Archivio della Categoria: ‘segnalazioni’
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Mein Kampf: ora i tedeschi potranno rileggere Hitler
La Germania ha dovuto, ancora una volta, guardare in faccia il suo passato. In discussione questa volta non sono i fatti, ma le parole di Adolf Hitler e la prevista ripubblicazione del suo famigerato manifesto-autobiografia “Mein Kampf”, un libro che è stato ufficialmente bandito dal paese dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Ma anche se la prospettiva che le parole del Führer ricomincino a circolare liberamente sul mercato tedesco potrebbe scioccare qualcuno, non dovrebbe esserci nessun pericolo. L’aver cresciuto l’ultima generazione inoculandole il bacillo anti-nazista, vaccinandola con un confronto aperto sulle parole di Hitler, è servito molto più che non lasciare che queste parole restassero sottaciute, nascoste furtivamente tra le ombre dell’illegalità. Hitler scrisse la prima bozza della sua ideologia profondamente antisemita, sul concetto di razza nel 1924, mentre era in prigione per aver guidato un fallito colpo di Stato; al momento della sua morte, 21 anni dopo, aveva venduto 10 milioni di copie.Da allora, anche se “Mein Kampf” è rimasto sempre presente nell’ombra – negli scaffali più nascosti delle bancarelle di libri usati e delle librerie e, più recentemente, in rete – il titolare del copyright, lo Stato della Baviera, ha rifiutato di autorizzare che l’opera venisse ripubblicata, creando così un alone di tabù intorno al libro. Tutto questo sta per cambiare. Il copyright della Baviera scade alla fine del 2015 e poi chiunque potrà pubblicare il libro: un editore di libri di qualità o uno che pubblica libri economici, ma potrebbe pubblicarlo anche un gruppo neo-nazista. Rimettere in circolazione “Mein Kampf” nel flusso del sangue della cultura tedesca costituirà sicuramente un momento di eccezionale importanza. In una nazione dove ancora si comprano avidamente i libri – e che ama discuterne in pubblico – questa pubblicazione accenderà nuovi dolorosi dibattiti intergenerazionali nei talk show e sulle pagine culturali su come genitori e nonni si lasciarono fuorviare tanto ciecamente.Come successe con il clamore creato nel 1996 da Daniel Jonah Goldhagen con il suo controverso libro “I carnefici volontari di Hitler”, che accusava i tedeschi, in generale, di essere tutti capaci di ammazzare gli ebrei in massa, questo evento editoriale potrebbe incidere sulla politica contemporanea e rinvigorire il radicato pacifismo del dopoguerra tedesco. Il coinvolgimento – o il non-coinvolgimento – della Germania nelle crisi internazionali come Kosovo, Afghanistan, Libia e, più recentemente, Mali, è profondamente influenzato da un appassionato dibattito su questo argomento. «La Germania è una terra stregata, dove vivono ancora le ombra di Hitler», mi ha detto recentemente lo scrittore ebreo tedesco Henryk M. Broder.Il primo a prepararsi per la corsa alla pubblicazione del libro è l’Istituto di Storia Contemporanea, un rinomato Centro di ricerca per lo studio del nazismo, a Monaco, che dispone già di un team di cinque studiosi che stanno preparando una “edizione critica ragionata” sulle 700 pagine di Hitler. La versione dell’istituto raddoppierà le dimensioni del libro e servirà come riferimento accademico per tutti i futuri studiosi del testo base dell’hitlerismo, ha detto il leader del team, Christian Hartmann. Le ampie annotazioni del libro – ha aggiunto – serviranno per “delimitare” le linee del racconto di Hitler con una “serie di commenti” che demistificheranno e decodificheranno, con un sottotesto alternativo, il contesto storico raccontato, spogliandolo del suo presunto potere ipnotico.Non sorprende che il progetto “Mein Kampf” abbia suscitato clamore in alcuni ambienti ebraici. Charlotte Knobloch, presidente della comunità di cultura israelita di Monaco e dell’Alta Baviera , ha detto che «esiste ancora il pericolo» di catalizzare i sentimenti dell’estrema destra. Uri Chanoch, un israeliano di 86 anni, superstite dell’Olocausto, ha aggiunto che i tedeschi «da qualche parte nei loro cuori covano ancora odio per noi», e si è prodigato in una aggressiva campagna contro la riedizione del libro, chiedendo che anche dall’estero si faccia pressione sulla Baviera per bloccarne la ristampa. Dopo l’eco ricevuto da questo tipo di sentimenti, il premier bavarese Horst Seehofer, durante il suo viaggio in Israele, ha deciso di togliere il suo patrocinio al progetto “Mein Kampf” e di cancellare i fondi per la ricerca che erano stati stanziati (684.000 dollari). Questa decisione, a sua volta, ha scatenato una levata di scudi tra gli accademici e tra la legislatura bavarese, che in precedenza aveva approvato il progetto.Anche qualche leader ebreo è stato preso alla sprovvista. «Sono rimasto stupito da questa decisione», ha detto Salomon Korn, il leader della forte comunità ebraica di Francoforte, 7.000 persone. «Avremmo già dovuto avere una edizione critica del “Mein Kampf”». E allora, come in un goffo balletto, il governo di Seehofer è stato costretto a riconsiderare la sua riconsiderazione e si è accordato per non riprendersi i soldi ma togliendo il suo sigillo di approvazione governativa. Questa foglia di fico, d’altro canto, potrebbe placare o non placare chi la pensa in modo diverso, soprattutto in Israele, che ormai già credeva di essere già riuscito a bloccare la ristampa del libro. Ma con il finanziamento in mano, l’istituto sta procedendo e la sua edizione servirà ad uno scopo politico di contrasto all’impatto negativo sull’immagine della Germania e sulla cultura politica che potrebbe portare una ristampa incontrollata di un libro che potrebbe inondare il mercato.Indipendentemente da qualsiasi altra pubblicazione, comunque, sarà l’edizione accademica la più autorevole, soprattutto nelle scuole e nelle università. Questo sarà un effetto positivo. Sessantanove anni dopo la Seconda Guerra Mondiale, non ha più senso per i tedeschi non avere ancora libero accesso ad un libro che può essere facilmente acquistato in tanti altri paesi. Mantenere viva una triste diatriba, spesso incomprensibile, per paura di una rinascita nazista, fuori luogo, è una reazione troppo esagerata: l’unico partito pseudo-nazista tedesco in Germania ha ricevuto 1% alle ultime elezioni del Parlamento Europeo; in Francia, l’estrema destra ha preso quasi il 25%. Nel 1959, il primo presidente tedesco del dopoguerra della Germania Ovest, Theodor Heuss, raccomandò di ripubblicare “Mein Kampf”, come monito per il popolo tedesco, ma forse era troppo presto e la popolazione non era ancora pronta per un tale confronto e l’establishment politico dell’epoca lo ignorò. Oggi, 55 anni dopo e 10 presidenti più tardi, la bella idea di Heuss sta finalmente arrivando a compimento.La Germania ha dovuto, ancora una volta, guardare in faccia il suo passato. In discussione questa volta non sono i fatti, ma le parole di Adolf Hitler e la prevista ripubblicazione del suo famigerato manifesto-autobiografia “Mein Kampf”, un libro che è stato ufficialmente bandito dal paese dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Ma anche se la prospettiva che le parole del Führer ricomincino a circolare liberamente sul mercato tedesco potrebbe scioccare qualcuno, non dovrebbe esserci nessun pericolo. L’aver cresciuto l’ultima generazione inoculandole il bacillo anti-nazista, vaccinandola con un confronto aperto sulle parole di Hitler, è servito molto più che non lasciare che queste parole restassero sottaciute, nascoste furtivamente tra le ombre dell’illegalità. Hitler scrisse la prima bozza della sua ideologia profondamente antisemita, sul concetto di razza nel 1924, mentre era in prigione per aver guidato un fallito colpo di Stato; al momento della sua morte, 21 anni dopo, aveva venduto 10 milioni di copie.
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Human Rights Watch: dietro quei terroristi c’era l’Fbi
Musulmani incoraggiati a compiere atti di terrorismo, a volte anche retribuiti. A denunciare l’operato dell’Fbi, la polizia federale americana, è una ong statunitense, “Human Rights Watch”. In un rapporto pubblicato in rete, riferisce “Rai News 24”, l’organizzazione accusa l’Fbi di aver violato la legge e di non aver perseguito le reali minacce. Con la collaborazione dell’Istituto per i diritti umani dell’Università della Colombia, “Human Rights Watch” ha esaminato 27 casi di indagini che sono passate attraverso un processo, intervistando 215 persone, incluse quelle accusate o condannate per atti di terrorismo. «In molti casi il governo, usando i suoi informatori, ha sviluppato falsi complotti terroristici, persuadendo e in alcuni casi facendo pressione su individui, per farli partecipare e fornire risorse per attentati», scrive Hrw. Per l’organizzazione, metà dei casi esaminati fa parte di operazioni portate avanti con l’inganno e nel 30% dei casi un agente sotto copertura ha giocato un ruolo attivo nel complotto.«Agli americani è stato detto che il loro governo veglia sulla loro sicurezza prevenendo e perseguendo il terrorismo all’interno degli Stati Uniti», dice Andrea Prasow, vicedirettore di “Human Rights Watch” a Washington. «Ma se si osserva da vicino, si scopre che molte di queste persone non avrebbero mai commesso crimini se non fossero state incoraggiate da agenti federali, a volte anche pagati». Secondo “Hrw”, l’Fbi spesso individua soggetti vulnerabili, con problemi mentali o dalla scarsa intelligenza, come Rezwan Ferdaus, un 27enne condannato a 17 anni di carcere perché accusato di voler attaccare il Pentagono e il Congresso con piccoli droni carichi di esplosivo, in un falso complotto organizzato dagli stessi agenti americani. Strategia della tensione, dunque, nonostante la prevedibile smentita del ministro della giustizia Eric Holder, cui l’Fbi risponde. Peccato che i media mainstream se ne “accorgano” solo ora, aggiunge Pino Cabras su “Megachip”: all’epoca degli “attentati” di cui si è occupata “Human Rights Watch”, infatti, la Rai e i giornali «ripetevano le veline dell’Fbi: fanno così molto spesso, senza correggersi mai», o comunque fuori tempo massimo.La notizia rende finalmente giustizia ai reporter che fanno «semplice giornalismo d’inchiesta» ma vengono regolarmente tacciati di “complottismo”. Disinformazione criminale, dunque, che ogni giorno “ruba” «un pezzo di libertà, di sovranità», fino ad imporre «lo spionaggio totalitario della Nsa». Attenti, sottolinea Cabras: «Non stiamo parlando di un generico sottofondo di notizie: si tratta dei modi con cui si è lanciato un allarme sicurezza permanente che ha fatto da base giuridica e premessa politica delle guerre di aggressione intraprese dal 2001 in poi, nonché delle leggi che hanno consentito lo spionaggio onnipervasivo e reintrodotto gli arresti extralegali e la tortura». In questo quadro, «emerge chiaramente che il terrorismo in Usa è un’interminabile catena di azioni “false flag” (sotto falsa bandiera), in cui gli attori hanno sempre il fiato sul collo dell’Fbi, che li manipola per i propri fini. Era così già dal primo attentato alle Torri Gemelle di New York, nel 1993, fu così per una parte dei soggetti implicati nei mega-attentati dell’11 settembre 2001, è stato così per Mutanda Bomber e per la maratona di Boston».«L’indagine di Human Rights Watch – continua Cabras – sarebbe già sufficiente da sola per dire che questo è un metodo di governo e che il cosiddetto terrorismo è in prevalenza una forma di manipolazione di massa, coperta da entità statali e usata con l’accordo dei pochi proprietari della quasi totalità dei grandi organi di informazione che sono adibiti a organizzare l’isteria collettiva a comando». Con ogni probabilità, aggiunge l’analista di “Megachip”, la realtà è invece «ancora più vasta e incancrenita», tanto che l’indagine «sarebbe da estendere anche oltre gli Usa (pensiamo agli attentati di Londra del 2005), oltre l’Fbi (pensiamo al terrorismo internazionale segnato e finanziato da un intreccio di servizi segreti di vari paesi), e oltre i piccoli episodi (pensiamo anche all’11 Settembre e all’allarme antrace del 2001)».Musulmani incoraggiati a compiere atti di terrorismo, a volte anche retribuiti. A denunciare l’operato dell’Fbi, la polizia federale americana, è una ong statunitense, “Human Rights Watch”. In un rapporto pubblicato in rete, riferisce “Rai News 24”, l’organizzazione accusa l’Fbi di aver violato la legge e di non aver perseguito le reali minacce. Con la collaborazione dell’Istituto per i diritti umani dell’Università della Colombia, “Human Rights Watch” ha esaminato 27 casi di indagini che sono passate attraverso un processo, intervistando 215 persone, incluse quelle accusate o condannate per atti di terrorismo. «In molti casi il governo, usando i suoi informatori, ha sviluppato falsi complotti terroristici, persuadendo e in alcuni casi facendo pressione su individui, per farli partecipare e fornire risorse per attentati», scrive “Hrw”. Per l’organizzazione, metà dei casi esaminati fa parte di operazioni portate avanti con l’inganno e nel 30% dei casi un agente sotto copertura ha giocato un ruolo attivo nel complotto.
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Missione compiuta, l’Italia muore: la catastrofe in cifre
Un paese in ginocchio, mutilato, raso al suolo dalla crisi inasprita dall’euro e dal regime di austerity imposto da Bruxelles per mantenere in vita la moneta unica. L’Italia sta letteralmente andando a pezzi: tutti se ne accorgono ogni giorno, mentre la disoccupazione dilaga, i consumi crollano, i negozi chiudono e le aziende licenziano. Ma il panorama si fa ancora più impressionante se si osservano, tutti insieme, i numeri della catastrofe. E’ quello che ha fatto il blog “Sollevazione”, pescando tutte le cifre ufficiali degli indicatori-chiave. Un bollettino di guerra, voce per voce. Produzione e ricchezza, industria e redditi, debito e risparmi. L’Italia in rosso, che sta precipando lontano dalla sua storia, senza neppure capire perché. Ognuno combatte, da solo, contro continui rovesci: non ci sono spiragli, non c’è alcuna “ripresa” nemmeno all’orizzonte. Ma nessuno racconta davvero l’assedio del panico, la paura sciorinata dai “crudi numeri”, che forse non fotograno «le dimensioni effettive del disastro economico e sociale che vive l’Italia», però «ci aiutano a comprenderlo».Secondo gli analisti di “Sollevazione”, la resa matematica dell’Italia rivelata dai conti – la lingua spietata del pallottoliere – permette anche di «capire come le politiche austeritarie per tenere in piedi l’euro, il sistema bancocratico e il capitalismo-casinò, abbiano affossato il nostro paese», il cui Pil ha perso 8,7 punti percentuali a partire dal 2007, inclusa la manipolazione dello spread che ha “armato” la gigantesca manomissione operata da Monti e Fornero, con la loro “spending review” e la riforma-suicidio delle pensioni. Un’agenda peraltro proseguita da Letta: tagliare la spesa, ben sapendo che il “risparmio” dello Stato manda in crisi il settore privato, facendo calare il gettito fiscale e quindi esplodere il debito pubblico. Matteo Renzi? Niente di nuovo: neoliberismo puro, a cominciare dal Jobs Act per precarizzare ulteriormente il lavoro. Aggravanti: la neutralizzazione delle ultime difese sociali garantite dalla Costituzione, come vuole l’élite finanziaria, e l’eliminazione fisica dell’opposizione attraverso una legge elettorale come l’Italicum, definita peggiore – per le sue restrizioni – di quella che permise a Mussolini di consolidare il neonato regime fascista.Tutto questo, mentre il paese soccombe ogni giorno: in sei anni, il Pil pro capite è calato di 9 punti (di 10, invece, il reddito reale disponibile per le famiglie). Stesse percentuali per la frana della ricchezza nazionale: -9% dal 2007 al 2013, pari a 843 miliardi di euro. C’era una volta l’Italia: nello stesso periodo, la produzione industriale è crollata addirittura del 25,5%. Sta andando in frantumi, grazie alla politica imposta da Berlino, il maggior competitore europeo della Germania. Tra il 2001 e in 2013, l’Italia ha perso 120.000 fabbriche. Sono cifre da scenario bellico, e non sono riguardano solo l’industria: ci sono anche le 75.000 imprese artigiane costrette a chiudere. Anno record per il fallimenti, l’infame 2013 delle “larghe intese”: qualcosa come 111.000 fallimenti, in appena dodici mesi. Contraccolpo catastrofico, la disoccupazione: dal 2001, con l’ingresso nell’Eurozona, l’industria italiana ha perso un milione e 160.000 posti di lavoro. Colpa anche dell’assenza di credito: nonostante ricevano denaro dalla Bce a tassi «prossimi allo zero», le banche continuano a finanziare le imprese con prestiti al 4,49%, mentre negli altri paesi dell’Eurozona l’interesse medio è al 3,8%.Anche così il lavoro si estingue alla velocità della luce. Dal 2007, la piaga della disoccupazione è più che raddoppiata: dal 6,1% al 12,7 attuale. «I disoccupati ufficiali sono 3 milioni e 300.000», rileva “Sollevazione”, ai quali vanno però aggiunti «altri 3 milioni di persone», che ormai non si rivolgono neppure più ai centri per l’impiego: i cosiddetti “sfiduciati” fanno salire a quasi 6 milioni e mezzo il totale dei disoccupati italiani, proprio mentre la Germania del super-export vede salire ai massimi storici la quota degli occupati. C’è anche il trucco, naturalmente: un tedesco su quattro accetta i mini-job da 450 euro al mese. E’ la strada aperta in Italia dal Jobs Act di Renzi, di fronte a una platea oceanica di giovani senza lavoro: il 43%, più del doppio dei ragazzi disoccupati nel 2007. Sta male, comunque, la stragrande maggioranza dei salari italiani: «Con uno stipendio netto di 21.374 dollari l’anno, l’Italia si colloca al 23esimo posto nella classifica Ocse: se la passano peggio solo i portoghesi e gli abitanti dei paesi dell’Europa orientale». A valanga, la mancanza di impiego si traduce in forte calo dei consumi familiari, tagliati di quasi il 10% solo negli ultimi due anni. A farne le spese è anche il risparmio, continuamente eroso per far fronte all’emergenza economica, mentre la super-tassazione disposta dall’Ue ha raggiunto per l’Italia il 44% del Pil.«Se si considera il periodo tra il 2011 e il 2012 – precisa “Sollevazione” – soltanto l’Ungheria, in Unione Europea, ha conosciuto un aumento delle tasse rispetto al Pil superiore a quello dell’Italia». E’ un circolo vizioso: imporre più tasse a chi già le paga, per tentare (inutilmente) di arginare il calo delle entrate, comunque – già oggi – superiori alla somma delle uscite: situazione che sarà ulteriormente aggravata dal Fiscal Compact e cronicizzata dall’inserimento del pareggio di bilancio nella Costituzione. In pratica, la fine dello Stato sociale e delle garanzie sui servizi vitali – scuola e sanità in primis, peraltro minacciate di privatizzazione forzata dal Ttip e dal Tisa, i trattati segreti euro-atlantici imposti dagli Usa, che Renzi preme per approvare in fretta. Cartina di tornasole di questa autentica catastrofe, il debito pubblico: era pari al 103,3% del Pil nel 2007, ma ha raggiunto il 132,9% nel 2013. «L’ultimo rilevamento di Bankitalia ci dice che il debito pubblico ha toccato a maggio 2014 un nuovo record storico: quota 2.166,3 miliardi, con un aumento di 20 miliardi sul mese precedente».Va in rosso il conto delle famiglie, nel paese che prima dell’avvento dell’euro era il più risparmiatore d’Europa: rispetto al Pil, dal 1998 al 2012 il debito privato delle imprese è passato dall’85 al 120%, quello delle banche dal 40 al 110%, quello delle famiglie dal 30 al 50%. Paradossalmente, osserva “Sollevazione”, «in questo periodo quello che è cresciuto meno è stato proprio il debito pubblico», mentre il debito aggregato – pubblico e privato – è letteralmente esploso, dal 275% ad oltre il 400%. Spaventose pure le sofferenze bancarie, cresciute di 100 miliardi dal 2007 al 2013, per un totale di 147,3 miliardi di euro. Ed ecco l’ultimo gradino della tragedia: la povertà. Un fantasma che mette paura: l’esercito dei nuovi poveri e il timore che crescano furti e rapine ha aumentato del 5,7% i denari lasciati in custodia alle banche, oltre 1,2 miliardi di euro. Secondo Eurostat, gli «individui a rischio povertà o esclusione sociale» nel 2008 erano in Italia il 25,3%, e sono diventati il 29,9% nel 2012. L’ Istat è ancora più preciso: «Un italiano su dieci è in povertà assoluta».Tra il 2012 e il 2013, spiega l’istituto di statistica, l’incidenza della povertà assoluta è aumentata dal 6,8 al 7,9%, coinvolgendo oltre 300.000 famiglie e 1 milione 206.000 persone in più rispetto all’anno precedente. «E’ povera, o quasi povera, una famiglia su cinque». Poi c’è la “povertà relativa”, quelle delle famiglie (sono quasi 3 milioni e mezzo) il cui portafoglio mensile è inferiore alla spesa media nazionale, 972 euro al mese. Sono famiglie che cercano di sopravvivere con meno di 800 euro al mese, che si riducono a meno di 750 nel Mezzogiorno, dove più evidenti sono le diseguaglianze che la “crisi” ha fatto esplodere. Nel 1992, l’Italia era un paese relativamente equilibrato: non c’era un abisso tra ricchi e poveri e la classe media era in ottima salute. Oggi, praticamente, è in via di estinzione e teme di sprofondare giorno per giorno verso la povertà. Nel 2013, l’Italia è risultato «il paese più diseguale dell’Unione Europea, dopo la Gran Bretagna». Solo che il Regno Unito non è ingabbiato dall’euro. Infatti, a Londra, economia e occupazione stanno decisamente meglio rispetto alla media dell’atroce Eurozona, di cui l’Italia – dopo la Grecia – è la vittima principale.Un paese in ginocchio, mutilato, raso al suolo dalla crisi inasprita dall’euro e dal regime di austerity imposto da Bruxelles per mantenere in vita la moneta unica. L’Italia sta letteralmente andando a pezzi: tutti se ne accorgono ogni giorno, mentre la disoccupazione dilaga, i consumi crollano, i negozi chiudono e le aziende licenziano. Ma il panorama si fa ancora più impressionante se si osservano, tutti insieme, i numeri della catastrofe. E’ quello che ha fatto il blog “Sollevazione”, pescando tutte le cifre ufficiali degli indicatori-chiave. Un bollettino di guerra, voce per voce. Produzione e ricchezza, industria e redditi, debito e risparmi. L’Italia in rosso, che sta precipando lontano dalla sua storia, senza neppure capire perché. Ognuno combatte, da solo, contro continui rovesci: non ci sono spiragli, non c’è alcuna “ripresa” nemmeno all’orizzonte. Ma nessuno racconta davvero l’assedio del panico, la paura sciorinata dai “crudi numeri”, che forse non fotografano «le dimensioni effettive del disastro economico e sociale che vive l’Italia», però «ci aiutano a comprenderlo».
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De Bortoli: rischio prelievo forzoso, poi arriverà la Troika
Crescita giù, conti pubblici a rischio. Renzi? «La rovina dell’Italia», secondo quanto Ferruccio De Bortoli, direttore del “Corriere della Sera”, avrebbe confidato ad amici. Secondo De Bortoli, il governo Renzi sarà “costretto” a varare in autunno una manovra “lacrime e sangue” da 20 miliardi, cui seguirà la resa sostanziale alla Troika Ue, formata da Commissione Europea, Bce e Fmi, pronta a “mettere le mani nelle tasche degli italiani” anche con un prelievo forzoso dai conti correnti. Che le cose non stiano andando bene, scrive il newsmagazine “Investire Oggi”, lo si capisce dall’intervista che il premier ha rilasciato a “La7” a fine luglio, nella quale ha ammesso che sarà difficile centrare l’obiettivo di crescita dello 0,8% per quest’anno. Tuttavia, il premier ha aggiunto che una crescita dello 0,4% piuttosto che dello 0,8% o dell’1,5% sarebbe «indifferente», perché nulla cambierebbe nella vita ordinaria delle persone. «Se a fare la battuta non fosse il capo di un governo, ci sarebbe da ridere».L’Italia sta precipitando nell’abisso infernale dell’Eurozona: difficile immaginare che per un’economia il cui Pil è del 9% più basso di quello del 2007 e che presenta una disoccupazione prossima al 13%, una crescita zero o una dell’1,5% sia uguale. Comunque sia, perfino Renzi è costretto alle prime ammissioni. Scenario confermato peraltro dal Fmi, secondo cui la crescita italiana per il 2014 non supererebbe lo 0,3%, mentre Bankitalia e Confindustria sono ancora più pessimiste, fermandosi allo 0,2%. Anche l’Istat avverte che la “ripresa” potrebbe non esserci stata nemmeno nel secondo trimestre. «Ormai – scrive Investire Oggi” – non esiste un serio analista che non preveda la necessità di una manovra correttiva a settembre». Per Jp Morgan e Mediobanca, la stangata sarà nell’ordine di 20 miliardi di euro, «che è anche la stessa cifra di cui si parla a porte chiuse nel Pd». Una mazzata secca: «Si vocifera che il ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan, stia pensando a un prelievo sugli assegni pensionistici oltre i 3 mila euro all’anno».Secondo alcuni media, poi, alla manovra-tagliola crede anche Ferruccio De Bortoli, che ormai teme la possibile adozione del provvedimento più brutale – il prelievo forzoso – che precederebbe il commissariamento definitivo dell’Italia da parte della Troika europea. Sempre secondo “Investire Oggi”, dello stesso parere sarebbe il super-banchiere Giovanni Bazoli, presidente del consiglio di sorveglianza di Intesa-Sanpaolo, a sua volta azionista in Rcs, il gruppo editoriale che controlla il “Corriere”. «Potremmo declassare le affermazioni di De Bortoli a semplice sfogo, a boutade, a esagerazioni del tutto personali e senza fondamento», precisa “Investire Oggi”, «ma stiamo parlando non solo del numero uno del principale quotidiano italiano, bensì di colui che gestisce l’organo di informazione dei salotti buoni italiani, che ha perfetta percezione di cosa pensi la finanza nazionale e internazionale». E quindi, «se De Bortoli arriva ad affermare che ci sarà una maxi-manovra da 20 miliardi, che sarà effettuato un prelievo forzoso e che alla fine arriverà la Troika, significa che verosimilmente ha informazioni che lo spingono a esternare simili frasi».http://www.investireoggi.it/economia/prelievo-forzoso-manovra-da-20-miliardi-e-arrivo-della-troika-e-un-incubo-o-la-verita/Crescita giù, conti pubblici a rischio. Renzi? «La rovina dell’Italia», secondo quanto Ferruccio De Bortoli, direttore del “Corriere della Sera”, avrebbe confidato ad amici. Secondo De Bortoli, il governo Renzi sarà “costretto” a varare in autunno una manovra “lacrime e sangue” da 20 miliardi, cui seguirà la resa sostanziale alla Troika Ue, formata da Commissione Europea, Bce e Fmi, pronta a “mettere le mani nelle tasche degli italiani” anche con un prelievo forzoso dai conti correnti. Che le cose non stiano andando bene, scrive il newsmagazine “Investire Oggi”, lo si capisce dall’intervista che il premier ha appena rilasciato a “La7”, nella quale ha ammesso che sarà difficile centrare l’obiettivo di crescita dello 0,8% per quest’anno. Tuttavia, il premier ha aggiunto che una crescita dello 0,4% piuttosto che dello 0,8% o dell’1,5% sarebbe «indifferente», perché nulla cambierebbe nella vita ordinaria delle persone. «Se a fare la battuta non fosse il capo di un governo, ci sarebbe da ridere».
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Klare: senza le rinnovabili, è guerra ovunque per l’energia
Iraq, Siria, Nigeria, Sud Sudan, Ucraina, Mar della Cina: ovunque si guardi, il mondo è in fiamme. A prima vista, i conflitti sembrano regionali e indipendenti l’uno dall’altro. Ma, visti da vicino, sono «un infuso stregato di antagonismi etnici, religiosi e nazionali, portato al punto di ebollizione dall’ossessione dell’energia». In ciascuno di questi conflitti, osserva uno studioso di geopolitica come l’accademico Michael Klare, la lotta è guidata in gran parte dall’irrompere dello scontro tra clan, sette e popoli veri e propri, ciascuno motivato dal controllo delle fonti energetiche, petrolio e gas: «Sono guerre del XXI secolo per l’energia». I governi di Iraq, Nigeria, Russia, Sud Sudan e Siria derivano la gran parte dei loro ricavi da vendite di petrolio, mentre le grandi imprese energetiche (molte delle quali di proprietà dello Stato) esercitano un potere immenso. Chiunque controlli questi Stati, o le zone di produzione di gas e petrolio, gestisce anche la ripartizione di ricavi cruciali. E il controllo delle risorse fossili si traduce in peso geopolitico per alcuni paesi e in vulnerabilità economica per altri.Gli esportatori – come Iraq e Nigeria, Russia e Sudan del Sud – spesso esercitano un’influenza sproporzionata, sulla scena mondiale, rispetto al loro reale peso specifico politico. Proprio la lotta per le risorse energetiche, scrive Klare in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”, è stato un fattore evidente in diversi conflitti recenti, tra cui la guerra Iran-Iraq del 1980-1988, la Guerra del Golfo del 1990-1991 e la guerra civile sudanese del 1983-2005. «A prima vista, il fattore legato ai combustibili fossili nei più recenti focolai di tensione e di guerra può sembrare meno evidente, ma se si guarda più da vicino si vede che ognuno di questi conflitti è, in effetti, una guerra per l’energia». Gli estremisti sunniti dell’Isis, che sperano di fondare un giorno un “califfato islamico” in Medio Oriente, oggi occupano le aree-chiave per l’estrazione del greggio in Siria e gli impianti di raffinazione in Iraq. «Pare che l’Isis venda petrolio proveniente dai giacimenti sotto il suo controllo a oscuri intermediari, che a loro volta organizzano il trasporto – per lo più tramite autobotti – alla volta di acquirenti che si trovano in Iraq, Siria e Turchia. Si dice che queste vendite forniscano all’organizzazione i fondi necessari per pagare le sue truppe e acquisire le sue vaste scorte di armi e munizioni».Molti osservatori, aggiunge Klare, sostengono anche che l’Isis stia vendendo petrolio al regime di Assad in cambio di immunità dagli attacchi aerei governativi lanciati contro i restanti gruppi ribelli. «In qualsiasi modo gli attuali combattimenti nel nord dell’Iraq si sviluppino, è ovvio che anche lì il petrolio sia il fattore chiave», anche perché l’Isis «mira sia a negare le forniture di petrolio e le entrate ad esso legate al governo di Baghdad, sia a sostenere le proprie casse, migliorando la sua capacità di costruire una vera e propria nazione e facilitando ulteriori progressi militari». Dal petrolio al gas, è sempre l’energia al centro della contesta in Ucraina, dove transita il 30% del gas russo destinato all’Europa: non deve sorprendere che l’accordo di associazione tra Bruxelles e Kiev preveda l’estensione delle norme energetiche dell’Ue al sistema energetico ucraino, eliminando di fatto i benevoli accordi intercorsi tra le élite ucraine e la russa Gazprom. Non solo militare, ma anche energetico, il significato della contromossa di Putin, cioè il recupero della Crimea: si ritiene che la penisola sul Mar Nero ospiti miliardi di barili di petrolio e vaste riserve di gas, come dimostrato dalla pressione esercitata da Exxon Mobil, prima della crisi, per mettere le mani proprio sulla Crimea.Si scrive guerra ma si legge energia anche in Nigeria: le cronache parlano dei ribelli islamisti di Boko Haram, decisi ad abbattere un regime corrotto, ma spesso dimenticano di spiegare che il paese è il più grande produttore africano di petrolio, grazie a un’estrazione giornaliera di circa 2,5 milioni di barili. Profitti: decine di miliardi di dollari l’anno. Se venissero usati per stimolare lo sviluppo e migliorare la sorte della popolazione, scrive Klare, «la Nigeria potrebbe essere un grandioso faro di speranza per tutta l’Africa». Invece, «gran parte del denaro scompare nelle tasche (e relativi conti bancari esteri) di élite nigeriane ben ammanicate». Per molti nigeriani, la maggior parte dei quali vive con meno di 2 dollari al giorno, la corruzione della capitale Abuja, combinata con la brutalità indiscriminata della polizia, è una fonte costante di rabbia: risentimento che genera reclute per gruppi di insorti come Boko Haram e conquista l’ammirazione della popolazione. Soldi e petrolio sono alla base anche della guerra infinita in Sudan, inclusa la tragedia del Darfur. Avviata nel 1995, la prima guerra civile tra il nord islamico e il sud animista e cristiano si concluse nel 1972. Ma quando fu scoperto il petrolio nel sud, i governanti del nord revocarono l’autonomia concessa: la seconda guerra civile, protrattasi dal 1983 al 2005 per il controllo dei giacimenti, ha fatto 2 milioni di morti prima che si arrivasse alla secessione del sud, nel 2011. Ma il Sud Sudan non trova pace neppure ora: l’élite al potere combatte contro i competitori interni, in scontri continui attorno ai campi petroliferi, proprio come in Siria e in Iraq.Altro teatro di pericolosa instabilità geopolitica di origine energetica, il Mar della Cina: sia in quello meridionale che in quello orientale, «la Cina e i suoi vicini rivendicano la proprietà di vari atolli e isole che si trovano a cavallo di vaste riserve sottomarine di petrolio e di gas», ricorda Klare, citando gli scontri navali ormai ricorrenti. Quel mare, una propaggine del Pacifico occidentale molto ricca di energia, è circondato da Cina, Vietnam, Borneo e Filippine. «Le tensioni hanno raggiunto il picco in maggio, quando i cinesi schierarono il loro più grande impianto di perforazione per acque profonde, l’Hd-981, nelle acque rivendicate dal Vietnam», proteggendolo con una flotta da guerra. «Quando le navi della guardia costiera vietnamita hanno provato a penetrare all’interno di questo anello difensivo, nel tentativo di scacciare l’impianto di perforazione, sono state speronate dalle navi cinesi e colpite con cannoni ad acqua». In mare nessun morto, ma la rivolta anti-cinese in Vietnam ha fatto parecchie vittime. C’è chi parla di risentimenti storici, ma in realtà la China National Offshore Oil Company (Cnooc) stima che nel Mar Cinese Meridionale ci siano da 23 a 30 miliardi di tonnellate di petrolio e 16 trilioni di metri cubi di gas naturale, pari a un terzo del totale delle risorse petrolifere e di gas della Cina, che oggi è il più grande consumatore mondiale di energia.Non c’è via d’uscita, dice Klare: la guerra per l’energia continuerà in tutto il mondo. «Mentre le divisioni etniche e religiose possono fornire il carburante politico e ideologico di queste battaglie», è decisivo il movente economico: si parla di «profitti mastodontici», oltre che di “benzina” per alimentare le strutture militari belligeranti. In un mondo ancora legato a doppio filo ai combustibili fossili, il controllo delle riserve di petrolio e gas è una componente essenziale del potere nazionale. «Il petrolio potenzia più di automobili e aeroplani», ha detto Robert Ebel del Centro per gli Studi Strategici e Internazionali durante un audizione del Dipartimento di Stato Usa nel 2002. «Il petrolio potenzia la forza militare, il Tesoro nazionale e la politica internazionale». È molto più del normale commercio di una materia prima: «E’ un fattore determinante del benessere, della sicurezza nazionale e della potenza in campo internazionale per coloro che possiedono questa risorsa vitale e il contrario per coloro che non ne hanno». Forse, conclude Klare, ne usciremo solo il giorno in cui, finalmente, il mondo passerà davvero alle energie rinnovabili.Iraq, Siria, Nigeria, Sud Sudan, Ucraina, Mar della Cina: ovunque si guardi, il mondo è in fiamme. A prima vista, i conflitti sembrano regionali e indipendenti l’uno dall’altro. Ma, visti da vicino, sono «un infuso stregato di antagonismi etnici, religiosi e nazionali, portato al punto di ebollizione dall’ossessione dell’energia». In ciascuno di questi conflitti, osserva uno studioso di geopolitica come l’accademico Michael Klare, la lotta è guidata in gran parte dall’irrompere dello scontro tra clan, sette e popoli veri e propri, ciascuno motivato dal controllo delle fonti energetiche, petrolio e gas: «Sono guerre del XXI secolo per l’energia». I governi di Iraq, Nigeria, Russia, Sud Sudan e Siria derivano la gran parte dei loro ricavi da vendite di petrolio, mentre le grandi imprese energetiche (molte delle quali di proprietà dello Stato) esercitano un potere immenso. Chiunque controlli questi Stati, o le zone di produzione di gas e petrolio, gestisce anche la ripartizione di ricavi cruciali. E il controllo delle risorse fossili si traduce in peso geopolitico per alcuni paesi e in vulnerabilità economica per altri.
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Spyware di Stato: è italiano il software con cui ci spiano
È tutto italiano lo spyware usato da governi e forze di polizia per violare Pc, smartphone e tablet. Le vicende relative allo spionaggio da parte dei governi emerse negli ultimi anni, dai documenti pubblicati da Wikileaks nel 2011 sino al più recente Datagate, hanno una cosa in comune: danno l’impressione di aver coinvolto l’Italia soltanto in qualità di vittima. Eppure, proprio dal nostro paese, e per la precisione da Milano, provengono dei software largamente adoperati da governi e forze di polizia per spiare i cittadini: si tratta del Remote Control System di Hacking Team e dei moduli per dispositivi mobili ad esso collegati. Nonostante il nome inglese, Hacking Team è un’azienda italiana che sviluppa software di controllo e spionaggio destinato alle forze dell’ordine: lo commercializza come Rcs DaVinci e, più di recente, Rcs Galileo. Hacking Team va ripetendo che la sua attività è perfettamente legale; non c’è ragione di dubitarne, semmai è la legittimità dell’uso di questi spyware a essere dubbio.Ma i software hanno attirato l’attenzione delle aziende che si occupano di sicurezza e, negli ultimi tempi, sia CitizenLab sia Kaspersky Labs hanno pubblicato dei rapporti contenenti informazioni interessanti. Dai rapporti emerge come di recente l’attenzione dell’azienda italiana si sia concentrata su smartphone e tablet, e in particolare sui software di spionaggio per iOS e Android, che vanno ad aggiungersi ai “trojan” già realizzati per Windows, Linux e Mac OS X (oltre che per Symbian, Windows Mobile e Blackberry). Tali software sono in grado di prendere il controllo dei moduli Wi-fi e Gps, registrare tutto ciò che il microfono capta (attivandolo anche da remoto), controllare le fotocamere a distanza, leggere le email, gli Sms e gli Mms, consultare l’intera cronologia di navigazione e il calendario, fungere da “keylogger” e accedere alle note e agli appunti.In più, il loro codice è offuscato e sono presenti diversi accorgimenti per far sì che l’utente non si accorga della loro presenza, come accendere il microfono solo in determinate occasioni per evitare che l’eccessivo consumo della batteria faccia insospettire il proprietario dello smartphone o del tablet. La minaccia è, fortunatamente, per certi versi limitata: la versione per iOS funziona solo su quei dispositivi ai quali è stato praticato il “jailbreak” e, in ogni caso, chi vuole installare il software deve avere accesso fisico al dispositivo-bersaglio: non basta, come nel caso di “malware” comune, navigare nel web. Tuttavia, c’è un altro dato dal quale si possono ricavare le preoccupanti dimensioni del fenomeno costituito dallo spionaggio condotto dai governi.“SecureList” ha infatti realizzato una lista dei server dotati di Remote Control System, verso i quali i software di Hacking Team inviano le informazioni raccolte, e gli Stati in cui essi si trovano, cercando di stabilirne anche i proprietari. «Diversi indirizzi Ip», spiega “SecureList”, «sono collegati a entità governative, stando alle informazioni “Whois”». Scopriamo così che gli Usa sono degli utenti particolarmente fedeli di Rcs con 64 server sul suolo nazionale; dietro di loro ci sono Kazakistan (49 server), Ecuador (35 server), Regno Unito (24 server), Cina (15 server) e Polonia (7 server). In questa peculiare classifica l’Italia si trova piuttosto in basso, ma è comunque presente: nel nostro paese ci sono (almeno) 2 server con Remote Control System.(“Spyware di Stato: le app spione del governo”, da “Zeus News” del 1° luglio 2014).È tutto italiano lo spyware usato da governi e forze di polizia per violare Pc, smartphone e tablet. Le vicende relative allo spionaggio da parte dei governi emerse negli ultimi anni, dai documenti pubblicati da Wikileaks nel 2011 sino al più recente Datagate, hanno una cosa in comune: danno l’impressione di aver coinvolto l’Italia soltanto in qualità di vittima. Eppure, proprio dal nostro paese, e per la precisione da Milano, provengono dei software largamente adoperati da governi e forze di polizia per spiare i cittadini: si tratta del Remote Control System di Hacking Team e dei moduli per dispositivi mobili ad esso collegati. Nonostante il nome inglese, Hacking Team è un’azienda italiana che sviluppa software di controllo e spionaggio destinato alle forze dell’ordine: lo commercializza come Rcs DaVinci e, più di recente, Rcs Galileo. Hacking Team va ripetendo che la sua attività è perfettamente legale; non c’è ragione di dubitarne, semmai è la legittimità dell’uso di questi spyware a essere dubbio.
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Tutto online, il lavoro sparisce: vincono solo i miliardari
Nell’era di Internet, la libertà è per pochi: ormai lo ammette anche il compositore Jaron Lanier, pioniere della creatività digitale. Musicista, informatico e imprenditore, Lanier incarna «il tipico prodotto della subcultura di Berkeley, nella quale l’ipermodernità si lega ecletticamente ai linguaggi estetici anni sessanta-settanta, e l’individualismo legittima la piena ricerca del successo e il più spregiudicato utilizzo dei meccanismi della moda», scrive Alessandro Visalli, citando un’intervista di Riccardo Staglianò sul “Venerdì di Repubblica”. «Lanier si è pentito: dopo aver sostenuto per anni che Internet libererà l’uomo, che produrrà un anarcoide e liberato mondo della piena affermazione per tutti, depurato del potere e leggero come le idee, si è accorto che si va nella direzione opposta». Nel suo settore più amato, la musica, «ha visto che tutto cala man mano che il prodotto si diffonde “liberamente”, che le sale da incisione chiudono, i musicisti iniziano a cambiare mestiere, i negozi restano deserti», anche perché ormai con un’iPhone da poche centinaia di euro «si possono ottenere risultati che richiedevano decine di migliaia di euro e il lavoro di molte persone».Sono nati giganti – cui lo stesso Lanier ha venduto ben tre “start-up”– che impiegano la millesima parte dei lavoratori che erano prima impegnati nei loro settori: anche così le strade si svuotano dei negozi, scrive Visalli su “Tempo Fertile”, in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. Secondo alcune ricerche, è a rischio di ulteriore distruzione il 47% dei mestieri attualmente praticati negli Usa e il 40% della forza lavoro. Esempio: «Kodak, che impiegava 140.000 persone, oltre ad un enorme indotto per la distribuzione e commercializzazione di miliardi di pellicole, poi per il loro sviluppo e conservazione, è stata praticamente sostituita dai telefonini, da qualche app e qualche “social”». Un caso limite è Instagram, che impiega appena 13 dipendenti ed è stata appena venduta per un miliardo di dollari (Kodak ne valeva 28 con tutti i suoi stabilimenti). «Le catene di viaggi cedono a Expedia, Orbitz; le librerie ad Amazon; le case editrici a Kindle e al fenomeno dei libri fai-da-te; i traduttori stanno per essere spazzati via da software di traduzione che impiegano le innumerevoli traduzioni esistenti fatte da uomini, per automatizzarle e renderle sempre migliori con l’uso».Non è tutto: Skype sta per lanciare un servizio di sottotitoli automatico che “farà fuori” gli interpreti (magari insieme a Google Glass); l’istruzione universitaria potrà essere distribuita da Berkeley in tutto il mondo, a decine di milioni di discenti, a prezzi unitari bassissimi; una app (“Uber”) farà fuori i tassisti; altre stanno facendo lo stesso con gli alberghi; arriveranno le Google Car, a sfidare i camionisti; ma la cosa non dovrebbe lasciare tranquilli neppure gli analisti di borsa (“Warren”), i giornalisti, i commercialisti, gli avvocati, gli architetti. «E’ il modello della new economy, “winner takes all”. Ed è basato sullo sfruttamento senza restituzione di valore di una miriade di microcontenuti che sono sommati, resi significativi dall’immensa potenza del “big data”». Questo, continua Visalli, è il punto messo in evidenza da Lanier: il segreto del successo di Google Translate, di Facebook, di Amazon, di You Tube, è che «tutti i contenuti che nelle loro mani diventano oro sono regalati». Cosa resterà? «Sicuramente una élite dotata del capitale culturale, simbolico e informatico per rendersi necessaria nel mondo della iper-rappresentazione che ci si prepara; sono i vincenti che prendono tutto». E poi?«Qui la cosa si fa difficile», prosegue Visalli. «Una polvere di nicchie di mestieri di cura uno-ad-uno, autoprodotti e inventati; l’apologia dell’individualismo estremo. In mezzo? Se nessun meccanismo pubblico o privato (ma regolato) distribuirà le risorse che salgono ai “vincitori”, garantendo che chi veramente le produce (e non solo chi le rende aggregate, visibili e spendibili) ne abbia di che vivere, avremo un centro deserto». In quel caso, «non avremo neppure i mestieri di cura». Fondamentalmente, aggiunge il blogger, l’economia diventerà «un sistema in cui i beni sono prodotti in modo automatico da una piccolissima parte dei lavoratori». La tendenza è scendere molto sotto il 10%, forse sotto il 5%. Si tratta di lavoratori che “valgono” poco e ppercepiscono stipendi molto bassi. «I contenuti linguistici ed estetici – veicoli identitari e di senso primari – sono il vero veicolo di valore, ma si concentrano in pochissime mani; il resto, la grande parte della società, resterà impegnata in circuiti di auto-cura di reciprocità, poveri dal punto di vista monetario, ricchi da quello sociale e antropologico. Una società che potrebbe ricordare il medioevo».Nell’era di Internet, la libertà è per pochi: ormai lo ammette anche il compositore Jaron Lanier, pioniere della creatività digitale. Musicista, informatico e imprenditore, Lanier incarna «il tipico prodotto della subcultura di Berkeley, nella quale l’ipermodernità si lega ecletticamente ai linguaggi estetici anni sessanta-settanta, e l’individualismo legittima la piena ricerca del successo e il più spregiudicato utilizzo dei meccanismi della moda», scrive Alessandro Visalli, citando un’intervista di Riccardo Staglianò sul “Venerdì di Repubblica”. «Lanier si è pentito: dopo aver sostenuto per anni che Internet libererà l’uomo, che produrrà un anarcoide e liberato mondo della piena affermazione per tutti, depurato del potere e leggero come le idee, si è accorto che si va nella direzione opposta». Nel suo settore più amato, la musica, «ha visto che tutto cala man mano che il prodotto si diffonde “liberamente”, che le sale da incisione chiudono, i musicisti iniziano a cambiare mestiere, i negozi restano deserti», anche perché ormai con un’iPhone da poche centinaia di euro «si possono ottenere risultati che richiedevano decine di migliaia di euro e il lavoro di molte persone».
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Sos: il Tesoro accumula miliardi, teme il crac dell’euro?
Siamo venuti a sapere, da fonte interna e autorevole del ministero competente, che il Tesoro italiano sta accumulando una riserva di denaro liquido superiore al momento attuale ai 92 miliardi di euro – con l’obbiettivo di raggiungere i 150 entro fine anno – in vista del tracollo della valuta unica europea. Immagino non sia sfuggito ai più che Banca d’Italia abbia comunicato l’ammontare del debito pubblico, arrivato a 2.166,3 miliardi, e che il motivo dell’impennata sia anche da addebitare agli oltre 14 miliardi accantonati proprio dal Tesoro. Quasi quindici, per la precisione. Perchè? Perchè far crescere il debito per accantonare contanti? Che senso ha? Da notare che nel 2013 la scorta di liquidi di questa funzione centrale dello Stato era molto inferiore: 62,4 miliardi. Ebbene, in un anno è cresciuta del 50% dell’importo precedente. Non si tratta di aggiustamenti di cassa. Quelli, si contano con le virgole.Qua siamo di fronte a una strategia precisa: accantonare un vero “tesoro” nelle casse del Tesoro. E un tesoro in euro, proprio quando la macchina dello Stato ha un disperato bisogno di denaro, ha senso solo se lo si ritiene strategico, così importante da dover aumentare ancor di più il buco complessivo dello Stato. E’ evidente che l’Italia nel suo piccolo stia correndo ai ripari. Si sta cercando di accumulare contanti per provare a impedire l’insolvenza che s’innescherà non appena arriverà l’autunno. Le previsioni fatte dal governo Renzi sono completamente sbagliate. Non per niente, lo stesso Renzi ha concesso un’intervista al “Corriere della Sera” con la quale ha tenuto a “smentire” voci mai girate ufficialmente – e allora perchè smentirle? – di un possibile “commissariamento” dell’Italia da parte della Troika Ue. E le previsioni errate stanno creando una voragine nei conti pubblici, per ora tenuta nascosta.Alcuni quotidiani hanno scritto di 24 miliardi di buco nei conti. Altri giornali si sono spinti a parlare di “manovra autunnale”. La verità è un’altra. La recessione non sta dando tregua e i dati sono tutti convergenti: l’Europa dell’euro è avviata a un inasprimento della crisi, ora arrivata ad aggredire il cuore della macchina economica europea: la produzione industriale. E’ in forte calo ovunque sia in circolazione l’euro. E anche i fondamentali sono da brivido: quando i Btp italiani arrivano a rendere circa come i titoli di Stato degli Stati Uniti d’America, voi capite che sta accadendo qualcosa di folle. La follia consiste nel tenere artificialmente in equilibrio valori finanziari che sarebbero del tutto squilibrati, se affidati al mercato o, se si preferisce, se rispecchiassero davvero la realtà. Quindi, che accadrà questa estate? Rimarrà tutto com’è ora o s’inizierà a vedere all’orizzonte la tempesta? Francamente, ho la netta sensazione che questo agosto sarà molto, molto simile all’agosto del 2008. Poi, il 15 settembre arrivò il crac della Lehman Brothers. E il 15 settembre 2014 riapriranno le porte del Parlamento dopo la pausa estiva…(Max Parisi, “Il Tesoro italiano sta accumulando una montagna di soldi in previsione del crac dell’euro”, da “Il Nord” del 14 luglio 2014).Siamo venuti a sapere, da fonte interna e autorevole del ministero competente, che il Tesoro italiano sta accumulando una riserva di denaro liquido superiore al momento attuale ai 92 miliardi di euro – con l’obbiettivo di raggiungere i 150 entro fine anno – in vista del tracollo della valuta unica europea. Immagino non sia sfuggito ai più che Banca d’Italia abbia comunicato l’ammontare del debito pubblico, arrivato a 2.166,3 miliardi, e che il motivo dell’impennata sia anche da addebitare agli oltre 14 miliardi accantonati proprio dal Tesoro. Quasi quindici, per la precisione. Perchè? Perchè far crescere il debito per accantonare contanti? Che senso ha? Da notare che nel 2013 la scorta di liquidi di questa funzione centrale dello Stato era molto inferiore: 62,4 miliardi. Ebbene, in un anno è cresciuta del 50% dell’importo precedente. Non si tratta di aggiustamenti di cassa. Quelli, si contano con le virgole.
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Vattimo: vorrei armare Hamas contro i nazisti israeliani
«Israele vuole distruggere definitivamente i palestinesi, è una guerra di puro sterminio. Sono nazisti puri e forse un po’ peggio di Hitler perché hanno anche l’appoggio delle grandi democrazie occidentali». Sembrano scolpite nel marmo, le parole che il filosofo Gianni Vattimo consegna ai microfoni di “Radio24”. «Andrei a Gaza a combattere a fianco di Hamas», aggiunge l’ex europarlamentare. «Direi che è il momento di fare le Brigate Internazionali come in Spagna, perché Israele è un regime fascista che sta distruggendo un popolo intero. In Spagna non era niente in confronto a questo. Questo è un genocidio in atto, nazista, razzista, colonialista, imperialista. E ci vuole una resistenza». Vattimo si spinge oltre: dice che lancerebbe una campagna per raccogliere fondi e consentire ai palestinesi di difendersi, con vere armi, adatte a fronteggiare l’aggressione israeliana. Una voce, la sua, assolutamente isolata, nel grande silenzio che avvolge gli intellettuali, come rileva Renato Rallo: su Medio Oriente e Palestina, ormai, vige la consegna dell’indifferenza.«C’è una nuovissima, meravigliosa avanguardia tra gli intellettuali-de-sinistra (Michele Serra, Christian Raimo, Ida Dominijanni e tanti altri) sul conflitto in Medioriente: gli esaltatori del silenzio», scrive Rallo su “L’Intellettuale Dissidente”. «Laddove l’intellettuale deve sempre necessariamente prendere una posizione, anche solo perchè dovrebbe sapere meglio di tutti che l’imparzialità è un’utopia (o un’omertà), essi invece tacciono, e se ne vantano. Tra gli argomenti, oltre alla già nota “tragedia da entrambe le parti”, la “complessità della situazione”, spunta la geniale novità: la stanchezza. Ebbene sì, gli intellettuali-de-sinistra non prendono più posizione sul conflitto israelo-palestinese perchè sono stanchi della ripetitività della situazione, dell’impotenza, e questa noia li uccide al punto che non riescono neanche più a scrivere due righe sul sionismo». La loro “ipersensibilità filantropica”, aggiunge Rallo, li costringe «ad un silenzio colto, tenebroso, raffinato, ed invita il pubblico a fare altrettanto. Un’elegantissima orazione funebre in onore di un popolo che però, sfortunatamente, ancora deve morire».Non è solo la paura di “uscire dal giro” ad impedire a molti opinion leader di «dire una-parola-una sull’apartheid israeliana, sulle radici di quest’ennesimo episodio di pulizia etnica». Aggiunge Rallo: «Non hanno paura: si stanno solo annoiando». Un “consiglio” ai palestinesi? «Smettetela di morire in modo così banale: non so, magari prima che il vostro corpo venga dilaniato da una bomba, mangiatevi dei coriandoli». Non ha bisogno di incoraggiamenti, invece, il professor Vattimo: proprio lui, teorico del “pensiero debole”, si esprime nel modo più drastico sulla storica controversia, tragicamente rinverdita dalle bombe “intelligenti” di Netanyahu. E denuncia anche il colpevole assenteismo dei media mainstream: «Tutta l’informazione, compresa la stampa italiana, piange sul fatto che c’è una pioggia di missili su Israele. Però Hamas quanti morti ha fatto? Nessuno».Vogliamo parlare dei palestinesi? «I poveretti non hanno armi, sono dei miserabili tenuti in schiavitù, come tutta la Palestina. Hanno dei razzetti per bambini». Meritano di avere la possibilità di difendersi, dice Vattimo: «Voglio promuovere una sottoscrizione mondiale per permettere ai palestinesi di comprare delle vere armi e non delle armi giocattolo. Cominciamo a distruggere il nucleare israeliano, Israele è lo Stato-canaglia che ha il nucleare». Alla domanda se sparerebbe contro gli israeliani, il filosofo ammette: «Io sono un non-violento, però contro quelli che bombardano ospedali, cliniche private e bambini sparerei, ma non ne sono capace». E aggiunge: «Gli ebrei italiani dalla parte di Israele sono gli ex fascisti, che adesso sono dalla parte dell’America. La comunità ebraica italiana è rappresentata da quell’ossimoro che è Pacifici, ma ci sono molti ebrei d’accordo con me. Li c’è uno Stato nazista che cerca di sopprimere un altro popolo. E io ce l’ho con lo Stato di Israele, non con gli ebrei».«Israele vuole distruggere definitivamente i palestinesi, è una guerra di puro sterminio. Sono nazisti puri e forse un po’ peggio di Hitler perché hanno anche l’appoggio delle grandi democrazie occidentali». Sembrano scolpite nel marmo, le parole che il filosofo Gianni Vattimo consegna ai microfoni di “Radio24”. «Andrei a Gaza a combattere a fianco di Hamas», aggiunge l’ex europarlamentare. «Direi che è il momento di fare le Brigate Internazionali come in Spagna, perché Israele è un regime fascista che sta distruggendo un popolo intero. In Spagna non era niente in confronto a questo. Questo è un genocidio in atto, nazista, razzista, colonialista, imperialista. E ci vuole una resistenza». Vattimo si spinge oltre: dice che lancerebbe una campagna per raccogliere fondi e consentire ai palestinesi di difendersi, con vere armi, adatte a fronteggiare l’aggressione israeliana. Una voce, la sua, assolutamente isolata, nel grande silenzio che avvolge gli intellettuali, come rileva Vittorio Ray: su Medio Oriente e Palestina, ormai, vige la consegna dell’indifferenza.
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Lo Spiegel: spiata da Obama, la Merkel vuole dimettersi
Secondo lo “Spiegel”, Angela Merkel potrebbe presto dimettersi in seguito allo scandalo Datagate: la cancelliera è stata spiata per anni dall’Nsa ed è stata sorpresa a utilizzare un telefono criptato al posto di un normale apparecchio. I bene informati, sostiene Mitt Dolcino, ritengono che la donna più potente del mondo possa essere stata effettivamente spiata «dall’improbabile alleato americano». Forse, qualche informazione sensibile è stata davvero raccolta dal controspionaggio Usa: la conseguenza è che, alla lunga, la premiership tedesca «può essere a rischio scandalo, un po’ come è capitato in Italia con Silvio Berlusconi e in Turchia con Erdogan (o, senza essere premier, in Francia con Strauss Kahn)». Problema: «La Germania non può correre questo rischio, non si può rompere l’incantesimo della rinnovata ricchezza tedesca grazie al Santo Graal che è ed è stata la moneta unica, capace di drenare ricchezza dalla periferia al centro in misura pari a una guerra continentale vinta».Dunque, scrive Dolcino su “Scenari Economici”, l’opzione per la politica tedesca di un cambio in corsa è assolutamente razionale, oltre che legittimo. «Se gli Usa pensavano di trovarsi innanzi ad un paese di sprovveduti, con la Germania hanno certamente sbagliato i conti». Lo stesso “Spiegel”, sempre ben informato, proponeva addirittura l’asilo per Edward Snowden. Le possibili dimissioni della Merkel, per “smarcare” Berlino da qualsiasi possibile imbarazzo, dimostrano l’errore strategico dell’amministrazione Obama, che ha permesso alla Germania di diventare «il vero riferimento europeo», ormai in grado «anche in maniera autonoma di decidere le sorti dei governi di numerosi paesi Ue (l’esempio del Cavaliere è davvero sintomatico)». Allarme: l’ex alleato tedesco può aver causato danni agli Stati Uniti, e può provocarne ancora, trasformandosi in avversario economico. In ogni caso, aggiunge Dolcino, per l’Italia di Renzi si preannunciano tempi durissimi: se la cancelliera aveva davvero promesso meno rigore e più flessibilità, domani il premier potrebbe trovare con in mano un pugno di mosche.Per chi non l’avesse ancora capito, continua Dolcino, «l’austerità è uno strumento in mani tedesche per perpetrare lo status quo favorevole alla Germania, l’unico paese che ha tratto reale beneficio dalla moneta unica». Secondo fonti riservate, Enrico Letta aveva un impegno (forse anche scritto) dell’Europa e della Germania in particolare, per succedere a Herman Van Rompuy alla guida del Consiglio d’Europa, in cambio della «non belligeranza» dell’Italia verso l’Europa della moneta unica «a valle della restaurazione europea operata dal fido Mario Monti, peraltro a danno degli stessi italiani», come dimostra l’esplosione del debito pubblico, il crollo del Pil e quello dei consumi. «La promessa stava per essere mantenuta», scrive Dolcino, e Letta – sebbene per breve tempo – è stato «candidato europeo senza essere candidato dell’Italia». Ma il piano sarebbe saltato quando Renzi ha detronizzato il premier delle “larghe intese” sostenuto da Napolitano, ostacolando la tecnocrazia europea «per la prima volta dopo cinque anni». La Merkel ha davvero fatto promesse importanti a Renzi? E cosa accadrebbe, dunque, se la cancelliera passasse la mano per dribblare il pressing spionistico di Obama?«Per intanto il giovane Renzi certamente non si annoierà – annota Dolcino – dovendo dilettarsi con l’esercizio del tassatore riformista, di fatto eseguendo sebbene di malavoglia i desiderata tedeschi finalizzati a indebolire più che a restaurare l’economia del primo competitore manifatturiero della Germania», cioè l’Italia. Poi «dovrebbero venire le privatizzazioni come dopo la crisi degli anni ’90 e le svendite orchestrate da coloro che furono poi predestinati a brillanti carriere europee (Prodi, Draghi)». Per cui, «le aziende europee e tedesche in particolare (soprattutto in ambito energia, occhio all’interesse tedesco per Enel) sembrano rivestire il ruolo degli avvoltoi in agguato». Con Obama saldamente al potere, «Renzi può stare ragionevolmente tranquillo fino al 2016, supportato dalla possente intelligence americana». Ma che sarà del premier italiano se tra due anni dovesse cambiare il vento negli Usa? Secondo “Scenari Economici”, «se non sarà caos – fatto assai probabile – possiamo dire che la partita è più aperta di quanto sembri».Secondo lo “Spiegel”, Angela Merkel potrebbe presto dimettersi in seguito allo scandalo Datagate: la cancelliera è stata spiata per anni dall’Nsa ed è stata sorpresa a utilizzare un telefono criptato al posto di un normale apparecchio. I bene informati, sostiene Mitt Dolcino, ritengono che la donna più potente del mondo possa essere stata effettivamente spiata «dall’improbabile alleato americano». Forse, qualche informazione sensibile è stata davvero raccolta dal controspionaggio Usa: la conseguenza è che, alla lunga, la premiership tedesca «può essere a rischio scandalo, un po’ come è capitato in Italia con Silvio Berlusconi e in Turchia con Erdogan (o, senza essere premier, in Francia con Strauss Kahn)». Problema: «La Germania non può correre questo rischio, non si può rompere l’incantesimo della rinnovata ricchezza tedesca grazie al Santo Graal che è ed è stata la moneta unica, capace di drenare ricchezza dalla periferia al centro in misura pari a una guerra continentale vinta».
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Una parlamentare: uccidete tutte le madri palestinesi
«Devono morire e le loro case devono essere demolite in modo che non possano portare alla luce altri terroristi. Loro sono tutti nostri nemici e il loro sangue deve essere versato sulle nostre mani. Ciò vale anche per le madri dei terroristi morti». “Loro” sono, semplicemente, i palestinesi. Anzi, le madri dei palestinesi, che hanno la colpa di dare alle luce «piccoli serpenti», cioè neonati, che un giorno potrebbero diventare nemici. Meglio quindi ucciderle tutte, le «madri palestinesi», nel corso di un bell’attacco via terra nella Striscia di Gaza, prima che mettano al mondo altri piccoli mostri. A esprimersi in questi termini, sulla sua pagina Facebook, non è un orco nazista o un serial killer psicopatico, ma una donna. Addirittura, una parlamentare israeliana. Si chiama Ayelet Shaked ed è stata eletta nelle file della “Casa Ebraica”, una formazione politica sionista religiosa che si definisce di destra, e che per alcuni media occidentali è «un partito di estrema destra».Ayelet Shaked, rileva il newsmagazine “Fronte Sud News”, ha espressamente invocato l’uccisione di tutte le madri palestinesi, quelle che partoriscono i «piccoli serpenti» destinati a odiare Israele, lo Stato-prigione che nega loro ogni diritto sottoponendoli a vessazioni quotidiane e durissime repressioni anche in tempo di “pace”, quando cioè non si levano in volo i bombardieri che radono al suolo centinaia di case con dentro le loro famiglie. Le dichiarazioni della Shaked, sottolinea “Sponda Sud”, «sono considerate un vero e proprio invito al genocidio nei confronti dei palestinesi, considerati tutti nemici di Israele e dunque da eliminare». Parole sanguinarie, che ancora nel 2014 hanno libero corso in un paese che dopo decenni non riesce ad ammettere di essere nato, storicamente, dal “peccato originale” della pulizia etnica contro i palestinesi, come ricorda il professor Ilan Pappe, il più importante storico israeliano. Un genocidio avviato molto prima di Auschwitz e poi rimosso dai maggiori leader, tutti ex terroristi ricercati dalle autorità coloniali inglesi prima della Seconda Guerra Mondiale.Contro le sanguinarie parole di Ayelet Shaked, riferisce “Press Tv”, si è scagliato anche il premier turco, Recep Tayyip Erdoğan: «Una donna israeliana ha detto che le madri palestinesi devono essere uccise. Questa donna è un membro del Parlamento israeliano: qual è la differenza tra questa mentalità e Hitler?». Il premier turco ha inoltre accusato Israele di fare del terrorismo di Stato contro i palestinesi nella regione. Parlando in Parlamento, Erdoğan ha anche criticato il silenzio del mondo verso le atrocità commesse da Tel Aviv contro il popolo palestinese, in particolare nella Striscia di Gaza. Se Erdoğan parla anche per ragioni di politica interna – i turchi non hanno dimenticato l’aggressione della marina israeliana contro la Freedom Flotilla che portava aiuti umanitari nella Striscia – colpisce la incredibile sordità della “comunità internazionale” di fronte all’ennesimo massacro ordinato dal governo Netanyahu. Data la situazione, le terribili parole di Ayelet Shaked sono più illuminanti del bagliore dei missili.«Devono morire e le loro case devono essere demolite in modo che non possano portare alla luce altri terroristi. Loro sono tutti nostri nemici e il loro sangue deve essere versato sulle nostre mani. Ciò vale anche per le madri dei terroristi morti». “Loro” sono, semplicemente, i palestinesi. Anzi, le madri dei palestinesi, che hanno la colpa di dare alle luce «piccoli serpenti», cioè neonati, che un giorno potrebbero diventare nemici. Meglio quindi ucciderle tutte, le «madri palestinesi», nel corso di un bell’attacco via terra nella Striscia di Gaza, prima che mettano al mondo altri piccoli mostri. A esprimersi in questi termini, sulla sua pagina Facebook, non è un orco nazista o un serial killer psicopatico, ma una donna. Addirittura, una parlamentare israeliana. Si chiama Ayelet Shaked ed è stata eletta nelle file della “Casa Ebraica”, una formazione politica sionista religiosa che si definisce di destra, e che per alcuni media occidentali è «un partito di estrema destra».
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Triste miracolo: paghe da fame per un tedesco su quattro
Mario Monti, 20 gennaio 2013: «Noi ammiriamo la Germania e vogliamo imitarla in alcune riforme». Beppe Grillo, 15 marzo 2013: «Dobbiamo realizzare un piano comparabile con l’Agenda 2010 tedesca, quel che ha dato buoni risultati in Germania lo vogliamo anche noi» Matteo Renzi, 17 marzo 2014: «La pretesa di creare posti di lavoro con una legislazione molto severa e strutturata è fallita, dobbiamo cambiare le regole del gioco: in questo senso abbiamo nella Germania il nostro punto di riferimento». “Fare come la Germania” è il mantra di tutti, fino al Jobs Act renziano. Storia: nel 2003 il socialdemocratico Schroeder ha smantellato i diritti sociali e tagliato gli stipendi ai lavoratori, per poter rilanciare un’economia basata interamente sull’export e quindi sul basso costo del lavoro. La riforma prende il nome da Peter Hartz, industriale della Volkswagen. Un genio? Fate voi: “Hartz ammette di aver corrotto i sindacalisti Vw ed evita 10 anni di carcere”, titolò di recente il “Sole 24 Ore”. Facile, no? Risultato: nel regno della Merkel dilagano i mini-job da 450 euro, che dopo una vita di lavoro danno diritto a una pensione di 200 euro mensili.Sul sito “MeMmt.info”, Daniele Della Bona ripercorre i passaggi chiave del falso “miracolo” tedesco, basato sul doppio ricatto imposto ai lavoratori e ai partner europei, costretti alla politica di rigore per colpire l’industria nazionale e quindi smantellare la concorrenza industriale, dell’Italia in primis, così scomoda per la manifattura tedesca. Per Roland Berger, storico consulente di Berlino, la chiave delle riforme iniziate nel 2003 è stata «una liberalizzazione del mercato del lavoro», con stipendi rimasti al palo rispetto all’incremento della produttività, a tutto vantaggio del capitale industriale. «Poi è seguito il taglio dei costi del sistema sociale, l’aumento dell’ età pensionabile a 67 anni, la creazione di un segmento di bassi salari». Una confessione peraltro tardiva, rileva Della Bona nel post ripreso dal blog “Vox Popoli”. Più tempestivo era stato lo stesso Schroeder, il cancelliere che regalò un maxi-sconto a Gazprom per poi essere profumatamente assunto dalla compagnia russa. Già nel 2005, al World Economic Forum di Davos, Schroeder ammise: «Abbiamo dato vita ad uno dei migliori settori a bassa salario in Europa».La chiave del boom tedesco sono i famigerati mini-job, per i quali non è obbligatorio neppure versare contributi sociali. Paghette da fame, per 15 ore settimanali. In compenso, il business trova super-conveniente questa formula di assunzione: nel 2003 i minijobber erano 5 milioni e mezzo, nel 2011 erano almeno 7,5 milioni. Una catastrofe, secondo Della Bona, per i lavoratori tedeschi: esplosione di operai con bassi salari, boom del lavoro temporaneo e part-time, crollo dei salari reali medi, aumento della disuguaglianza sociale e reddituale, calo delle tutele contrattuali per tutti i lavoratori. A chi era funzionale questo disegno? E chi ne ha tratto beneficio? «La prima conseguenza è stata quella di creare un mercato del lavoro altamente segmentato», con alcuni lavoratori ben pagati e «un esercito di bassi salariati, spesso costretti a chiedere un sussidio per sopravvivere o a svolgere un secondo lavoro: fra i minijobber sono 2,5 milioni quelli con un secondo impiego». Non a caso, la quota di lavoratori nella categoria a basso salario (cioè inferiore ai 2/3 del salario medio) è il 24,3% degli occupati: è pagato con un’elemosina un lavoratore tedesco su 4, cioè quasi 8 milioni e mezzo di occupati.Nel 2010, secondo Eurostat, all’interno dell’Unione Europea, su 27 paesi membri soltanto 6 avevano una quota di lavoratori a basso salario maggiore di quella tedesca: Estonia, Cipro, Lituania, Lettonia, Polonia e Romania. «Non solo 8,4 milioni di lavoratori percepivano nel 2012 una paga oraria inferiore ai 9,30 euro, ma – di questi – 6,6 milioni guadagnavano meno di 8,5 euro all’ora, 5,7 milioni meno di 8 euro, 4 milioni meno di 7 euro, 2,5 meno di 6 euro e 1,7 milioni avevano una paga oraria inferiore addirittura ai 5 euro». Non solo i mini-job “costano” pochissimo e fanno “risparmiare” anche sui contributi previdenziali, ma minacciano di terremotare l’impianto socio-produttivo della Germania, perché creano «le premesse per sostituire lavoratori che avevano contratti a tempo indeterminato». Secondo l’Instituts für Arbeitsmarkt und Berufsforschung (Iab), «il fenomeno è maggiormente visibile nei servizi: qui, molti minijobber svolgono lavori in precedenza assegnati ad occupati a tempo pieno – ma lo fanno con una paga più bassa». Le prove della sostituzione sono visibili anche nel commercio al dettaglio, nel turismo, nella sanità e nel sociale, scrive lo Iab, istituto di ricerca interno all’Agenzia federale per il lavoro. «Soprattutto nelle piccole aziende con meno di 10 dipendenti, i ricercatori hanno potuto confermare che la creazione di nuovi minijobs va di pari passo con l’eliminazione degli occupati a tempo pieno con regolare contratto».I ricercatori dello Iab ritengono «un pericolo» la sostituzione dei lavoratori regolari nelle piccole imprese: indeboliscono le casse sociali e quindi il sistema sociale tedesco. «In particolare, i lavoratori che per un lungo periodo hanno svolto un minijob, rischiano la trappola della povertà in vecchiaia a causa di una pensione troppo bassa». Non solo: «I minijobber non hanno diritto alle ferie e non hanno accesso ai bonus e alle indennità aziendali». Un trend che viene confermato dai dati dell’Ocse: la quota complessiva di lavoratori a tempo determinato e part-time è aumentata notevolmente a partire dal 2003, superando abbondantemente la soglia del 50% fra i giovani occupati tedeschi. «Non dovrebbe dunque stupire che i salari reali medi siano calati in Germania fra il 2003 e il 2009 di oltre il 6%». La situazione tedesca ha allarmato persino l’Ilo, l’International Labour Office delle Nazioni Unite, secondo cui il boom della Germania non è affatto dovuto a un aumento della produttività, ma solo al super-sfruttamento dei lavoratori sottopagati, dal momento che «gli sviluppi della produttività sono rimasti in linea con gli altri paesi dell’Eurozona».Il trucco, a tutto danno dei lavoratori tedeschi, sono state «politiche di deflazione salariale che non solo hanno avuto un impatto sui consumi privati, ma hanno anche condotto ad un ampliamento delle disuguaglianze reddituali ad un velocità mai vista prima, nemmeno dopo la riunificazione, quando molti milioni di persone della Germania Est persero il loro lavoro». Addirittura la Commissione Europea, nel 2012, «ormai a babbo morto», si è accorta del problema, aggiunge Della Bona. Il commissario europeo agli affari sociali, Laszlo Andor, intervistato dal giornale tedesco “Faz.net”, ha infatti riconosciuto che «il mercato del lavoro in Germania è sempre più segmentato», visto che «un gran numero di occupati ha solo un minijob». Pessimo scenario: «Se continua così – avverte Andor – il divario fra lavori regolari e minijobs crescerà rapidamente: i minijobber rischiano di restare in questa situazione e di cadere nella trappola della povertà». La stretta tedesca sui salari, dice ancora il commissario europeo, ha danneggiato gli altri Stati Ue: «Con la sua politica mercantilista, la Germania ha rafforzato gli squilibri in Europa e causato la crisi».Meglio tardi che mai, dirà qualcuno. Peccato che adesso tutti ripetano che anche i paesi del Sud Europa dovrebbero fare come la Germania, ben interpretata dalla stessa Merkel a Davos nel 2013: «Per ottenere riforme strutturali è necessario esercitare pressione», ha detto la cancelliera, ammettendo che «anche in Germania i disoccupati sono dovuti arrivare fino a 5 milioni, prima di ottenere la disponibilità all’attuazione delle riforme strutturali». Rispondendo ai Verdi, nella primavera 2013 il governo tedesco ha risposto – mentendo – che la mancanza di competitività dei paesi in crisi nasce da salari troppo alti e scarsa produttività. La strada maestra, ovviamente, sarebbe «la flessibilizzazione del salario, che in futuro dovrà essere orientato allo sviluppo della produttività», per «garantire l’occupazione e aumentarla». Ci sarebbe da ridere, se non fosse che tutti i partner europei – a cominciare da Renzi – mostrano di credere ancora, nei fatti e negli atti di governo, alla fiaba atroce dell’austerity espansiva made in Germany. I lavoratori tedeschi sono condannati anche dall’Epl, l’indice di protezione del lavoro dell’Ocse, che misura la facilità con la quale si può essere licenziati. Quando si parla di Germania, sottolinea Della Bona, dobbiamo tenere a mente che a Berlino ci sono le grandi multinazionali mercantiliste e i lavoratori, e che l’euro ha beneficiato sicuramente le prime e danneggiato enormemente i secondi.«La politica economica e commerciale tedesca di tipo mercantilistico (esportare il più possibile e ridurre le importazioni per mantenere un saldo estero positivo: “essere competitivi”, come si dice spesso sui media) ha dapprima condotto a una forte riduzione dei salari dei lavoratori tedeschi, fortemente scesi in termini reali a partire soprattutto dal 2003», e ora minaccia – di conseguenza – di mettere in crisi il bilancio statale (esattamente come in Italia) a causa del crollo dei consumi interni e del gettito fiscale. «Se il salario non cresce, difficilmente il lavoratore tedesco può comprare beni e servizi prodotti a casa propria o all’estero: meno soldi hai e meno cose compri». Ci guadagna solo l’industriale tedesco, che fa affari d’oro in due modi: sottopagando i lavoratori e beneficiando della politica europea decisa a Berlino per colpire la concorrenza, come quella italiana. Il super-export tedesco è esploso alla fine degli anni ‘90, «mentre il volume dei consumi delle famiglie, gli investimenti interni e i salari reali sono rimasti pressoché stazionari». Non stupisce che, dall’ingresso nell’euro fino alla crisi finanziaria del 2007, la Germania sia stata il paese che è cresciuto meno in Europa, come conferma l’outlook 2013 del Fmi.Infine, a completare l’affresco ci sono i dati – truccati – della disoccupazione. Ufficialmente, l’Agenzia federale per il lavoro a settembre 2012 parla di 2,7 milioni di disoccupati e di 5 milioni di “persone in età lavorativa ricevono un sussidio di disoccupazione”. Con questi numeri si arriva ad un tasso di disoccupazione di circa l’11.9 %, rileva Della Bona. Ma la stessa agenzia fornisce anche il motivo per cui circa 2,3 milioni di persone in grado di lavorare, destinatarie di un sussidio di disoccupazione, non siano incluse nel tasso di disoccupazione ufficiale: «Non vengono considerati disoccupati tutti coloro che si trovano all’interno di un programma di politica del mercato del lavoro (formazione e inserimento)», cioè quasi 1 milione di persone. Anche chi ha un basso reddito, e per questo riceve un’integrazione, non viene considerato disoccupato: erano 655.000 persone già nel maggio 2012. Sono escluse dal calcolo dei disoccupati altre 630.000 persone, quelle che ricevono un sussidio perché crescono dei figli o vanno a scuola. Poi ci sono 248.000 persone assistite perché “non capaci di lavorare”, e altri 235.000 individui “anziani” che ricevono un sussidio perché hanno più di 58 anni e negli ultimi 12 mesi, semplicemente, non hanno più lavorato. Solo metà dei beneficiari del sussidio è registrata come disoccupata, ammette la stessa agenzia. Anche così, truccando le cifre, la Germania continua a raccontare il suo miracolo triste da 400 euro al mese.Mario Monti, 20 gennaio 2013: «Noi ammiriamo la Germania e vogliamo imitarla in alcune riforme». Beppe Grillo, 15 marzo 2013: «Dobbiamo realizzare un piano comparabile con l’Agenda 2010 tedesca, quel che ha dato buoni risultati in Germania lo vogliamo anche noi» Matteo Renzi, 17 marzo 2014: «La pretesa di creare posti di lavoro con una legislazione molto severa e strutturata è fallita, dobbiamo cambiare le regole del gioco: in questo senso abbiamo nella Germania il nostro punto di riferimento». “Fare come la Germania” è il mantra di tutti, fino al Jobs Act renziano. Storia: nel 2003 il socialdemocratico Schroeder ha smantellato i diritti sociali e tagliato gli stipendi ai lavoratori, per poter rilanciare un’economia basata interamente sull’export e quindi sul basso costo del lavoro. La riforma prende il nome da Peter Hartz, industriale della Volkswagen. Un genio? Fate voi: “Hartz ammette di aver corrotto i sindacalisti Vw ed evita 10 anni di carcere”, titolò di recente il “Sole 24 Ore”. Facile, no? Risultato: nel regno della Merkel dilagano i mini-job da 450 euro, che dopo una vita di lavoro danno diritto a una pensione di 200 euro mensili.