Archivio della Categoria: ‘segnalazioni’
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Maxi-riarmo, Russia e Cina si difendono dagli Usa
iMosca, rende noto “La Voce della Russia”, ha avviato un massiccio riarmo già nel 2008, quando sono state drasticamente aumentate le spese per l’acquisto di nuovi armamenti. In 5 anni l’incidenza delle armi moderne nelle forze armate russe è aumentata dal 6 al 16%. Attualmente l’esercito russo usa prevalentemente armi prodotte negli ultimi 5-10 anni di esistenza dell’Unione Sovietica. Entro il 2020 la Russia cercherà di sostituire il parco esistente dei caccia Sukhoj-27 e Mig-29 Fulcrum con aerei Su-35S, Su-30SM. In primo piano anche i velivoli “stealth” di quinta generazione, come il Sukhoj T-50 Pak-Fa, che sarà sviluppato in collaborazione con l’India, che ha preferito il Pak-Fa all’F-35. Gli aerei d’attacco Su-24 saranno rimpiazzati dai nuovi bombardieri Su-34. Idem per le macchine delle forze terrestri, che saranno sostituite con tre piattaforme da combattimento multiruolo, e cioè con la piattaforma pesante Armata (tank da combattimento), con la piattaforma media Kurganeć-25 e con quella leggera Boomerang. La difesa contraerea userà i sistemi S-400 e S-500. Inoltre, tutte le brigate missilistiche delle truppe terrestri saranno dotate dei nuovi sistemi Iskander.«Il processo di sostituzione delle armi sovietiche con quelle nuove russe durerà altre un decennio», aggiunge “La Voce della Russia”. «Questo processo sarà più lento in caso di navi militari di superficie, in quanto la flotta non ha ancora determinato definitivamente le proprie esigenze verso l’industria». Si parla comunque di nuove portaerei e di un cacciatorpediniere pesante, da dotare di un nuovo sistema contraereo e di un sistema multifunzionale di comando degli armamenti, simile al sistema americano Aegis. Alla costruzione della flotta sottomarina viene attribuita, al contrario, un’attenzione prioritaria: sarà inviata nel Pacifico una parte rilevante dei nuovi sottomarini nucleari Jasen’ dotati di missili da crociera e dei sottomarini portamissili Borej. Per la sua dinamica, «il programma del riarmo russo assomiglia in parte al programma del riarmo cinese, ma con un ritardo di 10-15 anni». Anche Pechino, comunque, considera il 2020 l’anno decisivo entro il quale avrà definitivamente sostituito i vecchi armamenti.Si vis pacem, para bellum. Da una parte l’America, che teme l’ascesa della Cina, e dall’altra il gigante asiatico, che agisce in sinergia con la Russia: il rischio di guerra è così alto che da decenni non si vedeva una corsa così colossale al riarmo. Per gli Usa l’anno 2020 è una data importante nel processo di modifica della configurazione della propria presenza militare globale. Così, nel 2012 a Singapore, alla conferenza sui problemi della sicurezza, l’allora ministro della difesa statunitense Leon Panetta ha dichiarato che nel 2020 nel Pacifico sarà concentrato il 60% delle forze navali americane, tra cui 6 portaerei e gran parte delle navi militari di superficie e dei sottomarini. Il 2020 sarà emblematico anche per le forze armate russe e cinesi: l’incidenza delle armi moderne nelle forze amate russe sarà portata al 70%. Nello stesso periodo, la Cina intende raggiungere risultati importanti nella realizzazione del programma di modernizzazione del proprio esercito.
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Mujica: non sono povero, sono sobrio (quindi felice)
Mujica è un lucidissimo ottantenne che è stato eletto presidente dell’Uruguay e che ha rinunciato agli appannaggi del suo status vivendo con cinquecento dollari o giù di lì in una casetta di due stanze; si sposta con un vecchio Maggiolino Volkswagen. Quando parla all’Onu o nei congressi internazionali, senza nessuna enfasi ma con un vigore che ammutolisce l’uditorio, ripete instancabile cose già note ma dando alla sua voce una vibrazione profetica: anno dopo anno stiamo intaccando, divorando il futuro delle giovani generazioni, le pubblicità di tutto il mondo reclamizzano stili di vita che ci porteranno al disastro inevitabile. Stili di vita che già ora, ove potessero imporsi globalmente, presupporrebbero non un solo pianeta ma tre! E dunque il modello propagandato e agognato è di una colossale falsità, un imbroglio planetario. Gli altri capi di Stato non fiatano quando don Pepe si rivolge a loro. Soffrono e non vedono l’ora di ritornare alle loro alchimie, alle convergenze parallele. Ma puntualmente, cioè al convegno successivo, Mujica scompagina quei loro discorsi, ridicolizza cifre utopiche spacciate come verità sacrosante, il tutto con toni dimessi, senza astio.Ha detto nei suoi discorsi più famosi, primo fra tutti quello davanti alla platea dell’Onu: «Si parla di sviluppo sostenibile, ma che cosa ci frulla in testa? Il modello di sviluppo e di consumo è quello attuale delle società ricche? Di nuovo mi sono chiesto cosa succederebbe a questo pianeta se gli indiani avessero lo stesso numero di auto per famiglia che hanno i tedeschi. Quanto ossigeno ci resterebbe da respirare? Il mondo ha forse oggi risorse sufficienti per far sì che 7-8 miliardi di persone possano avere lo stesso livello di consumo e spreco che hanno le più opulente società occidentali? O dovremo forse fare un altro tipo di ragionamento? Abbiamo creato una civiltà figlia del mercato, della concorrenza che ha portato a un progresso materiale esplosivo. Siamo in una società di mercato e questo ci ha portato alla globalizzazione cui assistiamo. Ma noi stiamo governando la globalizzazione o è la globalizzazione a governarci? E’ possibile parlare di solidarietà in una società basata sulla concorrenza spietata? Fin dove arriva la nostra fratellanza?».«La sfida che abbiamo davanti è grandissima, colossale, e la grande crisi non è ecologica, è politica. L’essere umano non governa oggi; sono le forze che l’uomo ha scatenato a governarlo. Non veniamo al mondo per svilupparci in termini generali; veniamo al mondo per cercare di essere felici, perché la vita è breve e ci sfugge. E nessun bene vale quanto la vita, è elementare. Ma se consumo la mia vita lavorando senza sosta per consumare sempre di più, aggredisco il pianeta e per mantenere quel consumo dovrò produrre sempre di più cose che durano sempre meno. Siamo in un circolo vizioso, ci sentiamo costretti a mantenere una civiltà usa e getta. Questi sono problemi di carattere politico e ci stanno dicendo che bisogna iniziare a lottare per un’altra cultura».Mujica profeta, dunque, ma anche leader, più di moltissimi altri. Ultima sua mossa, ai primi di dicembre, quella di spiazzare i cartelli della droga legalizzando e nazionalizzando in Uruguay la coltivazione e la vendita della marjuana. Qualcosa di eclatante che forse può rinvigorire altre e decisive azioni volte a erodere il mito perverso del consumo senza freni e l’utilizzo senza limiti delle sempre più scarse riserve del pianeta. L’Uruguay non è certo l’America, ha tre milioni di abitanti, è uno dei paesi sudamericani con storie di dittature, di persecuzioni. E prima ancora una storia ancor più tragica, quella della colonizzazione ispanica, di vessazioni, di massacri. Una piccola nazione, dunque, ma ciò che sta facendo Mujica è grande, così grande e potente che i media convenzionali ne parlano pochissimo, perché questo agire fa tremare certuni nelle altissime sfere.Pepe Mujica era, da giovane, un convinto oppositore della dittatura; si era convertito ai Tupamaros, il movimento armato che si rifaceva al leggendario Tupac Amaru, un cacique che aveva capeggiato una lunga e sanguinosa lotta contro i conquistadores spagnoli. Mujica ha pagato, assieme a molti compagni, la sua ribellione con quattordici anni di carcere e torture. Oggi Il suo vivere spartanamente da presidente della sua nazione gli appare cosa scontata: «Yo no soy pobre, Yo soy sobrio», usa dire d’abitudine. Una formidabile coerenza con lo stato del mondo costituito più di poveri che di ricchi. I fasti della sua carica altrove dispiegati (basti pensare all’enormità delle spese per la presidenza della Repubblica che Napolitano si ostina a voler mantenere) Mujica li ritiene un semplice e incongruo retaggio del Medio Evo. Filosofo di formazione, cita volentieri Seneca, Diogene – colui che ricevette Alessandro Magno e i suoi dignitari sulla soglia del suo poverissimo ricovero, pare fosse una botte. Alessandro che gli veniva promettendo tutto e di più, una personalità così grande. Al gentile rifiuto di Diogene sul presupposto che nessuno fa niente per niente, per cui lui non si sarebbe più sentito libero, Alessandro deluso rispose: «Ma allora non possiamo proprio fare niente per te». «Certamente, Alessandro, ero qui seduto al sole per scaldarmi un poco dal freddo della notte, basta che vi facciate un poco più in là».(Carlo Carlucci, “Io non sono povero, sono sobrio – quindi felice”, da “Il Cambiamento” del 17 dicembre 2013).Mujica è un lucidissimo ottantenne che è stato eletto presidente dell’Uruguay e che ha rinunciato agli appannaggi del suo status vivendo con cinquecento dollari o giù di lì in una casetta di due stanze; si sposta con un vecchio Maggiolino Volkswagen. Quando parla all’Onu o nei congressi internazionali, senza nessuna enfasi ma con un vigore che ammutolisce l’uditorio, ripete instancabile cose già note ma dando alla sua voce una vibrazione profetica: anno dopo anno stiamo intaccando, divorando il futuro delle giovani generazioni, le pubblicità di tutto il mondo reclamizzano stili di vita che ci porteranno al disastro inevitabile. Stili di vita che già ora, ove potessero imporsi globalmente, presupporrebbero non un solo pianeta ma tre! E dunque il modello propagandato e agognato è di una colossale falsità, un imbroglio planetario. Gli altri capi di Stato non fiatano quando don Pepe si rivolge a loro. Soffrono e non vedono l’ora di ritornare alle loro alchimie, alle convergenze parallele. Ma puntualmente, cioè al convegno successivo, Mujica scompagina quei loro discorsi, ridicolizza cifre utopiche spacciate come verità sacrosante, il tutto con toni dimessi, senza astio.
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Mistero della Fed, il super-potere che domina il mondo
Le potenze del capitalismo finanziario avevano un piano chiarissimo, un obiettivo di lungo termine: «Creare un sistema mondiale di controllo finanziario in mani private, capace di dominare il sistema politico di ogni nazione e l’economia del mondo». Questo sistema «doveva essere controllato con modalità feudali delle banche centrali del mondo, attraverso accordi segreti». Cardine del sistema, la Banca per i regolamenti internazionali di Basilea, privata e controllata dalle banche centrali mondiali, a loro volta privatizzate. «Ogni banca centrale punta a dominare il suo governo attraverso la capacità di controllare i prestiti sui titoli di Stato, manipolare le valute estere, influenzare il livello di attività economica del paese e condizionare politici cooperativi e compiacenti attraverso ricompense economiche nel mondo del business». A scattare questa fotografia dello scenario attuale è il globalista Carroll Quigley, nel libro “Tragedia e speranza. Una storia del mondo nel nostro tempo”. L’aspetto sconvolgente, fa notare Mauro Bottarelli, è che quel libro uscì nel lontano 1966.Tutto chiaro: nuovo ordine mondiale. Ovvero: il capitalismo finanziario sfratta le sovranità nazionali, cioè l’economia pubblica e democratica, smantellando il potere degli Stati. Scomparso nel ’77, Quigley era un membro molto influente del “Council on Foreign Relations”, il super-salotto che detta l’agenda economica, finanziaria e geopolitica americana attraverso le sue sedi di Washington e New York. Tra i suoi 1.4000 membri, il vero super-potere mondiale, figurano militari e grandi banchieri, rettori universitari e direttori di giornali e televisioni, i vertici delle fondazioni Ford e Rockefeller, presidenti americani (Hoover, Eisenhower, Johnson e Nixon) e segretari di Stato come Edward Reilly Stettinius, Dean Acheson, John Foster Dulles, Christian Archibald Herter e Dean Rusk. Essendo la banca centrale più potente al mondo, la Federal Reserve – che ha appena compiuto cent’anni – era dunque destinata, fin dalla seconda metà degli anni Sessanta, a un ruolo egemone per portare a termine il progetto globalista. Obiettivo: imporre la sua agenda ai governi, scavalcando la funzione pubblica.Murray Rothbard, economista americano di scuola austriaca, descrive così la banca centrale Usa: «L’operazione più segreta e meno riconducibile al governo federale non è, come ci si potrebbe aspettare, la Cia, la Dia, o qualche altra agenzia di intelligence super-segreta», perché tutte le strutture di intelligence sono comunque sottoposte al controllo democratico del Congresso. In segretezza, la Fed batte ogni altra struttura: «Il Federal Reserve System non è riconducibile a nessuno, non ha un budget, non è soggetto a nessun controllo e nessuna commissione del Congresso conosce le sue operazioni o le può davvero supervisionare». La Federal Reserve, che ha il controllo totale del sistema monetario statunitense, «non deve rendere conto a nessuno». Ecco perché per la Fed, come anche per le altre banche centrali, «è sempre stato importante investirsi di un’aura di solennità e di mistero». Infatti, «se la popolazione sapesse ciò che sta succedendo, se fosse in grado di strappare la tenda che copre l’imperscrutabile Mago di Oz, scoprirebbe ben presto che la Fed, lungi dall’essere la soluzione indispensabile al problema dell’inflazione, è essa stessa il cuore del problema».Nessuna sorpresa che un liberale puro con Rothbard abbia in odio la Fed, ammette Bottarelli su “Il Sussidiario”, ma il cuore del problema è: le banche centrali, Fed in testa, anche grazie a questa crisi sono oggi il potere principale a livello politico ed economico. «Cosa sarebbe oggi Wall Street senza la Fed e la sua liquidità? Dove sarebbero i tassi dei Treasuries e quindi il cuore stesso del sistema immobiliare dei mutui, già massacrato dai subprime? Cosa sarebbe l’America senza gli stop-and-go della Fed sul “taper”, capaci di livellare tassi e far sgonfiare e rigonfiare – evitando l’esplosione – la bolla di liquidità? Temo sarebbe un paese schiantato dalla più colossale crisi finanziaria dal 1929, superata – un eufemismo, vista l’economia reale e le sue grida di dolore – creando la più grossa bolla speculativa e di credito della storia. E, di fatto, rendendo il Congresso poco più che un’appendice, cui far recitare melodrammi a soggetto come quello dello “shutdown” o del “debt ceiling”, pantomime che tornano ciclicamente».La leva del comando è nelle mani della Fed, molto più che all’epoca di Alan Greenspan: «Lo sta diventando ora, grazie a questa crisi che ha reso tutti – finanza, economia, politica – dipendenti dalla Fed e dalle sue azioni. Se la Fed vuole crolla tutto, se non vuole gonfia bolle come bambini durante una festa e fa sfondare a Wall Street un record dopo l’altro, visto che comunque i suoi “azionisti di maggioranza” grazie a quei record e a quella liquidità fuori controllo, macinano soldi su soldi». E la stessa Bce? «Non è forse diventata il fulcro dell’intero sistema Europa, politico ed economico, grazie a questa crisi?». Unione bancaria, supervisione unica, regolamenti per i fallimenti e le nazionalizzazioni di istituti, tassi d’interesse, operazioni di finanziamento e rifinanziamento: «Quale Stato può andare contro la Bce? Nessuno, e l’Italia ne sa qualcosa. Chi ha creato, infatti, se non l’Eurotower, il cordone ombelicale tra debito sovrano e sistema bancario, con la liquidità offerta a costo zero alle banche affinché con quei soldi comprassero titoli di Stato dei paesi in crisi, abbassando artificialmente lo spread?».Quello che Bottarelli chiama «incesto» è oggi sotto gli occhi di tutti: «Solo le banche italiane hanno 450 miliardi di debito pubblico nei bilanci, quelle greche hanno ricomprato il 99% del debito ellenico detenuto da soggetti esteri, spalancando le porte al fallimento del paese senza conseguenze, quelle spagnole pure, quelle portoghesi anche». I governi di questi paesi possono forse fare qualcosa al riguardo? «No, devono sottostare alle regole della Bce, la quale può uccidere o lasciare in vita un governo come una banca con una semplice decisione sui tassi, visto che non esiste più alcuna leva di sovranità per le nazioni». La Bce di Trichet era così forte? «No, lo sta diventando sempre più e sempre più in fretta quella di Mario Draghi, uomo Goldman Sachs». Eccesso dietrologico? «Forse, ma rileggete le parole di Carroll Quigley, datate 1966». Nient’altro che un’unica, colossale “coincidenza”? Certo, ha il suo peso l’insaziabile avidità dei banchieri affaristi. Ma c’era soprattutto un duplice obiettivo da centrare: «Far purgare un sistema ormai marcio, tra derivati e altre porcherie, e contestualmente preparare il campo per l’ascesa della Fed e delle altre banche centrali a nuovi riferimenti politici».Perché chi ha visto nascere questa crisi è stato deriso e isolato? Evidente: rischiava di rivelare la vera natura dell’operazione. La verità è che il 15 settembre 2008 qualcuno ha deciso che la crisi doveva prendere un’altra piega e un’altra velocità, insiste Bottarelli. Chi ha deciso di far morire Lehman Brothers, salvando tutti gli altri? E’ stata proprio la Fed di Ben Bernanke, di concerto con l’ex segretario al Tesoro, Henry Paulson. Quel fallimento, aggiunge Bottarelli, aveva un scopo preciso: «Tramutare la Fed nel motore immobile del sistema economico-politico-finanziario Usa e mondiale». Inutili le proteste di Dick Fuld, già capo di Lehman Brothers: «Paulson ha fornito dati compromessi agli altri istituti di credito quando c’era bisogno di aiutarci, non avevamo problemi di liquidità». Il riferimento di Fuld è noto: nella notte del 14 settembre 2008, quindi il giorno prima della bancarotta, ci fu un meeting fra Paulson e i vertici delle principali banche di Wall Street. Erano presenti anche il presidente della Fed di New York, Timothy Geithner, il numero uno di Bank of America, Kenneth Lewis, e il capo della Sec, Christopher Cox. Per tenere in piedi la Lehman Brothers servivano 100 miliardi di dollari. Ma a porre il veto furono Paulson e la Merrill Lynch. Gli altri non mossero un dito e Lehman fallì.Attenzione: nella stessa settimana della bancarotta di Lehman Brothers, aggiunge Bottarelli, sono state salvate American International Group e la stessa Merrill Lynch, mentre fu concesso a Goldman Sachs e Morgan Stanley di diventare holding bancarie. Perché invece a Lehman Brothers fu impedito di cambiare statuto? La Lehman non era certo la sola a ottenere liquidità a breve termine “esternalizzando” le perdite, «ma la differenza è che affondando Lehman Brothers si affondava un simbolo e si rimetteva Wall Street, così come il Congresso, nelle mani della Fed, inviando anche uno scossone globale agli altri sistemi finanziari esposti verso l’ex gigante». All’epoca, un maxi-salvataggio pubblico non sarebbe ancora stato facilmente digeribile dagli americani, dalla politica e dai mercati. «Ma poi i tempi cambiano», e alla Casa Bianca arriva il primo presidente di colore, che «promette di far pagare il conto della crisi a Wall Street», e invece «la facilita con ogni mossa, lasciando campo sempre più libero allo strapotere della Fed». Un altro democratico, Bill Clinton, grande alfiere della globalizzazione, fu il primo «a creare le condizioni della crisi subprime con la sua politica di mutui a cani e porci con garanzie zero», facendo «pagare il conto dei fallimenti ai cittadini che compravano qualsiasi cartaccia gli venisse proposta come investimento». Tutte coincidenze?Le potenze del capitalismo finanziario avevano un piano chiarissimo, un obiettivo di lungo termine: «Creare un sistema mondiale di controllo finanziario in mani private, capace di dominare il sistema politico di ogni nazione e l’economia del mondo». Questo sistema «doveva essere controllato con modalità feudali delle banche centrali del mondo, attraverso accordi segreti». Cardine del sistema, la Banca per i regolamenti internazionali di Basilea, privata e controllata dalle banche centrali mondiali, a loro volta privatizzate. «Ogni banca centrale punta a dominare il suo governo attraverso la capacità di controllare i prestiti sui titoli di Stato, manipolare le valute estere, influenzare il livello di attività economica del paese e condizionare politici cooperativi e compiacenti attraverso ricompense economiche nel mondo del business». A scattare questa fotografia dello scenario attuale è il globalista Carroll Quigley, nel libro “Tragedia e speranza. Una storia del mondo nel nostro tempo”. L’aspetto sconvolgente, fa notare Mauro Bottarelli, è che quel libro uscì nel lontano 1966.
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Il generale Mini: la guerra climatica è già cominciata
La guerra ambientale non è più solo un’ipotesi: è già in atto. Ma guai a dirlo: si passa per pazzi. Eppure, «negare l’informazione è già un atto di guerra fondamentale», denuncia il generale Fabio Mini, che conferma tutto: la “bomba climatica” è la nuova arma di distruzione di massa a cui si sta lavorando, in gran segreto, per acquisire vantaggi inimmaginabili su scala planetaria. Alluvioni, terremoti, tsunami, siccità, cataclismi. Uno scenario che, purtroppo, non è più fantascienza. E da parecchi anni. Era il lontano 1946 quando Thomas Leech, scienziato e professore israeliano-neozelandese, lavorò in Australia per conto dell’Università di Auckland con fondi americani e inglesi per provocare piccoli tsunami. Il successo del “Progetto Seal” spaventò Leech spingendolo a fermarsi dopo i primi test. Ma chi ci dice che la manipolazione del clima non sia stata portata avanti? Oggi, con la robotizzazione, per molte “operazioni” bastano poche persone. «Non ci sono vincoli, non ci sono regole, se c’è la possibilità di farlo ‘qualcuno’ lo farà». Non i governi, ma ristrette élite.Ne ha parlato di recente, in un convegno a Firenze largamente disertato dai media, l’ex comandante delle forze Nato in Kosovo. Mini rivendica la responsabilità di aver posto in Italia l’attenzione su questo tema quando nel 2007 scrisse l’articolo “Owning the weather: la guerra ambientale è già cominciata”, ufficializzando uno scenario nuovo e inquietante: le forze della natura sono adoperate e piegate come strumento ed arma. Può accadere, sottolinea Mini, perché – come di fronte a qualsiasi altra aberrazione di carattere mostruoso – l’opinione pubblica è innanzitutto incredula: «La maggior parte delle persone ritiene inconcepibili certi scenari, in quanto non è al corrente delle progettazioni in materia di tecnologie militari e quindi delle conseguenti implicazioni». Da un lato c’è la rassicurante convenzione Onu del 1977, che proibisce espressamente «l’uso militare, o di altra ostile natura, di tecniche di modificazione ambientale con effetti a larga diffusione, di lunga durata o di violenta intensità». In realtà, al 90% le prescrizioni Onu vengono regolarmente disattese, in particolare dai militari. I quali «hanno già la capacità di condizionare l’ambiente: tornado, uragani, terremoti e tsunami alterati o addirittura provocati dall’uomo sono una possibilità concreta».I militari, riassume Mini – citato nel report del blog “No Geoingegneria” – prediligono la tecnologia. E le loro richieste alla scienza non sono per programmi attuabili a breve termine, ma sono progetti con sviluppi nel medio e lunghissimo termine. Attenzione: «Non esiste una moralità che possa impedire di oltrepassare un certo punto. Basti pensare allo sviluppo e le applicazioni degli ordigni atomici. Non esiste vincolo morale, ciò che si può fare si fa». Inoltre, la nuova tecnologia viene applicata anche a livello immaturo: «La voglia di conseguire un vantaggio spinge ad usare le tecnologie senza fare test a sufficienza. Una possibilità viene messa in atto per verificarne il funzionamento, sperimentandone direttamente sul campo gli effetti». Già nel 1995, uno studio dell’aeronautica militare statunitense (“Weather as a Force Multiplier: Owning the Weather in 2025”) delineava i piani da sviluppare per conseguire nell’arco di 30 anni il controllo del meteo a livello globale. Secondo Mini, non si parlava ancora di “possedere il clima”, ma di controllare il meteo e lo spazio atmosferico per condurre operazioni belliche, «per esempio irrorando le nubi con ioduro d’argento, altre sostanze chimiche o polimeri, per dissolverle oppure spostarle».Si tratta della possibilità di destabilizzare una regione o paese, in qualsiasi parte del mondo. Oggi, a 17 anni dalla pubblicazione di quello studio, secondo il generale Mini «siamo piuttosto vicini al traguardo del 2025». Secondo il meteorologo statunitense Edward Norton Lorenz, padre della “teoria del caos”, mai e poi mai avremo conoscenze sufficienti a verificare le effettive conseguenze di una modificazione climatica. Se qualcuno trae un vantaggio da una modificazione climatica, dall’altra ci sarà qualcun altro che ne subisce un danno, e non è detto che lo paghi in termini lineari, con conseguenze anche catastrofiche, che Lorenz chiama “effetto farfalla”. Proprio in quegli anni si comincia a pensare non solo di cambiare il meteo, ma di creare una situazione permanente e quindi di trasformare il clima. «Così qualcuno inizia a pensare: cosa rende l’Europa prospera e le garantisce un clima favorevole? La corrente del Golfo del Messico. Bene, allora qualcuno si è messo a studiare come modificare questa corrente. Non solo, ma qualcuno ha iniziato a chiedersi: possiamo provocare un terremoto? Qualcuno ha risposto ‘si può fare’». Qualcuno chi?La domanda, infatti, è particolarmente inquietante: da chi scaturisce quella volontà politica che sta alla base della catena di comando? Brutte notizie, dice Mini: gli Stati stanno perdendo il controllo della situazione, che è monopolizzata da ristrettissimi gruppi di potere. Il generale le chiama “bande”. Sono costituite da «persone, associazioni e corporazioni, coaguli di potere che non hanno nessun interesse istituzionale, ma conseguono solamente il proprio interesse, e nel nome di esso sono disposte a mandare in crisi un sistema per modificarlo a proprio vantaggio, utilizzando mezzi illegali e legali». L’enorme potere di questo super-clan è confermato dalla situazione mondiale di massima emergenza, come confermato dalle analisi di carattere strategico a livello militare. In sintesi: la demografia del pianeta è in aumento esponenziale, le risorse della Terra sono in netta diminuzione, l’economia globale è in recessione. Insomma, la coperta è sempre più corta. E il ruolo degli Stati nella definizione della minaccia è ormai ridotto a zero.Non sono più gli Stati a decidere, a individuare o prevedere le minacce, sottolinea Mini. Sono “altri” che fanno le analisi. E fare le valutazioni della minaccia «vuol dire fornire le indicazioni per la politica». Bene, «questa prerogativa non è più nelle mani degli Stati, neanche di quelli forti». George W. Bush, quando ha avviato la “guerra infinita” innescata dagli attentati dell’11 Settembre, non è stato indirizzato da fonti istituzionali, ma da «qualcuno che lavora fuori dalle istituzioni, contro le istituzioni». La situazione è veramente critica: molti Stati hanno l’acqua alla gola, colpiti dalla crisi e ricattati dalla cupola finanziaria mondiale. La criminalità è in netto aumento, il contrasto verso le mafie si è indebolito e la percezione dell’insicurezza è cresciuta. Ogni problema viene estremizzato: la favola dello “scontro di civiltà” tra cultura giudaico-cristiana e cultura musulmana resta «il faro politico di tutte le relazioni internazionali». Così, non fa che cresce la militarizzazione del pianeta: «Le cose che venivano fatte con strumenti civili oggi vengono fatte quasi esclusivamente con strumenti militari, inducendo gli ambienti militari ad essere sempre più proiettati verso il controllo e il possesso di strumenti tecnologici per attuarlo».La dualità, lo scontro, si manifesta in maniera preponderante nello spazio, con il controllo delle telecomunicazioni e dei sistemi di difesa, e ora anche nell’ambiente, «che non è più il luogo ove la guerra si manifesta, ma è l’arma», e negli agglomerati urbani, «che sono i luoghi dove si prevede il maggior intervento in termini di militarizzazione». Lo spazio è definito un “bene comune” e come tale dovrebbe essere salvaguardato. «Ma non succede, e la percezione di scarsa sicurezza alimenta un incremento della militarizzazione». Come si sfrutta l’ambiente come arma? «Non solo con le modifiche meteorologiche, ma anche tramite la negazione delle informazioni. Non c’è solo la disinformazione sull’ambiente, ma c’è una pratica militare che si chiama “denial of service”». Ovvero: «Si stabilisce che è necessario non solo negare la realtà o l’evidenza, ma negare l’informazione». E questo, ribadisce Mini, è già un vero e proprio atto di guerra. «Determinate persone o paesi non devono venire a conoscenza delle informazioni», anche se questo può causare catastrofi di proporzioni bibliche, come il devastante tsunami abbattutosi sulle coste dell’Indonesia. «Lo tsunami indonesiano è ancora uno scandalo: l’informazione sul suo arrivo era disponibile, ma interruzioni nella trasmissione dati a causa di anelli malfunzionanti, o volutamente non funzionanti, ne hanno impedito la comunicazione».Un altro aspetto è emblematicamente rappresentato dal sistema Haarp. Invece di influire sull’ambiente a carattere solo locale, dice Mini, ormai si può incidere globalmente. Come? «Andando a creare, artificialmente, dei punti più caldi o più freddi, e quindi modificando il clima interferendo anche sulle correnti». Lo stesso dicasi per le alterazioni che provocano i terremoti, anche se il generale nega che il recente terremoto in Emilia sia stato “indotto”. Ma attenzione: «Nessuno può negare che ci siano state più di 2.000 esplosioni nucleari nel sottosuolo terrestre, nella profondità degli oceani e persino nello spazio». Già negli anni ’90, per colpire obiettivi di interesse militare in Cina, «fu pianificato di indurre un terremoto con delle esplosioni dalla zona di Okinawa». La dismissione di migliaia di ordigni nucleari, dopo la fine della guerra fredda, ha creato un mercato dei materiali fissili da innesco. «Le grandi compagnie petrolifere si offrirono di reimpiegarli e sappiamo che è possibile agire sulle faglie inducendo terremoti tramite ordigni nucleari o micro-nucleari».La guerra ambientale non è più solo un’ipotesi: è già in atto. Ma guai a dirlo: si passa per pazzi. Eppure, «negare l’informazione è già un atto di guerra fondamentale», denuncia il generale Fabio Mini, che conferma tutto: la “bomba climatica” è la nuova arma di distruzione di massa a cui si sta lavorando, in gran segreto, per acquisire vantaggi inimmaginabili su scala planetaria. Alluvioni, terremoti, tsunami, siccità, cataclismi. Uno scenario che, purtroppo, non è più fantascienza. E da parecchi anni. Era il lontano 1946 quando Thomas Leech, scienziato e professore israeliano-neozelandese, lavorò in Australia per conto dell’Università di Auckland con fondi americani e inglesi per provocare piccoli tsunami. Il successo del “Progetto Seal” spaventò Leech spingendolo a fermarsi dopo i primi test. Ma chi ci dice che la manipolazione del clima non sia stata portata avanti? Oggi, con la robotizzazione, per molte “operazioni” bastano poche persone. «Non ci sono vincoli, non ci sono regole, se c’è la possibilità di farlo ‘qualcuno’ lo farà». Non i governi, ma ristrette élite.
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Ortaggi vietati, sul nostro cibo l’ultimo diktat dell’Ue
Semi proibiti e nuovi vincoli per l’orticoltura. L’11 dicembre è scaduto il termine che i deputati del Parlamento Europeo avevano per presentare emendamenti al testo con il quale la Commissione di Barroso intende introdurre una nuova regolamentazione per il mercato delle sementi. Un testo molto criticato dalle associazioni che raccolgono le realtà contadine di base che si battono per un’agricoltura sostenibile, per la libera circolazione dei semi e per la preservazione della biodiversità. Il nuovo regolamento, infatti, punta a sostituire 12 precedenti direttive europee. Secondo l’associazione europea “Seed Freedom”, sono in arrivo «condizioni ancora più limitative e ulteriore standardizzazione delle sementi». Lo scambio dei semi «conoscerà nuove restrizioni». Conseguenza: «Ciò che costituisce la base del nostro cibo diventerà parte di regole di mercato». Per le varietà locali, gli ortaggi rari e i frutti antichi, il nuovo regolamento «significherà barriere burocratiche ed economiche che saranno molto difficili da oltrepassare», mentre «diventerà più complicato anche l’accesso alle varietà biologiche».Probabilmente, spiega Giovanni Fez su “Il Cambiamento”, la commissione agricoltura del Parlamento voterà sul testo a gennaio 2014 e qualche mese dopo ci sarà la votazione in plenaria prima che venga adottata la decisione definitiva dal Consiglio d’Europa. “Seed Freedom” chiama quindi a raccolta tutti i cittadini affinché facciano pressione sulle istituzioni europee per non far passare il testo così com’è stato redatto: «Con queste modalità spesso si arriva ad ignorare la salute pubblica, la biodiversità e gli aspetti etici della produzione alimentare e degli interessi comuni». E’ in pericolo anche l’economia locale dei territori, quella delle filiere corte. «Chi si prenderà a cuore gli interessi della società civile, dei cittadini, degli agricoltori biologici e dei consumatori?». Attenzione: «L’uniformità genetica delle sementi non potrà mai risolvere il problema della fame nel mondo; in molti casi questi semi non riescono ad adattarsi alle condizioni locali e hanno bisogno di grandi quantità di pesticidi e fertilizzanti». Al contrario, «l’agricoltura biologica, biodinamica e tradizionale cerca di sviluppare varietà che diano risposte alle esigenze del luogo e che si adattino alle condizioni specifiche per produrre in maniera sostenibile».Lo dimostra un recente progetto co-finanziato dalla stessa Unione Europea attraverso il programma Alcotra (cooperazione franco-italiana), che in due anni ha creato “una rete per le biodiversità transfrontaliere”, varietà locali di ortaggi tradizionalmente coltivati in Piemonte e in Provenza, grazie all’impegno di agricoltori-custodi che hanno salvaguardato le specie, scongiurandone l’estinzione. Può apparire un impegno hobbystico, ma non lo è: la lotta contro l’erosione genetica degli ortaggi garantisce un’offerta più ampia verso il consumatore locale, fatta di prodotti veramente a chilometri zero, con un taglio netto al costo dei trasporti e all’impatto negativo – anche ecologico – della grande distribuzione, a tutto vantaggio delle economie locali e degli stessi consumatori, a cui si offrono prodotti sani, di stagione, coltivati senza pesticidi. A coordinare il progetto sono stati centri di ricerca francesi come il Grab di Avignone (agricoltura biologica) e la stessa Aiab, associazione italiana per l’agricoltura biologica. Obiettivo del progetto: il libero scambio di semi tra contadini italiani e francesi, per mettere al riparo – una volta per tutte – l’immensa ricchezza costituita dalla biodiversità coltivata negli orti.In Italia a battersi per la modifica del testo di Bruxelles è ora la Rete Semi Rurali. «La revisione attuata dalla Commissione Europea deve tenere in considerazione quegli agricoltori e quei cittadini-consumatori che, ad oggi, sono stati dimenticati dalla legislazione». Infatti, «chi cerca varietà locali, tradizionali, non uniformi o con particolari caratteristiche organolettiche o qualitative non può trovarle sul mercato, a causa di una legislazione troppo restrittiva». Inoltre, la nuova normativa sementiera «deve rispettare gli obblighi internazionali firmati dall’Unione Europea e in particolare il trattato Fao sulle risorse genetiche agricole per l’alimentazione e l’agricoltura, favorendo l’uso sostenibile della diversità agricola, tutelando i diritti degli agricoltori e garantendo l’accesso facilitato per fini di ricerca e sperimentazione alle varietà commercializzate». Le grandi lobby del cibo, comprese le multinazionali degli Ogm, vedono la sovranità alimentare dei territori come fumo degli occhi. Il guaio è che Bruxelles si limita a prendere ordini da loro. Non resta che una mobilitazione per tentare di sbarrare la strada a chi vuole cancellare la concorrenza locale al grande business. Ora, riassume “Il Cambiamento”, i prossimi mesi saranno decisivi: dopo la tappa di gennaio «ci si giocherà veramente tanto, perché non dimentichiamolo: chi controlla i semi, controlla il cibo e quindi la vita».Semi proibiti e nuovi vincoli per l’orticoltura. L’11 dicembre è scaduto il termine che i deputati del Parlamento Europeo avevano per presentare emendamenti al testo con il quale la Commissione di Barroso intende introdurre una nuova regolamentazione per il mercato delle sementi. Un testo molto criticato dalle associazioni che raccolgono le realtà contadine di base che si battono per un’agricoltura sostenibile, per la libera circolazione dei semi e per la preservazione della biodiversità. Il nuovo regolamento, infatti, punta a sostituire 12 precedenti direttive europee. Secondo l’associazione europea “Seed Freedom”, sono in arrivo «condizioni ancora più limitative e ulteriore standardizzazione delle sementi». Lo scambio dei semi «conoscerà nuove restrizioni». Conseguenza: «Ciò che costituisce la base del nostro cibo diventerà parte di regole di mercato». Per le varietà locali, gli ortaggi rari e i frutti antichi, il nuovo regolamento «significherà barriere burocratiche ed economiche che saranno molto difficili da oltrepassare», mentre «diventerà più complicato anche l’accesso alle varietà biologiche».
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Ustica, strage impunita e cimitero di testimoni scomodi
Un caccia francese che “si nasconde” dietro un aereo di linea italiano e lo colpisce per errore con un missile, in realtà indirizzato contro un altro velivolo: il Mig libico a bordo del quale poteva esserci Gheddafi. Lo disse Francesco Cossiga nel 2007, accreditando una possibile ricostruzione definitiva della strage di Ustica, 27 giugno 1980, quando il Dc-9 dell’Itavia decollato da Bologna e diretto a Palermo esplose in volo e finì in fondo al Tirreno, 81 vittime tra equipaggio e passeggeri. Ma la strage infinita ha continuato a uccidere. Misteri e depistaggi: più di 20 testimoni scomodi, per lo più militari, tutti scomparsi. Strani malori, suicidi apparenti, omicidi, incidenti stradali e aeronautici. Fascicolo riaperto il 23 febbraio 2013 – dopo milioni di pagine giudiziarie – su esposto dell’associazione antimafia “Rita Atria”. Il sospetto: forse non fu un incidente aereo, ma un attentato, quello che nel ’92 costò la vita all’ex pilota militare Alessandro Marcucci, caduto vicino a Cecina a bordo del velivolo anticendio pilotato da un collega, Silvio Lorenzini, anch’esso rimasto ucciso.Rosario Priore, il pm che più di ogni altro ha indagato sul disastro di Ustica, parla di testimoni «venuti a conoscenza di fatti diversi dalle ricostruzioni ufficiali». Piloti e controllori radar che «rivelano la loro conoscenza in ambiti strettissimi», ma non così riservati. Al punto che la loro verità viene «percepita da ambienti che li stringono od osteggiano anche in maniera pesante, e così ne restano soffocati». Impossibile non convincersene: molti dei morti all’indomani della strage «erano a conoscenza di qualcosa che non è stato mai ufficialmente rivelato, e da questo peso sono rimasti schiacciati». Lo scenario mette paura, perché quella notte sul mare e nel cielo tra Ponza e Ustica c’erano navi militari italiane e americane, caccia libici, aerei da guerra francesi, italiani e statunitensi. Un’esercitazione aeronavale della Nato, in grande stile, sconvolta dall’abbattimento incidentale del Dc-9. Dopodiché: tracce radar cancellate, silenzi e depistaggi. E naturalmente, omicidi.Il primo a morire, già il 3 agosto 1980, è il colonnello pilota Pierangelo Tedoldi: incidente stradale. Tedoldi era a capo dell’aeroporto di Grosseto, competente su uno dei radar coinvolti, quello di Poggio Ballone. Un anno dopo, il 9 maggio 1981, lo segue un collega, il capitano Mario Gari: “infarto”. Quattro mesi più tardi, il 2 settembre, ci rimette la pelle in un’esercitazione il colonnello dell’aeronautica Antonio Gallus. Era amico dei due piloti delle Frecce Tricolori, Mario Naldini e Ivo Nutarelli, che cadranno nella strage di Ramstein nel 1988. Li seguirà un altro amico, il tenente medico Giampaolo Totaro, trovato impiccato nella base friulana di Rivolto, nel ‘94. Era convinto che gli aerei dei piloti della squadra acrobatica fossero stati sabotati. Ma già all’inizio degli anni ’80, cioè poco dopo Ustica e i primi tre decessi anomali – Tedoldi, Gari e Gallus – fa scalpore un’uccisione eccellente: quella di Aldo Semerari, criminologo e collaboratore del Sismi, legato all’ultra-destra, trovato decapitato nella sua auto a Ottaviano il 25 marzo 1982 (lo seguirà a pochi giorni di distanza la segretaria, Maria Fiorella Carrara).Secondo il giornalista Gianni Lannes, autore del blog “Su la testa”, il professor Semerari – coinvolto nella strage di Bologna e nei casi Cirillo e Pecorelli, oltre che nelle trame “depistate” dalla Banda della Magliana – “non poteva non sapere” di Ustica. E’ invece un secondo incidente stradale, il 23 gennaio 1983, a uccidere il sindaco di Grosseto, il socialista Giovanni Battista Finetti. Aveva raccolto confidenze da ufficiali dell’aviazione: la sera della strage di Ustica, due caccia italiani F-104 si erano levati in volo dalla base toscana per intercettare un Mig-23 libico. Quello in effetti ritrovato sulla Sila il 18 luglio, due settimane dopo la strage di Ustica, con accanto il cadavere del pilota? Quattro anni dopo la morte del sindaco di Grosseto, il 20 marzo 1987 cade a Roma – crivellato di proiettili – il generale di squadra Licio Giorgeri, assassinato da un commando «per le responsabilità da lui esercitate in seguito all’adesione italiana al progetto delle guerre stellari». Firma il comunicato una sigla fantomatica: “Unione combattenti comunisti”.Per Giovanni Spadolini, «Giorgieri non aveva nessun rapporto diretto con l’iniziativa di difesa strategica». Attentato anomalo. All’epoca di Ustica, ricorda Lannes, il generale triestino faceva parte dei vertici del Rai, il Registro aeronautico italiano, responsabile del quale era il generale Saverio Rana, morto “per infarto”. Proprio Rana fu il primo a parlare di missili, scartando le altre ipotesi su Ustica (bomba terrorista a bordo, collisione o cedimento strutturale del velivolo). Dettaglio: dall’amico Giorgieri, racconta Lannes, il generale Rana – convinto socialista e, ai tempi, pilota personale di Pietro Nenni – aveva ricevuto tre fotocopie di tracciati radar e, subito dopo la strage, riferì al ministro Formica la presenza di un caccia vicino al Dc-9 dell’Itavia.Dieci giorni dopo Giorgieri, cominciano a morire i marescialli dell’arma azzurra: il 30 marzo viene trovato impiccato sul greto del fiume Ombrone il sottufficiale Mario Alberto Dettori, nell’80 controllore della difesa aerea al centro radar di Poggio Ballone. Era di turno proprio la sera della strage. Tornò a casa sconvolto: «E’ successo un casino», disse alla moglie, «qui vanno tutti in galera». E l’indomani, alla cognata: «Siamo stati a un passo dalla guerra, c’era di mezzo Gheddafi». Un altro maresciallo, Ugo Zammarelli, muore investito da una moto il 12 agosto 1988, a Gizzeria Marina. Niente autopsia, mentre i bagagli spariscono dall’albergo. In forza alla base Nato di Decimomannu, in Sardegna, Zammarelli non era in Calabria in vacanza: stava conducendo un’inchiesta personale sul Mig libico, afferma Lannes. Tempo due settimane, e nel cielo di Ramstein di schiantano le Frecce Tricolori di Naldini e Nutarelli. La sera maledetta, quella di Ustica, i due si erano alzati in volo a bordo dei loro F-104 con il compito di intercettare il Mig libico. Al giudice Priore, l’imprenditore Andrea Toscani ha rivelato le confidenze di Naldini: «Quella notte c’erano tre aerei. Uno autorizzato, due no. Li avevamo intercettati, quando ci dissero di rientrare».Si entra negli anni ’90, ma la strage dei testimoni continua. Il 1° febbraio 1991 cade un altro maresciallo dell’aeronautica, Antonio Muzio, freddato con tre colpi di pistola a Pizzo Calabro. Nel 1980 era in servizio alla torre di controllo dell’aeroporto di Lamezia Terme. Un anno dopo, precipita – esploso in volo? – il ricognitore antincendio di Silvio Lorenzini con accanto Alessandro Marcucci, tenente colonnello dell’aviazione e nell’80 pilota militare a Pisa. Marcucci aveva indagato su Ustica, attingendo a fonti indirette. Aveva scoperto qualcosa? L’indagine riaperta – salme riesumate per l’autopsia – proverà a stabilire se sia stato effettivamente ucciso. L’aereo è caduto il 2 febbraio ’92. Stesso giorno della morte dell’ennesimo maresciallo dell’aeronautica, Antonio Pagliara: incidente stradale, ancora. Nell’80, Pagliara era controllore della difesa aerea a Otranto. Un anno dopo, a Bruxelles, qualcuno uccide invece a coltellate un vero e proprio teste-chiave, l’ex generale Roberto Boemio, consulente dell’Alenia presso la Nato. Il Belgio, che non ha ancora risolto il caso, vede coinvolti «servizi segreti internazionali».Su Ustica, il generale Boemio aveva cominciato a collaborare con la magistratura: il suo nome, ricorda Lannes, compare tra i riscontri di innumerevoli contestazioni processuali fatte ai generali allora responsabili dell’aeronautica. Nell’80, proprio da Boemio dipendevano la base strategica di Martinafranca in Puglia e i centri radar di Jacotenente, Marsala e Licola, coinvolti nell’allarme per la presenza di caccia non identificati nel cielo di Ustica e di una portaerei in navigazione nel Tirreno al momento dell’esplosione del Dc-9. «Boemio – aggiunge Lannes nella sua ricostruzione – s’era anche occupato di uno dei due Mig-23 fatti ritrovare da Cia e Sismi sulla Sila proprio il 18 luglio ’80». Sempre Lannes include nella lista dei possibili testimoni “suicidati” anche il colonnello del Sismi Mario Ferraro, trovato morto in circostanze inverosimili il 16 luglio 1995 nella sua casa di Roma, impiccato con la cintura dell’accappatoio a un appendi-asciugamano che non avrebbe potuto reggere al suo peso.Esperto di terrorismo e traffico d’armi, Ferraro era l’uomo che a Beirut ricevette l’ordine di attivare contatti con le Br tramite l’Olp “per la liberazione di Moro”, ben 14 giorni prima che Moro venisse sequestrato. Sempre nel ’95, a fine anno (21 dicembre) ancora un maresciallo dell’aeronautica viene trovato morto, anche lui impiccato: è Franco Parisi, rinvenuto appeso a un albero alla periferia di Lecce. Nel maledetto 1980 era controllore della difesa aerea al centro radar di Otranto, di turno il 18 luglio – giorno in cui sarebbe avvenuto il fantomatico incidente del Mig. Il giudice Priore l’aveva interrogato, riscontrando «palesi contraddizioni» nella sua deposizione, probabilmente frutto di «minacce nei suoi confronti». Non c’è stato il tempo di riascoltarlo: gli hanno trovato strane lesioni alla nuca, mentre il cadavere (nonostante la corda al collo) aveva i piedi che poggiavano sul terreno. Strano suicidio anche quello di Michele Landi, consulente informatico della Guardia di Finanza oltre che del Sisde, trovato impiccato «con le ginocchia sul divano» il 4 aprile 2002 nella sua casa vicino a Guidonia.Per Umberto Rapetto, il generale delle Fiamme Gialle che ha denunciato la maxi-evasione miliardaria delle slot machines, è un gesto inspiegabile: «Landi era gioioso, non soffriva assolutamente di depressione». Però aveva confidato agli amici di conoscere novità compromettenti su Ustica. «L’hanno suicidato i servizi segreti, come storicamente in Italia sanno fare», ha detto agli inquirenti il magistrato Lorenzo Matassa, a cui Landi avrebbe «riferito di sapere molte cose su Ustica». In passato, rileva Lannes, il tecnico aveva lavorato sui sistemi di puntamento missilistici ed era stato in contatto con la società Catrin, «la stessa con cui collaborava Davide Cervia, il tecnico di guerra elettronica, misteriosamente scomparso il 12 settembre ’90». Ad abbattere il Dc-9 dell’Itavia fu un missile: lo prova la grandine di sferule d’acciaio conficcate nell’aereo, esplose da un razzo a frammentazione. Ma, dopo 33 anni, ancora non si sa chi l’abbia sparato. Per non parlare di tutte le altre strane morti, successive alla strage. Un vero e proprio cimitero di testimoni.Un caccia francese che “si nasconde” dietro un aereo di linea italiano e lo colpisce per errore, con un missile in realtà indirizzato contro un altro velivolo: il Mig libico a bordo del quale poteva esserci Gheddafi. Ne parlò Francesco Cossiga nel 2007, accreditando una possibile ricostruzione definitiva della strage di Ustica, 27 giugno 1980, quando il Dc-9 dell’Itavia decollato da Bologna e diretto a Palermo esplose in volo e finì in fondo al Tirreno, 81 vittime tra equipaggio e passeggeri. Ma la strage infinita ha continuato a uccidere. Misteri e depistaggi: più di 20 testimoni scomodi, per lo più militari, tutti scomparsi. Strani malori, suicidi reali o apparenti, omicidi, incidenti stradali e aeronautici. Fascicolo riaperto il 23 febbraio 2013 – dopo milioni di pagine giudiziarie – su esposto dell’associazione antimafia “Rita Atria”. Il sospetto: forse non fu un incidente aereo, ma un attentato, quello che nel ’92 costò la vita all’ex pilota militare Alessandro Marcucci, caduto vicino a Cecina a bordo del velivolo anticendio pilotato da un collega, Silvio Lorenzini, anch’esso rimasto ucciso.
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L’Italia ha perso la guerra, la ricostruzione non ci sarà
Quelle che abbiamo attorno sono le macerie di una guerra. Lo afferma senza giri di parole il centro studi di Confindustria descrivendo questa crisi, ovvero la più drammatica recessione della nostra storia, dopo il secondo conflitto mondiale. A partire dal propagarsi nel mondo degli effetti reali della crisi iniziata con i “sub-prime”, lo sfacelo dell’economia è paragonabile a una guerra per i danni e le macerie che ha lasciato dietro di sé. In pochi anni sono svaniti quasi due milioni di posti di lavoro. E la drammatica morsa creditizia, operata dal sistema bancario, continuerà ancora a lungo, almeno fino al 2015 nello scenario più negativo. «Otto anni di vacche magre, anzi, scheletriche», annota Eugenio Orso. La catastrofica recessione neocapitalistica sta dando segni di luce in fondo al tunnel? Attenti: se la “guerra” è finita, «il dopoguerra potrà essere altrettanto negativo e socialmente drammatico». Parlano le cifre: oltre 7 milioni di senza lavoro e quasi 5 milioni di poveri.Il tutto, scrive Orso in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, è condito da un crollo dei consumi delle famiglie che possiamo definire epocale: è la fine della tanto deprecata società dei consumi? Siamo appesi a un filo: le ostilità potrebbero riprendere improvvisamente, «a causa di un ennesimo shock orchestrato dalla grande finanza internazionalizzata». In quel caso, «la situazione potrà precipitare ulteriormente». Del resto, la debolezza strutturale del sistema-Italia, dal punto di vista sociale e occupazionale, si manterrà anche il prossimo anno. E il Pil, «se crescerà, crescerà di un’inezia, meno dell’uno per cento», per la precisione lo 0,7% secondo la Confindustria, che rivede a ribasso precedenti proiezioni. «La peggiore ipotesi, nel dopoguerra e a partire dall’anno nuovo, è che il rispetto degli “impegni” presi in sede europea implichi la rinuncia forzata a un punto di Pil, con conseguenze negative sul temutissimo spread e ricadute ancor più negative sulla società».Se anche la “guerra” fosse veramente finita, aggiunge Orso, se ne deduce che – in ogni caso – l’Italia è un paese sconfitto: «Abbiamo perso la guerra e soltanto ora ce ne siamo accorti». Potenza manifatturiera in Europa e nel mondo, l’Italia «è forse il grande sconfitto in Europa», anche se «non certo l’unico, perché l’area europeo-mediterranea esce complessivamente sconvolta dal conflitto, che pare continui in Grecia». Lo spettacolo è desolante: «Le macerie visibili, le distruzioni del tessuto produttivo, i segni dei continui “bombardamenti” neocapitalistici ed europoidi ci sono tutti», continua Orso. «Lungo le direttrici del Veneto e nei distretti industriali del nord», si moltiplicano «gli edifici industriali e i capannoni chiusi intorno ai quali già cresce un po’ di vegetazione, abbandonati all’incuria perché nessuno può riattivarli». Analoga disperazione nelle strade e nelle case: «Il proliferare continuo del numero dei poveri veri, dei mendicanti, di coloro che dormono nelle stazioni, sempre più sporche e prive di manutenzione, ugualmente lo dimostra. Case senza riscaldamento (e senza luce) sempre più numerose, perché la cosiddetta “economia della bolletta” ammazza le famiglie monoreddito». E attorno, «edifici pubblici e privati senza manutenzione, che fra qualche anno cadranno in pezzi».Ma non è tutto. «Le macerie morali, invisibili quanto le ferite che offendono lo spirito, sono forse le più difficili da rimuovere e le più insidiose». Secondo Orso, «per l’Italia ci sarà un lungo dopoguerra, interrotto forse una ripresa improvvisa del conflitto, con un ultimo “bombardamento” finanziario ordinato delle aristocrazie globali del danaro e della finanza». Ma attenzione: «Non è prevista alcuna ricostruzione». Questo gli analisti del centro studi di Confindustria non lo scrivono, ma lo lasciano intendere quando, con aridi numeri, cercano di prevedere i possibili scenari del dopoguerra. «Non ci sarà ricostruzione, come avvenne dopo la seconda guerra mondiale, dal 1947 agli anni cinquanta. Perché, a differenza di allora, la spietata “global class” finanziaria, perfettamente organica al neocapitalismo e senza problemi di coscienza, non prevede per il paese alcun “Piano Marshall”». Ovvero: «Le risorse del paese si saccheggiano, le sue strutture produttive si smantellano, la popolazione si spreme fino all’inverosimile, e poi si passa ad altro, ad altri “mercati”, ad altre “bolle”, lasciando dietro di sé solo macerie. Materiali e morali».Quelle che abbiamo attorno sono le macerie di una guerra. Lo afferma senza giri di parole il centro studi di Confindustria descrivendo questa crisi, ovvero la più drammatica recessione della nostra storia, dopo il secondo conflitto mondiale. A partire dal propagarsi nel mondo degli effetti reali della crisi iniziata con i “sub-prime”, lo sfacelo dell’economia è paragonabile a una guerra per i danni e le macerie che ha lasciato dietro di sé. In pochi anni sono svaniti quasi due milioni di posti di lavoro. E la drammatica morsa creditizia, operata dal sistema bancario, continuerà ancora a lungo, almeno fino al 2015 nello scenario più negativo. «Otto anni di vacche magre, anzi, scheletriche», annota Eugenio Orso. La catastrofica recessione neocapitalistica sta dando segni di luce in fondo al tunnel? Attenti: se la “guerra” è finita, «il dopoguerra potrà essere altrettanto negativo e socialmente drammatico». Parlano le cifre: oltre 7 milioni di senza lavoro e quasi 5 milioni di poveri.
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Seguite i soldi, e capirete perché Repubblica è pro-Tav
“Follow the money”, come dicono gli americani. Fatelo, e scoprirete tante cose. Per esempio, perché il quotidiano “La Repubblica”, fondato da Eugenio Scalfari e edito dal finanziere Carlo De Benedetti, è così graniticamente pro-Tav. Convinzione ideologica? Forse. Ma come spiegarsi tanta sistematica “disattenzione” verso le inoppugnabili motivazioni dei No-Tav, supportate dai migliori tecnici? Seguite i soldi, dice John Siccardi, e vedrete che gli azionisti del grande quotidiano italiano tutto l’interesse – solido, materiale – perché l’opera pubblica più devastante, assurda e inutile d’Italia, la linea Tav Torino-Lione, si faccia comunque. Anche se il Consiglio d’Europa definisce «incompatibili con il corretto giornalismo investigativo» le campagne giornalistiche realizzate sulla base di prese di posizioni “al servizio di interessi particolari”, è un dato di fatto che proprio gli interessi particolari riescano a farsi strada, eccome, nel mondo della cosiddetta informazione. L’unica domanda che conta è: chi comanda, davvero, in redazione?«Individuati i proprietari, cioè gli azionisti – scrive Siccardi sul sito “NoTav.info” – bisognerà poi cercare i loro settori di attività e chiedersi, ad esempio nel caso delle opere pubbliche, se abbiano o potranno avere in futuro un interesse economico all’espansione delle infrastrutture». Se si scopre «un potenziale o concreto beneficio per i proprietari del media», ad esempio nell’alta velocità ferroviaria, «allora non si potrà dire che quel media sia neutro ed equidistante, né il suo messaggio affidabile, perché non disinteressato». Conflitto d’interessi? Siccardi esamina la posizione di “Repubblica”, schieratissima a favore della Torino-Lione. Il giornale è editato dal Gruppo Espresso, società per azioni di cui a detenere la maggioranza (53,8%) è la finanziaria Cir di De Benedetti. Il secondo più importante proprietario del gruppo è Bestinver Gestion, azionista di Cofide (gruppo Cir). A sua volta, Bestinver «è controllata al 100% dal gruppo spagnolo Acciona, che fa molte cose tra cui costruire linee ferroviarie ad alta velocità e fornire corrente elettrica a linee ferroviarie».Ricapitolando: attraverso Bestinver, la spagnola Acciona (alta velocità ferroviaria) «controlla più del 20% del principale azionista di “Gruppo L’Espresso S.p.A.” e del suo prodotto editoriale, “La Repubblica”». Ma non solo. La Cir è anche l’azionista di maggioranza di Sorgenia, società italiana che si definisce il secondo fornitore elettrico delle aziende italiane ed il primo operatore privato nel mercato italiano dell’energia elettrica e del gas naturale. «Come tutti sanno, i treni ad alta velocità vanno a corrente elettrica acquistata da fornitori, e così nel 2013 Acciona (azionista di Cir e quindi di Sorgenia) si è aggiudicata un appalto da 200 milioni di euro dal governo spagnolo per alimentare le reti ferroviarie spagnole tradizionali e ad alta velocità». Per Siccardi, l’interesse degli editori di “Repubblica” nello sviluppo dell’alta velocità è palesemente dimostrato dalla composizione azionaria e dal business degli azionisti: cantieri ferroviari Tav e forniture di energia elettrica. Pur senza escludere il legittimo esercizio di libere opinioni, anche in redazione, «si può dire con sicurezza che la linea editoriale complessiva, che da anni fa opinione e pressione su lettori e politici, è nettamente in salsa Sì Tav e che sulla carta ci sono elementi che la possono spiegare». Seguite i soldi, appunto. E le idee vi si chiariranno.“Follow the money”, come dicono gli americani. Fatelo, e scoprirete tante cose. Per esempio, perché il quotidiano “La Repubblica”, fondato da Eugenio Scalfari e edito dal finanziere Carlo De Benedetti, è così graniticamente pro-Tav. Convinzione ideologica? Forse. Ma come spiegarsi tanta sistematica “disattenzione” verso le inoppugnabili motivazioni dei No-Tav, supportate dai migliori tecnici? Seguite i soldi, dice John Siccardi, e vedrete che gli azionisti del grande quotidiano italiano potrebbero avere tutto l’interesse – solido, materiale – perché l’opera pubblica più devastante, assurda e inutile d’Italia, la linea Tav Torino-Lione, si faccia comunque. Anche se il Consiglio d’Europa definisce «incompatibili con il corretto giornalismo investigativo» le campagne giornalistiche realizzate sulla base di prese di posizione “al servizio di interessi particolari”, è un dato di fatto che proprio gli interessi particolari riescano a farsi strada, eccome, nel mondo della cosiddetta informazione. L’unica domanda che conta è: chi comanda, davvero, in redazione?
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Lesa maestà, così Scalfari attacca (e insulta) la Spinelli
Chissà se oggi i giornali e i tg, l’Ordine dei giornalisti e la Federazione della stampa, ma anche il premier Letta e la presidente della Camera Boldrini, denunceranno la nuova “gogna per giornalisti” e solidarizzeranno con la vittima. L’interrogativo sorge spontaneo, visto che la gogna non l’ha allestita Grillo contro una penna ostile ai 5 Stelle, ma Eugenio Scalfari contro Barbara Spinelli, la più prestigiosa editorialista di “Repubblica”, cioè del suo stesso giornale. Finora soltanto Gad Lerner, anche lui firma illustre del quotidiano, ha osato criticare sul suo blog la «ramanzina sgradevole, impropria e di pessimo gusto». Diversamente dal blog di Grillo, che pubblica stralci di articoli menzogneri e poi ne smonta il contenuto (talvolta insultandoli, come con la Oppo, talvolta no, come con Merlo e Battista), Scalfari fa di peggio. Insulta chi si permette di criticare Napolitano («il fuoco dei cannoni da strapazzo… spara Grillo, spara Travaglio, spara perfino Barbara Spinelli»). Ma non cita mai quelle critiche per contestarle nel merito, forse nel timore che i lettori le condividano.Il peccato mortale della Spinelli è di non aver partecipato alla demonizzazione di Grillo e soprattutto di aver raccontato a Marco Travaglio, per il libro “Viva il Re!”, uno scambio di lettere e un incontro con Napolitano. Ma questo i lettori di “Repubblica” non devono saperlo, dunque Scalfari non lo dice. Le scrive invece di aver «ascoltato i tuoi appunti su Napolitano affidati alla ‘recitazione’ di Travaglio». Allusione all’ultima puntata di “Servizio Pubblico”, in cui Travaglio non ha mai recitato alcunché: semplicemente Santoro ha affidato a un’attrice la lettura di alcuni brani dell’intervista alla Spinelli contenuta nel libro. Invece di smentire, casomai ci riuscisse, l’allergia di Napolitano alle critiche della libera stampa descritta e documentata dalla Spinelli, Scalfari attacca personalmente la editorialista dandole dell’ignorante («conosce poco o nulla la storia d’Italia»). Le ricorda che è «figlia di Altiero Spinelli» perché questo è il suo «maggior bene», manco fosse una ragazzina che deve presentarsi accompagnata dai genitori e chiedere il loro permesso per scrivere e per pensare.Infine la informa di aver «cancellato dalla mia memoria» quanto ha scritto su Grillo e detto su Napolitano. Per molto meno, c’è chi verrebbe accusato di fascismo, squadrismo, gogna, liste di proscrizione, macchina del fango, misoginia e sessismo. Se Barbara non fosse una signora, potrebbe ricordare a Scalfari – come fece Giorgio Bocca – che è figlio di un croupier del casinò di Sanremo, o – come fanno in pochi – che da giovane era caporedattore di “Roma Fascista”. Si attende comunque con ansia l’intervento del governo, del Parlamento, del Quirinale e possibilmente dell’Onu per il vile attentato alla libertà di stampa.(“La gogna per i giornalisti: Scalfari contro Spinelli”, da “Il Fatto Quotidiano” del 16 dicembre 2013, ripreso da “Micromega”).«Sono stupita dalle parole che Eugenio Scalfari dedica non tanto e non solo alle mie idee sulla crisi italiana ma, direttamente, con una violenza di cui non lo credevo capace, alla mia persona». Barbara Spinelli replica così all’inaudito attacco rivoltole da Eugenio Scalfari, furibondo per la scelta della grande editorialista di affidare a Marco Travaglio la dura critica nei confronti di Napolitano, contenuta nel libro “Viva il Re!”, edito da Chiarelettere. L’altra grande “colpa” della figlia di Altiero Spinelli, padre del federalismo democratico europeo? Essersi categoricamente rifiutata di partecipare alla demonizzazione sistematica di Grillo, orchestrata da “Repubblica” e diretta in primo luogo dallo stesso Scalfari, la cui celebrata autorevolezza è stata di recente danneggiata dalla notizia – diffusa proprio dal “Fatto Quotidiano” – di una cena super-riservata nella quale il fondatore di “Repubblica” avrebbe discusso del futuro del paese ospitando a cena, nella sua casa romana, lo stesso Napolitano insieme a Mario Draghi ed Enrico Letta.
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Kalashnikov: colpa dei politici se il mio Ak uccide ancora
Pratico e indistruttibile, affidabile, semplice da usare e poco costoso da produrre. L’arma più popolare al mondo, l’Ak-47, resterà a lungo un monumento al suo “padre”’, Mikhail Timofeevič Kalashnikov, morto in Russia il 23 dicembre 2013 all’età di 94 anni. Il network all news “Russia Today” riassume “le 20 cose che non avete mai saputo” sul creatore del fucile d’assalto più diffuso sul pianeta, prodotto in quasi 200 milioni di esemplari e adottato dagli eserciti di 106 nazioni, alcune delle quali – Mozambico, Zimbabwe, Burkina Faso e Timor Est – l’hanno adottato come effigie nella bandiera nazionale, così come le milizie libanesi di Hezbollah. L’artista colombiano Cesar Lopez ha trasformato una dozzina di Ak-47 in chitarre, una delle quali è stata donata nel 2007 all’allora segretario generale dell’Onu, Kofi Annan. Un mitra da Guinness dei primati: l’Ak è tuttora l’arma più diffusa sulla Terra, con 100 milioni di esemplari attualmente in uso.Comandante di carro armato durante la Seconda Guerra Mondiale, Mikhail Kalashnikov ha iniziato la sua carriera come designer di armi dopo un infortunio alla spalla durante la battaglia di Bryansk. Nel 1942, mentre in ospedale, ha sentito i commilitoni feriti lamentarsi dei fucili sovietici. Il primo Kalashnikov è stato prodotto nel 1947, portando al suo creatore il Premio Stalin e l’Ordine della Stella Rossa, massime onorificenze dell’Unione Sovietica. Durata, basso costo di produzione, disponibilità, estrema robustezza e facilità di utilizzo sono le caratteristiche che hanno assicurato all’Ak-47 il suo straordinario successo globale. Il Kalashnikov resta un’arma economica: costa sui 500 dollari, ma in Africa lo si trova a metà prezzo e in alcuni paesi del continente nero i genitori battezzano col nome di “Kalash” i loro bambini. Distribuito dalla Russia, l’Ak viene anche prodotto – su licenza di Mosca – in 30 grandi paesi, tra cui Cina e India.Alla fama del Kalashikov hanno contribuito personalità come quella di Osama Bin Laden, che l’ha immortalato come arma-totem, e di Saddam Hussein, che ne aveva un modello fatto interamente d’oro. Una star del basket russo, Andrey Kirilenko, reduce dall’Nba, è stato soprannominato “Ak-47”; è nato nella città di Izhevsk, che ospita la fabbrica dei Kalashnikov. L’Egitto ha celebrato il fucile d’assalto russo – emblema di libertà e indipendenza – con un gigantesco monumento nel Sinai, mentre monete commemorative per i “primi sessant’anni” dell’Ak-47 sono state coniate persino in Nuova Zelanda. Già durante la guerra del Vietnam, molti soldati americani hanno abbandonato il loro M-16 per un Kalashnikov, raccolto da nemici morti. Anche ora, i marines americani maneggiano volentieri gli Ak-47. Non mancano le frivolezze: si chiama “Kalashnikov shot” (sparato) il drink che si ottiene mischiando vodka , assenzio, limone, cannella e zucchero, mentre – dal 2004 – Kalashnikov è anche la marca di una vodka, venduta in bottiglie a forma di Ak-47.Il giornale francese “Libération” ha eletto il fucile russo la più importante invenzione del XX secolo, prima ancora della bomba atomica e della conquista dello spazio. Tra i record meno invidiabili, quello del bilancio di sangue: si ritiene che gli AK-47 abbiano causato più morti del fuoco di artiglieria, dei raid aerei e degli attacchi missilistici. Ogni anno, precisa Rt, si stima che perdano la vita – colpiti da proiettili di Kalashnikov – almeno 250.000 persone. Per Mihkail Kalashnikov, il suo memorabile fucile è «un simbolo del genio creativo del popolo russo». Mai provato rimorso per il sangue versato in tutto il mondo grazie alla sua “creatura”: «Io dormo bene», ha ribadito nel 2007, ricordando di aver pensato a quel fucile come arma di difesa dell’Urss aggredita dai nazisti. «Semmai sono da biasimare i politici: sono loro che non hanno raggiunto un accordo per eliminare dal mondo la violenza».Pratico e indistruttibile, affidabile, semplice da usare e poco costoso da produrre. L’arma più popolare al mondo, l’Ak-47, resterà a lungo un monumento al suo “padre”’, Mikhail Timofeevič Kalashnikov, morto in Russia il 23 dicembre 2013 all’età di 94 anni. Il network all news “Russia Today” riassume “le 20 cose che non avete mai saputo” sul creatore del fucile d’assalto più diffuso sul pianeta, prodotto in quasi 200 milioni di esemplari e adottato dagli eserciti di 106 nazioni, alcune delle quali – Mozambico, Zimbabwe, Burkina Faso e Timor Est – l’hanno adottato come effigie nella bandiera nazionale, così come le milizie libanesi di Hezbollah. L’artista colombiano Cesar Lopez ha trasformato una dozzina di Ak-47 in chitarre, una delle quali è stata donata nel 2007 all’allora segretario generale dell’Onu, Kofi Annan. Un mitra da Guinness dei primati: l’Ak è tuttora l’arma più diffusa sulla Terra, con 100 milioni di esemplari attualmente in uso.
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Basta rigore, candidiamo Tsipras alla guida dell’Ue
Vorrei vedere l’alleanza dei paesi dell’Europa del sud all’interno dell’Unione Europea per affrontare gli Stati che impongono austerità. Si potrebbe mettere in minoranza la linea di Merkel. Una volta è stata messa in minoranza la linea Thatcher, quando è stato fatto l’euro. Ora può essere messa in minoranza la linea Merkel. Nel Parlamento Europeo si dovrebbe cercare l’alleanza con altri, come i Verdi tedeschi, che pongono la questione di un “Piano Marshall” per l’Europa. La candidatura di Alexis Tsipras può contribuire a creare una coalizione di tali forze in Italia, al Sud e in Europa? Una coalizione che superi lo spazio classico dei partiti della sinistra radicale radunando forze sociali più ampie? Questa è la speranza che abbiamo in Italia in un piccolo gruppo di persone. Vorremmo che in Italia ci fosse una lista civica, di cittadini attivi, una lista di persone della società civile che scelgono Tsipras come candidato alla presidenza della Commissione Europea.Non è semplice, perché abbiamo pochissimo tempo per creare qualcosa. Per farlo ci vorrà tutta l’intelligenza di Alexis Tsipras, come quella che gli ha permesso di formare una coalizione tra le anime della sinistra radicale greca. E’ chiaro che non dovrebbe essere una coalizione dei vecchi partiti della sinistra radicale, perché non avrebbe alcuna possibilità di successo. Abbiamo bisogno di qualcosa di più grande, qualcosa per scuotere la coscienza della società, con l’obiettivo di unire le forze della società colpite dalla crisi. Il confronto con l’Europa dell’austerità e della barbarie necessita di una maggiore convergenza delle forze sociali. In Grecia si usa il concetto di ricostruzione e rifondazione dell’Europa. Questo è esattamente l’obiettivo che abbiamo di fronte per presentare una candidatura di Alexis Tsipras in Italia e nell’Europa del Sud. Questa è la sfida. E’ come lasciare alle spalle una guerra, perché gli anni di austerità equivalgono ad una guerra. Soprattutto in Grecia. Dopo la guerra l’Europa è uscita con una voglia di ricostruzione, con un enorme entusiasmo, che dobbiamo ritrovare.L’Europa è nata dopo la guerra per finire le guerre e per lottare insieme contro la povertà. Il ragionamento dei fondatori dell’Europa, che per l’Italia sono Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, ha sostenuto che la povertà in Italia e nella Repubblica di Weimar ci ha portati al fascismo e al nazismo. Non è solo la questione di avere la pace invece della guerra, ma di avere lo stato sociale invece della povertà. Lo stato sociale è una protezione dalle guerre, così come la giustizia sociale. Ci possono essere periodi di crisi economiche, ma bisogna affrontarle tutti insieme e non con i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Per questo dobbiamo cambiare anche il nostro concetto di sviluppo.In queste elezioni europee i cittadini possono esprimersi con molta forza su quale sia la direzione in cui vogliono andare. La prima è di sostegno alla posizione dei “poteri forti”: la Troika e gli Stati più forti. Questa linea sostiene che l’Europa, così com’è oggi, va bene e che le terapie di austerità hanno successo. Perché questo si dice oggi, da Barroso alla Merkel. La terapia mortifera che è stata attuata ha avuto successo, perché la Grecia, la Spagna, il Portogallo, l’Italia e l’Irlanda hanno ormai il bilancio dei pagamenti in pareggio. Ma come diceva Keynes l’intervento è riuscito ma il paziente è morto. Una seconda linea di pensiero dice basta all’Europa, usciamo, perché l’euro è un disastro e un cappio al collo. La terza scelta è quella che ha fatto Alexis Tsipras. Io spero molto in una lista italiana per Tsipras per le elezioni europee, una lista che sostenga che dobbiamo imparare la lezione da quello che è successo: noi vogliamo l’Europa, ma la vogliamo radicalmente cambiata.In un certo senso penso che l’euroscetticismo sia una cosa benefica in questo momento, perché mette in questione una realtà che viene considerata apparente. Interroga la realtà, la mette in questione. Con la rielezione di Merkel alla cancelleria abbiamo visto due grandi famiglie politiche in Europa, i cristiano-democratici e i socialdemocratici, formare una “grande coalizione” per applicare l’austerità. I socialdemocratici sono stati assolutamente rinunciatari sul negoziato con la Merkel, anzi hanno ribadito di essere contrari a qualsiasi europeizzazione del debito. Questo è pericoloso. Il problema è che in tanti paesi d’Europa siamo purtroppo di fronte a “grandi coalizioni” di questo tipo, perché nessuno dei partiti può avere la maggioranza, cominciando dall’Italia, dove siamo in uno stato di immobilità a causa della “grande coalizione”. Vogliamo un’unione vera, come i padri fondatori l’hanno pensata. Un’Europa della solidarietà, con una Banca Centrale prestatrice di ultima istanza, una vera federazione.(Barbara Spinelli, dichiarazioni rilasciate ad Argiris Panagopoulos nell’intervista “Con Tsipras contro l’Europa dell’austerità”, pubblicata il 22 dicembre 2013 dal giornale greco “Avgi” e ripresa da “Micromega”).Vorrei vedere l’alleanza dei paesi dell’Europa del sud all’interno dell’Unione Europea per affrontare gli Stati che impongono austerità. Si potrebbe mettere in minoranza la linea di Merkel. Una volta è stata messa in minoranza la linea Thatcher, quando è stato fatto l’euro. Ora può essere messa in minoranza la linea Merkel. Nel Parlamento Europeo si dovrebbe cercare l’alleanza con altri, come i Verdi tedeschi, che pongono la questione di un “Piano Marshall” per l’Europa. La candidatura di Alexis Tsipras può contribuire a creare una coalizione di tali forze in Italia, al Sud e in Europa? Una coalizione che superi lo spazio classico dei partiti della sinistra radicale radunando forze sociali più ampie? Questa è la speranza che abbiamo in Italia in un piccolo gruppo di persone. Vorremmo che in Italia ci fosse una lista civica, di cittadini attivi, una lista di persone della società civile che scelgono Tsipras come candidato alla presidenza della Commissione Europea.
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Il futuro secondo Google? Un bel microchip nel cranio
Scott Huffman, direttore tecnico di Google, preconizza un mondo in cui i microfoni di Google, inseriti nel soffitto, ascolteranno le nostre conversazioni intercettando le risposte verbali date a qualunque domanda sia posta. Il futuro di un business da 300 miliardi di dollari dipende dal successo nel riuscire a prevedere, automaticamente, le necessità di ricerca degli utenti, per poter presentare loro i dati di cui hanno bisogno. «La capacità di calcolo sta diventando così poco costosa che è inevitabile che prima o poi avremo una completa ubiquità di sistemi connessi tra loro attorno a tutti noi», dal microfonino personale attaccato al bavero della giacca fino all’abitacolo della nostra auto e persino ai Google Glass, gli occhiali muniti di un mini-computer ottico. Google ti ascolta: un piccolo microfono appeso al soffitto, abilitato a rispondere a interrogazioni verbali al motore di ricerca, eliminerebbe la necessità di tenere un’agenda, “ricordando” impegni e orari.Huffman, scrive Adam Sherwin sull’“Independent”, è l’uomo che più di ogni altro ha lavorato, negli ultimi quindici anni, per raffinare il funzionamento dei motori di ricerca. Secondo lui, l’atto fisico dell’usare una tastiera per compilare il campo di ricerca della pagina di Google andrà gradualmente scomparendo. Le informazioni necessarie potrebbero essere rese disponibili tramite «un piccolo sistema indossabile, che potrebbe avere un piccolo schermo, e con cui si interagirà semplicemente attraverso la nostra voce, forse con qualche piccolo tocco, e nient’altro». Esempio: «Immagina che io possa dire al microfono inserito nel soffitto di una stanza: “Puoi farmi vedere il video con gli highlights della partita di ieri dei Pittsburgh Steelers sulla Tv del salotto?”, e che questo funzioni, grazie al fatto che con il Cloud ogni cosa è connessa». Oppure: «Potrei chiedere al mio “assistente” di suggerirmi un ristorante francese non troppo caro. Google dirà “ok, andremo in quel ristorante”, e prima ancora che io salga in macchina il navigatore avrà già impostato il percorso».Che poi gli utenti di Google vogliano davvero un microfono inserito in ogni soffitto è un’altra questione, osserva Sherwin, specie dopo che la società è stata coinvolta nella crisi di fiducia generata dalle rivelazioni di Edward Snowden a proposito del programma di sorveglianza elettronica clandestino Prism operato per anni dalla National Security Agency americana. Google ha unito le proprie forze a quelle di altri giganti della tecnologia come Facebook, Apple e Yahoo!, insieme ai quali ha chiesto un cambiamento nelle norme che regolano le procedure di sorveglianza elettronica negli Usa e una messa al bando su scala internazionale della raccolta massiva di “metadati”, per aiutare a mantenere la fiducia del pubblico nella rete internet. Dopodiché, aggiunge Sherwin, «Google ritiene di poter un giorno soddisfare il bisogno di informazioni dei suoi utenti inviando i risultati delle sue ricerche direttamente a dei microchip impiantati nel loro cervello». Primo step: «Sono state già avviate ricerche relative alla possibilità di utilizzare simili microchip per poter aiutare persone disabili a sterzare guidando le proprie sedie a rotelle».L’attuale attuale priorità è utilizzare “Google’s Knowledge Graph”, un magazzino di informazioni in continua espansione che al momento contiene 18 miliardi di informazioni su fatti relativi a 60 milioni di soggetti, per produrre un sistema di risposta più “umano”. Le richieste di informazioni di tipo vocale sono molto più complesse di quelle fatte immettendo un paio di parole nella finestra di dialogo di un comune motore di ricerca. «Il mio team sta lavorando molto sull’idea di avere una più ricca modalità di conversare con Google», sostiene il direttore del colosso digitale, secondo cui il traguardo è ormai alla portata: tra cinque anni, «Google ti risponderà esattamente nel modo in cui lo farebbe una persona», arrivando cioè a «comprendere il contesto di una conversazione».Scott Huffman, direttore tecnico di Google, preconizza un mondo in cui i microfoni di Google, inseriti nel soffitto, ascolteranno le nostre conversazioni intercettando le risposte verbali date a qualunque domanda sia posta. Il futuro di un business da 300 miliardi di dollari dipende dal successo nel riuscire a prevedere, automaticamente, le necessità di ricerca degli utenti, per poter presentare loro i dati di cui hanno bisogno. «La capacità di calcolo sta diventando così poco costosa che è inevitabile che prima o poi avremo una completa ubiquità di sistemi connessi tra loro attorno a tutti noi», dal microfonino personale attaccato al bavero della giacca fino all’abitacolo della nostra auto e persino ai Google Glass, gli occhiali muniti di un mini-computer ottico. Google ti ascolta: un piccolo microfono appeso al soffitto, abilitato a rispondere a interrogazioni verbali al motore di ricerca, eliminerebbe la necessità di tenere un’agenda, “ricordando” impegni e orari.