo Stato democratico nel nostro paese. L’obiettivo è sempre lo stesso: delegittimare lo Stato, rompere il circuito di fiducia tra cittadini e potere democratico…se poi noi scorgiamo – e ne abbiamo il diritto – qualche collegamento internazionale intorno alla sfida mafia più terrorismo, allora ci domandiamo: ma forse si rinnovano gli scenari di dodici-undici anni fa? Le minacce dei centri di cospirazione affaristico-politica come la P2 sono permanenti nella vita democratica italiana. E c’è un filone piduista che sopravvive, non sappiamo con quanti altri. Mafia e P2 sono congiunte fin dalle origini, fin dalla vicenda Sindona» (“La Repubblica”, 11 agosto 1992). Anche Tina Anselmi aveva capito i legami fra mafia e finanza internazionale: «Bisogna stare attenti, molto attenti… Ho parlato del vecchio “piano di rinascita democratica” di Gelli e confermo che leggerlo oggi fa sobbalzare. E’ in piena attuazione… Chi ha grandi mezzi e tanti soldi fa sempre politica e la fa a livello nazionale ed internazionale».«Ho parlato in questi giorni con un importante uomo politico italiano che vive nel mondo delle banche. Sa cosa mi ha detto? Che la mafia è stata più veloce degli industriali e che sta già investendo centinaia di miliardi, frutto dei guadagni fatti con la droga, nei paesi dell’est… Stanno già comprando giornali e televisioni private, industrie e alberghi… Quegli investimenti si trasformeranno anche in precise e specifiche azioni politiche che ci riguardano, ci riguardano tutti. Dopo le stragi di Palermo la polizia americana è venuta ad indagare in Sicilia anche per questo, sanno di questi investimenti colossali, fatti regolarmente attraverso le banche» (“L’Unità”, 12 agosto 1992). Anni dopo, l’ex ministro Scotti confesserà a Cirino Pomicino: «Tutto nacque da una comunicazione riservata fattami dal capo della polizia Parisi che, sulla base di un lavoro di intelligence svolto dal Sisde e supportato da informazioni confidenziali, parlava di riunioni internazionali nelle quali sarebbero state decise azioni destabilizzanti sia con attentati mafiosi sia con indagini giudiziarie nei confronti dei leader dei partiti di governo».Una delle riunioni di cui parlava Scotti si svolse il 2 giugno del 1992, sul panfilo Britannia, in navigazione lungo le coste siciliane. Sul panfilo c’erano alcuni appartenenti all’élite di potere anglo-americana, come i reali britannici e i grandi banchieri delle banche a cui si rivolgerà il governo italiano durante la fase delle privatizzazioni (Merrill Lynch, Goldman Sachs e Salomon Brothers). In quella riunione si decise di acquistare le aziende italiane e la Banca d’Italia, e come far crollare il vecchio sistema politico per insediarne un altro, completamente manovrato dai nuovi padroni. A quella riunione parteciparono anche diversi italiani, come Mario Draghi, allora direttore delegato del ministero del Tesoro, il dirigente dell’Eni Beniamino Andreatta e il dirigente dell’Iri Riccardo Galli. Gli intrighi decisi sul Britannia avrebbero permesso agli anglo-americani di mettere le mani sul 48% delle aziende italiane, fra le quali c’erano la Buitoni, la Locatelli, la Negroni, la Ferrarelle, la Perugina e la Galbani. La stampa martellava su Mani Pulite, facendo intendere che da quell’evento sarebbero derivati grandi cambiamenti.Nel giugno 1992 si insediò il governo di Giuliano Amato. Si trattava di un personaggio in armonia con gli speculatori che ambivano ad appropriarsi dell’Italia. Infatti Amato, per iniziare le privatizzazioni, si affrettò a consultare il centro del potere finanziario internazionale: le tre grandi banche di Wall Street, Merrill Lynch, Goldman Sachs e Salomon Brothers. Appena salito al potere, Amato trasformò gli enti statali in società per azioni, valendosi del decreto Legge 386/1991, in modo tale che l’élite finanziaria li potesse controllare, e in seguito rilevare. L’inizio fu concertato dal Fondo Monetario Internazionale, che come aveva fatto in altri paesi, voleva privatizzare selvaggiamente e svalutare la nostra moneta, per agevolare il dominio economico-finanziario dell’élite. L’incarico di far crollare l’economia italiana venne dato a George Soros, un cittadino americano che tramite informazioni ricevute dai Rothschild, con la complicità di alcune autorità italiane, riuscì a far crollare la nostra moneta e le azioni di molte aziende italiane. Soros ebbe l’incarico, da parte dei banchieri anglo-americani, di attuare una serie di speculazioni, efficaci grazie alle informazioni che egli riceveva dall’élite finanziaria. Egli fece attacchi speculativi degli “hedge funds” per far crollare la lira. A causa di questi attacchi, il 5 novembre del 1993 la lira perse il 30% del suo valore, e anche negli anni successivi subì svalutazioni.Le reti della Banca Rothschild, attraverso il direttore Richard Katz, misero le mani sull’Eni, che venne svenduta. Il gruppo Rothschild ebbe un ruolo preminente anche sulle altre privatizzazioni, compresa quella della Banca d’Italia. C’erano stretti legami fra il Quantum Fund di George Soros e i Rothschild. Ma anche numerosi altri membri dell’élite finanziaria anglo-americana, come Alfred Hartmann e Georges C. Karlweis, furono coinvolti nei processi di privatizzazione delle aziende e della Banca d’Italia. La Rothschild Italia Spa, filiale di Milano della Rothschild & Sons di Londra, venne creata nel 1989, sotto la direzione di Richard Katz. Quest’ultimo diventò direttore del Quantum Fund di Soros nel periodo delle speculazioni a danno della lira. Soros era stato incaricato dai Rothschild di attuare una serie di speculazioni contro la sterlina, il marco e la lira, per destabilizzare il Sistema Monetario Europeo. Sempre per conto degli stessi committenti, egli fece diverse speculazioni contro le monete di alcuni paesi asiatici, come l’Indonesia e la Malesia. Dopo la distruzione finanziaria dell’Europa e dell’Asia, Soros venne incaricato di creare una rete per la diffusione degli stupefacenti in Europa.In seguito, i Rothschild, fedeli al loro modo di fare, cercarono di far cadere la responsabilità del crollo economico italiano su qualcun altro. Attraverso una serie di articoli pubblicati sul “Financial Times”, accusarono la Germania, sostenendo che la Bundesbank aveva attuato operazioni di aggiotaggio contro la lira. L’accusa non reggeva, perché i vantaggi del crollo della lira e della svendita delle imprese italiane andarono agli anglo-americani. La privatizzazione è stata un saccheggio, che ancora continua. Spiega Paolo Raimondi, del Movimento Solidarietà: «Abbiamo avuto anni di privatizzazione, saccheggio dell’economia produttiva e l’esplosione della bolla della finanza derivata. Questa stessa strategia di destabilizzazione riparte oggi, quando l’Europa continentale viene nuovamente attratta, anche se non come promotrice e con prospettive ancora da definire, nel grande progetto di infrastrutture di base del Ponte di Sviluppo Eurasiatico» (da “Solidarietà”, febbraio 1996).Qualche anno dopo la magistratura italiana procederà contro Soros, ma senza alcun successo. Nell’ottobre del 1995, il presidente del Movimento Internazionale per i Diritti Civili-Solidarietà, Paolo Raimondi, presentò un esposto alla magistratura per aprire un’inchiesta sulle attività speculative di Soros & Co, che avevano colpito la lira. L’attacco speculativo aveva permesso a Soros di impossessarsi di 15.000 miliardi di lire. Per contrastare l’attacco, l’allora governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, bruciò inutilmente 48 miliardi di dollari. Su Soros indagarono le procure della Repubblica di Roma e di Napoli, che fecero luce anche sulle attività della Banca d’Italia nel periodo del crollo della lira. Soros venne accusato di aggiotaggio e insider trading, avendo utilizzato informazioni riservate che gli permettevano di speculare con sicurezza e di anticipare movimenti su titoli, cambi e valori delle monete.Spiegano il presidente e il segretario generale del Movimento Internazionale per i Diritti Civili – Solidarietà, durante l’esposto contro Soros: «È stata annotata nel 1991 l’esistenza di un contatto molto stretto e particolare del signor Soros con Gerald Carrigan, presidente della Federal Reserve Bank di New York, che fa parte dell’apparato della banca centrale americana, luogo di massima circolazione di informazioni economiche riservate, il quale, stranamente, una volta dimessosi da questo posto, venne poi immediatamente assunto a tempo pieno dalla finanziaria Goldman Sachs & co. come presidente dei consiglieri internazionali. La Goldman Sachs è uno dei centri della grande speculazione sui derivati e sulle monete a livello mondiale. La Goldman Sachs è anche coinvolta in modo diretto nella politica delle privatizzazioni in Italia. In Italia inoltre, il signor Soros conta sulla strettissima collaborazione del signor Isidoro Albertini, ex presidente degli agenti di cambio della Borsa di Milano e attuale presidente della Albertini e co. Sim di Milano, una delle ditte guida nel settore speculativo dei derivati. Albertini è membro del consiglio di amministrazione del Quantum Fund di Soros».«L’attacco speculativo contro la lira del settembre 1992 era stato preceduto e preparato dal famoso incontro del 2 giugno 1992 sullo yacht Britannia della regina Elisabetta II d’Inghilterra, dove i massimi rappresentanti della finanza internazionale, soprattutto britannica, impegnati nella grande speculazione dei derivati, come la S. G. Warburg, la Barings e simili, si incontrarono con la controparte italiana guidata da Mario Draghi, direttore generale del ministero del Tesoro, e dal futuro ministro Beniamino Andreatta, per pianificare la privatizzazione dell’industria di Stato italiana. A seguito dell’attacco speculativo contro la lira e della sua immediata svalutazione del 30%, codesta privatizzazione sarebbe stata fatta a prezzi stracciati, a beneficio della grande finanza internazionale e a discapito degli interessi dello stato italiano e dell’economia nazionale e dell’occupazione. Stranamente, gli stessi partecipanti all’incontro del Britannia avevano già ottenuto l’autorizzazione da parte di uomini di governo come Mario Draghi, di studiare e programmare le privatizzazioni stesse. Qui ci si riferisce per esempio alla Warburg, alla Morgan Stanley, solo per fare due tra gli esempi più noti. L’agenzia stampa “Eir” (Executive Intelligence Review) ha denunciato pubblicamente questa sordida operazione alla fine del 1992 provocando una serie di interpellanze parlamentari e di discussioni politiche che hanno avuto il merito di mettere in discussione l’intero procedimento, alquanto singolare, di privatizzazione» (dall’esposto della magistratura contro George Soros presentato dal Movimento Solidarietà al procuratore della Repubblica di Milano il 27 ottobre 1995).I complici italiani furono il ministro del Tesoro Piero Barucci, l’allora direttore di Bankitalia Lamberto Dini e l’allora governatore di Bankitalia Carlo Azeglio Ciampi. Altre responsabilità vanno all’allora capo del governo Giuliano Amato e al direttore generale del Tesoro Mario Draghi. Alcune autorità italiane (come Dini) fecero il doppio gioco: denunciavano i pericoli ma in segreto appoggiavano gli speculatori. Amato aveva costretto i sindacati ad accettare un accordo salariale non conveniente ai lavoratori, per la «necessità di rimanere nel Sistema Monetario Europeo», pur sapendo che l’Italia ne sarebbe uscita a causa delle imminenti speculazioni. Gli attacchi all’economia italiana andarono avanti per tutti gli anni Novanta, fino a quando il sistema economico-finanziario italiano non cadde sotto il completo controllo dell’élite. Nel gennaio del 1996, nel rapporto semestrale sulla politica informativa e della sicurezza, il presidente del Consiglio Lamberto Dini disse: «I mercati valutari e le Borse delle principali piazze mondiali continuano a registrare correnti speculative ai danni della nostra moneta, originate, specie in passaggi delicati della vita politico-istituzionale, dalla diffusione incontrollata di notizie infondate riguardanti la compagine governativa e da anticipazioni di dati oggetto delle periodiche comunicazioni sui prezzi al consumo… è possibile attendersi la reiterazione di manovre speculative fraudolente, considerato il persistere di una fase congiunturale interna e le scadenze dell’unificazione monetaria» (Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Democratica, Rivista N. 4, gennaio-aprile 1996).Il giorno dopo, il governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, riferiva che l’Italia non poteva far nulla contro le correnti speculative sui mercati dei cambi, perché «se le banche di emissione tentano di far cambiare direzione o di fermare il vento (delle operazioni finanziarie) non ce la fanno per la dimensione delle masse in movimento sui mercati rispetto alla loro capacità di fuoco». Le nostre autorità denunciavano il potere dell’élite internazionale, ma gettavano la spugna, ritenendo inevitabili quegli eventi. Era in gioco il futuro economico-finanziario del paese, ma nessuna autorità italiana pensava di poter fare qualcosa contro gli attacchi destabilizzanti dell’élite anglo-americana. Il Movimento Solidarietà fu l’unico a denunciare quello che stava effettivamente accadendo, additando i veri responsabili del crollo dell’economia italiana. Il 28 giugno 1993, il Movimento Solidarietà svolse una conferenza a Milano, in cui rese nota a tutti la riunione sul Britannia e quello che ne era derivato (“Solidarietà”, ottobre 1993). Il 6 novembre 1993, l’allora presidente del Consiglio, Carlo Azeglio Ciampi, scrisse una lettera al procuratore capo della Repubblica di Roma, Vittorio Mele, per avviare «le procedure relative al delitto previsto all’art. 501 del codice penale (“Rialzo e ribasso fraudolento di prezzi sul pubblico mercato o nelle borse di commercio”), considerato nell’ipotesi delle aggravanti in esso contenute».Anche a Ciampi era evidente il reato di aggiotaggio da parte di Soros, che aveva operato contro la lira e i titoli quotati in Borsa delle nostre aziende. Anche negli anni successivi avvennero altre privatizzazioni, senza regole precise e a prezzi di favore. Che stesse cambiando qualcosa, gli italiani lo capivano dal cambio di nome delle aziende, la Sip era diventata Telecom Italia e le Ferrovie dello Stato erano diventate Trenitalia. Il decreto legislativo 79/99 avrebbe permesso la privatizzazione delle aziende energetiche. Nel settore del gas e dell’elettricità apparvero numerose aziende private, oggi circa 300. Dal 24 febbraio del 1998, anche le Poste Italiane diventarono una Spa. In seguito alla privatizzazione delle Poste, i costi postali sono aumentati a dismisura e i lavoratori postali vengono assunti con contratti precari. Oltre 400 uffici postali sono stati chiusi, e quelli rimasti aperti appaiono come luoghi di vendita più che di servizio. Le nostre autorità giustificavano la svendita delle privatizzazioni dicendo che si doveva «risanare il bilancio pubblico», ma non specificavano che si trattava di pagare altro denaro alle banche, in cambio di banconote che valevano come la carta straccia. A guadagnare sarebbero state soltanto le banche e i pochi imprenditori già ricchi (Benetton, Tronchetti Provera, Pirelli, Colaninno, Gnutti e pochi altri).Si diceva che le privatizzazioni avrebbero migliorato la gestione delle aziende, ma in realtà, in tutti i casi, si sono verificati disastri di vario genere, e il rimedio è stato pagato dai cittadini italiani. Le nostre aziende sono state svendute ad imprenditori che quasi sempre agivano per conto dell’élite finanziaria, da cui ricevevano le somme per l’acquisto. La privatizzazione della Telecom avvenne nell’ottobre del 1997. Fu venduta a 11,82 miliardi di euro, ma alla fine si incassarono soltanto 7,5 miliardi. La società fu rilevata da un gruppo di imprenditori e banche, e al ministero del Tesoro rimase una quota del 3,5%. Il piano per il controllo di Telecom aveva la regia nascosta della Merril Lynch, del gruppo bancario americano Donaldson Lufkin & Jenrette e della Chase Manhattan Bank. Alla fine del 1998, il titolo aveva perso il 20% (4,33 euro). Le banche dell’élite, la Chase Manhattan e la Lehman Brothers, si fecero avanti per attuare un’Opa. Attraverso Colaninno, che ricevette finanziamenti dalla Chase Manhattan, l’Olivetti diventò proprietaria di Telecom. L’Olivetti era controllata dalla Bell, una società con sede a Lussemburgo, a sua volta controllata dalla Hopa di Emilio Gnutti e Roberto Colaninno. Il titolo, che durante l’Opa era stato fatto salire a 20 euro, nel giro un anno si dimezzò. Dopo pochi anni finirà sotto i tre euro.Nel 2001 la Telecom si trovava in gravi difficoltà, le azioni continuavano a scendere. La Bell di Gnutti e la Unipol di Consorte decisero di vendere a Tronchetti Provera buona parte loro quota azionaria in Olivetti. Il presidente di Pirelli, finanziato dalla Jp Morgan, ottenne il controllo su Telecom, attraverso la finanziaria Olimpia, creata con la famiglia Benetton (sostenuta da Banca Intesa e Unicredit). Dopo dieci anni dalla privatizzazione della Telecom, il bilancio è disastroso sotto tutti i punti di vista: oltre 20.000 persone sono state licenziate, i titoli azionari hanno fatto perdere molto denaro ai risparmiatori, i costi per gli utenti sono aumentati e la società è in perdita. La privatizzazione, oltre che un saccheggio, veniva ad essere anche un modo per truffare i piccoli azionisti. La Telecom, come molte altre società, ha posto la sua sede in paesi esteri, per non pagare le tasse allo Stato italiano. Oltre a perdere le aziende, gli italiani sono stati privati anche degli introiti fiscali di quelle aziende. La Bell, società che controllava la Telecom Italia, aveva sede in Lussemburgo, e aveva all’interno società con sede alle isole Cayman, che, com’è noto, sono un paradiso fiscale.Gli speculatori finanziari basano la loro attività sull’esistenza di questi paradisi fiscali, dove non è possibile ottenere informazioni nemmeno alle autorità giudiziarie. I paradisi fiscali hanno permesso agli speculatori di distruggere le economie di interi paesi, eppure i media non parlano mai di questo gravissimo problema. Mettere un’azienda importante come quella telefonica in mani private significa anche non tutelare la privacy dei cittadini, che infatti è stata più volte calpestata, com’è emerso negli ultimi anni. Anche per le altre privatizzazioni – Autostrade, Poste Italiane, Trenitalia – si sono verificate le medesime devastazioni: licenziamenti, truffe a danno dei risparmiatori, degrado del servizio, spreco di denaro pubblico, cattiva amministrazione e problemi di vario genere. La famiglia Benetton è diventata azionista di maggioranza delle Autostrade. Il contratto di privatizzazione delle Autostrade dava vantaggi soltanto agli acquirenti, facendo rimanere l’onere della manutenzione sulle spalle dei contribuenti. I Benetton hanno incassato un bel po’ di denaro grazie alla fusione di Autostrade con il gruppo spagnolo Abertis. La fusione è avvenuta con la complicità del governo Prodi, che in seguito ad un vertice con Zapatero, ha deciso di autorizzarla. Antonio Di Pietro, ministro delle infrastrutture, si era opposto, ma ha alla fine si è piegato alle proteste dell’Unione Europea e alla politica del presidente del Consiglio.Nonostante i disastri delle privatizzazioni, le nostre autorità governative non hanno alcuna intenzione di rinazionalizzare le imprese allo sfacelo, anzi, sono disposte ad utilizzare denaro pubblico per riparare ai danni causati dai privati. La società Trenitalia è stata portata sull’orlo del fallimento. In pochi anni il servizio è diventato sempre più scadente, i treni sono sempre più sporchi, il costo dei biglietti continua a salire e risultano numerosi disservizi. A causa dei tagli al personale (ad esempio, non c’è più il secondo conducente), si sono verificati diversi incidenti (anche mortali). Nel 2006, l’amministratore delegato di Trenitalia, Mauro Moretti, si è presentato ad una audizione alla commissione lavori pubblici del Senato, per battere cassa, confessando un buco di un miliardo e settecento milioni di euro, che avrebbe potuto portare la società al fallimento. Nell’ottobre del 2006, il ministro dei trasporti, Alessandro Bianchi, approvò il piano di ricapitalizzazione proposto da Trenitalia. Altro denaro pubblico ad un’azienda privatizzata ridotta allo sfacelo.Dietro tutto questo c’era l’élite economico finanziaria (Morgan, Schiff, Harriman, Kahn, Warburg, Rockfeller, Rothschild) che ha agito preparando un progetto di devastazione dell’economia italiana, e lo ha attuato valendosi di politici, di finanzieri e di imprenditori. Nascondersi è facile in un sistema in cui le banche o le società possono assumere il controllo di altre società o banche. Questo significa che è sempre difficile capire veramente chi controlla le società privatizzate. E’ simile al gioco delle scatole cinesi, come spiega Giuseppe Turani: «Colaninno & soci controllano al 51% la Hopa, che controlla il 56,6% della Bell, che controlla il 13,9% della Olivetti, che controlla il 70% della Tecnost, che controlla il 52% della Telecom» (“La Repubblica”, 5 settembre 1999). Numerose aziende di imprenditori italiani sono state distrutte dal sistema dei mercati finanziari, ad esempio la Cirio e la Parmalat. Queste aziende hanno truffato i risparmiatori vendendo obbligazioni societarie (bond) con un alto margine di rischio. La Parmalat emise bond per un valore di 7 miliardi di euro, e allo stesso tempo attuò operazioni finanziarie speculative e si indebitò. Per non far scendere il valore delle azioni (e per venderne altre) truccava i bilanci.Le banche nazionali e internazionali sostenevano la situazione perché per loro vantaggiosa, e l’agenzia di rating “Standard & Poor’s” si è decisa a declassare la Parmalat soltanto quando la truffa era ormai nota a tutti. I risparmiatori truffati hanno avviato una procedura giudiziaria contro Calisto Tanzi, Fausto Tonna, Coloniale Spa (società della famiglia Tanzi), Citigroup Inc. (società finanziaria americana), Buconero Llc (società che faceva capo a Citigroup), Zini & Associates (una compagnia finanziaria americana), Deloitte Touche Tohmatsu (organizzazione che forniva consulenza e servizi professionali), Deloitte & Touche Spa (società di revisione contabile), Grant Thornton International (società di consulenza finanziaria) e Grant Thornton Spa (società incaricata della revisione contabile del sottogruppo Parmalat Spa). La Cirio era gestita dalla Cragnotti & Partners. I “Partners” non erano altro che una serie di banche nazionali e internazionali. La Cirio emise bond per circa 1.125 milioni di euro. Molte di queste obbligazioni venivano utilizzate dalle banche per spillare denaro ai piccoli risparmiatori. Tutto questo avveniva in perfetta armonia col sistema finanziario, che non offre garanzie di onestà e di trasparenza.Grazie alle privatizzazioni, un gruppo ristretto di ricchi italiani ha acquisito somme enormi, e ha permesso all’élite economico-finanziaria anglo-americana di esercitare un pesante controllo, sui cittadini, sulla politica e sul paese intero. Agli italiani venne dato il contentino di Mani Pulite, che si risolse con numerose assoluzioni e qualche condanna a pochi anni di carcere. A causa delle privatizzazioni e del controllo da parte della Banca Centrale Europea, il paese è più povero e deve pagare somme molto alte per il debito. Ogni anno viene varata la finanziaria, allo scopo di pagare le banche e di partecipare al finanziamento delle loro guerre. Mentre la povertà aumenta, come la disoccupazione, il lavoro precario, il degrado e il potere della mafia. Il nostro paese è oggi controllato da un gruppo di persone, che impongono, attraverso istituti propagandati come “autorevoli” (Fondo Monetario Internazionale e Banca Centrale Europea), di tagliare la spesa pubblica, di privatizzare quello che ancora rimane e di attuare politiche non convenienti alla popolazione italiana. I nostri governi operano nell’interesse di questa élite, e non in quello del paese.(Antonella Randazzo, “Come è stata svenduta l’Italia”, da “Disinformazione.it del 12 marzo 2007. La Randazzo ha scritto libri come “Roma Predona. Il colonialismo italiano in Africa”, edito da Kaos nel 2006, “La Nuova Democrazia. Illusioni di civiltà nell’era dell’egemonia Usa” edito nel 2007 da Zambon e “Dittature. La storia occulta”, pubblicata da “Il Nuovo Mondo”, nel 2007).Falcone e Borsellino? Eliminati per un motivo più che strategico. Braccando la mafia, erano risaliti – tramite la pista massonica – ai legami finanziari tra l’élite Usa e la manovalanza italiana della grande operazione che si stava preparando, e che avrebbe devastato la storia del nostro paese: la svendita dell’Italia all’élite finanziaria globalista, che si servì di collaborazionisti di primissimo piano. Obiettivo: mettere le mani sullo Stato, razziando risorse e togliendo servizi vitali ai cittadini. All’indomani della catastrofe di Genova, coi riflettori puntati sullo strano caso delle autostrade “regalate” ai Benetton (e ai loro potenti soci d’oltreoceano), è illuminante rileggere oggi la paziente ricostruzione realizzata già nel 2007 da Antonella Randazzo. Mentre i giudici di Mani Pulite davano agli italiani l’illusione di un cambiamento nel segno della trasparenza, mettendo fine alla corruzione della Prima Repubblica, la finanza anglosassone convocava a bordo del Britannia gli uomini-chiave della futura Italia, assoldati per sabotare il proprio paese. Sarebbero stati agevolati dalla super-speculazione di George Soros sulla lira, che tolse all’Italia il 30% del suo valore, favorendone la svendita a prezzi stracciati. Da allora, un copione invariabile: aziende pubbliche rilevate da imprenditori italiani finanziati dalle stesse banche anglosassoni che avevano progettato il “golpe”. Il grande complotto contro l’Italia che – per primo – proprio Giovanni Falcone aveva fiutato.
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Blondet: giustizia per Genova? Ho un brutto presentimento
«Se la vicenda dei migranti continua ad essere in mano a Salvini è giunto il momento di pensare alla lotta di popolo armato», scrive su Facebook Guglielmo Allodi, già dirigente del Pci-Pds. «Questo Allodi non è un qualunque militante senza potere e fuori di testa», scrive Maurizio Blondet nel suo blog. «E’ stato il capo della segreteria politica di Bassolino, già ministro nel primo governo D’Alema», quando l’ex sindaco di Napoli divenne presidente della Regione Campania, carica che mantenne fino al 2010. Stiamo quindi parlando di «un grand commis del potere, un esponente di livello della “sinistra”». E ora invoca la “lotta armata” per fermare Salvini? «Ho un orribile presentimento», confessa Blondet, giornalista di lungo corso, già inviato di “Oggi”, “Il Giornale” e “Avvenire”. Sono trascorsi otto giorni – un’enormità, secondo Blondet – prima che l’autorità giudiziaria sequestrasse materiali negli uffici di Autostrade per l’Italia, dopo il collasso del viadotto Morandi. «Cerchiamo il filmato del crollo», disse ai giornali il pm di Genova, ammettendo però che non ci fosse ancora alcun indagato. Dunque, conclude Blondet, il filmato del crollo che non c’è più: «Hanno sequestrato le macerie, ma il 20 agosto non avevano perquisito la sede della concessionaria». E l’iscrizione nel registro degli indagati, spesso considerata un atto dovuto? «Una settimana, e nemmeno un imputato. Neppure un capo d’imputazione: non sanno di cosa accusare chi». La procura di Genova? «E’ la stessa che ha indagato Salvini per la storia dei finanziamenti della Lega».«Ho un orrendo presentimento – insiste Blondet – dovuto alla mia esperienza di vecchio giornalista». Un sospetto, «rafforzato dal fatto che i Benetton non solo hanno offerto una cifra ridicola alle vittime del disastro, ma dopo qualche ora hanno ripreso sicurezza e stanno cominciando ad accusare il governo di aver fatto cadere il titolo in Borsa». Sicché non sarebbe stato il crollo del viadotto Morandi a far precipitare la quotazione della società, ma «gli strilli di Salvini e Di Maio contro la concessionaria», a cui i governi precedenti hanno regalato un monopolio clamoroso e miliardario. «Insomma: sono loro, i Benetton, che pretendono i danni dallo Stato. Lo fanno con uno stuolo di avvocati potentissimi, fra cui la nota Paola Severino: quella che ha fatto la ministra della giustizia nel governo Monti», tanto per capire da che parte stia. «Nessun sospetto di conflitto d’interessi: tutto legale. Ovvio, questi si sono fatti le leggi a loro vantaggio, dunque tutto ciò che fanno loro è legale per definizione». Il “bruttissimo presentimento” di Blondet è questo: «Non avrete mai più il vostro ponte, o genovesi. Non lo rifaranno certo i Benetton – perché dovrebbero spenderci un centesimo, ormai? – né potrà farlo il governo, perché dovrà rifondere i miliardi necessari agli azionisti di Atlantia, oltre che ai Benetton che sono stati così danneggiai dalle esternazioni di Salvini».Lo stesso Blondet invita a tenere d’occhio la “classs action” americana avviata dallo studio legale Bronstein, Gewirtz & Grossman, il quale «sta esaminando potenziali rivendicazioni per conto di acquirenti» dopo che, sulla notizia della possibile revoca della concessione e di una sanzione, il prezzo delle azioni è crollato. Questo studio legale, aggiunge Blondet, vanta una speciale competenza nella «ricerca aggressiva di richieste di contenzioso». Chi conosce queste capacità “aggressive”, aggiunge il giornalista, sa già cosa accadrà: «Si prenderanno tutti i miliardi gli americani per conto dei loro azionisti, poi Atlantia opportunamente “fallirà”, ossia resterà senza un soldo», e così «ai genovesi e alle vittime non resteranno nemmeno le briciole». Secondo il trader finanziario Giovanni Zibordi, i Benetton «non hanno investito niente, comprarono Autostrade con i soldi di Autostrade». O meglio: hanno creato una società apposta che ha fatto un debito immane, poi – ottenuta la concessione da Prodi, D’Alema e soci – l’hanno fusa con Autostrade, a cui hanno accollato l’enorme debito: «Hanno fatto il debito e lo stanno ripagando coi profitti del pedaggio», sottolinea Zibordi, che parla apertamente di “rapina”, benché perfettamente legale grazie ai regaloni dei politici della Seconda Repubblica.Uno di questi, l’avvocato Giovanni Maria Flick, ministro della giustizia nel primo governo Prodi (in carica dal maggio ‘96 all’ottobre del ‘98), ebbe come direttore dell’Ufficio Rapporti con il Parlamento lo stesso Francesco Cozzi, cioè il pm genovese che ora sta indagando sul crollo del viadotto Morandi, dopo aver “dato la caccia” ai miliardi scomparsi dalle casse della Lega. «Insomma, il pm Cozzi ha avuto un incarico altamente politico e di parte nel governo Prodi», ricorda Blondet. Quanto a Flick, legale di Raul Gardini all’epoca del presunto suicidio (“con due colpi alla tempia, entrambi mortali”) del manager Enimont, su Genova e Autostrade l’ex ministro prodiano si schiera, da giurista, contro Salvini e Di Maio, applauditi dalla folla ai funerali delle vittime del disastro. «Mi preoccupa la tendenza all’inversione del principio di non colpevolezza», dichiara Flick. «Mi lascia perplesso l’assunzione di un ruolo molto autoritario e di dogmatica condanna preventiva, fra l’altro sostituendosi alla autorità giudiziaria». Dice ancora Flick: «A me non convince questo modo di procedere. Tutta una serie di sintomi, indicazioni e provocazioni mi lasciano perplesso e non mi paiono in linea con l’impostazione costituzionale della nostra Repubblica».«Se la vicenda dei migranti continua ad essere in mano a Salvini è giunto il momento di pensare alla lotta di popolo armato», scrive su Facebook Guglielmo Allodi, già dirigente del Pci-Pds. «Questo Allodi non è un qualunque militante senza potere e fuori di testa», scrive Maurizio Blondet nel suo blog. «E’ stato il capo della segreteria politica di Bassolino, già ministro nel primo governo D’Alema», quando l’ex sindaco di Napoli divenne presidente della Regione Campania, carica che mantenne fino al 2010. Stiamo quindi parlando di «un grand commis del potere, un esponente di livello della “sinistra”». E ora invoca la “lotta armata” per fermare Salvini? «Ho un orribile presentimento», confessa Blondet, giornalista di lungo corso, già inviato di “Oggi”, “Il Giornale” e “Avvenire”. Sono trascorsi otto giorni – un’enormità, secondo Blondet – prima che l’autorità giudiziaria sequestrasse materiali negli uffici di Autostrade per l’Italia, dopo il collasso del viadotto Morandi. «Cerchiamo il filmato del crollo», disse ai giornali il pm di Genova, ammettendo però che non ci fosse ancora alcun indagato. Dunque, conclude Blondet, il filmato del crollo che non c’è più: «Hanno sequestrato le macerie, ma il 20 agosto non avevano perquisito la sede della concessionaria». E l’iscrizione nel registro degli indagati, spesso considerata un atto dovuto? «Una settimana, e nemmeno un imputato. Neppure un capo d’imputazione: non sanno di cosa accusare chi». La procura di Genova? «E’ la stessa che ha indagato Salvini per la storia dei finanziamenti della Lega».
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Proclamato: nessun mistero, è l’Ottava a governare la vita
La Legge dell’Ottava? Io non ho inventato niente. Ho solo messo insieme quello che già c’era, per capire come e quanto fosse presente, ovunque, sul pianeta. Cos’è questa informazione? Di per sé è una legge, e l’amministrazione di questa legge è diventato il modo in cui tutti gli ambiti iniziatici si sono “allenati” ad essere “speciali”. Mi riferisco a tutti gli ambiti iniziatici: la Legge dell’Ottava non è solo un’interpretazione dei Rosacroce in Occidente; riguarda, nei millenni, tutto il mondo iniziatico, a tutte le latitudini. Perché questa grandissima diffusione di questa legge? Perché riguarda il modo in cui la natura si esprime, e a sua volta la natura va intesa come il modo in cui il divino si manifesta. Un ultimo passaggio: per questa legge, la natura è il divino. Con molta semplicità, bisogna immaginare che questa legge si basi su una struttura numerica che si ripete sempre e comunque, in tutti gli ambiti fisici e (cosa che sfugge alla maggior parte delle persone) soprattutto negli ambiti psichici. Esempio classico, la luce del sole: a noi appare come bianca, ma sappiamo tutti che – una volta “aperta” – ha dentro 7 colori; quindi, la summa di quei 7 colori (più uno: la luce bianca) è la sintesi di questa legge. Per cui, la legge è costituita da 7 momenti, più uno: ed ecco l’Ottava.Idem in ambito musicale: le 7 note, quando decidono di aumentare di frequenza, passano alle 7 note successive assorbendo immediatamente il “do” seguente (do, re, mi, fa, sol, la, si, più uno: do). E’ una legge che ha a che fare con la modalità aggregante dei cristalli, che sono 7. Ha a che fare con il modo in cui i gas si comportano, ha a che fare con la chimica. E’ una legge che la scienza conosce: la conosce, ma finora non ha avuto “voglia” di metterla insieme e definirla unica, presente a tutti i livelli. La cosa più importante? L’interpretazione di questa stessa legge diventa, dentro di noi, una modalità con cui “divenire”. O meglio: se è una legge che si interpreta a livello musicale, possiamo intendere noi stessi come degli “strumenti” che possono essere “suonati”, facendo dei salti. Da millenni, per “suonarsi” in modo diverso, tutti gli ambiti spirituali utilizzano le virtù. Chi è nell’ambito yogico definisce tutto ciò “chakra”. Potrei andare avanti all’infinito, ma tutto ha sempre a che fare con il 7, che viene inserito ovunque, nei contesti di tutte le religioni (comprese quelle bibliche) e in quelli delle “anatomie sottili” dell’Oriente. E’ sempre un uso interpretativo di questa legge che, a livello psichico, permette alle persone di cambiare le proprie “frequenze”, a loro volta intese come virtù, a loro volta intese come nostra capacità di apparire, in questa realtà, con determinate caratteristiche.Questo tipo di legge, interpretata nelle sue specifiche applicazioni, ha dato inizio alla possibilità di costruire edifici secondo questa legge, ma anche dipingere, scrivere e computare, sempre secondo questa legge. E tutti questi passaggi, fino a un certo periodo nella storia dell’umanità, sono stati compiuti da personaggi eccelsi, in ogni civiltà: personaggi che interpretavano l’Ottava. Quello che è successo sul pianeta, negli ultimi cinquemila anni, è esattamente questo. Possiamo aggiungere una chicca, che sono i cerchi nel grano: il loro è un linguaggio chiaramente simbolico (l’Ottava si esprime attraverso il simbolo); e quando i cerchi sono autentici, si esprimono attraverso quella simbologia. Com’è fatta, la simbologia dell’Ottava? Una cosa classica sono le “otto direzioni” (per dirne una, la ruota a 8 raggi del mondo buddista). Poi la legge acquista una complessità numerica, ma sappiate che questo nucleo (il 7+1) è il nocciolo duro di tutto il sapere iniziatico mondiale. Le interpretazioni sono all’ennesima potenza: Feng-Shui, Qi-Gong, Thai-Chi, il Palladio, Raffaello, Michelangelo… tutta gente che interpreta questa legge.Teoricamente, in Europa, l’interpretazione dell’Ottava e la sua amministrazione in ambiti precisi (come quello dei Rosacroce) si è interrotta in modo palese alla morte di Salvador Dalì. Da allora – e non è la prima volta – il mondo iniziatico sembra essere scomparso. Tutto quello che possiamo definire adesso “Rosacroce”, o massoneria, è fuffa. Ci saranno anche brave persone, ma sono assolutamento convinto che si possa escludere, da queste presenze associative, la capacità di intendere e di applicare questa legge come l’hanno avuta certi personaggi, perlomeno fino a Dalì in Europa. Questa cosa è andata avanti per cinquemila anni, e si è deciso di terminarla alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Subito dopo, la presa economica di certi sistemi è stata tale, per cui anche personaggi che dovevano amministrare interi Stati non ne sono rimasti indifferenti (prima, ad affiancare normalmente molti leader erano persone di quel tipo).Poi, certo, è esistito anche un certo Rol, per dire, ma si era ormai sfilacciata quella maglia di personaggi che avevano compreso la storia dell’umanità – con modalità spesso sotterranee – dettando i tempi per smettere di costruire le cattredali e iniziare a occuparsi di opere d’arte, smettere di occuparsi d’arte e iniziare a occuparsi di proto-scienza, per poi magare calarsi in forme architettoniche avveniristiche, eccetera. E lì dietro c’è questa spinta: è una forma decisionale dettata dai mondi iniziatici – chiamateli come volete: sono Sufi, sono Rosacroce qui da noi, sono Fedeli in Amore quando c’è Dante, sono Giordaniti quando c’è Giordano Bruno, si chiamano Radix Davidis (matrice ebraica) prima di arrivare in Europa. E’ un cambio di nomi, di intestazioni, ma anche un cambio di utilizzo di quella legge. La faccio breve: utilizzarla vuol dire cercare di assomigliare il più possibile a Dio, visto che Lui non si dà i limiti che ci diamo noi – perché noi i limiti non li abbiamo, ce li diamo. Ci sono dei limiti oggettivi dettati dalla nostra finitezza, certo, ma non abbiamo limiti a livello mentale, e soprattutto a livello emozionale: quelli ce li diamo noi. A questo livello, allora, si capisce quello che possiamo fare in questa tridimensionalità, perché l’Ottava è la suprema conoscenza delle dimensioni, che a loro volta sono la componente di tutto quello che è natura. E la natura, con le sue leggi, non è solo qui.Come la nostra scienza sa, la natura è presente in altre dimensioni: e lì si manifesta con caratteristiche che non sono le nostre. Si manifesta col tempo e senza lo spazio, con lo spazio e senza il tempo, senza il tempo né lo spazio. Non mi sto inventando nulla: è fisica. Già l’immensamente piccolo queste cose le mostra con una certa precisione. E questo ci dovrebbe far pensare che il lavoro fatto da quelle persone è eccezionale. Non c’è moltissimo interesse, da parte dell’ufficialità, a divulgare tutto ciò – o meglio: manca l’interesse a divulgarlo ufficialmente, mentre c’è grandissimo interesse nell’affrontarlo personalmente, per poi trarne ispirazione per fare poi quello che definiamo ufficialità scientifica. E’ sempre stato così. E questa è la sfumatura giusta, credo, con cui definire il modo attraverso cui, oggi, questa cosa non sembra avere diffusione. Ma il condizionale è d’obbligo: almeno negli ultimi anni, per quanto riguarda il mondo della simbologia, c’è stato un risveglio non da poco. Sta succedendo anche in Italia, dove i freni in questo senso sono maggiori, per via della Chiesa.All’estero è diverso: se i nostri simbologi potessero intervenire fuori dall’Italia, farebbero sfracelli, perché come al solito siamo i primi. Io mi sono confrontato – non lo dico per boria – e vi dico che è così. All’estero non ho ancora incontrato nessuno che ne sappia più di noi: mi farebbe piacere ascoltarlo. Noi in Italia potremmo tranquillamente vivere d’arte? Ma certo. Quando si comincia a capire che l’arte è una forma di agopuntura fatta per il cuore e per la mente, il modo in cui tu puoi presentare l’arte è un’altra cosa. Non è un semplice “è stato costruito da…”. Bisogna aggiungere: “E fa quest’effetto”. E quello è l’incipit di un percorso personale, che puoi fare anche a casa tua, e che comunque ti accompagnerà per tutta la vita. Su tutto il nostro territorio, noi abbiamo – spalmata – questa eredità, che non utilizziamo. Ovunque si abiti, in Italia, questa cosa è visibile, si coglie. A parte i luoghi che ormai sono stati conclamati come perfetti per fare un atto di turismo, come Roma e Venezia, abbiamo fin troppo, in questo senso. Soprattutto, perdiamo tempo. Non capiamo come vada interpretato, tutto ciò.(Michele Proclamato, dichiarazioni rilasciate a Michele Stedile nella diretta in web-streaming su Skype “Domande e risposte” del 14 marzo 2018, pubblicata su YouTube. Studioso ed esperto di simbologia, Proclamato ha pubblicato studi spesso illuminanti, come i libri su Arcimboldo e Newton, Cartesio e Giordano Bruno, l’architettura “sottile” partendo da Vitruvio e la mistica medievale Ildegarda di Bingen).La Legge dell’Ottava? Io non ho inventato niente. Ho solo messo insieme quello che già c’era, per capire come e quanto fosse presente, ovunque, sul pianeta. Cos’è questa informazione? Di per sé è una legge, e l’amministrazione di questa legge è diventato il modo in cui tutti gli ambiti iniziatici si sono “allenati” ad essere “speciali”. Mi riferisco a tutti gli ambiti iniziatici: la Legge dell’Ottava non è solo un’interpretazione dei Rosacroce in Occidente; riguarda, nei millenni, tutto il mondo iniziatico, a tutte le latitudini. Perché questa grandissima diffusione di questa legge? Perché riguarda il modo in cui la natura si esprime, e a sua volta la natura va intesa come il modo in cui il divino si manifesta. Un ultimo passaggio: per questa legge, la natura è il divino. Con molta semplicità, bisogna immaginare che questa legge si basi su una struttura numerica che si ripete sempre e comunque, in tutti gli ambiti fisici e (cosa che sfugge alla maggior parte delle persone) soprattutto negli ambiti psichici. Esempio classico, la luce del sole: a noi appare come bianca, ma sappiamo tutti che – una volta “aperta” – ha dentro 7 colori; quindi, la summa di quei 7 colori (più uno: la luce bianca) è la sintesi di questa legge. Per cui, la legge è costituita da 7 momenti, più uno: ed ecco l’Ottava.
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Meno e meglio: Piemonte, nascono le comunità energetiche
Autoproduzione e condivisione dell’energia prodotta da fonti rinnovabili. Sono questi i princìpi alla base della legge sulle comunità energetiche approvata all’unanimità dalla terza Commissione del Consiglio regionale del Piemonte e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale. La nuova norma, che pone il Piemonte come regione all’avanguardia a livello nazionale, permetterà a comunità di persone, enti e imprese di scambiare tra loro l’energia prodotta da fonti alternative. L’obiettivo delle comunità energetiche sarà quello di agevolare la produzione e lo scambio di energie generate principalmente da fonti rinnovabili, nonché l’efficientamento e la riduzione dei consumi energetici. Con la legge regionale numero 12 del 3 agosto 2018, il Piemonte ha dunque stabilito che i Comuni che intendono proporre la costituzione di una nuova comunità energetica, oppure aderire a una comunità energetica esistente, dovranno adottare uno specifico protocollo d’intesa, redatto sulla base di criteri che dovranno essere indicati da un futuro provvedimento regionale.Le comunità energetiche, alle quali possono partecipare soggetti sia pubblici che privati, possono acquisire e mantenere la qualifica di soggetti produttori di energia se annualmente la quota dell’energia prodotta destinata all’autoconsumo da parte dei membri non è inferiore al 70% del totale. La Regione, attraverso futuri incentivi ad hoc, si impegna a sostenere finanziariamente la fase di costituzione delle comunità energetiche, le quali potranno anche stipulare delle convenzioni con Arera (autorità di regolazione per energia, reti e ambiente), al fine di ottimizzare la gestione e l’utilizzo delle reti di energia. «Il Piemonte, prima Regione italiana a dotarsi di una legge di questo tipo, fa un passo importante nella direzione dell’autosufficienza energetica e della costruzione di un nuovo modello di cooperazione territoriale virtuosa», commenta Fabio Dovana, presidente di Legambiente Piemonte e Valle d’Aosta: «Una scelta importante che speriamo sia seguita da altre Regioni ma soprattutto dal governo nazionale, che invitiamo a recepire subito la direttiva europea che verrà approvata ad ottobre su “prosumer” e comunità dell’energia, per evitare di perdere due anni e aprire subito opportunità nei territori e dar così forza all’autoproduzione e alla distribuzione locale di energia da fonti rinnovabili».«La generazione diffusa di energia e un’autonoma efficienza energetica – prosegue Dovana – contribuiscono infatti alla riduzione del consumo di fonti fossili, delle emissioni inquinanti e climalteranti, ad un miglior utilizzo delle infrastrutture, alla riduzione della dipendenza energetica, alla riduzione delle perdite di rete e ad un’economia di scala». Il tema dell’autoproduzione e della distribuzione locale di energia da fonti rinnovabili è al centro dell’interesse generale per le opportunità che si stanno aprendo con l’innovazione nella gestione energetica, grazie all’efficienza e alla riduzione dei costi delle tecnologie e delle reti. Anche in Italia questa prospettiva avrebbe grandi potenzialità perché, in questa forma, le fonti rinnovabili anche senza incentivi diretti, potrebbero offrire un’adeguata risposta alla domanda di elettricità e calore negli edifici e nei territori, creando valore e nuova occupazione.Il Piemonte dunque, prima Regione italiana, cerca di intercettare questa opportunità su ampia scala dopo anni in cui sul territorio, in forma sperimentale, è stato portato avanti ad esempio il progetto di Comunità Energetiche del Pinerolese promosso come capofila dal Comune di Cantalupa, con un piano di azione orientato all’autosufficienza energetica e volto alla costruzione di una comunità energetica locale. Ora questo tipo di esperienze potrà uscire dalla fase sperimentale e avere un’ampia diffusione. «La nuova legge regionale va nella direzione da noi auspicata – aggiunge Dovana – anche se avremmo preferito che gli obiettivi e le azioni che vengono previsti per le future comunità energetiche fossero meno generici e prevedessero inscindibilmente la riduzione del consumo di fonti fossili associata con la riduzione delle emissioni inquinanti e climalteranti. Chiediamo quindi alla giunta regionale, nella predisposizione dei provvedimenti attuativi della legge appena approvata, di stabilire regole per evitare che l’incentivo alle comunità energetiche diventi un sussidio acritico alla realizzazione di qualsiasi tipo di centrale a biomassa».(“In Piemonte nascono le comunità energetiche”, da “Il Cambiamento” del 17 agosto 2018).Autoproduzione e condivisione dell’energia prodotta da fonti rinnovabili. Sono questi i princìpi alla base della legge sulle comunità energetiche approvata all’unanimità dalla terza Commissione del Consiglio regionale del Piemonte e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale. La nuova norma, che pone il Piemonte come regione all’avanguardia a livello nazionale, permetterà a comunità di persone, enti e imprese di scambiare tra loro l’energia prodotta da fonti alternative. L’obiettivo delle comunità energetiche sarà quello di agevolare la produzione e lo scambio di energie generate principalmente da fonti rinnovabili, nonché l’efficientamento e la riduzione dei consumi energetici. Con la legge regionale numero 12 del 3 agosto 2018, il Piemonte ha dunque stabilito che i Comuni che intendono proporre la costituzione di una nuova comunità energetica, oppure aderire a una comunità energetica esistente, dovranno adottare uno specifico protocollo d’intesa, redatto sulla base di criteri che dovranno essere indicati da un futuro provvedimento regionale.
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Pezzi di merda: fenomenologia dell’odio nell’Italia di Salvini
Succede questo: a proclamarsi paladini dell’uomo dalla pelle scura, oggi, sono i killer politici dell’uomo dalla pelle chiara – quelli che gli hanno tolto tutto, in Europa, dopo aver abbondantemente depredato anche l’Africa, trasformandola in una terra desolata da cui scappare. Così i naufraghi salvati in mare da una nave della Guardia Costiera diventano prigionieri, letteralmente torturati dal vero Uomo Nero, il Ministro della Paura che usurpa la poltrona del Viminale. Ha un problema, l’Uomo Nero, anzi due: non può fare quello che vorrebbe, e che ha promesso agli elettori – tagliare le tasse – e in più deve rispondere di un risarcimento colossale imposto al suo partito dal potere giudiziario. Un risarcimento così anomalo, e così enorme, da ridurre praticamente a zero la possibilità di sostenere qualsiasi attività politica, e quindi di continuare a esistere, come partito. Chi ha paura dell’Uomo Nero? La cosiddetta Europa: quella che impedisce che le tasse vengano abbattute, che le pensioni italiane siano dignitosamente rimpinguate, che giunga un reddito provvisorio ai senza-lavoro. Di questo sono ostaggi, i naufraghi della nave Diciotti: di un’ingiustizia infame, compiuta da Bruxelles.Negli ultimi tre anni, si apprende, l’Italia ha accolto la quasi totalità dei 700.000 migranti sbarcati sulle sue coste. Il resto d’Europa non li vuole. Deve tenerseli, per forza, l’Uomo Nero. Al quale però non si concede – in cambio – di abbassare le imposte, alzare le pensioni, distribuire un reddito di cittadinanza. “Pezzi di merda”, li qualifica senza giri di parole il filosofo televisivo Massimo Cacciari – ma attenzione: l’insulto non è affatto rivolto ai mostri dell’Unione Europea, i fanatici del rigore, gli affamatori della Grecia, i devastatori dell’Italia, i predoni delle autostrade che poi crollano. Su quelli, tuttalpiù, sono piovute fumose analisi, formulate in italiano forbito. L’espressione brutalmente gergale è invece indirizzata agli insensibili criminali che osano trattenere un centinaio di africani, giovani adulti, a bordo di un natante della Guardia Costiera ormeggiato in un porto siciliano. Tra i “pezzi di merda” più autorevoli, se non altro per il ruolo istituzionale che riveste, è il vicepremier Di Maio, il primo a esprimere – sotto forma di minaccia aperta, alla buon’ora – la possibilità di sospendere i finanziamenti miliardari che l’Italia è tenuta, dai trattati, a versare alla burocrazia Ue.Mentre i filosofi incendiano le strade, già lastricate di furore e di violenza, di odio squadristico e mediatico contro l’insolente governo che gli italiani – quei farabutti – hanno osato votare e ora sostanzialmente approvano, maledetti loro, uno dei due consoli che reggono l’esecutivo Conte arriva dunque ad avvertire i cosiddetti partner europei: attenzione, la corda potrebbe spezzarsi. Si comincia ventilando l’indicibile – la renitenza contributiva – e così ci si infila su un sentiero che potrebbe portare addirittura là dove fino a ieri sarebbe stato impensabile: lo spettro dell’uscita dell’Italia dall’Unione Europea, finalmente presentata per quello che è – una cricca di tecnocrati imbroglioni, al soldo della peggiore oligarchia speculativa. Questo è un paese in cui il presidente della Repubblica, parlando con l’allora premier incaricato, lo ha cortesemente (ma irritualmente) invitato a passare a salutare il governatore della Banca d’Italia, l’esimio Ignazio Visco, super-banchiere convinto – al pari del tedesco Günther Oettinger, o del connazionale Carlo Cottarelli – che saranno “i mercati”, in futuro, a “insegnare” agli italiani come votare, pena la scure dello spread, nel caso ripetessero l’errore imperdonabile di premiare gli sciamannati 5 Stelle o, peggio, l’Uomo Nero, cioè l’illuso che voleva il professor Paolo Savona al ministero dell’economia e un principe del giornalismo indipendente come Marcello Foa alla presidenza della Rai.Scherziamo? Siamo impazziti? L’ultima presidente della Rai, Monica Maggioni, è ora presidente della sezione italiana della Commissione Trilaterale, mentre la collega Gruber – quella che ospita frequentemente il noto filosofo, talora affetto da coprolalia – è saldamente ospite dei gagliardi passacarte messi assieme dal conte Étienne Davignon e dall’imperatore David Rockefeller, riuniti per la prima volta nel lontano 1954 all’hotel de Bilderberg a Oosterbeek, in Olanda. Lo stesso Visco, che governa Bankitalia (di proprietà di banche private) è il pupillo di Mario Draghi, che nel 1992 salì a bordo del panfilo Britannia e oggi governa la Bce (di proprietà di banche private). Draghi risulta essere un membro autorevolissimo dello stesso club che annovera tra i suoi eletti il presidente emerito Napolitano e il francese Jacques Attali, l’uomo-ombra di Macron: prontissimo, tramite l’obbediente Tajani, ad attivare il network sotterraneo dimostratosi capace di indurre Berlusconi a venir meno alla parola data a Salvini, sulla nomina di Foa. Tutto è partito dall’Eliseo, cioè dal vertice politico del paese che, oggi anno, depreda 14 Stati africani portandogli via l’equivalente di 500 miliardi di euro, costringendo i loro giovani a imbarcarsi verso le nostre coste.Qualcuno spieghi, ai migranti soccorsi dalla Diciotti, che non possono fidarsi dell’uomo bianco che si finge loro amico. “Timeo Danaos et dona ferentes”: i greci mi fanno paura anche quando portano doni, dice Laocoonte, nell’Eneide, di fronte al Cavallo di Troia appena giunto davanti alle mura della città assediata. Se solo i giornalisti avessero fatto il loro dovere, accusa il Premio Pulitzer americano Seymour Hersh, in questi anni avremmo avuto meno guerre, meno stragi, meno vittime, perché quasi tutte le guerre, così come l’opaco terrorismo stragista, sono state organizzate a tavolino, dalla stessa élite bugiarda, agitando false prove per demonizzare leader che riteneva scomodi. L’hanno potuto fare, sempre, grazie alla connivente reticenza dei giornali, delle televisioni. Lo stesso si può dire dell’intellighenzia nazionale “embedded”, quella che oggi – tra appelli rabbiosi (e schizzi di sterco) – si permette il lusso di criminalizzare l’Uomo Nero, ignorando deliberatamente i crimini mostruosi dell’oligarchia-fantasma che ha declassato il paese, condannandolo al declino dopo averlo svenduto, pezzo su pezzo, fino a farlo crollare come il ponte di Genova. Un’Italia alla frusta, amputata della sua sovranità e taglieggiata dai finti ragionieri di Bruxelles. Eppure, nel paese a cui la Francia impedisce di eleggere il presidente della televisione di Stato, ci si scaglia selvaggiamente contro il ministro che “sequestra” i migranti su una nave.Il crollo delle dittature è spesso preceduto da violenze inconsulte. In Romania, Nicolae Ceaucescu ordinò alla Securitate di sparare nel mucchio, al primo accenno di ribellione popolare. E il satrapo Siad Barre, a lungo padrone della Somalia grazie anche al provvido sostegno post-coloniale italiano, non esitò a ordinare alla polizia di mitragliare il pubblico dello stadio che aveva osato contestarlo. Si dirà che siamo in Italia, dove vige la legge semiseria della “bolla di componenda”, sintetizzata dal genio letterario di Camilleri: ogni conflitto si trasforma in una tempesta in un bicchier d’acqua, se alla fine tutti si portano a casa la loro fetta di torta. Si dirà che il cosiddetto governo gialloverde, quello dell’Uomo Nero, sta esasperando la crisi dei migranti solo per aprire un fronte alternativo da cui attaccare Bruxelles, cioè il super-potere che gli vieterà di mantenere le promesse fatte agli elettori il 4 marzo, pena il ricatto dell’incursione finanziaria sul costo del debito pubblico di un paese reso vulnerabilissimo, come gli altri dell’Eurozona, dall’assenza di una moneta sovrana con la quale difendersi dal racket della Borsa. Sia come sia, lo spettacolo cui si è costretti ad assistere rivela qualcosa di estremamente inedito: mentre giornali e intellettuali lanciano palle di letame, gli elettori osservano con attenzione le mosse del loro governo, il primo esecutivo – nella storia ingloriosa dell’Ue – completamente sgradito da Bruxelles.Succede questo: a proclamarsi paladini dell’uomo dalla pelle scura, oggi, sono i killer politici dell’uomo dalla pelle chiara – quelli che gli hanno tolto tutto, in Europa, dopo aver abbondantemente depredato anche l’Africa, trasformandola in una terra desolata da cui scappare. Così i naufraghi salvati in mare da una nave della Guardia Costiera italiana diventano prigionieri, letteralmente torturati dal vero Uomo Nero, il Ministro della Paura che usurpa la poltrona del Viminale. Ha un problema, l’Uomo Nero, anzi due: non può fare quello che vorrebbe, e che ha promesso agli elettori – tagliare le tasse – e in più deve rispondere di un risarcimento colossale imposto al suo partito dal potere giudiziario. Un risarcimento così anomalo, e così enorme, da ridurre praticamente a zero la possibilità di sostenere qualsiasi attività politica, e quindi di continuare a esistere, come partito. Chi ha paura dell’Uomo Nero? La cosiddetta Europa: quella che impedisce che le tasse vengano abbattute, che le pensioni italiane siano dignitosamente rimpinguate, che giunga un reddito provvisorio ai senza-lavoro. Di questo sono ostaggi, i naufraghi della nave Diciotti: di un’ingiustizia infame, compiuta da Bruxelles.
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Alfredino? Gettato nel pozzo di Vermicino dai suoi assassini
La fine di Alfredino Rampi a Vermicino non è dovuta a una disgrazia, ma al disegno di un criminale che ha imbracato il bambino alla vita, lo ha calato nel pozzo con una corda a doppino e lo ha lasciato cadere. La sconvolgente ipotesi non ha ancora il crisma della certezza ma le prove documentali e testimoniali, riscontrate durante il processo contro il titolare che ha costruito il pozzo lasciano poco spazio a possibili errori. La ricostruzione, valida fino ad oggi, secondo la quale Alfredino è scivolato per caso nello stretto cunicolo, si regge su una testimonianza, confusa e contraddittoria: quella di Angelo Licheri, il coraggioso tipografo che si fece calare nel pozzo nel tentativo di salvare il bambino. Ma mercoledì prossimo il pm Giancarlo Armati chiederà la restituzione degli atti processuali. Le sue nuove indagini saranno indirizzate su una nuova ipotesi di reato: l’omicidio premeditato. Come in un giallo imperniato sul delitto perfetto ricapitoliamo, seguendo gli atti processuali, gli episodi così come sono accaduti dopo la morte di Alfredino, rimasto incastrato nello stretto cunicolo a 60 metri di profondità.E’ la notte del 13 giugno ‘81, milioni di telespettatori spengono il video alle prime ore del mattino, profondamente amareggiati e delusi. Addolorato è anche il presidente della Repubblica, Pertini, che era corso sul posto nel pomeriggio quando si credeva che il bambino di sei anni potesse essere salvato. Il pm Giancarlo Armati, dopo la dichiarazione di morte presunta, ordina che siano immessi nel cunicolo gas refrigeranti. Il magistrato dovrà, poi, passare l’inchiesta al giudice istruttore. Si scava per alcuni giorni, poi viene prelevata una grossa sfera di terreno congelato con all’interno il corpo di Alfredino. La palla di terra e ghiaccio è trasportata all’Istituto di medicina legale dell’università. Il corpo, pur rimanendo congelato, viene isolato dalla terra; si fotografano le varie fasi e alcuni fotogrammi testimoniano l’esatta posizione di Alfredino dentro il pozzo. Il bambino si trovava nel cunicolo come fosse seduto, con le gambe ritirate a angolo retto in avanti. Il braccio sinistro, piegato anch’esso ad angolo retto, era dietro la schiena, l’altro era libero e la mano sovrastava verticalmente la testa.I medici legali scoprono che sotto la maglietta a righe colorate, a partire dalla pancia, c’è una lunga fettuccia di quelle usate per trasportare gli zaini, divisa in due segmenti uniti con un anello metallico molto largo. In sostanza un’imbracatura robusta e ben sistemata che passa anche sotto il braccio rimasto incastrato. Su questo reperto, i medici legali scattano molte foto: in una di esse si vede distintamente un grosso nodo. Per l’imbracatura viene usato anche un manichino, mentre due foto mettono in evidenza una ferita che il bambino aveva sulla testa. Ed è proprio dalla macabra sequenza di queste 62 foto, allineate in un album, che sono nati i primi sospetti sulla vicenda di Vermicino. Il primo interrogativo che si è posto il pm Giancarlo Armati nell’esaminare quei documenti fotografici riguarda il perché i due soccorritori, Licheri e Donato Caruso, non hanno agganciato la corda rossa di soccorso a quell’anello. La risposta più semplice a questo interrogativo l’ha fornita Caruso, sceso dopo Licheri: «Non ho visto quell’imbracatura, forse stava nella parte del corpo incastrata o era coperta e sporca dal fango».Se la risposta fosse quella giusta è evidente che Alfredino è finito nel pozzo con quell’imbracatura – o meglio, qualcuno lo ha calato nel cunicolo e poi lo ha fatto precipitare in modo che il suo corpo non fosse mai trovato. Il bambino invece rimase incastrato per due giorni a circa 36 metri di profondità poi sprofondò a 60 metri. Tutto semplice? Non è così. La soluzione del giallo ancora presenta un punto da chiarire. Angelo Licheri, il primo che raggiunse Alfredino, affermò che quell’imbracatura gli era stata data da uno speleologo prima di scendere nel pozzo di soccorso scavato a due metri dal cunicolo, e che era stato lui ad avvolgere con quella fettuccia il corpo del bambino. Proprio questa testimonianza potrebbe aver portato, finora, gli inquirenti fuori strada. Al processo, in tribunale la versione data da Licheri è stata smentita da alcuni protagonisti delle operazioni di soccorso; il pm Armati ha ravvisato molte contraddizioni su quanto è stato affermato dal coraggioso tipografo. L’ingegner Elveno Pastorelli, in modo perentorio, ha detto in tribunale che Licheri non aveva quell’attrezzatura quando scese con quella specie di ascensore fino a 30 metri. «Non lo avrei mai permesso», ha detto l’ex comandante dei vigili del fuoco, «era un’attrezzatura inadatta».Le sequenze televisive gli danno ragione, si vede Licheri che entra nel bidone-ascensore con le braccia alzate e senza alcuna fettuccia. Ha soltanto una benda legata ad un braccio: l’aveva preparata il professor Fava, il sanitario del San Giovanni che seguì le vicende del bambino e lo aiutò a resistere con latte e bevande mentre era nel cunicolo. La benda, di quelle usate in ospedale, da una parte era fissata al braccio di Licheri, dall’altra aveva un cappio che doveva essere introdotto nel braccio del bambino. Licheri ha eseguito questa operazione, però la benda scivolò. Infatti è stata trovata dai medici legali su una spalla di Alfredino e appare in due foto. Ma l’ingegner Pastorelli afferma un’altra verità, dopo aver visto le foto dell’Istituto di medicina legale. Era impossibile a Licheri o a qualsiasi altra persona realizzare quell’imbracatura all’ interno del cunicolo. Il pozzo è largo soltanto 28 centimetri, il soccorritore doveva stringere le spalle e unire le braccia protese in avanti, per potersi calare. Poteva soltanto far uso di piccoli movimenti delle sole mani e, in quelle condizioni, è pazzesco pensare che si possa fare una imbracatura.Più drammatico è stato il confronto tra il vigile del fuoco Mario Gonini e Licheri. Gonini, che si trovava a 30 metri nella piccola galleria scavata tra il cunicolo e il pozzo di soccorso, aiutò Licheri a calarsi: gli legò i piedi, fece scendere lentamente davanti a lui la corda rossa di soccorso e un piccolo tubo che portava ossigeno per respirare. Il vigile del fuoco ha sostenuto che Licheri non aveva alcuna fettuccia e, quando quest’ultimo insisteva nella sua versione, Gonini ha urlato: «Non fare il bambino, dì la verità!». Che Licheri non avesse l’imbracatura quando scese nel cunicolo lo ha sostenuto anche lo speleologo Bernabei, che era insieme a Gonini. Bernabei e Gonini erano le uniche due persone che si trovavano, sdraiate, nella piccola galleria di raccordo, lunga 2 metri. C’è inoltre un altro elemento che mette in discussione la testimonianza di Licheri. Lo ha fornito lui stesso quando raggiunse Alfredino nel cunicolo. «Lo hai preso?», gli chiese il vigile Gonini. «Mi scivola… mi scivola», rispose Licheri. E’ evidente che il soccorritore non stava operando su quella imbracatura, forte e massiccia, che il bambino aveva sul corpo, ma tentava di agganciare la mano con la benda.Anche le manette con le quali l’altro soccorritore, Caruso, tentò di agganciare quella mano, scivolarono e il tentativo fu inutile. Licheri, inoltre, quando risalì non disse a nessuno che aveva imbracato il piccolo e che bastava agganciare la corda rossa all’ anello metallico. In questo quadro assume una rilevante importanza il comportamento di Alfredino nei due giorni che visse nel cunicolo. Non parlò mai, durante i colloqui con il vigile Nando, di come era finito in quel pozzo. L’ esame delle cose dette dal bambino comporta una sola spiegazione: Alfredino non si era reso conto in quale posto si trovava. «Quando venite a salvarmi?», chiese a Nando. Il vigile rispose: «Abbiamo delle difficoltà, ma verrò presto a prenderti». Alfredino, con voce risentita: «Ma quale difficoltà! Sfondate la porta e entrate nella stanza buia». Non fece mai il nome di nessuna persona da lui conosciuta, ad eccezione di due volte, quando invocò e parlò con la mamma. Un atteggiamento che lascia adito a numerose considerazioni – una, soprattutto: che il piccolo sia stato calato nel pozzo dopo essere stato addormentato.(Franco Scottoni, “Alfredino du gettato in quel pozzo”, da “La Repubblica” dell’8 febbraio 1987. L’articolo si conclude con la menzione del pm Armati contro Elio Ubertini, il titolare della ditta che eseguì lo sbancamento del terreno. Due operai testimoniarono che l’imboccatura del pozzo nel quale rimase intrappolato il bambino era stata da loro chiusa con una grossa lastra di ferro, quest’ ultima coperta con grosse pietre e con due palanche di legno. «Un altro elemento che prova che il bambino non era in grado di aprire l’imboccatura del pozzo». L’articolo è ripreso dal blog dello scrittore Giuseppe Genna, autore del romanzo “Dies Irae” ispirato alla tragedia di Vermicino. Lo stesso Genna riporta anche un secondo articolo di “Repubblica”, datato 6 novembre 1987, nel quale il quotidiano scrive: «I misteri della tragedia di Alfredino Rampi, il bambino deceduto il 13 giugno ’81 nel cunicolo del pozzo di Vermicino, resteranno insoluti». Il pm si è arreso, chiedendo l’archiviazione del caso: Armati si è trovato nella impossibilità di accertare se la fine di Alfredino sia stata causata da disgrazia o da altre ragioni «più sconvolgenti», come lascerebbe pensare «la discordanza delle prove testimoniali e materiali».Ubertini, che aveva sbancato il terreno, fu accusato di omicidio per aver lasciato incustodita l’apertura del pozzo. L’imputato fu assolto con formula piena, ma durante il dibattimento emersero nuovi fatti. Il capo dei soccorritori, Mino Pastorelli, insieme a due vigili del fuoco sostenne che la cinghia trovata attorno al corpo di Alfredino «non poteva essere stata messa dal soccorritore Licheri, ma da qualcuno che aveva voluto calare il bambino nel pozzo». Inoltre fu presentata una perizia che stabiliva l’impossibilità che Alfredino fosse precipitato per disgrazia, in quel maledetto pozzo, a causa dalla limitata circonferenza del cunicolo. «Queste e altre circostanze – scrive sempre “Repubblica” – non hanno trovato dei riscontri probatori tali da chiarire con certezza il giallo». Così il pm Armati non ha potuto far altro che richiedere l’archiviazione, come normalmente avviene in casi così controversi. «L’ipotesi che dietro la morte di Alfredino ci sia stata volontà non è una fantasmagoria da conspiracy theory», sottolinea Giuseppe Genna nel suo blog. «Ci fu un processo e quel processo manifestò irresolubili ambiguità, legate all’esame del povero corpicino». Tutto ciò, aggiunge lo scrittore, è poco noto agli italiani «poiché l’impatto della diretta televisiva, che mostrava a milioni di spettatori un caso tragicamente fortuito, impresse un’immagine inscalfibile nell’immaginario nazionale»).La fine di Alfredino Rampi a Vermicino non è dovuta a una disgrazia, ma al disegno di un criminale che ha imbracato il bambino alla vita, lo ha calato nel pozzo con una corda a doppino e lo ha lasciato cadere. La sconvolgente ipotesi non ha ancora il crisma della certezza ma le prove documentali e testimoniali, riscontrate durante il processo contro il titolare che ha costruito il pozzo lasciano poco spazio a possibili errori. La ricostruzione, valida fino ad oggi, secondo la quale Alfredino è scivolato per caso nello stretto cunicolo, si regge su una testimonianza, confusa e contraddittoria: quella di Angelo Licheri, il coraggioso tipografo che si fece calare nel pozzo nel tentativo di salvare il bambino. Ma mercoledì prossimo il pm Giancarlo Armati chiederà la restituzione degli atti processuali. Le sue nuove indagini saranno indirizzate su una nuova ipotesi di reato: l’omicidio premeditato. Come in un giallo imperniato sul delitto perfetto ricapitoliamo, seguendo gli atti processuali, gli episodi così come sono accaduti dopo la morte di Alfredino, rimasto incastrato nello stretto cunicolo a 60 metri di profondità.
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Frater Kronos: voi popolo siete bestie, tocca a noi guidarvi
Io credo nel diritto-dovere, da parte di chi sia un iniziato sostanziale e non soltanto virtuale alla libera muratoria, di autocostituirsi in élite di governo, per il bene stesso del cosiddetto “popolo”. Ma credo anche che tutto ciò, nel mondo contemporaneo, debba avvenire salvaguardando le forme esteriori della democrazia e della sovranità popolare. Potreste definirmi un neoaristocratico, come fa Frater Jahoel, oppure un demo-aristocratico, come preferisco io stesso. Ovvio che siano sempre state le oligarchie a dominare il resto della popolazione. Però, è bene che queste oligarchie siano composte non da ceti nobiliari inetti, ignoranti, bigotti e pelandroni, bensì da iniziati alle “philosophiae occultae”, da superuomini temprati in modo non superficiale sul piano spirituale, da saggi che si sappiano elevare, nietzschianamente, «al di là del bene e del male», curando e alimentando quanto va curato e alimentato del corpo sociale e amputando senza remore quello che va amputato. La maggior parte dei troppi miliardi di individui che abitano il pianeta, anche in Occidente, vive un’esistenza bestiale, anonima e senza senso. È importante che questi esseri semibestiali siano guidati da menti salde e mani energiche, anche se spesso devono rimanere invisibili, lasciando il “front office” a politicanti spaventapasseri e parafulmini.Tutto ciò deve avvenire secondo regole ben precise. Pena il caos e l’anarchia distruttiva a danno di coloro che meritano davvero l’appellativo di donne e uomini, che hanno un’anima e uno spirito, che non riducono il proprio orizzonte esistenziale al solo aspetto materiale. È giusto considerarmi un aristocratico, ma appunto “neo”. Nel senso che, al di là del mio retaggio familiare, considero positiva la distruzione dell’Ancien Régime da parte dei liberi muratori del Sette-Ottocento. E reputo apprezzabile e necessaria anche la distruzione del potere temporale diretto delle Chiese, di quella cattolica in primo luogo. Sarebbe stato assurdo, in un mondo progredito sul piano scientifico e tecnologico come quello occidentale, perpetuare un controllo teocratico invasivo sulla società e la convivenza civile. Lo sbaglio, semmai, è consistito nella pretesa di edificare delle società troppo democratiche, anarcoidi e massificanti, puntando in modo eccessivo sui diritti e poco sui doveri dell’uomo e del cittadino. Sarebbe stato più giusto sostituire le aristocrazie del lignaggio con demoaristocrazie dello spirito, calibrate sul grado di elevatezza iniziatica degli aspiranti governanti. L’errore storico gravissimo dei massoni progressisti è stato quello di pensare che fosse giusto e opportuno estendere la libertà, la fratellanza e l’uguaglianza a tutti gli esseri umani, anche a quelli indegni sul piano morale, intellettuale e spirituale.(Estratto di un intervento del misterioso “Frater Kronos”, presente con altre tre eminenze grigie della supermassoneria internazionale nell’appendice conclusiva dell’esplosivo volume “Massoni, società a responsabilità illimitata – La scoperta delle Ur-Lodges”, firmato da Gioele Magaldi e pubblicato nel 2014 da Chiarelettere, con prefazione di Laura Maragnani, redattrice di “Panorama”. Nel sito “Isola di Avalon”, Seyan Nagur ipotizza che “Frater Kronos” sia il miliardario super-speculatore George Soros, promotore di Open Society e finanziatore delle “rivoluzioni colorate” che hanno scosso l’Europa, inclusa la crisi ucraina. Grande sostenitore di Barack Obama, Soros è attualmente presidente del Soros Fund Management, dopo aver rivestito un ruolo di vertice nel Council on Foreign Relations, cuore del vero potere statunitense. Il suo appoggio al movimento sindacale polacco Solidarnosc, nonché il supporto all’organizzazione cecoslovacca per la tutela dei diritti umani “Charta 77”, ricorda il sito, contribuirono al crollo dell’Unione Sovietica. Gli si attribuisce un ruolo decisivo anche nella “Rivoluzione delle Rose”, costata poi alla Georgia la perdita dell’Ossezia del Sud, abitata da russi.Fortemente avversato dall’Ungheria, suo paese d’origine, oggi Soros è considerato tra i massimi finanziatori della “tratta dei migranti”, che nel Mediterraneo utilizza l’opaca rete delle Ong. Nel brano del libro di Magaldi (ove compare l’autore stesso, con lo pseudonimo di “Frater Jahoel”) emerge la visione apertamente sinarchica di “Frater Kronos”: secondo la dottrina ottocentesca del marchese Alexandre St-Yves d’Alveydre, medico francese e massone – la “sinarchia d’impero” – le élite sarebbero chiamate addirittura sul piano morale a governare le masse, ritenendo il popolo incapace di autogovernarsi. Da qui la diffidenza verso il sistema democratico promosso già nel Settecento dalla massoneria progressista attraverso l’Illuminismo. Diffidenza emersa in storici saggi come “La crisi della democrazia” che le superlogge reazionarie – guidate dalla “Three Eyes” di Kissinger, Brzezinski e Rockefeller – nel 1975 affidarono, per tramite della Commissione Trilaterale, a intellettuali come Michel Crozier, Samuel Huntington e Joji Watanuki.Una pietra miliare, che spiega l’involuzione oligarchica del potere finanziaerio globalista, neoliberista e privatizzatore, con il quale oggi l’umanità è costretta a fare i conti. Per contro, anche attraverso le rivelazioni contenute nel libro di Magaldi – cui seguirà nel 2019 un secondo volume, “Globalizzazione e massoneria” – si fa sempre più diffusa la percezione della vera natura del tornante storico che stiamo vivendo, con i suoi club esclusivi e i suoi inaccessibili protagonisti. Dunque, il “Frater Kronos” che parla in modo così apertamente franco e sconcertante, nel libro di Magaldi, è davvero George Soros, bestia nera di tutti i movimenti sovranisti che, per reazione, stanno sorgendo in Europa? Proprio Soros, scrive “Isola di Avalon”, è il tipico rappresentante di quella sedicente “sinistra” mondiale «che ha come unico scopo la destrutturazione degli Stati sociali e democratici per imporre il suo Totaler Staat Mondiale, quello degli autoreferenziali àristoi. Tra questi “neomalthusiani” ricordiamo Tony Blair, Bill Clinton, François Mitterrand, Jacques Attali, Gerhard Schröder, Christine Lagarde, François Hollande, non dimenticando il Pd italiano»).Io credo nel diritto-dovere, da parte di chi sia un iniziato sostanziale e non soltanto virtuale alla libera muratoria, di autocostituirsi in élite di governo, per il bene stesso del cosiddetto “popolo”. Ma credo anche che tutto ciò, nel mondo contemporaneo, debba avvenire salvaguardando le forme esteriori della democrazia e della sovranità popolare. Potreste definirmi un neoaristocratico, come fa Frater Jahoel, oppure un demo-aristocratico, come preferisco io stesso. Ovvio che siano sempre state le oligarchie a dominare il resto della popolazione. Però, è bene che queste oligarchie siano composte non da ceti nobiliari inetti, ignoranti, bigotti e pelandroni, bensì da iniziati alle “philosophiae occultae”, da superuomini temprati in modo non superficiale sul piano spirituale, da saggi che si sappiano elevare, nietzschianamente, «al di là del bene e del male», curando e alimentando quanto va curato e alimentato del corpo sociale e amputando senza remore quello che va amputato. La maggior parte dei troppi miliardi di individui che abitano il pianeta, anche in Occidente, vive un’esistenza bestiale, anonima e senza senso. È importante che questi esseri semibestiali siano guidati da menti salde e mani energiche, anche se spesso devono rimanere invisibili, lasciando il “front office” a politicanti spaventapasseri e parafulmini.
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Zuesse: Bannon sfida Soros ma non fidatevi, vuole l’Europa
Scrive Eric Zuesse, su “Strategic-culture.org”, che due schieramenti politici – uno guidato da George Soros e l’altro creato dal nuovo arrivato, Steve Bannon – sono entrati in competizione per il controllo politico dell’Europa. Soros ha guidato a lungo i grandi capitalisti liberal americani verso l’egemonia europea, mentre Bannon sta ora organizzando una squadra di miliardari (altrettanto conservatori) per strappare la vittoria ai liberal attraverso la leva del populismo sovranista. Lo scrive Rosanna Spadini su “Come Don Chisciotte”, sintetizzando la panoramica geopolitica fornita da Zuesse, scrittore e analista statunitense. Bannon contro Soros? Attenzione: «Nessuno di loro è progressista o populista di sinistra», avverte Zuesse. «L’unico populismo che attualmente ogni capitalista promuove è quello della squadra di Bannon. Comunque – aggiunge Zuesse – entrambe le squadre si demonizzano a vicenda, sia per il controllo del governo degli Stati Uniti che, a livello internazionale, per il controllo del mondo intero, opponendo due diverse visioni del mondo: liberale e conservatrice, o meglio globalista e nazionalista». Entrambi dicono di sostenere la democrazia? Sì, ma magari con le rivoluzioni colorate di Soros (Ucraina, Medio Oriente) o le guerre “democratiche” (Iraq) e i “regime change” (Egitto, Tunisia, Libia, Siria).
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L’euro-pareggio di bilancio demolisce ponti anche a Berlino
Era esattamente un anno fa, l’agosto del 2017, e un prestigioso editorialista denunciava chiaro che «ponti e strade si stanno sbriciolando mentre le amministrazioni usano i fondi destinati alla manutenzione per, invece, tagliare i deficit». Bruxelles richiedeva, insaziabile, di pareggiare i bilanci anche a livello locale. Un ingegnere intervistato dal grande quotidiano addirittura tuonava: «Questa è una sirena d’allarme per l’intero paese», e il cronista aggiungeva: «Ed è anche un monumento alla crisi delle sue infrastrutture». Sì, esatto, si parlava proprio di G… No, non di Genova: di Germania, dove «una vastità di strade, ponti e palazzi pubblici sono in uno stato di degrado scioccante». La parola usata fu “scioccante”. E che non ci siano equivoci in partenza. Il più prestigioso istituto di studi economici tedesco, il Deutsches Institut für Wirtschaftsforschung di Berlino, lo scrive nero su bianco: la Germania ha voluto l’euro per arricchire smisuratamente le sue élite, lasciando però nel degrado vaste porzioni del paese. Fra cui proprio le infrastrutture ‘corrose’ dai tagli ai budget nazionali e locali. Lascia increduli leggere, fra le pagine dell’istituto, che «la Germania non solo vede un terribile abbandono delle infrastrutture dei trasporti e di quelle pubbliche, ma anche in quelle scolastiche».E, di nuovo, che non ci siano equivoci sul fatto che sono le regole dell’Eurozona a imporre i tagli più sciagurati alle infrastrutture tedesche. Sempre dagli studi del Deutsches Institut für Wirtschaftsforschung di Berlino: «Il governo di Angela Merkel ha imposto nel 2007 il pareggio di bilancio per legge a tutte le amministrazioni pubbliche statali e municipali. Esse non possono più spendere a deficit in nessun caso… Ma questo è stato fatto ignorando totalmente la salute economica delle comunità tedesche, che devono obbedire a questa regola severissima anche se prive di mezzi, o addirittura in crisi nera». E infatti il prestigioso quotidiano di cui all’inizio, che è il “Financial Times”, titolava così il pezzo: “Sempre più crepe nelle infrastrutture affamate di fondi in Germania”. Pausa. Prima di continuare è doveroso però dar conto di una differenza fondamentale e, dopo il Morandi, da far accapponare la pelle, fra Berlino e Roma. Cioè: abbiamo detto che anche da loro le regole di Bruxelles stanno sbriciolando ponti, strade e muri, ma almeno da loro si agisce in tempo per la pubblica sicurezza.Il grande ponte di Leverkusen sul Reno, in uno dei centri industriali più produttivi della Germania, iniziò a mostrare crepe nel 2012, sotto il peso di un flusso enorme di Tir, 14.000 al giorno. Fu chiuso all’istante al traffico dei camion senza riguardo per il caos industriale che la disposizione causò. Riaprirà nel 2020. Lo stesso per un altro ponte enorme, sempre sul Reno, il Neuenkamp, che iniziò con crepe mentre si sorbiva almeno 100.000 veicoli al giorno: chiuso, con relativo panico per le aziende della Ruhr, ma chiuso. Mostrava «danni ai tiranti»… Vengono i brividi, a leggere quella frase. Ma l’Europa non perdona, e anche Angela Merkel deve imporre tagli selvaggi e ‘chemioterapia’ di qualsiasi spesa pubblica sul territorio, quando essa sia in eccesso di un deficit dello… 0,35%, mentre oltre la metà del paese ha infrastrutture scandalose. Il Kfw, che all’incirca equivale alla nostra Cassa Depositi e Prestiti, stima che la Germania avrebbe bisogno urgente, come minimo, di 126 miliardi di euro per strade, ponti e palazzi, ma c’è il veto firmato euro. Il partito Spd di centrosinistra ha scritto in campagna elettorale: «Per troppo tempo la Germania si è fissata sul pareggio di bilancio e sulla riduzione dei deficit invece che sugli investimenti necessari, e questo è il risultato».Il meccanismo perverso è identico in Germania come in Italia: si vive nel terrore del debito, spiega ancora il Deutsches Institut für Wirtschaftsforschung, e quindi «appena ci sono anche solo due soldi in cassa, gli amministratori tedeschi a tutti i livelli corrono a ridurre i deficit invece che a riparare le infrastrutture». E’ per questo che io ho denunciato come disgustoso il gran proclama di Juncker, dove l’Ue tentava di discolparsi per la tragedia di Genova dicendo che stiamo ricevendo 2,5 miliardi di fondi europei per le infrastrutture dal 2014, e che abbiamo avuto da loro un ‘permesso’ di spendere 8,5 miliardi sulle autostrade. Certo, Juncker e Ue versano 5 gocce d’acqua nel nostro lago mentre ci obbligano a prosciugarlo con un’idrovora, e poi ci dicono: «Dove l’avete messa tutta l’acqua che vi abbiamo dato?». Ipocriti criminali. E intanto i bravi tedeschi del nord, che in termini relativi sono come il nostro meridione in Germania, soffrono disagi gravi in tutto, perché strade e ferrovie sono «in uno stato di degrado scioccante» e nessuno può spendere nulla.Nella Westfalia ci sono almeno 300 ponti a rischio, stanno andando in pezzi. Se poi si parla delle regioni meno industrializzate il quadro è disastroso, sembra che dagli anni ’70 nulla sia stato toccato, dicono all’istituto di Berlino. Naturalmente sia Merkel (Cdu) che Schulz (Spd), a fronte dell’insostenibilità di questo degrado infrastrutturale, ammettono che la spesa in effetti dovrebbe aumentare, ma… solo quando le amministrazioni avranno fatto bene i loro compiti ‘Eurozona’ a casa, cioè solo quando avranno dei surplus di bilancio… il che significa pagare le infrastrutture coi soldi di cittadini e aziende invece che usando l’investimento dello Stato (surplus di bilancio = gov. ti tassa più di quanto ti dà in spesa, e quindi spende i tuoi soldi invece che i suoi). Un trucco contabile indegno, perché anche la Germania ha perso sovranità monetaria con l’euro – mica può fare come il Giappone, che al momento del bisogno con case e strade devastate dallo tsunami del 2011 ha stampato di sana pianta, e a deficit, 148 miliardi di dollari.Il ragionamento dei due leader tedeschi tenta di nascondere la verità: e cioè che l’ossessione imposta dalle regole dell’Eurozona sul dogma dei pareggi di nilancio ovunque è precisamente la causa del drammatico dissesto delle infrastrutture in Germania; la quale infatti, come scrisse il “Wall Street Journal” nel 2013, «si vanta di essere il modello per l’Europa come ordine nei conti, dimenticando però di dire che quell’ordine è venuto al costo di emorragie negli investimenti per le infrastrutture». E qui si chiude il cerchio. Ve l’aspettavate? G…, no, non di Genova, di Germania, con ponti e strade in pezzi. Il fatto che la loro encomiabile vigilanza abbia finora impedito tragedie come quella del Morandi non toglie assolutamente nulla alla scioccante realtà: nelle criminali regole economiche dell’Eurozona ci si deve svenare per un insensato libro di bilancio dove appaia la scritta “– 10 + 10 = 0”. Poi se palazzi, scuole, strade e ponti si disfano e la gente e le aziende della parte sfigata del paese soffrono, o muoiono, chissenefrega. Anche in Germania, non solo a Genova.(Paolo Barnard, “L’euro demolisce ponti e strade, con o senza i Benetton – povera G.), dal blog di Barnard del 19 agosto 2018).Era esattamente un anno fa, l’agosto del 2017, e un prestigioso editorialista denunciava chiaro che «ponti e strade si stanno sbriciolando mentre le amministrazioni usano i fondi destinati alla manutenzione per, invece, tagliare i deficit». Bruxelles richiedeva, insaziabile, di pareggiare i bilanci anche a livello locale. Un ingegnere intervistato dal grande quotidiano addirittura tuonava: «Questa è una sirena d’allarme per l’intero paese», e il cronista aggiungeva: «Ed è anche un monumento alla crisi delle sue infrastrutture». Sì, esatto, si parlava proprio di G… No, non di Genova: di Germania, dove «una vastità di strade, ponti e palazzi pubblici sono in uno stato di degrado scioccante». La parola usata fu “scioccante”. E che non ci siano equivoci in partenza. Il più prestigioso istituto di studi economici tedesco, il Deutsches Institut für Wirtschaftsforschung di Berlino, lo scrive nero su bianco: la Germania ha voluto l’euro per arricchire smisuratamente le sue élite, lasciando però nel degrado vaste porzioni del paese. Fra cui proprio le infrastrutture ‘corrose’ dai tagli ai budget nazionali e locali. Lascia increduli leggere, fra le pagine dell’istituto, che «la Germania non solo vede un terribile abbandono delle infrastrutture dei trasporti e di quelle pubbliche, ma anche in quelle scolastiche».
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Pedofili a Hollywood: il vero scandalo, che non esplode mai
Ho l’impressione, dice, che gli scandali Weinstein, Spacey e Hoffman siano serviti per silenziare una bomba ben peggiore, che stava per scoppiare: l’esistenza di una rete di pedofili seriali a Hollywood. Lei è Enrica Perucchietti, coraggiosa reporter e autrice di saggi su “fake news” (in collaborazione con Marcello Foa) e terrorismo “false flag”, cioè attuato – sotto falsa bandiera – dagli stessi governi, tramite settori dell’intelligence. Una radiografia del potere, quella fornita dalla Perucchietti, che include anche le pagine meno illuminate dei padroni del mondo: la loro vita privata, spesso inquinata da devianze inconfessabili. Ne ha parlato anche con Gianluca Marletta nel libro “Unisex”, che si interroga sull’ambigua manipolazione sociale che affiora, in controluce, dagli sponsor “politicamente corretti” dell’ideologia gender. Ora, dopo l’ennesimo scandalo – la grande accusatrice Asia Argento a sua volta accusata di abuso su un minorenne – Enrica Perucchietti esprime un terribile sospetto: e se lo tsunami inaugurato con il caso Weinstein fosse servito, essenzialmente, a depistare il pubblico e nascondere un orrore ancora più grande, cioè la pedofilia diffusa a Hollywood oltre che tra i palazzi del massimo potere?«Sono stati offerti dettagli morbosi delle violenze di produttori e attori per distrarre l’opinione pubblica da uno scandalo ben peggiore», scrive Enrica Perucchietti in un post su Facebook, ripreso da “Come Don Chisciotte”. Uno scandalo “silenziato” attraverso la tempesta scatenatasi sui presunti abusi del mondo del cinema, attori e produttori accusati di ricatto sessuale su giovani attrici esordienti. L’altro scandalo, quello rimasto tabù, avrebbe potuto «travolgere e distruggere definitivamente Hollywood: e lì non sarebbe bastato un colpo di spugna per cancellare la violenza». Perché in quel caso «le vittime erano una sorta di agnello sacrificiale dato in pasto al Moloch di turno in cambio di denaro e successo: bambini». Per Enrica Perucchietti, si tratta del «peggior crimine che si possa immaginare», ovvero «la violenza su un bambino». Numerosi fatti di cronaca − come l’accusa di stupro dell’ex attore-bambino Michael Egan al regista Bryan Singer − hanno spinto la regista Amy Berg, già premio Oscar nel 2006 al miglior documentario, “Deliver Us from Evil”, a realizzare un documentario (“An Open Secret”), che analizza alcuni casi di abusi sessuali su minori all’interno dell’industria cinematografica hollywoodiana.Dai pettegolezzi, continua Perucchietti, si è passati alle testimonianze, con i nomi degli accusati, «ricostruendo un vero e proprio “cerchio magico” composto da un’élite blindata e deviata». Ne parla anche il “Giornale”: “Ecco i pedofili al potere: Hollywood, il documentario sull’ombra della pedofilia”. Di fatto, “An Open Secret” mostra come potenti e intoccabili personalità di Hollywood convincano bambini e le loro famiglie a fidarsi di loro. «Si assiste cioè a un primo richiamo suadente delle sirene hollywoodiane (i provini, le feste, i primi film) che ti promettono una carriera sfavillante, poi le spire del serpente si stringono sempre di più attorno alla preda, strappando i bambini alla loro infanzia e consegnandoli nelle mani di ricchi pervertiti». Molti, aggiunge Perucchietti, hanno ovviamente gridato allo scandalo, «facendo quadrato attorno ai presunti pedofili e impedendo la distribuzione del film: è però lunga la lista di attrici e attori che hanno raccontato di aver subito (persino da bambini o adolescenti) molestie sul set o ancora prima, durante i provini».Elijah Wood, per esempio, ha denunciato che a Hollywood «la pedofilia è un problema diffuso». L’attore, che ha cominciato a recitare da bambino, ha spiegato che la madre lo ha protetto da quell’ambiente malsano, tenendolo lontano dalle feste del mondo dello spettacolo. Molti altri attori-bambini non sono stati però così fortunati, aggiunge Enrica Perucchietti: «Corey Feldman, star dei “Goonies” e di “Stand by Me”, ha affermato di essere stato molestato nel 1980 e ha portato la testimonianza di altri bambini-attori vittime di abusi. Da anni denuncia pubblicamente l’esistenza della pedofilia ad Hollywood». Nel marzo 2018, pochi giorni dopo aver annunciato di voler rivelare in un documentario tutto quello che sa, Feldman è stato aggredito e pugnalato. «Ecco, temo che questo sia il segreto sotto gli occhi di tutti», chiosa Perucchietti. Un segreto terribile, che però «non verrà mai alla luce». E’ più che un timore: non avrà lo spazio che merita «sui media di massa e nelle aule di tribunale». Troppo imbarazzante lo scandalo, troppo potenti i protagonisti.Il pubblico dovrà accontentarsi della caduta – mediatica – di Asia Argento, trasformata da vittima a carnefice: da grande accusatrice di Harvey Weinstein a peresunta “predatrice” del diciassettenne Jimmy Bennett, al quale – secondo il “New York Times” – la Argento avrebbe proprosto un risarcimento da 380.000 dollari. Per Enrica Perucchietti, il caso dimostrerebbe «la doppia morale di certi personaggi che si ergono a paladini dei diritti, che si fanno bandiera di campagne di linciaggio mediatiche, che fanno i finti buonisti, che hanno (però) ingombranti scheletri negli armadi». Si tratta di personaggi che «fungono da armi di distrazione di massa». Per coprire il vero scandalo, quello indicibile? Cioè gli abusi, inconfessabili, sui bambini? «Chiariamo: un abuso è un abuso – che avvenga su una donna, un uomo o su un ragazzino». Il problema, scrive ancora Enrica Perucchietti, è che a certi livelli «il marcio colpisce uomini e donne in modo indistinto». Anche perché «il potere ti offusca, ti corrompe: il male ti sfiora e ti contamina come un morbo, facendoti perdere qualunque bussola morale e probabilmente ti sconnette dalla realtà». Un altro problema – non certo trascurabile – è che proprio questi personaggi «hanno in mano le chiavi della “fabbrica dei sogni”», e quindi «manipolano l’immaginario di milioni di persone».Ho l’impressione, dice, che gli scandali Weinstein, Spacey e Hoffman siano serviti per silenziare una bomba ben peggiore, che stava per scoppiare: l’esistenza di una rete di pedofili seriali a Hollywood. Lei è Enrica Perucchietti, coraggiosa reporter e autrice di saggi su “fake news” (in collaborazione con Marcello Foa) e terrorismo “false flag”, cioè attuato – sotto falsa bandiera – dagli stessi governi, tramite settori dell’intelligence. Una radiografia del potere, quella fornita dalla Perucchietti, che include anche le pagine meno illuminate dei padroni del mondo: la loro vita privata, spesso inquinata da devianze inconfessabili. Ne ha parlato con Gianluca Marletta nel libro “Unisex”, che si interroga sull’ambigua manipolazione sociale che affiora, in controluce, dagli sponsor “politicamente corretti” dell’ideologia gender. Ora, dopo l’ennesimo scandalo – la grande accusatrice Asia Argento a sua volta accusata di abuso su un minorenne – Enrica Perucchietti esprime un terribile sospetto: e se lo tsunami inaugurato con il caso Weinstein fosse servito, essenzialmente, a depistare il pubblico e nascondere un orrore ancora più grande, cioè la pedofilia diffusa a Hollywood oltre che tra i palazzi del massimo potere?
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Toninelli: nazionalizzare le autostrade conviene agli italiani
Che le indagini facciano il proprio corso mi pare naturale. Qui siamo su un altro piano, quello dell’opportunità: come si può pensare che i vertici di un’azienda che non è stata in grado di evitare una strage, facendo ciò che era obbligata per contratto a fare, cioè la manutenzione, possano rimanere al proprio posto? È semplicemente disumano. Autostrade è una società privata e dunque il governo non può obbligarla? Privata è la società, non il servizio pubblico che avrebbe dovuto garantire. Quindi, oltre che legittima, è assolutamente doverosa la richiesta di dimissioni. Anzi, in un paese civile, non sarebbero nemmeno da chiedere. Accettare la proposta di Autostrade di costruire un ponte in acciaio in 8 mesi o scegliere una soluzione diversa con altri soggetti? Non ci sarà alcuno scambio tra eventuali opere di risarcimento danni a cose e beni, semplicemente doverose e scontate, e la procedura di ritiro della concessione già avviata. A parte che ricostruire il ponte è comunque un obbligo in capo al concessionario. Oggi lo Stato sarebbe in grado di costruire da sé il ponte? Difficile per lo Stato fare peggio di ciò che abbiamo visto il 14 agosto.Toglieremo il segreto dalle parti non note dei contratti fra lo Stato e Autostrade e anche sulle altre concessioni con altre società? Assolutamente sì. Non può esistere segreto commerciale o di Stato di fronte a contenuti di preminente interesse pubblico. Stiamo per mettere fine alla opacità che ha garantito il patto inconfessabile tra vecchia politica e certi potentati economici. Togliendo la concessione ad Autostrade, si dice che gli oneri per lo Stato sarebbero comunque alti, fino a 20 miliardi secondo alcune stime. La nazionalizzazione, al netto di un costo iniziale, sarebbe invece sarebbe più conveniente. Pensate a quanti ricavi e margini tornerebbero in capo allo Stato attraverso i pedaggi, da utilizzare non per elargire dividendi agli azionisti, ma per rafforzare qualità dei servizi e sicurezza delle nostre strade. Autostrade ha accumulato 10 miliardi di utili in 15 anni. Nel frattempo, il concessionario resta obbligato a proseguire nell’ordinaria amministrazione dell’esercizio delle autostrade fino al trasferimento della gestione stessa. E d’ora in poi lo dovrà fare con i livelli di manutenzione e di sicurezza previsti dal contratto e dalla legge.Controlli più adeguati, anche da parte del ministero delle infrastrutture? Non mi nascondo dietro un dito: la vecchia politica ha portato lo Stato ad abdicare prima dal suo ruolo di gestore e poi da quello di efficace controllore. Tuttavia le responsabilità sostanziali sulla tenuta strutturale delle opere sono del concessionario. Autocritica da parte di noi 5 Stelle per alcune prese di posizione sulla Gronda, a cominciare dall’aver definito “una favoletta” il rischio che il ponte Morandi crollasse, e più in generale sull’ostilità alla grandi infrastrutture? Il tema Gronda è un falso problema, meschinamente strumentalizzato in questi giorni. Stiamo parlando di un’opera che ottimisticamente sarebbe pronta nel 2029: cosa c’entra con un ponte crollato nel 2018? Non siamo assolutamente contrari alle grandi opere utili. Anzi, ne servono tante al paese. Ma qui c’è un problema diverso, di manutenzione ordinaria e straordinaria dell’esistente. Che è proprio quello che non hanno fatto quelli delle grandi opere che oggi ci contestano e che invece dovrebbero chiedere scusa e poi tacere.(Danilo Toninelli, dichirazioni rilasciate al “Corriere della Sera” per l’intervista pubblicata il 21 agosto 2018, ripresa dal “Blog delle Stelle”).Che le indagini facciano il proprio corso mi pare naturale. Qui siamo su un altro piano, quello dell’opportunità: come si può pensare che i vertici di un’azienda che non è stata in grado di evitare una strage, facendo ciò che era obbligata per contratto a fare, cioè la manutenzione, possano rimanere al proprio posto? È semplicemente disumano. Autostrade è una società privata e dunque il governo non può obbligarla? Privata è la società, non il servizio pubblico che avrebbe dovuto garantire. Quindi, oltre che legittima, è assolutamente doverosa la richiesta di dimissioni. Anzi, in un paese civile, non sarebbero nemmeno da chiedere. Accettare la proposta di Autostrade di costruire un ponte in acciaio in 8 mesi o scegliere una soluzione diversa con altri soggetti? Non ci sarà alcuno scambio tra eventuali opere di risarcimento danni a cose e beni, semplicemente doverose e scontate, e la procedura di ritiro della concessione già avviata. A parte che ricostruire il ponte è comunque un obbligo in capo al concessionario. Oggi lo Stato sarebbe in grado di costruire da sé il ponte? Difficile per lo Stato fare peggio di ciò che abbiamo visto il 14 agosto.
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Per chi suona la campana: ricordatevi di restare sottomessi
Vi invito a rileggere il significato del battesimo, soprattutto alla luce degli ultimi studi sulle proprietà dell’acqua di assumere forme differenti. Quello è veramente uno studio bellissimo, inaugurato da Masaru Emoto. Hanno visto come cambia, l’acqua, quando la si fa cristallizzare in condizioni ambientali particolari. Ora si sono fatti passi avanti. S’è visto che la molecola dell’acqua mantiene la sua struttura (chimicamente è sempre acqua) ma le molecole, sottoposte a sollecitazioni differenti, si aggregano e formano delle strutture differenti, con proprietà differenti e con capacità di avere memoria differente. Questo è un fatto che metterà in crisi tutto il fronte medico e anche quello farmacologico, perché viviamo ancora in un sistema dove ci si curia con il protocollo sanitario ospedaliero. Io penso proprio a questo, all’epigenetica, cioè alla capacità dei nostri geni di mutare, sulla base di sollecitazioni esterne, emotive. Ci penso anche a proposito del battesimo cristiano: ritengo il battesimo un momento nel quale vengono attivate delle memorie. Questo è indiscutibile – e non ho mai visto un bambino ridere, al suo battesimo. Ma questo ragionamento l’ho applicato soprattutto sul suono delle campane, che è uno degli aspetti più intriganti che si possono incontrare, quando si studiano le strumentazioni clericali: tutto fa pensare, infatti, che il suono delle campane possa indurre precise alterazioni, in noi.Perché suonavano le campane? Per avvisare che stava inziando la messa: non c’erano ancora gli orologi. Oggi, per sapere dove si trova la chiesa e quando comincia la messa ci basta consultare lo smartphone da 50 euro che abbiamo tutti in tasca: è uno strumento di prigionia, per questo costa così poco. Una volta, le campane servivano anche per gli scongiuri: per allontanare la grandine, per invocare la pioggia e interrompere la siccità (oggi invece basta premere il tasto di un Boeing per irrorare il cielo di alluminio e provocare pioggia o neve, caldo o freddo). Eppure le antiche campane suonano ancora: perché? Sapete, il suono delle campane – la possibilità di suonarle – viene ratificato ogni anno, a livello istituzionale: il clero cattolico è appositamente autorizzato dalla legge, a usare le campane delle chiese. Provate voi a prendete un tamburo: salire sul tetto di casa vostra e mettetevi a suonarlo ogni ora, e vedrete se non vi faranno smettere. Il suono delle campane, invece, è contrastabile legalmente solo nella misura in cui arreca disturbo, con un’emissione di decibel superiore a quella consentita, al punto da essere riconosciuto come fonte di inquinamento acustico. Viceversa, quel suono è inarrestabile. Perché allora le suonano ancora, le campane? La Chiesa non fa mai niente, a caso. C’è sotto qualcosa, no?Io ho fatto un’analisi partendo dall’epigenetica, la scienza che studia come i nostri geni possono cambiare, in tempi rapidissimi, in base alle condizioni ambientali che incontriamo. Cioè: quello che viviamo fa reagire i nostri geni in maniera differente, e trasmette queste informazioni ai nostri figli (che però non hanno vissuto la nostra esperienza). Hanno fatto uno studio su delle cavie, veramente interessante. Hanno preso delle cavie e le hanno messe in un contenitore, per un determinato periodo di tempo. All’accendersi di una luce azzurra, le cavie venivano molestate. Trasferite in un altro contenitore, appena riaccesa la luce azzurra le cavie diventavano nervose: sapevano che sarebbero arrivate le molestie. “Apprendimento diretto”, si chiama in etologia. Poi però hanno fatto riprodurre queste cavie, quindi hanno preso i loro piccoli e li hanno messi in un’altra stanza, in un altro contenitore: i figli non avevano mai visto la luce blu, ma appena si accendeva diventavano inquieti: reagivano cioè come i loro genitori, che invece le molestie le avevano sperimentate e subite, associate alla luce azzurra. I ricercatori hanno quindi visto che l’esperienza negativa dei genitori è finita geneticamente nella prole.Altro capitolo: i sopravvissuti della Shoah. Immaginate come si poteva vivere in un campo di concentramento, con quei livelli di stress estremi. A un certo punto sopravvivevano solo i fortunati che non venivano selezionati per lo sterminio. Quelli che riuscivano a resistere, spesso, erano anche i soggetti che avevano abbassavato la loro soglia di reazione all’atroce stimolo ricevuto da quell’ambiente spaventoso, altrimenti sarebbero morti d’infarto. Una ricerca universitaria americana ha scoperto che i figli dei reduci della Shoah hanno una propensione molto alta ad ammalarsi: il loro sistema immunitario scatta in ritardo, esattamente come scattava in ritardo la reattività dei loro genitori, che avevano rallentato i loro campanelli d’allarme, perché altrimenti scoppiava il loro sistema vitale. I figli hanno dunque ereditato l’atteggiamento dei genitori: ma i figli non ci sono mai stati, nei campi di sterminio. Un fenomeno analogo lo si è osservato sulle scimmie: un esperimento dimostra che possono “imparare”, anche loro, da esperienze che non hanno mai vissuto direttamente, sulla loro pelle.Ci sono 4 scimmie, in una stanza. A un certo punto viene fatta calare una banana dal soffitto. La prima scimmia si avventa sulla banana e, appena la afferra, si apre il pavimento sottostante: tutte le scimmie precipitano, insieme, in una vasca d’acqua gelida. Così, la seconda volta che calano la banana, nessuna scimmia si azzarda più a prenderla. Al che, tolgono una delle 4 scimmie iniziali e ne introducono una nuova. Appena compare la banana, la nuova scimmia si protende per afferrarla, ma le altre tre – che sanno cosa vuol dire (acqua fredda) – bloccano la nuova arrivata: guai ad avvicinarsi, a quella banana. Lei quindi non la tocca, ma senza sapere perché: però capisce che non deve prenderla. L’esperimento va avanti sostituendo gli animali. Tolgono un’altra scimmia, delle prime quattro iniziali, e ne mettono un’altra nuova – quindi: ci sono due scimme “vecchie”, una terza che già sa che non deve prendere la banana, più la scimmia nuova, la quarta. Non appena la banana ricompare, proprio quest’ultima scimmia cerca di afferrarla, ma viene prontamente fermata: non solo dalle prime due scimmie, che ricordano il bagno nell’acqua gelida, ma anche dalla terza scimmia, che nell’acqua non c’è finita mai. Alla fine, sostituiscono tutte le scimmie. Omai ci sono soltanto scimmie nuove: ma nessuna di loro osa più avvicinarsi alla banana che viene calata.Nel VI secolo dopo Cristo viene introdotta dal Papa la suonata delle campane. Il suono delle campane viene introdotto agli albori di un periodo che segnerà un inasprimento generale delle condizioni di vita: di lì a poco, il potere temporale della Chiesa diverrà assoluto. Le campane suoneranno tutte le volte che qualcuno sarà processato e condannato, tutte le volte che un eretico verrà sottoposto all’Auto da Fè, alla gogna. Succederà ogni volta che la persona torturata verrà messa su un carro e trascinata per la città, coperta di sacchi e abiti penitenziali. Tutti potranno udire il suono delle campane. Hai preso la banana? Finisci nell’acqua fredda. Hai rifiutato la Chiesa? Bruci sul rogo, al suono delle campane. Le campane suonavano sempre, ogni volta che si affacciava sul pubblico un Papa, o un vescovo, presentandosi all’altare per dettare le sue condizioni. Da 1200 anni a questa parte, la campana ha suonato ininterrottamente. Trasmettendoci un messaggio ben preciso: stai attento, perché a comandare sono “loro”. Quindi obbedisci, perché chi non l’ha fatto è finito male.Il suono della campana crea uno stato psicofisico che è l’antitesi dell’eros. Nel nostro contesto culturale, quel suono va a predisporci a temere qualcosa che incombe. E questo ci fa stare più buoni: in altre parole, sottomessi. La Chiesa romana riceve ogni anno 6 miliardi di euro dallo Stato italiano? Be’, pazienza. “Sbattezzarsi”? Ma no, si pensa – lasciamo perdere. E le campane, intanto, continuano a suonare. Eppure, il suono della campana è uno strumento raffinatissimo. Hai voglia a protestare, a dire “signori, guardate che avete stancato, con queste campane”: non smetteranno mai. Oltre un millennio di efficacissima tecnologia, per un formidabile controllo sociale. Lo confesso: mi piacerebbe se, prima o poi, si facesse un vero e proprio studio clinico, di carattere epigenetico, per verificare il tipo di alterazioni ormonali che si viene a creare, su un intero popolo, mediante il suono delle campana. Sarebbe interessante comparare il risultato con quello delle regioni del mondo dove non esistono campane che suonano. Credo che avremmo risultati veramente sorprendenti.(Michele Giovagnoli, dichiarazioni rilasciate nel febbraio 2018 alla conferenza “La messa è finita”, ripresa su YouTube. Naturalista, alchimista e scrittore, autore di libri come “Alchimia selvatica” e “Impara a parlare con gli alberi”, Giovagnoli ha pubblicato anche il saggio “La messa è finita”, ovvero “Come liberarsi del più subdolo dei parassiti – gli acutissimi strumenti di dominio in dotazione al clero”, UnoEditori, 175 pagine, euro 12,90).Vi invito a rileggere il significato del battesimo, soprattutto alla luce degli ultimi studi sulle proprietà dell’acqua di assumere forme differenti. Quello è veramente uno studio bellissimo, inaugurato da Masaru Emoto. Hanno visto come cambia, l’acqua, quando la si fa cristallizzare in condizioni ambientali particolari. Ora si sono fatti passi avanti. S’è visto che la molecola dell’acqua mantiene la sua struttura (chimicamente è sempre acqua) ma le molecole, sottoposte a sollecitazioni differenti, si aggregano e formano delle strutture differenti, con proprietà differenti e con capacità di avere memoria differente. Questo è un fatto che metterà in crisi tutto il fronte medico e anche quello farmacologico, perché viviamo ancora in un sistema dove ci si curia con il protocollo sanitario ospedaliero. Io penso proprio a questo, all’epigenetica, cioè alla capacità dei nostri geni di mutare, sulla base di sollecitazioni esterne, emotive. Ci penso anche a proposito del battesimo cristiano: ritengo il battesimo un momento nel quale vengono attivate delle memorie. Questo è indiscutibile – e non ho mai visto un bambino ridere, al suo battesimo. Ma questo ragionamento l’ho applicato soprattutto sul suono delle campane, che è uno degli aspetti più intriganti che si possono incontrare, quando si studiano le strumentazioni clericali: tutto fa pensare, infatti, che il suono delle campane possa indurre precise alterazioni, in noi.