Archivio della Categoria: ‘idee’
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Nazi-Bolsonaro (e da noi Salvini) grazie alla post-sinistra
Jair Bolsonaro ha vinto in Brasile come Salvini ha vinto in Italia. Il primo è parecchio differente dal secondo. Salvini è uno stampino del Populismo di Bannon, di Le Pen, gente piuttosto puzzolente e ignorante. Bolsonaro non ha nulla a che vedere col Populismo, è un neo-nazista della vecchia scuola dei generali neo-nazisti che Jf Kennedy e suo fratello Bob impiantarono in America Latina dal 1962 in poi, con le conseguenze che sappiamo in tutto il continente. Da militare Bolsonaro disse senza problemi che «ci vuole una strage di almeno 30.000 brasiliani, e nessuno in galera, proprio ammazzati, poi se ci vanno di mezzo gli innocenti, pazienza, capita». E’ dichiaratamente a favore della tortura e degli omicidi extra-giudiziali. Quindi se i Salvini-types sono grezzi fascistoidi, questo è un neo-nazista dichiarato. La domanda che ci poniamo tutti è: ma è possibile che un elettorato, quello brasiliano, che fu moderato o addirittura di sinistra faccia capriole di questa portata? La risposta non la do io, perché ho l’umiltà di ammettere quando qualcuno ne ha formulata una più sinteticamente brillante di quella che pensavo.Eccola: «Dov’erano i centro-sinistra (i liberals in inglese, nda) quando la Wall Street che Barack Obama ha salvato strangolava il popolo del Brasile affinché ripagasse debiti accumulati dai suoi oligarchi? Il centro-sinistra è la linea diretta fra il capitalismo e il fascismo, non la sua antitesi» (Rob Urie, “Counterpunch”). Nel caso di Salvini e del becerismo che oggi trionfa con lui si può dire esattamente la stessa cosa, con minimi ritocchi: «Dov’erano i centro-sinistra (il Pd in primis, nda) quando la Ue che essi hanno voluto strangolava famiglie e aziende italiane affinché ripagassero debiti resi velenosi dalla moneta euro? Il centro-sinistra è la linea diretta fra il capitalismo e il populismo, non la sua antitesi». Ps: a quelli che mi attaccano perché bastono sia guelfi che ghibellini, rispondo: faccio il giornalista, non il politico, meno che meno il cheerleader.(Paolo Barnard, “La sinistra di Obama e del Pd, poi Bolsonaro e Salvini”, dal blog di Barnard del 30 ottobre 2018. Giornalista, già collaboratore dei maggiori quotidiani – “La Stampa”, “Il Manifesto”, “Corriere della Sera”, “Il Mattino”, “Il Secolo XIX” e “La Repubblica” – Barnard ha lavorato alla Rai con Michele Santoro in “Samarcanda”, prima di fondare “Report”, su Rai Tre, con Milena Gabanelli. Ha collaborato con Gianluigi Paragone a “L’ultima parola” su Rai Due e poi a “La Gabbia”, su La7. Fra i suoi libri, “Due pesi e due misure, riconoscere il terrorismo dello Stato d’Israele”, Andromeda, e “Perché ci odiano”, Bur, sullo scontro con l’Islam. Nel saggio “Il più grande crimine”, del 2011, ricostruisce la genesi oligarchica e antidemocratica delle istituzioni comunitarie europee).Jair Bolsonaro ha vinto in Brasile come Salvini ha vinto in Italia. Il primo è parecchio differente dal secondo. Salvini è uno stampino del Populismo di Bannon, di Le Pen, gente piuttosto puzzolente e ignorante. Bolsonaro non ha nulla a che vedere col Populismo, è un neo-nazista della vecchia scuola dei generali neo-nazisti che Jf Kennedy e suo fratello Bob impiantarono in America Latina dal 1962 in poi, con le conseguenze che sappiamo in tutto il continente. Da militare Bolsonaro disse senza problemi che «ci vuole una strage di almeno 30.000 brasiliani, e nessuno in galera, proprio ammazzati, poi se ci vanno di mezzo gli innocenti, pazienza, capita». E’ dichiaratamente a favore della tortura e degli omicidi extra-giudiziali. Quindi se i Salvini-types sono grezzi fascistoidi, questo è un neo-nazista dichiarato. La domanda che ci poniamo tutti è: ma è possibile che un elettorato, quello brasiliano, che fu moderato o addirittura di sinistra faccia capriole di questa portata? La risposta non la do io, perché ho l’umiltà di ammettere quando qualcuno ne ha formulata una più sinteticamente brillante di quella che pensavo.
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Ue che manovra: spezzare l’Italia, Bruxelles ha paura di noi
Qua si mette male, molto male. Il guaio non è la manovra economica che sarà pure inappropriata e insufficiente ma che non è così drastica e rivoluzionaria, e non produrrebbe quei danni letali che si raccontano ogni giorno. Il guaio è la reazione alla manovra. Che non è poi nemmeno la bocciatura della manovra, ma è un preciso, deliberato, radicale attacco al governo in carica. Il proposito non è far cambiare la manovra ma far cadere il governo e metterlo contro al suo popolo. Non si tratta di scomodare la letteratura del complotto, i precedenti, perfino quello di Berlusconi che ora è dalla parte di chi lo fece fuori sette anni fa. Non è questione di complotti, è questione di lotta per la sopravvivenza, o se volete, è l’eterna legge dell’autoconservazione del potere che quando è in pericolo prima sparge l’inchiostro e poi aziona i tentacoli. E non si tratta di attacco all’Italia, che pure non gode di fiducia nei potentati, e nemmeno solo di pregiudizi, come dice serafico il premier Conte. No, qui è in gioco l’establishment e il suo potere. Se passa la manovra del governo italiano, e ancora peggio se non devasta l’economia come viene preannunciato tre volte al giorno, viene delegittimato l’establishment tecno-finanziario-capital-sinistrorso che regge l’Unione, di cui in Italia abbiamo molti reggicoda.Altri paesi seguirebbero l’esempio e si sentirebbero in diritto di prendere una loro strada, di non sottomettersi al diktat europeo e alla loro prescrizione tassativa. E alle elezioni europee sarebbe un massacro per gli assetti di potere vigenti, di cui Juncker, Moscovici, sono gli ultimi figuranti. Da qui il terrorismo mediatico-finanziario, le scomuniche scritte e inscenate. Si giocano tutto. Altro che bocciatura della finanziaria. Da giorni, da settimane, da mesi in un crescendo minaccioso, annunciano sventure le cassandre interne e le streghe di Macbeth, che predicevano in futuro in realtà per orientarlo secondo i loro desideri. Eurarchi, agenzie, media e ascari politici, un coro assordante. E sta realmente serpeggiando nel paese quel panico che è di solito alle origini delle catastrofi. Ma il collasso non è indotto da una manovra scarsa e sbagliata ma dall’attacco concentrico al governo, prospettandoci un’altra esperienza Tsipras, come quella che indusse il riottoso premier greco a subire i diktat della Trojka se non voleva ridurre in miseria il suo paese.Il suggerimento sottinteso che viene dato è il seguente: l’Italia ha un debito record ma, come voi dite, è solido il sistema-italia, ha beni, risparmi, proprietà private. Bene, allora mettete mano a quelli, con una patrimoniale, prelievi forzosi, blocco di capitali, tasse sulle case, obbligo d’investire in titoli pubblici, o quel che volete voi. Ovvero trovate i soldi nelle tasche degli italiani, così pagate almeno gli interessi sul debito (che non potrà mai essere estinto, è come il peccato originale ma non ce lo toglie nessun battesimo). E allo stesso tempo vi inimicate il popolo che vi sostiene. Così buonanotte al populismo, al sovranismo e a tutte le menate. Voi capite che il pericolo vero è questo e non la manovra. E non pensate che indignandosi o cercando di suscitare rabbia nel popolo, si possa rispondere con le barricate. No, è una guerra e in guerra contano i rapporti di forza. È una guerra e del resto non potevate pensare che “loro” hanno i giorni contati- come dicevano allegramente – e si limitano a contare i giorni e non a reagire. E disponendo di poteri e alleanze che voi neanche vi sognate, agiscono per mandarvi fuori strada. Voi e il vostro paese, se vi segue.A questo punto io ho paura della paura. Ho paura cioè del panico che stanno instillando nella gente, nelle notizie che fanno circolare, nelle annunciate fughe di capitali all’estero, conti prosciugati e così via. Perché sono quei fatti e soprattutto quelle psicosi agitate a produrre guai seri, reazioni a catena; a gettare i paesi nel caos e nella disperazione, per andare poi da lorsignori col cappello in mano. Questa è la vera manovra pericolosa in atto.E allora che fare? Andare alla guerra, cercare alleati anche fuori d’Europa, farsi espellere dall’Unione, scatenare l’ira del popolo? Non contate molto su quest’ultima, gli haters non sono il popolo, e il popolo vi dà ragione in tempo di pace ma quando c’è il panico e la casa brucia non stanno lì a spegnere il fuoco e ad attaccare chi l’ha appiccato, ma mirano a mettersi in salvo. E’ umano, e da questo punto di vista gli italiani sono più “umani” degli altri (anche, ma non solo per fortuna, nel senso di più vigliacchi, più voltagabbana).Del resto, i governi che sfidano l’Europa dovrebbero avere spalle larghe, grandi leader, forze compatte e decise, che qui non vediamo. Si può decidere di combattere per l’Italia e la sua dignità, ma non si può morire per Di Maio e per le velleità grilline. Bisogna essere realisti, cercare punti d’incontro, intanto crescere, trovare solide alleanze, rafforzarsi, rinsaldarsi, acquisire nuove forze. Alle prime gelate, il consenso si ritira. Sarebbe magnifico poter rovesciare l’establishment attuale ma se non si hanno energie e strategie valide, leadership adeguate ed élite alternative, meglio essere prudenti. Non si può dichiarare guerra al mondo e rispondere alle armi micidiali messe in campo dal Nemico coi tweet, gli scarponi e le manine.(Marcello Veneziani, “Ue che manovra”, da “Il Tempo” del 25 ottobre 2018, articolo ripreso sul blog di Veneziani).Qua si mette male, molto male. Il guaio non è la manovra economica che sarà pure inappropriata e insufficiente ma che non è così drastica e rivoluzionaria, e non produrrebbe quei danni letali che si raccontano ogni giorno. Il guaio è la reazione alla manovra. Che non è poi nemmeno la bocciatura della manovra, ma è un preciso, deliberato, radicale attacco al governo in carica. Il proposito non è far cambiare la manovra ma far cadere il governo e metterlo contro al suo popolo. Non si tratta di scomodare la letteratura del complotto, i precedenti, perfino quello di Berlusconi che ora è dalla parte di chi lo fece fuori sette anni fa. Non è questione di complotti, è questione di lotta per la sopravvivenza, o se volete, è l’eterna legge dell’autoconservazione del potere che quando è in pericolo prima sparge l’inchiostro e poi aziona i tentacoli. E non si tratta di attacco all’Italia, che pure non gode di fiducia nei potentati, e nemmeno solo di pregiudizi, come dice serafico il premier Conte. No, qui è in gioco l’establishment e il suo potere. Se passa la manovra del governo italiano, e ancora peggio se non devasta l’economia come viene preannunciato tre volte al giorno, viene delegittimato l’establishment tecno-finanziario-capital-sinistrorso che regge l’Unione, di cui in Italia abbiamo molti reggicoda.
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Salvate il soldato Trenta: quelle armi sono vitali per l’Italia
«Per favore, salvate il soldato Trenta. E spiegate a Di Maio che la ministra della difesa sta cercando di acquistare gli armamenti indispensabili per rendere credibile la presenza dell’Italia sulla scena euro-mediterranea». Parola di Roberto Hechich, specialista del Movimento Roosevelt in materia di geopolitica. Elisabetta Trenta? Un’ottima scelta, da parte dei 5 Stelle: è competente e proviene dal settore difesa. L’oggetto del contendere? Il bilancio stesso del ministero, che il vicepremier grillino vorrebbe far dimagrire in modo imprudente. Pomo della discordia, il finanziamento negato per l’acquisto di velivoli e sistemi d’arma: lo sviluppo del missile italiano Camm-Er e quello del drone P2hh della Piaggio, più l’acquisto di altri esemplari dell’elicottero Nh90. Se lo stop al drone Piaggio può essere giustificato (l’Italia è impegnata anche nel progetto-doppione EuroMale), secondo Hechich non così è per gli altri due progetti. Il Camm-Er, missile a corto-medio raggio, è un’arma contraerea e antimissile installata sulle navi, nei porti, negli aeroporti e avamposti all’estero e nei siti strategici, andando a sostituirne altri oramai obsolescenti sistemi Spada e Aspide. «Serve quindi per difendere le basi militari italiane dislocate all’estero, le navi italiane che transitano al largo di coste non sicure o che incrociano navi potenzialmente avversarie».Anche se la maggior parte dell’opinione pubblica e molti politici non se ne rendono conto, sostiene Hechich, la situazione nel Mediterraneo andrà incontro a un rapido degrado col pericolo di conflitti violenti: «Secondo alcune analisi, il rischio di venirne coinvolti varia tra il 5 e il 35%». Proprio in questi giorni è stata diffusa la notizia (non ancora confermata) della fornitura, da parte della Russia, di avanzatissimi missili Kalibr alle milizie libiche di Haftar. Si parla della costruzione di due basi russe nella zona, sotto la copertura di truppe mercenarie del Gruppo Wagner, russo. «I russi hanno smentito, ma una qualche forma di presenza di loro truppe, anche se non così consistente, pare essere confermata». Non è che ci si possa aspettare un attacco russo, «ma la proliferazione di queste armi tra gruppi non statali accresce notevolmente il rischio di un loro lancio, o di un più probabile ricatto di un lancio, e il rischio si accentua ancora di più se c’è la percezione che dall’altra parte non ci siano difese adeguate». Sempre secondo Hechich, il mancato acquisto dei Camm-Er «ci obbligherebbe prima o poi a comperare missili dalle caratteristiche simili tra i nostri concorrenti commerciali, cioè Francia, Regno Unito o Usa, con l’aggravante di incidere sulla bilancia commerciale e di non essere proprietari delle tecnologie, senza dimenticare l’impatto sui valori occupazionali e sul Pil».Sempre a parere dell’analista, il mancato acquisto dei nuovi missili andrebbe anche a incidere sulla possibilità italiana di affiancarsi ai britannici (il Camm-Er è una nostra variante di un missile anglo-italiano) per lo sviluppo del nuovo caccia da superiorità aerea Tempest, destinato a sostituire gli attuali Eurofighter Typhoon. «E visto che l’analogo programma franco-tedesco è blindato, ci costringerebbe ad avere un ruolo subalterno a questi due paesi, tagliandoci fuori da ogni sviluppo industriale tecnologicamente avanzato nel settore, con deleterie ricadute sulle nostre capacità tecnologiche, industriali e di sviluppo economico». Oltretutto, insiste Hechich, la programmazione della politica di difesa necessita di anni, per non dire decenni. Non si improvvisa, e non si riesce a crearla quando c’è un pericolo diretto e la necessità diventa impellente. Da non dimenticare poi le cifre: «L’unico modo attualmente per sostituire il Camm-Er con un missile dalle capacità similari, e parzialmente prodotto in casa, sarebbe quello di riprendere la produzione degli Aster 15. Peccato che questo missile costi il doppio e necessiti di spazio doppio rispetto al Camm-Er».Lo stesso Camm-Er costerebbe all’incirca 500 milioni di euro spalmati in dieci anni, mentre il reddito di cittadinanza (del tutto condivisibile, per Hechich) costa diversi miliardi di euro all’anno. «Il gioco vale la candela? Potrebbe nel futuro la nostra Marina ritrovarsi in difficoltà a causa del mancato sviluppo del Camm-Er o nessuno ci lancerebbe missili?». Sempre Hechich ricorda tre episodi avvenuti nel recente passato: nel 1986 il lancio (controverso) di missili libici verso Lampedusa, nel 2011 il lancio fuori bersaglio di un missile dalla costa libica verso la fregata italiana Bersagliere, e soprattutto l’abbattimento di un G222 in missione umanitaria sui cieli della Bosnia da parte di due missili di fabbricazione sovietica (forse lanciati da forze irregolari croato-bosniache) e la conseguente morte dei quattro membri dell’equipaggio, che sarebbe stata evitata «se fossero stati presenti sistemi di contromisure – non ancora installate, appunto, per problemi di bilancio».L’altro programma a partecipazione italiana che dovrebbe venir sospeso è quello dell’elicottero Nh90, soprattutto nella versione Sh, destinata alla Marina. Parte di questi elicotteri sarebbe dovuta essere consegnata nella versione anti-sommergibile. L’elicottero è uno dei migliori sistemi per difendersi dalle minacce sottomarine, oltre che un mezzo di salvataggio, soccorso e collegamento. La Marina, che aveva trascurato questo aspetto, sta cercando di correre ai ripari, ma le serve tempo. «La mancata consegna di questo mezzo non fa che accentuare questo gap, senza tener conto dei danni sul piano economico e sui livelli occupazionali». Per Hechich, c’è da sperare che il paventato blocco di ordini sia veramente solo temporaneo. «Oltretutto i supposti, immediati risparmi sarebbero in gran parte vanificati dalle penali previste sui contratti già deliberati». Per intanto Leonardo, uno dei principali costruttori dell’elicottero, sta perdendo in Borsa. «Quindi ben si spiegherebbero le lacrime di rabbia all’uscita della Trenta dalla riunione con Di Maio, come citano alcune fonti».Non è tutto: Hechich ricorda anche la questione degli F35, nonché i continui rinvii sulla decisione riguardo opere pubbliche e investimenti in vari settori industriali. Nel Def gli investimenti sono scarsi, e indiscrezioni di stampa «paventano una vendita di industrie pubbliche altamente strategiche, efficienti e renumerative, come Leonardo e Fincantieri». Si tratta di «aziende ad altissima tecnologia, che caratterizzano e rendono prestigioso il settore della grande industria italiana». Abbandonate dallo Stato, diverrebbero «facile preda degli appetiti fagocitatori francesi». Tutto questo, osserva Hechich, lascia più di qualche sospetto sulle reali capacità e competenze dell’attuale ministro dello sviluppo economico. Non erano i D’Alema a svendere aziende come Telecom, capaci di darci indipendenza strategica e tecnologica? «Curioso quindi che un governo detto “sovranista” adotti gli stessi metodi di governi “neoliberisti”, svendendo la nostra sovranità tecnologica in un settore strategico, uno dei pochissimi che ancora ci rimangono».Secondo il leghista Raffaele Volpi, sottosegretario alla difesa, il comparto industriale aerospaziale e della difesa fattura più di 14 miliardi di euro all’anno, pari allo 0,8% del nostro Pil. Tendenzialmente in crescita, è fonte di ricerca e innovazione. «Il settore della difesa – ricorda Volpi – dà occupazione ad oltre 44.000 persone, che salgono a più di 110.000 se si considerano anche indotto e altri impatti indiretti». Non solo: «Le aziende pagano tasse allo Stato per non meno di 4,5 miliardi; perciò, trattare le spese militari come uno spreco di risorse non ha senso». Tutto questo, aggiunge Volpi, senza considerare l’export. Dettaglio non trascurabile, poi, «la sicurezza che deriva al nostro paese dall’essere difeso e dal poter partecipare con credibilità e autorevolezza ad alleanze con altri Stati in una fase storica caratterizzata da diffusa instabilità e pericolo di conflitti». Ogni euro speso per i programmi industriali della difesa, sottolinea Hechich, porta un ritorno di un fattore di circa 2,5. Non è che l’inesperienza di Di Maio lo porti a sottovalutare questi aspetti? Per cui, conclude Hechic: «Vi prego, per chi ne ha la possibilità: salvate il soldato Trenta».«Per favore, salvate il soldato Trenta. E spiegate a Di Maio che la ministra della difesa sta cercando di acquistare gli armamenti indispensabili per rendere credibile la presenza dell’Italia sulla scena euro-mediterranea». Parola di Roberto Hechich, specialista del Movimento Roosevelt in materia di geopolitica. Elisabetta Trenta? Un’ottima scelta, da parte dei 5 Stelle: è competente e proviene dal settore difesa. L’oggetto del contendere? Il bilancio stesso del ministero, che il vicepremier grillino vorrebbe far dimagrire in modo imprudente. Pomo della discordia, il finanziamento negato per l’acquisto di velivoli e sistemi d’arma: lo sviluppo del missile italiano Camm-Er e quello del drone P2hh della Piaggio, più l’acquisto di altri esemplari dell’elicottero Nh90. Se lo stop al drone Piaggio può essere giustificato (l’Italia è impegnata anche nel progetto-doppione EuroMale), secondo Hechich non così è per gli altri due progetti. Il Camm-Er, missile a corto-medio raggio, è un’arma contraerea e antimissile installata sulle navi, nei porti, negli aeroporti e avamposti all’estero e nei siti strategici, andando a sostituirne altri oramai obsolescenti sistemi Spada e Aspide. «Serve quindi per difendere le basi militari italiane dislocate all’estero, le navi italiane che transitano al largo di coste non sicure o che incrociano navi potenzialmente avversarie».
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Abolire le lezioni di storia: i docenti non insegnano niente
Un po’ di giorni fa, le associazioni dei docenti di storia e l’Istituto Storico per la Storia della Resistenza hanno lanciato un grido di dolore contro la proposta di abolire la traccia di storia fra quelle degli esami di Stato, additando l’incultura di chi ha fatto l’infausta proposta ed hanno colto l’occasione per la solita geremiade sulle cattedre perse, della marginalizzazione delle ore di insegnamento della storia ridotte ad una sola negli istituti tecnici, eccetera. La commissione ministeriale che ha approvato questa riforma degli esami di Stato è certamente composta da allevatori di bestiame capitati non si sa come in quella posizione, non discuto. Ma bisogna riconoscere che qualche ragione ce l’hanno: è un fatto che nell’ultimo decennio (più o meno) la traccia è stata scelta solo dall’1% dei candidati. E la cosa, cari colleghi, non vi dà nessun sospetto? Se il 99% degli studenti scansa la traccia di storia, non dipenderà dal fatto che la storia gli è stata insegnata con i piedi? Non cominciamo con le solite scuse sulla vulgata corrente che marginalizza le materie umanistiche e disincentiva i giovani a studiare la storia, su quella trappola infernale che è Internet, eccetera eccetera; il punto è che i nostri docenti non riescono ad interessare i ragazzi alla materia in questione.E questo si inserisce nel problema più generale dei troppi insegnanti che, magari, conoscono la materia ma non la sanno insegnare, e questo vale per tutte le discipline. In estate lessi di una classe di un istituto livornese dove erano stati bocciati o rimandati 40 studenti su 41, e un imbecille di docente confessava come giustificazione: «Non riusciamo a farli studiare». Come dire che “non sappiamo fare il nostro mestiere”, visto che il compito del docente è proprio quello di motivare i ragazzi a studiare. Morale: licenziamo in blocco i docenti di quella classe e faremo una cosa santa. Ma, si dice, della storia ha bisogno non solo la cultura ma anche la democrazia, perché, si dice, la storia ha un alto valore formativo. Ecco: il punto è proprio questo: la storia, così come viene insegnata, ha ancora questo valore formativo? Direi proprio di no. Per il modo in cui è ora mal insegnata non ha alcun valore culturale e, meno che mai, professionale. La storia non serve a “far bella figura in società” o ad assecondare una qualche voglia individuale di intrattenimento. La storia ha una funzione precisa nella spiegazione e critica del presente e, solo a questa condizione, è elemento utile al dibattito politico e culturale.Frugare a caso nel passato non serve a niente, quello che serve è risalire lungo la catena dei nessi causa effetto-che spieghino l’attuale stato di cose e servano da lente di ingrandimento per individuare cosa va conservato e cosa mutato nell’attuale ordinamento. Ora, c’è qualcuno che ha il coraggio di sostenere che l’attuale insegnamento serva a questo? Quanti docenti sarebbero in grado di spiegare il passaggio dalla formula merce-denaro-merce a quella denaro1-merce-denaro2 e spiegarne la portata storica? Quale insegnante saprebbe spiegare le conseguenze della decisione di Nixon sulla non convertibilità del dollaro nel 1971? Quanti docenti hanno una pur vaga idea del pensiero politico di Gandhi, Sukarno, Kemal Ataturk o sanno chi sono stati Nasser, Al Qutb o Franz Fanon? E chi saprebbe presentare adeguatamente il processo di codificazione dello Stato moderno europeo o il passaggio dalla decretazione alla legge? Ne dubito fortemente, perché i nostri docenti in massima parte sono filosofi o letterati che non capiscono nulla di diritto o economia e poco di sociologia o politologia.D’altro canto, i libri di testo che hanno a disposizione non parlano di certe cose e ripropongono la solita sbobba identica a se stessa da almeno 60 anni. Sì, ci abbiamo appiccicato a forza qualche capitolo sulla storia delle donne, dei giovani o dell’ambiente (che nessun docente trova il tempo di spiegare e che sono posti senza alcun legame con tutto il resto) ma la struttura resta quella di sempre, nella quale è possibile distinguere con chiarezza i suoi vari strati alluvionali: alla base il catechismo della “religione della Patria” con i suoi martiri (Menotti, Speri, Bandiera) e il suo glorioso cammino verso l’unità; poi il capitolo sulla Prima Guerra Mondiale per lo più di derivazione fascista; quindi la grande cupola dell’insegnamento crociano con il suo culto per l’analogia e il suo insopportabile moralismo, per cui il fine della storia è il giudizio morale (insomma, il voto in condotta a chi ci ha preceduto) e la sua totale insensibilità ai dati istituzionali ed economici; infine un po’ di catechismo antifascista.Beninteso: sono antifascista da sempre, non ritengo affatto che l’antifascismo sia un valore superato, ma non sopporto alcun tipo di catechismo. Si può capire che nel primo trentennio della Repubblica fosse necessario radicare la condanna del fascismo, ma vogliamo capire che la storia del fascismo va studiata in riferimento al tipo di modernità che si è costruita in questo paese? E che dopo il fascismo ci sono stati 70 anni di storia che sono bellamente ignorati dai nostri manuali? E senza che questo attenui di un etto la condanna del fascismo. L’antifascismo va benissimo, ma facciamolo vivere nel quadro del presente e non trasformiamolo in un polveroso museo di memorie. Insomma, è accettabile che il nostro insegnamento ignori cose come la decolonizzazione, la strategia della tensione, il Sessantotto, i mutamenti dell’ordine monetario, il crollo dell’Urss e dell’ordinamento bipolare, la trasformazione imperiale della presidenza americana, le rivoluzioni di Cina, Indonesia, Algeria, Vietnam, le guerre mediorientali, eccetera eccetera? Caro colleghi, ma in che secolo vivete?E non si tratta solo di recuperare il passato più recente, ma di leggere con altri occhi anche tutto il resto della storia alla luce dell’attuale ordinamento del mondo. Ad esempio, siamo sicuri che la storia degli Assiri, dei Babilonesi, dei Fenici sia così importante, mentre si trascurano del tutto le ben più importanti civiltà di India e Cina? Certo che la storia romana dobbiamo studiarla, ma è necessario beccarsi tutta la solfa delle dinastie gallo-romane, l’elenco completo delle battaglie di Cesare, gli imperatori più insignificanti, e non tentare una comparazione con le parallele vicende dell’India? Il medioevo va studiato, ma è così fondamentale dare tanto spazio alla lotta per le investiture, piuttosto che dare uno sguardo all’evoluzione dell’economia cinese a metà del XIV secolo, con il passaggio all’economia del riso e con il parallelo affermarsi del dispotismo asiatico? E, nella storia moderna, si potrebbe restringere un po’ il solito elenco di guerre e battaglie, ma dare più spazio alla nascita del diritto commerciale o al colbertismo. Quanto alla storia contemporanea, va bene che si parli della Shoà, ma non sarebbe più urgente e importante parlare del colonialismo e del suo residuo permanente? Magari ci riuscirebbe di capire meglio un fenomeno come il terrorismo jhadista.Tutto questo, però, presupporrebbe un corpo docente ben altrimenti formato. Anche l’istituzione del corso di laurea in storia è stato un vero disastro: nessun insegnamento di economia, diritto, scienza della politica, una infarinatura appena di sociologia, psicologia e antropologia e, in cambio, una valanga delle storie più minute e meno utili. Solito schema per le storie generali all’interno del solito eurocentrismo. Un marziano che scendesse sulla Terra e leggesse i nostri manuali di storia per farsi unìidea, capirebbe che l’unico protagonista della storia è sempre stato l’uomo bianco, salvo qualche rapida comparsata di qualche altro; che la storia umana ha seguito un unico cammino rettilineo, e che gli umani si sono sempre preoccupati solo dell’aspetto ideologico, dedicando di tanto in tanto qualche cenno di attenzione ai processi materiali. Cari colleghi, diciamolo, voi non fate storia, fate una noiosissima antiquaria. E non parliamo dell’aspetto metodologico: quanti docenti hanno idea di cosa sia la scienza della complessità o sarebbero spiegare cosa è un modello di simulazione e come funziona (anche un semplice wargame)? Quanti se la sentirebbero di accennare un approccio comparatistico? E quanti potrebbero provare una spiegazione dei processi storici in termini di psicoanalisi di massa? Lasciamo perdere.Già sento la risposta: «Dobbiamo rispettare i programmi ministeriali». Già, l’annosa piaga dei programmi ministeriali che mi fanno pensare che sia arrivato il momento di sbarazzarci della scuola statale (non ho detto della scuola pubblica, ma di quella statale): un modello organizzativo che ha avuto i suoi meriti ma che oggi, forse, è il caso di superare. In ogni caso, non mi è capitato di leggere di nessuna protesta dei docenti, dei loro sindacati, delle loro associazioni disciplinari contro i famigerati programmi ministeriali, pecoronescamente applicati. Tutto ciò premesso, come si fa a sostenere che l’attuale insegnamento della storia abbia una qualche utilità e possa riscuotere più di qualche sbadiglio dei ragazzi? Capisco la difesa più che della storia, degli impiegati statali incaricati di spiegare la “storia” da cui cercano “di tirare quattro paghe per il lesso”, ma se l’insegnamento della storia deve essere questo, forse è meglio che lo aboliamo del tutto. E forse i ragazzi odieranno di meno la storia e qualcuno inizierà a studiarla per proprio conto.(Aldo Giannuli, “Una modesta proposta sull’insegnamento della storia: aboliamolo. Lettera aperta ai colleghi storici”, dal blog di Giannuli del 30 ottobre 2018).Un po’ di giorni fa, le associazioni dei docenti di storia e l’Istituto Storico per la Storia della Resistenza hanno lanciato un grido di dolore contro la proposta di abolire la traccia di storia fra quelle degli esami di Stato, additando l’incultura di chi ha fatto l’infausta proposta ed hanno colto l’occasione per la solita geremiade sulle cattedre perse, della marginalizzazione delle ore di insegnamento della storia ridotte ad una sola negli istituti tecnici, eccetera. La commissione ministeriale che ha approvato questa riforma degli esami di Stato è certamente composta da allevatori di bestiame capitati non si sa come in quella posizione, non discuto. Ma bisogna riconoscere che qualche ragione ce l’hanno: è un fatto che nell’ultimo decennio (più o meno) la traccia è stata scelta solo dall’1% dei candidati. E la cosa, cari colleghi, non vi dà nessun sospetto? Se il 99% degli studenti scansa la traccia di storia, non dipenderà dal fatto che la storia gli è stata insegnata con i piedi? Non cominciamo con le solite scuse sulla vulgata corrente che marginalizza le materie umanistiche e disincentiva i giovani a studiare la storia, su quella trappola infernale che è Internet, eccetera eccetera; il punto è che i nostri docenti non riescono ad interessare i ragazzi alla materia in questione.
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Deutsche Bank: nessuno è stato massacrato quanto l’Italia
Nessuno si è fatto massacrare, in questi anni, come l’Italia. E nessun altro paese europeo, men che meno la Germania, ha “fatto i compiti a casa” così bene, cioè stroncando la spesa pubblica a danno del popolo, in ossequio al diktat dell’austerity. Che poi tutto ciò si possa trasformare in un comportamento “virtuoso”, è questione di punti di vista: per esempio quello di David Folkerts-Landau, capo economista di Deutsche Bank, il cui recente intervento su “Bloomberg Tv” è stato pubblicato col massimo risalto sul blog di Beppe Grillo, come se l’oligarca della maxi-banca speculativa tedesca ci avesse fatto un complimento di quelli che meritano un applauso. Proprio l’enorme «sforzo fiscale» che il nostro paese sta mettendo in atto, da anni, motiva le parole di Folkerts-Landau, secondo Grillo pronunciate «in sostegno all’Italia». Queste: «L’Italia avrebbe un avanzo di bilancio, se non fosse per il pagamento degli interessi. La cosa più straordinaria è che lo sforzo fiscale dell’Italia è oltre ciò che chiunque altro ha fatto in Europa, ed ha accumulato avanzi primari (al netto degli interessi) per il 13% del Pil, mentre la Germania solo per il 5%. L’Italia, in questo senso, è il paese più virtuoso in Europa».Sempre secondo il banchiere, «ora il fatto di andare da lei con una mazza da baseball e dire “Devi diminuire il tuo deficit affinché sia ’sostenibile’ secondo i criteri della Ue” va contro tutte le ragioni e le logiche politiche». Infatti, aggiunge David Folkerts-Landau, «io credo che questa sorta di minaccia, di pressione, da parte della Ue stia radicalizzando la nazione, stia radicalizzando la politica, stia creando un pericolo per l’esistenza dell’Eurozona». E conclude: «Sì, sono fortemente dalla parte degli italiani su questa particolare discussione». Proprio un bel risultato, commenta Paolo Barnard sul suo blog, dove premette: «Sono oltre 25 anni che cerco di insegnare come vince, il Vero Potere. E infatti eccolo di nuovo trionfante su questo governo di falsari e buffoni, e sulle Curva Ultras dei tristi acritici che li hanno votati e che oggi li adorano». Il Vero Potere, aggiunge Barnard, «lavora con un banale mezzo di manipolazione psicologica conosciuto nei rapporti interni di Think Tanks e Ministeri come “psyops”». E’ centrato «su un preciso rapporto punizione-premio, carnefice-vittima». Metafora: è come se fossimo legati a una catena, in un pozzo. Ogni tanto, ci si lascia credere di essere più liberi, grazie a qualche irrisoria concessione.«Coi suoi usuali immensi mezzi – scrive Barnard – il Vero Potere lega la vittima a un muro, in fondo a un pozzo, con un metro di catena al collo». Quando essa il malcapitato inizia a gemere, lo pesta a bastonate e lo minaccia. «Questo va avanti per molto tempo, poi un giorno il Vero Potere recita la farsa di cedere». Ovvero: «Mette in scena una sconfitta fittizia contro la vittima». E le concede «un metro di catena in più, con uno spiraglio di luce». La reazione della vittima, costretta a pane e acqua e «ormai spezzata psicologicamente», sostanzialmente «è di tripudio», visto che ormai «ha perduto ogni senso della realtà e delle proporzioni dell’esistenza». E quindi esulta: «Ho vinto! Libertà! Festeggiamo!». Secondo Barnard, «questo, e precisamente questo, sta accadendo con il governo gialloverde, che proclama trionfi e nuove libertà per gli italiani perché gli è stato concesso un metro di catena in più al collo chiamato deficit di bilancio al 2,4%, sempre nel contesto di nessuna speranza di uscire dall’euro (il pozzo della metafora), che anzi, viene confermato da Conte come il futuro immutabile dell’Italia. La psyop di Bruxelles ha funzionato come un computer».Ma, sempre secondo Barnard, «non esiste luogo dove quest’orripilante farsa – che prende appunto il nome di stravittoria della Ue e patetico vagheggiamento della vittima (l’Italia gialloverde) – è più splendidamente in vista del blog di Beppe Grillo». Il fondatore del Movimento 5 Stelle ha pubblicato quello spezzone d’intervista a Folkerts-Landau, «un scherano della Deutsche Bank», il quale «riafferma pienamente le virtù del pareggio di bilancio italiano nascosto nell’avanzo primario che da anni stiamo facendo, che altro non è se non il micidiale rigore dei conti di Mario Monti, di Padoan e di Cottarelli, ovvero il cianuro dell’economicidio dell’Italia da 15 anni». Ma dato che «il veterano sicario tedesco trova il modo, nel mezzo di quello schifo, di lodare l’Italia e di fingere un rimproverino alla Ue», ecco che Grillo «scrive che il banchiere ha pronunciato “parole in sostegno all’Italia”, e gli dà l’enorme visibilità del suo spazio web». In sostegno?«Lodarci perché ci siamo fatti picchiare a sangue con sale sparso sulle ferite per 15 anni, e aggiungere che il torturatore adesso dovrebbe dismettere la frusta e usare solo le mani per picchiarci, è sostegno a famiglie e aziende italiane? Questo è esattamente il succo delle sue parole, che il genovese trova edificanti per noi», aggiunge Barnard. «Ecco come ci hanno ridotti, ecco il livello di assenza cerebrale di tutti quelli che oggi sbraitano il “cambiamento” e la vittoria di Lega e 5 Stelle. Ed ecco come vince, e stravince, il Vero Potere». E non è tutto, chiosa Barnard: «Per essere precisi, va detto che un blocco in ’sto governo osceno è ben contento del carnefice-Ue, per interessi che ho già spiegato, leggasi Salvini». Tradotto: l’elettorato industriale del nord è ben contento delle pietose condizioni dei lavoratori, indotti dal regime neoliberista e ordoliberista europeo a rassegnarsi a non avere più diritti, ma solo precaria flessibilità. Se Grillo segnala l’esternazione dell’uomo di Deutsche Bank per rompere l’assedio che l’establishment europeo sta muovendo all’Italia, dal canto suo Barnard ribadisce la sua sfiducia espressa sin dalla prima ora nel governo gialloverde, che a suo parere si limita a fingere di sfidare Bruxelles.Nessuno si è fatto massacrare, in questi anni, come l’Italia. E nessun altro paese europeo, men che meno la Germania, ha “fatto i compiti a casa” così bene, cioè stroncando la spesa pubblica a danno del popolo, in ossequio al diktat dell’austerity. Che poi tutto ciò si possa trasformare in un comportamento “virtuoso”, è questione di punti di vista: per esempio quello di David Folkerts-Landau, capo economista di Deutsche Bank, il cui recente intervento su “Bloomberg Tv” è stato pubblicato col massimo risalto sul blog di Beppe Grillo, come se l’oligarca della maxi-banca speculativa tedesca ci avesse fatto un complimento di quelli che meritano un applauso. Proprio l’enorme «sforzo fiscale» che il nostro paese sta mettendo in atto, da anni, motiva le parole di Folkerts-Landau, secondo Grillo pronunciate «in sostegno all’Italia». Queste: «L’Italia avrebbe un avanzo di bilancio, se non fosse per il pagamento degli interessi. La cosa più straordinaria è che lo sforzo fiscale dell’Italia è oltre ciò che chiunque altro ha fatto in Europa, ed ha accumulato avanzi primari (al netto degli interessi) per il 13% del Pil, mentre la Germania solo per il 5%. L’Italia, in questo senso, è il paese più virtuoso in Europa».
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Moiso: rigore inglese, non basta la Brexit per esser sovrani
In caso di no-deal, la Gran Bretagna potrebbe ritrovarsi di fronte a gravissime scelte di austerity, “dettate” da dinamiche economico-finanziarie globali. Chi ha votato Brexit, sperando di poter riconquistare la porzione di sovranità pro-quota che spetta ad ogni cittadino di una democrazia, potrebbe ritrovarsi a subire le speculazioni, i dogmi e le imposizioni dei mercati internazionali molto più di quanto non facesse prima. Stanno già preparando il terreno per l’attacco allo stato sociale britannico; l’articolo dell’“Evening Standard” uscito il 30 ottobre ne è una prova, e la graduale privatizzazione del sistema sanitario nazionale ne è l’inizio. Tutto questo mi porta a riflettere sulla battaglia che dobbiamo portare avanti in Europa. Questa dis-Unione Europea non va cambiata, va radicalmente, completamente e letteralmente rivoltata sottosopra. Infatti, se questa dis-Unione Europea mette l’economia neoliberista – e i suoi faziosi indicatori economici – sopra la politica, noi dobbiamo creare una federazione di Stati in cui il popolo sia sovrano e in cui la politica determini le scelte monetarie ed economiche, nell’interesse della collettività.Le critiche a quest dis-Unione Europea sono più che fondate: gode dell’unico Parlamento al mondo senza potere legislativo, ha una Commissione di non-eletti verso la quale non ci può nemmeno essere un voto di sfiducia, e antepone interessi di piccoli gruppi di privati agli interessi della collettività. Addirittura, mi sentirei di dire che questa dis-Unione Europea tradisce i principi su cui si fondano le democrazie liberali, a partire dal famoso contratto sociale e dall’idea, già settecentesca, secondo cui non ci può essere “taxation without representation”. Un superministro dell’economia non eletto dal popolo, di chi farà gli interessi? Nelle istituzioni di questa dis-Unione Europea sembra che ogni Stato europeo abbia interessi particolari, da perseguire in ogni modo. Eppure, con gli altri popoli europei abbiamo molto più in comune di quanto non siamo abituati a pensare. In Europa, più che in ogni altro luogo del pianeta, i diritti dell’uomo hanno trovato vero riconoscimento. È tramite lo stato sociale che, nelle democrazie liberali degli Stati europei, nel dopoguerra, si sono conciliate le libertà individuali con le responsabilità dell’individuo nei confronti della società. È in Europa che abbiamo sviluppato il moderno stato sociale, per permettere a così tante generazioni di godere di pari opportunità e diritti.Quando si parla di quanto i popoli europei siano incompatibili, bisognerebbe confrontarli con le culture dei popoli extra-europei. Non possiamo non apprezzare quanto e cosa ci accomuni. Non possiamo non apprezzare come il popolo europeo abbia messo, per generazioni, il benessere dell’uomo al centro di politica ed economia. È la storia recente, oltre a quella di secoli di sviluppo parallelo, che dovrebbe indicare una base culturale e valoriale più che sufficiente per farci decidere di lottare, insieme ai nostri fratelli e alle nostre sorelle in Europa, contro quei processi storico-economici che stanno dando al capitale finanziario più valore che alla vita delle persone. Per cambiare questi processi storici – per cambiare la storia – non possiamo pensare di operare su scala nazionale. Non più. Tentare di combattere interessi, processi e dinamiche globali con politiche nazionali, come dice spesso Gioele Magaldi, sarebbe come voler combattere con arco e frecce chi usa missili balistici.Viviamo in un mondo interconnesso e non possiamo far finta di niente. Non possiamo mettere la testa sotto la sabbia e sperare che nessuno ci veda. Piuttosto, dobbiamo organizzare una proposta politica tanto forte e organizzata da poter scardinare le regole neoliberiste che mettono i capitali finanziari sopra il benessere della collettività. Dobbiamo ripristinare il ruolo sovraordinato della politica rispetto l’economia e dobbiamo armarci di strumenti politici che ci consentano di influenzare i processi globali di fronte ai quali le istituzioni nazionali sono oggi impotenti. Per questo abbiamo bisogno di una federazione politica e democratica degli Stati europei. Abbiamo bisogno dei valori, della forza, della credibilità e della spinta innovatrice che solo una federazione di Stati europei può avere; non certo singole nazioni. D’altronde, anche il Regno Unito, tanto ricco e avanzato, oggi si trova in difficoltà per non aver affrontato il vero problema: cambiare l’Europa e usarla nell’interesse del popolo.La Gran Bretagna sembra che uscirà sconfitta in ogni caso: se rimarrà nell’Unione, avallerà questo modello di dis-Unione Europea e dimostrerà che la volontà del popolo non conta, davanti al potere dell’econocrazia neoliberista; se troverà un accordo in stile Norvegia, pagherà, per accedere al mercato unico, più del doppio di quello che pagava prima, senza nemmeno poter partecipare ai processi decisionali delle istituzioni in cui, in qualche modo, prima veniva rappresentata; se uscirà con uno strappo sarà vittima di speculazioni, e il popolo si vedrà strappato quello stato sociale che William Beveridge diede anche al resto d’Europa. Purtroppo, poche persone hanno visto che i burattinai preparavano una storia senza lieto fine, a prescindere dalle decisioni prese lungo il percorso. L’unica via per garantire l’interesse e la sovranità del popolo britannico sarebbe stata quella di scegliere di farsi voce del vento di cambiamento nelle istituzioni europee, e lavorare per una federazione politica degli Stati. Così non è stato per la Gran Bretagna, ma può essere per l’Italia. L’Italia può e deve lottare per la sovranità del popolo europeo.(Marco Moiso, “Per la sovranità dei popoli europei”, dal blog del Movimento Roosevelt del 31 ottobre 2018, movimento di cui Moiso è vicepresidente).In caso di no-deal, la Gran Bretagna potrebbe ritrovarsi di fronte a gravissime scelte di austerity, “dettate” da dinamiche economico-finanziarie globali. Chi ha votato Brexit, sperando di poter riconquistare la porzione di sovranità pro-quota che spetta ad ogni cittadino di una democrazia, potrebbe ritrovarsi a subire le speculazioni, i dogmi e le imposizioni dei mercati internazionali molto più di quanto non facesse prima. Stanno già preparando il terreno per l’attacco allo stato sociale britannico; l’articolo dell’“Evening Standard” uscito il 30 ottobre ne è una prova, e la graduale privatizzazione del sistema sanitario nazionale ne è l’inizio. Tutto questo mi porta a riflettere sulla battaglia che dobbiamo portare avanti in Europa. Questa dis-Unione Europea non va cambiata, va radicalmente, completamente e letteralmente rivoltata sottosopra. Infatti, se questa dis-Unione Europea mette l’economia neoliberista – e i suoi faziosi indicatori economici – sopra la politica, noi dobbiamo creare una federazione di Stati in cui il popolo sia sovrano e in cui la politica determini le scelte monetarie ed economiche, nell’interesse della collettività.
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Perché le agenzie di rating non osano definirci spazzatura?
Com’è noto, il rating assegnato all’Italia dalle principali agenzie di rating (Fitch, Moody’s e Standard & Poor’s) è poco sopra il livello “spazzatura”. Detto più chiaramente, le agenzie che fanno analisi economiche classificano l’Italia tra gli investimenti sicuri, ma – tra questi – siamo ai livelli più bassi, ad un gradino dal definirli come “non sicuri”. Siccome la faccenda continua da anni, e visto che il trend dei declassamenti ci ha costantemente spinto verso il basso, è lecito chiedersi per quale motivo non si è ancora raggiunto il livello spazzatura. Sofismi finanziari? Riparametrazione econometrica con scappellamento a destra? Kulo? Tanto per cominciare smentiamo una bufala economica che gira da tempo online, anche da parte di sedicenti esperti di economia: non è assolutamente vero che se S&P (o un’altra agenzia di rating) declassa l’Italia a spazzatura, allora per statuto i fondi d’investimento, i fondi pensione e la Bce saranno costretti a non comprare più i Btp italiani o addirittura a vendere quelli che hanno in pancia. Ciò è vero se e solo se tutte le quattro principali agenzie ci declassassero a “junk”. Parliamo di S&P, Moody’s, Fitch e la meno nota canadese Dbrs.In questa fase storica, inutile negarlo, può succedere di tutto, ma almeno per questo autunno quasi tutte le agenzie di rating si sono già espresse (ne manca una) al di sopra del livello “junk”. Dunque, chi si ostina a veicolare il downgrade ed il crollo automatico, fa solo terrorismo politico, oppure ci specula short. Poniamo il caso che però questo quadruplice downgrade si verifichi nel 2019… tutti dicono che sarebbe un disastro. Anche in tal caso sarei prudente ad affrettare le ipotesi. Il Portogallo, ad esempio, che si trova in questa situazione, ha i rendimenti a 10 anni che viaggiano da mesi sotto il 2%, pur essendo stato da anni il suo rating tagliato a “Ba1” per Moody’s e “BB+” per S&P. Ciò è stato possibile perchè non ci sono solo i fondi istituzionali che comprano i bonds, ma anche quelli specualtivi. Dunque, è tutto da dimostrare che anche nel caso, assai improbabile, di un quadruplice declassamento, l’Italia non riesca a finanziarsi.La domanda da cui siamo partiti, però, non ha ancora una risposta: perchè le 4 agenzie non lo hanno ancora fatto? Perchè, in vista dei puzzoni sovranisti a marzo, le agenzie non hanno declassato l’Italia a spazzatura nei mesi scorsi, ma si sono sempre tenute sopra “quel tantino”? La risposta sta nei conti di Pimco, Jp Morgan, BlackRock, cioè le società più grosse del mondo in quanto a gestione dei capitali. I colossi americani, infatti, rischiano il fallimento a fronte di un crollo dei Btp e di un default dell’Italia: per la serie “troppo grande per fallire”. Come più volte riportato, infatti, il mondo obbligazionario è tutto legato, e gli investitori non possono permettersi un crollo mondiale del sistema. Per non parlare di alcuni fondi, che hanno comprato direttamente Btp, come Jp Morgan. Domanda ai più intelligenti: e se quella dello sprad e dei downgrade fosse tutta una messinscena per costringere Draghi a prolungare il Qe?(Massimo Bordin, “Perché le agenzie di rating non osano classificarci spazzatura?”, dal blog “Micidial” del 23 ottobre 2018).Com’è noto, il rating assegnato all’Italia dalle principali agenzie di rating (Fitch, Moody’s e Standard & Poor’s) è poco sopra il livello “spazzatura”. Detto più chiaramente, le agenzie che fanno analisi economiche classificano l’Italia tra gli investimenti sicuri, ma – tra questi – siamo ai livelli più bassi, ad un gradino dal definirli come “non sicuri”. Siccome la faccenda continua da anni, e visto che il trend dei declassamenti ci ha costantemente spinto verso il basso, è lecito chiedersi per quale motivo non si è ancora raggiunto il livello spazzatura. Sofismi finanziari? Riparametrazione econometrica con scappellamento a destra? Kulo? Tanto per cominciare smentiamo una bufala economica che gira da tempo online, anche da parte di sedicenti esperti di economia: non è assolutamente vero che se S&P (o un’altra agenzia di rating) declassa l’Italia a spazzatura, allora per statuto i fondi d’investimento, i fondi pensione e la Bce saranno costretti a non comprare più i Btp italiani o addirittura a vendere quelli che hanno in pancia. Ciò è vero se e solo se tutte le quattro principali agenzie ci declassassero a “junk”. Parliamo di S&P, Moody’s, Fitch e la meno nota canadese Dbrs.
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Magaldi: coraggio, e l’Italia non sarà più preda di stranieri
Vietato farsi intimorire dagli spaventapasseri a guardia del bunker europeo, ormai assediato da più parti: un po’ di fegato, e gli ometti del racket finanziario smetteranno di abbaiare. Juncker, Dombrovkis, Moscovici, Oettinger: «I frontman di queste istituzioni europee sono personaggi molto friabili e molto deboli: per fronteggiarli basta avere un po’ di forza, un po’ di dignità e un po’ di schiena diritta». Gioele Magaldi incoraggia il governo Conte: non si lasci intimidire dalle minacce di questi personaggi, peraltro «in scadenza», e per giunta di caratura modesta: «Non è che abbiano grande autorevolezza e prestigio per potersi imporre». Insiste, il presidente del Movimento Roosevelt: «Bisogna rompere il loro paradigma: occorre avere un po’ di coraggio, e poi si scopre, come nella vicenda del Mago di Oz, che la grande magia in realtà è fatta di cartapesta». Soltanto illusionismo, «giocato più sulla paura di chi è soggetto al timore di questa magia che non sulla forza reale di chi, questa magia, la costruisce». Forza e coraggio, dunque, di fronte ai ventilati sfracelli finanziari per il deficit al 2,4%, peraltro già smentiti da Standard & Poor’s, segno di «probabili ripensamenti in corso» nella cabina di regia del potere neoliberista, non più così granitico. «Si tratta di restare sereni e tranquilli», visto che in palio c’è l’Italia: finora, il nostro paese è stato regolarmente depredato, in modo programmatico. Ecco il punto: questo film deve finire.«Bisogna abbandonare lo stile consueto dell’Italia», sottolinea Magaldi nella diretta web-streaming “Magaldi Racconta”, su YouTube, con Fabio Frabetti di “Border Nights”. «L’Italia – dichiara Magaldi – ha ricevuto un ruolo: quello di essere una preda, pur essendo un paese forte e importante sul piano politico ed economico». Una preda: bottino da saccheggiare. Temi e rivelazioni che lo stesso Magaldi, massone progressista, ha concentrato nel bestseller “Massoni” (Chiarelettere), che svela ad esempio il ruolo della P2 di Gelli come terminale locale della potente superloggia sovranazionale “Three Eyes”, espressione della supermassoneria neo-feudale più reazionaria, incubatrice della globalizzazione universale fondata sulle privatizzazioni, sulla confisca dei diritti democratici e sulla precarizzazione del lavoro. L’Italia? Azzoppata dalla strategia della tensione affidata a operatori come Gladio, poi assaltata con la tabula rasa di Tangentopoli che aprì la strada al superpotere eurocratico. Risultato: declino industriale e svendita dei gioielli di famiglia. «La verità è che è stato disegnato per l’Italia un ruolo subalterno. Nessun altro grande paese sarebbe mai stato trattato così, e questo – aggiunge Magaldi – è stato fatto con la complicità delle classi dirigenti, centrodestra e centrosinistra, di questi ultimi decenni».Adesso, ribadisce il presidente del Movimento Roosevelt, «si tratta di cambiare passo». E naturalmente, aggiunge, «i media e tutta la filiera di cortigiani politici e burocratici continuano a muoversi come se l’Italia fosse ancora un’espressione geografica, più che un’entità statuale democratica e repubblicana, dotata di una sua dignità». Ringhia, l’establishment spiazzato dal governo gialloverde: «Tutti quelli che sono abituati a fare i proconsoli di poteri apolidi e predatori masticano amaro, e tutti i giorni propinano a reti unificate questa canzone stonata sull’Italia, sul governo populista e cialtrone che non vuole rispettare i patti. Ma è una menzogna: i patti verso la democrazia e verso la dignità del popolo – scandisce Magaldi – li hanno violati quelli che hanno spacciato questa pessima costruzione europea per il grande sogno di Altiero Spinelli e di altri illustri europeisti, da Victor Hugo a Mazzini e Garibaldi». Loro, gli usurpatori dell’ipotesi-Europa (in realtà mai nata), oggi prendono nota: persino le grandi testate, ovvero «il mondo finanziario che conta», iniziano a fare dei distinguo, sull’Italia. Dicono: ma chi l’ha detto che questa manovra è inaccettabile? Chi l’ha detto che quelle del governo Conte sono le proposte di una “cicala” che vuole mettere in crisi il risparmio, la tenuta dei conti, il futuro delle nuove generazioni?«E’ un segnale importante – rileva Magaldi – il fatto che queste voci inizino a venire da mondi che si sono troppo spesso allineati al coro globale, intonato al contenimento e quindi anche alla devastazione dell’economia italiana». Wall Street non è unanime nel suo giudizio sull’Italia, il governo Usa si mostra indulgente verso Conte, lo stesso Steve Mnuchin (il ministro del Tesoro di Trump) dichiara che la strada del “deficit spending” è la via maestra, intrapresa anche dagli States. Cattive notizie, insomma, per gli euro-tecnocrati che vorrebbero spegnere sul nascere il timido tentativo dei gialloverdi, la loro piccola insubordinazione sul rigore di bilancio. Peccato, aggiunge Magaldi, che Lega e 5 Stelle si limitino al piccolo cabotaggio sul deficit, rinunciando a fare da battistrada – come Italia – nel chiedere una drastica riforma dell’Unione, basata sulla richiesta di una vera Costituzione Europea, finalmente democratica. Non mancano gli ultra-pessimisti, che ritengono irriformabile l’Ue: «Sono frange comunque minoritarie, a livello di consenso: la maggioranza dei cittadini è delusa dal modo in cui l’Unione è gestita, ma certo resta favorevole all’idea di una integrazione europea». E quelli che vorrebbero farla finita, con Bruxelles? «Secondo me sbagliano, magari in buona fede», dice Magaldi: «Senza accorgersene, fanno il gioco degli avversari: gli uni dicono che l’Ue non può cambiare, gli altri sostengono che non deve cambiare. Risultato: ragionando così, niente cambierà».Magaldi propone un altro approccio: «Andiamo oltre la moderazione del governo Conte, in questa fase». Lo dice «agli amici del governo, alla maggioranza gialloverde» che nel futuro prossimo, alle europee e poi in Italia, dovrà affrontare un quadro politico mutevole. «Io dico: facciamo partire dall’Italia una radicale trasformazione del progetto europeo. Cioè: andiamo verso una Costituzione politica, a fondamento dello stare insieme in Europa. E’ un dogma di fede, l’irriformabilità di un’Unione nata male? Sembra speculare al dogma del potere, che oggi ci ripete che non si può cambiare nulla». L’Europa, Magaldi la ritiene «riformabilissima», gettando a mare «lo spirito compromesso con cui è stata costruita questa Ue, economicistica e tecnocratica». Storia: «I padri di questa costruzione post-democratica sono Jean Monnet e Richard Coudenhove-Kalergi. Monnet era un ex massone progressista, Kalergi un uomo ambivalente che prima ancora della Seconda Guerra Mondiale aveva radunato attorno al progetto paneuropeo personalità anche progressiste, non chiarendo però quale fosse la sua idea di Europa». E poi invece, di concerto con Monnet, proprio Kalergi «ideò e diede avvio a un progetto neo-feudale, quasi una sorta di nuovo Sacro Romano Impero».Un dominio pre-democratico, «dove il potere imperiale fosse nelle mani di alcune oligarchie apolidi, coi loro terminali (come vassalli e valvassori) incarnati in burocrati chiamati a occupare posti non elettivi di gestione della governance». E tutto, a partire dalla costituzione della Ceca (la comunità dell’acciaio e del carbone) è stato svolto in modo unilaterare, economicistico. Spinelli e gli europeisti, invece, volevano «qualcosa di armonioso, da costruire insieme ai cittadini, non al di sopra dei cittadini». Una Costituzione da scrivere insieme, «coinvolgendo la popolazione in consultazioni e referendum su ciascuno degli articoli». Di Costituzione Europea si era parlato ma poi non si è fatto nulla: «Ci sono solo dei trattati, in quella che è una posticcia costruzione continentale dove, mai come adesso, le nazioni sono una contro l’altra armate. E’ veramente una gabbia, dis-utile per l’interesse popolare ma utile per gli oligarchi globali». Rinunciare all’Europa e distruggere tutto per tornare alle nazioni? Falso problema, secondo Magadi: «Che sia globale, europea, nazionale, regionale o locale, la governance non cambia se il paradigma che la ispira non è democratico». Un esempio? I nostri Comuni: «Sono strangolati dal Patto di Stabilità, voluto in sede europea ma discendente da una visione neoliberista che pervade tutte le istituzioni politiche e economiche internazionali più importanti».Proprio il Patto di Stabilità «strangola le possibilità di intervento dei Comuni su un livello che è quello locale». In un mondo «ormai globalizzato perché interconnesso», si può scegliere «che tipo di globalizzazione si vuole». Disconettersi? Impossibile: le economie sono collegate, ogni decisione ha ripercussioni ovunque. «Puoi scegliere però come governarle, queste dinamiche: in nome della finanza e dei mercati, dell’interesse dei pochi a scapito dei moltissimi, oppure con un metodo finalmente democratico». Perché preoccuparsi se la governance è europea, italiana, regionale o cittadina? «Preoccupiamoci che a tutti i livelli vi sia una metodologia democratica», ovvero «che vi sia la primazia della politica sull’economia e sulla finanza, e la primazia della sovranità del popolo su qualunque altra forma di sovranità o di potere privato». Quel che conta, chiosa Magaldi, è che comunque il governo gialloverde abbia almeno manifestato la volontà di invertire la rotta suicida e autolesionistica degli ultimi decenni. Un possibile inizio, si spera, per cominciare a imporre la percezione di un’altra Italia, non più terra di conquista e facile preda, grazie alla complicità del vecchio establishment “collaborazionista”, al servizio di potentati economici stranieri.Vietato farsi intimorire dagli spaventapasseri a guardia dell’euro-bunker, ormai assediato da più parti: un po’ di fegato, e gli ometti del racket finanziario smetteranno di abbaiare. Juncker, Dombrovkis, Moscovici, Oettinger: «I frontman di queste istituzioni europee sono personaggi molto friabili e molto deboli: per fronteggiarli basta avere un po’ di forza, un po’ di dignità e un po’ di schiena diritta». Gioele Magaldi incoraggia il governo Conte: non si lasci intimidire dalle minacce di questi personaggi, peraltro «in scadenza», e per giunta di caratura modesta: «Non è che abbiano grande autorevolezza e prestigio per potersi imporre». Insiste, il presidente del Movimento Roosevelt: «Bisogna rompere il loro paradigma: occorre avere un po’ di coraggio, e poi si scopre, come nella vicenda del Mago di Oz, che la grande magia in realtà è fatta di cartapesta». Soltanto illusionismo, «giocato più sulla paura di chi è soggetto al timore di questa magia che non sulla forza reale di chi, questa magia, la costruisce». Forza e coraggio, dunque, di fronte ai ventilati sfracelli finanziari per il deficit al 2,4%, peraltro già smentiti da Standard & Poor’s, segno di «probabili ripensamenti in corso» nella cabina di regia del potere neoliberista, non più così granitico. «Si tratta di restare sereni e tranquilli», visto che in palio c’è l’Italia: finora, il nostro paese è stato regolarmente depredato, in modo programmatico. Ecco il punto: questo film deve finire.
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Carpeoro: S&P, l’America è con l’Italia (cioè contro Draghi)
Il verdetto di Standard & Poor’s è un segnale importante, perché vuol dire che c’è una frattura, all’interno delle Ur-Lodges reazionarie, e che l’America non segue completamente l’Europa e la linea Draghi, di sconfessione del governo italiano, ma furbescamente si posiziona a metà strada: non toglie all’Italia l’etichetta di paese dal rating ancora accettabile, ma in compenso cambia le previsioni, nel senso che ci vede nero (quindi, un colpo al cerchio e uno alla botte). Sta di fatto, però, che gli ambienti finanziari americani non solo completamente allineati a quelli europei, e questo è un segnale da registrare. Un segnale non necessariamente positivo, ma nemmeno negativo come quelli degli ambienti finanziari europei. Ne è consapevole, il nostro governo? Non ci mettono molto, a capirlo, se il loro unico neurone funziona. Poteva andare peggio, dite? No: “doveva” andare peggio, perché il “fratello” Draghi non se l’aspettava, questa botta. La sovragestione non è granitica, quei poteri discutono e litigano, hanno interessi diversi. Poi, l’Italia ha lanciato un messaggio giusto: perché, prima di questo giudizio, Conte è andato da Putin. Era un modo per non far emettere a Standard & Poor’s una sentenza negativa.Un verdetto totalmente negativo avrebbe avuto, come conseguenza, di far salire ulteriormente lo spread, o comunque di non farlo salire quanto sarebbe salito in caso di verdetto negativo. Un aiutino al governo? Per certi aspetti sì, ma è un aiutino basato sulle menzogne. Lo spread stesso è una menzogna. Soprattutto, vorrei contestare ufficialmente, a Draghi, di essere un bugiardo. Se rivelo pubblicamente la sua idenità massonica, è perché lui stesso è venuto meno alle regole della massoneria. Tutti quelli che stanno facendo questa operazione sono dei bigiardi: lo spread non può incidere sui risparmi degli italiani, che sono in euro, e l’euro non si è mai svalutato in vita sua. Quindi la smettano, di mentire. Quella sullo spread è una manipolazione, anche mediatica. Con Berlusconi gli era pure andata bene. Allora la cosiddetta opinione pubblica si allarmò molto. Questa volta lo spauracchio dello spread farà presa quasi solo nell’elettorato del Pd? Be’, le iniziative giudiziarie allora intraprese nei confronti di Berlusconi mi sembrano di entità ben diversa, rispetto a quelle nei confronti di Conte, Salvini e Di Maio. All’epoca avevano creato il terreno, per la capitolazione.Dove porterà l’asse con Putin? Innanzitutto, Putin si è prestato ad aiutarci lanciando il segnale. Poi, vedremo dove questo potrà portare. Standard & Poor’s è un organo occulto del governo americano. E’ un organo di governo, non un’entità indipendente come si vorrebbe far credere: ha sempre fatto quello che conviene al governo statunitense. Attraverso S&P, è come se il governo americano dicesse: attenzione, l’Italia appartiene alla Nato, quindi non possiamo permettere che l’emergenza induca gli italiani a stringere legami forti con i russi, quindi vediamo di fare qualcosa che non crei all’Italia una situazione straordinariamente difficile, costringendola poi a dichiararsi alleata di Putin in tutto e per tutto. Trump e Putin? Hanno interessi comuni e interessi opposti. I loro rapporti sono molto controversi. Putin ha avuto interesse che Trump venisse eletto, anche perché Trump ha fatto un dispetto a tutti i partiti americani: era odiato dagli stessi conservatori, di cui pure fa parte. Dopodiché, candidandosi, Trump aveva fatto un accordo sulla base della previsione di non essere eletto (non di esserlo: non se l’aspettava neanche lui, l’elezione). Poi lo scenario è cambiato, e adesso Trump deve difendersi anche da un’accusa di connivenza con i russi sulla sua elezione, quindi Trump e Putin devono anche mostrarsi ostili – ma la loro non è un’ostilità profondissima.Se lo stesso spread può essere considerato un’applicazione della sovragestione, un altro caso di sovragestione è quello della Banca Centrale Europea – che non è un organo politico né un organo democratico, eppure governa l’Europa. Sempre a proposito di sovragestione: vi chiedete che fine ha fatto l’Isis? E’ dormiente, prima o poi si sveglierà. Certo, ieri l’Isis è stato usato per finalità oscure, di potere, e oggi non sta avvenendo. L’Isis resta uno strumento: e la sovragestione non lo usa, uno strumento, quando non le serve. Sarebbe “utile”, da parte di qualcuno, rispolverare lo strumento degli attentati terroristici, magari per colpire l’Italia anche da quel lato? Secondo me, no: perché oggi il pericolo, per l’establishment, sono i partiti cosiddetti sovranisti, ed eventuali attentati targati Isis li aiuterebbero. Piuttosto, consiglio al governo di non toccare i servizi segreti. Ho sentito parlare di rimozioni e sostituzioni, ma sarebbero un errore. Da anni, i servizi italiani sono leali verso lo Stato e straordinariamente efficienti: ci hanno risparmiato decine di attentati, lavorando per la nostra sicurezza quotidiana.(Gianfranco Carpeoro, dichiarazioni rilasciate nel corso della conversazione con Fabio Frabetti di “Border Nights” durante la diretta in web-streaming “Carpeoro Racconta”, il 27 ottobre 2018 su YouTube).Il verdetto di Standard & Poor’s è un segnale importante, perché vuol dire che c’è una frattura, all’interno delle Ur-Lodges reazionarie, e che l’America non segue completamente l’Europa e la linea Draghi, di sconfessione del governo italiano, ma furbescamente si posiziona a metà strada: non toglie all’Italia l’etichetta di paese dal rating ancora accettabile, ma in compenso cambia le previsioni, nel senso che ci vede nero (quindi, un colpo al cerchio e uno alla botte). Sta di fatto, però, che gli ambienti finanziari americani non solo completamente allineati a quelli europei, e questo è un segnale da registrare. Un segnale non necessariamente positivo, ma nemmeno negativo come quelli degli ambienti finanziari europei. Ne è consapevole, il nostro governo? Non ci mettono molto, a capirlo, se il loro unico neurone funziona. Poteva andare peggio, dite? No: “doveva” andare peggio, perché il “fratello” Draghi non se l’aspettava, questa botta. La sovragestione non è granitica, quei poteri discutono e litigano, hanno interessi diversi. Poi, l’Italia ha lanciato un messaggio giusto: perché, prima di questo giudizio, Conte è andato da Putin. Era un modo per non far emettere a Standard & Poor’s una sentenza negativa.
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Salvini-mania, come conquistare l’Italia con quattro tweet
Ci sarebbe molto da dire sulle immense migrazioni umane dei nostri tempi: la prima è che sono solo sotto un sottoflusso del vorticoso Flusso Globale. I salmoni abituati per milioni di anni a fare il giretto da vivi di un angolino del Pacifico, da morti invece vanno dall’Alaska in Cina e tornano negli Stati Uniti, mentre il CO2 che le navi dispensano per fare questo giro finiscono (semplifico) per riscaldare il clima da noi e bruciare i nostri boschi. Qualunque discorso sulle migrazioni deve partire da qui, o è una perdita di tempo. Ma resto affascinato dalla maniera in cui Salvini è riuscito a trasformare la questione in un meccanismo da cui lui personalmente può solo uscire vincente. Un piccolo racconto immaginario. Facciamo conto che un giorno, un ghanese uccida una ragazza italiana. Nello stesso giorno, due mariti italiani hanno ammazzato le proprie mogli, ma poco importa. Salvini fa subito un tweet, “buttiamo fuori gli stranieri che uccidono!”. Ora, noi sappiamo tutti che nel Grande Cimitero dei Tweet, miliardi e miliardi di chiacchiere inutili dormono ignorate, come è giusto. Invece, a stretto giro di clic, arriva un’ondata di protesta per il tweet di Salvini. In un crescendo che funziona più o meno così: “Salvini dice ‘buttiamo fuori gli stranieri!’”. “Il ministro degli interni sta buttando fuori gli stranieri!”. “Salvini ha buttato fuori gli stranieri dall’Italia!”.Innanzitutto, la questione delle Migrazioni (che come dicevo è solo un sottoflusso, per quanto importante) diventa la questione centrale del paese, esattamente come voleva Salvini. Posto in questi termini, l’esito dello scontro è inevitabile. La maggior parte dei ghanesi si schiererà da una parte, la maggior parte degli italiani dall’altra, con la piccola precisazione che i ghanesi in Italia non votano. Ma soprattutto, succederà un’altra cosa. In Italia, tutti pensano che i politici siano fanfaroni. Li votiamo per fare i miracoli, poi non combinano niente e ci arrabbiamo. Pensate al mago Renzi, che ancora gli ridono dietro. Ma con Salvini, è diverso. Poniamo che io abbia votato per Salvini perché mi sta antipatico il gruppetto di quattro spacciatori tunisini dal coltello facile che bighellona in piazza (e non conosco i cento tunisini che fanno i muratori e tornano stanchi morti la sera). Incredibile… leggo che Salvini è riusciti a buttare fuori gli stranieri, e non lo dice lui: lo dicono persino i suoi avversari! All’inizio diffidavo, ma adesso ci credo sul serio! Cercavo i fatti concreti e li ho avuti. Il giorno dopo, gli spacciatori tunisini stanno sempre lì, ma questo non lo fa notare nessuno, anche se per smontare Salvini e mandarlo a casa, sarebbe bastato dire, “il cretino fa il duro alla tastiera, ma gli spacciatori stanno sempre lì!”.Questo non lo dice nessuno, perché quelli che se la prendono con Salvini, hanno bisogno di avere paura di lui. Se non esistono i draghi, che gusto c’è a salvare le vergini e sentirsi San Giorgio? Tutta la retorica della parte avversa è drammatica, “mai sottovalutare, il mostro può risvegliarsi in ogni momento, siamo nell’agosto del 1939!”. Quindi l’ipotesi che Salvini sia un fanfarone, non è nemmeno contemplabile. Mentre Salvini Fa i Fatti (con tanto di certificazione avversaria), i suoi nemici si crogiolano in un brodo emotivo, che da una parte è fatto di buoni sentimenti (buoni davvero, non è ironia), dall’altra di rabbia incontrollata. E i Fatti vincono facilmente sulle Emozioni. Anche quando non esistono, ma tutt’e due le parti concordano che sono reali. Ora, qualcuno potrebbe anche sottrarsi a questo gioco, ricordando che esistono questioni molto più importanti (come il fatto che tra poco dovremo stare tutti con l’aria condizionata accesa a dicembre, solo che non essendoci più il lavoro, non avremo come pagarcela). Ma anche se lo fa, ci sarà sempre un numero sufficiente di gente che ci cascherà e manterrà in vita il meccanismo. Come conquistare l’Italia con quattro tweet.(Miguel Martinez, “Salvini, Salvini e ancora Salvini!”, da “Kelebek Blog” del 15 ottobre 2018).Ci sarebbe molto da dire sulle immense migrazioni umane dei nostri tempi: la prima è che sono solo sotto un sottoflusso del vorticoso Flusso Globale. I salmoni abituati per milioni di anni a fare il giretto da vivi di un angolino del Pacifico, da morti invece vanno dall’Alaska in Cina e tornano negli Stati Uniti, mentre il CO2 che le navi dispensano per fare questo giro finiscono (semplifico) per riscaldare il clima da noi e bruciare i nostri boschi. Qualunque discorso sulle migrazioni deve partire da qui, o è una perdita di tempo. Ma resto affascinato dalla maniera in cui Salvini è riuscito a trasformare la questione in un meccanismo da cui lui personalmente può solo uscire vincente. Un piccolo racconto immaginario. Facciamo conto che un giorno, un ghanese uccida una ragazza italiana. Nello stesso giorno, due mariti italiani hanno ammazzato le proprie mogli, ma poco importa. Salvini fa subito un tweet, “buttiamo fuori gli stranieri che uccidono!”. Ora, noi sappiamo tutti che nel Grande Cimitero dei Tweet, miliardi e miliardi di chiacchiere inutili dormono ignorate, come è giusto. Invece, a stretto giro di clic, arriva un’ondata di protesta per il tweet di Salvini. In un crescendo che funziona più o meno così: “Salvini dice ‘buttiamo fuori gli stranieri!’”. “Il ministro degli interni sta buttando fuori gli stranieri!”. “Salvini ha buttato fuori gli stranieri dall’Italia!”.
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Moody’s, conflitto d’interessi: è ora di portarli in tribunale
Gli italiani dovevano arrivare sull’orlo del baratro, annusare l’aspro odore di tragico default e immaginare poveri i propri figli per rendersi conto della colossale truffa internazionale che è stata (e continua ad essere) perpetrata da trent’anni ai danni dell’Italia dal capitalismo finanziario globale? Evidentemente sì, sostiene Glauco Benigni su “Megachip”, segnalando che Moody’s declassa il governo Italiano – da Baa2 a Baa3 – nel suo ruolo di emettitore di moneta e titoli di Stato, perché nel suo programma il deficit ipotizzato per il 2019 è troppo alto e le riforme fiscali non sono adeguate a garantire la crescita nel medio termine. In sostanza: attenti italiani, perché l’eventuale prossimo declassamento vi identifica come nazione non affidabile, impedirà la compravendita dei vostri titoli di Stato e aprirà la porta al commissariamento (la Grecia docet). Da notare che Moody’s si arroga il diritto di valutare l’Italia solo conto di un terzo dei creditori (non gli stranieri), esprimendo però un’opinione a beneficio di tutti. Sul “Sole 24 Ore”, Morya Longo si domanda: «Perché mai il destino dell’Italia deve essere determinato da valutatori che in passato non hanno sempre azzeccato le previsioni?». Piaccia o non piaccia, aggiunge Longo, questa è la realtà: il motivo per cui tutti gli occhi sono puntati su Moody’s e Standard & Poor’s è perché l’Italia rischia, prima o poi, di essere declassata a “junk”, spazzatura.Attenzione, obietta Benigni: chi, come, dove, quando e perché ha conferito alle agenzie di rating questa facoltà di esprimere valutazioni che poi, “piaccia o non piaccia”, diventano il parametro per stabilire l’affidabilità nei confronti del mercato obbligazionario? La risposta è semplice e triste: «Le agenzie di rating sono possedute dagli stessi soggetti che compongono, rappresentano e gestiscono di fatto il mercato azionario e obbligazionario. Corporation finanziarie pubbliche e private, istituti di credito strategico, banche, assicurazioni, fondi. Tutte istituzioni quotate nelle maggiori Borse del pianeta. Sono dunque loro i padroni dei “valutatori”. E sono dunque sempre loro i “compratori” dei titoli di Stato: sono loro, esclusivamente loro, che “fanno il prezzo” (in questo caso, di intere nazioni) in deroga a qualsiasi legge sul confronto tra domanda e offerta, che – sempre secondo loro – regolerebbe i mercati». Per Glauco Benigni «siamo dentro un labirinto, le cui chiavi sono detenute da strozzini privi di alcuna etica». A indossare per primo l’Elmo di Scipio, aggiunge Genigni, è stato il Codacons, presieduto da Carlo Rienzi, che ha presentato un esposto alla Procura di Roma in cui si può leggere: «Il declassamento si configura come un atto privato volto ad influenzare il mercato e la Commissione Ue». Vero, è proprio così.«A destare sospetto – continua il Codacons – è proprio la tempistica seguita da Moody’s, che ha proceduto al declassamento pochi giorni prima della decisione Ue, valutando quindi una manovra non formalmente definitiva». Il declassamento «interferisce in un procedimento amministrativo che ha fasi ben precise, le quali non appaiono ancora concluse». Ma c’è di più, secondo il Codacons: «In caso di apertura di un procedimento da parte della Procura, l’associazione potrà avviare un’azione collettiva a tutela dei risparmiatori e dei cittadini italiani palesemente danneggiati da un atto arbitrario assunto con una tempistica del tutto sbagliata e lesiva degli interessi del paese». Secondo Benigni, questa è l’occasione buona per aprire almeno un tavolo di trattative, con le agenzie di rating, avendo dalla nostra parte organizzazioni come Adiconsum e Adoc, Adusbef, Altroconsumo, Assoutenti, Cittadinanzattiva, Federazione Confconsumatori – Acp. E poi Federconsumatori, Movimento Consumatori, Unione Nazionale Consumatori e ogni altra rappresentanza della società civile. Obiettivo: sostenere e aderire alla presentazione dell’esposto, con l’aggiunta di «individui, parrocchie, partiti e comitati di quartiere».Stavolta, sostiene Benigni, deve muoversi l’Italia intera, «altrimenti gli italiani annegheranno nell’ignavia, nella pigrizia, nell’indolenza, nella viltà». In altre parole: «Siamo al Tumulto dei Ciompi, siamo chiamati ad una manifestazione imponente in difesa di ogni brandello di sovranità che ancora non abbiamo già ceduto». Tanto più, che se appena vediamo con chi abbiamo a fare, in questo caso, scopriamo subito che «si tratta di quel famigerato 1% che affama il rimanente 99% della popolazione». Moody’s Corporation? «E’ una società privata con sede a New York che esegue ricerche finanziarie e analisi sulle attività di imprese commerciali e statali». È stata più volte indagata da diverse autorità finanziarie (soprattutto Usa e di Hong Kong) per reati quali aggiotaggio, insider trading, circolazione di report non chiari, inadeguato controllo interno: «Insomma, azioni o omissioni fondate sul crescere o diminuire del costo dei pubblici valori o sul prezzo di certe merci, operate valendosi di informazioni riservate o divulgando notizie inconsistenti, allo scopo di avvantaggiare o far avvantaggiare altri a danno dei risparmiatori o dei consumatori».A Hong Kong, nel 2016: la Sfat ha multato Moody’s per 11 milioni di dollari. L’anno seguente, negli Usa, la società ha subito una multa da 864 milioni di dollari per aver gonfiato il rating dei mutui ipotecari. E lo scorso agosto, sempre negli Stati Uniti, la Sec ha inflitto a Moody’s una doppia sanzione, per un totale di oltre 17 milioni di dollari. «Insieme a Standard & Poor’s, Moody’s finì sotto inchiesta per l’accusa di aver manipolato il mercato con dati falsi sui titoli tossici», ricorda Benigni. «Il magistrato indagava, per aggiotaggio e “market abuse”, Ross Abercromby, l’analista di Moody’s che firmò il report diffuso il 6 maggio del 2010, a mercati aperti, in cui si affermava che il sistema bancario italiano, in seguito al tracollo della Grecia, era tra quelli a rischio. La diffusione del report, che la Procura riteneva basato su “giudizi infondati e imprudenti” provocò il crollo del mercato dei titoli italiani». Il pm e la Guardia di Finanza contestavano alle agenzie di rating anche l’aggravante di «aver cagionato alla Repubblica Italiana un danno patrimoniale di rilevantissima gravità».Sal canto suo, l’Esma (European Securities and Markets Authority, autorità paneuropea di vigilanza sui mercati) il 2 luglio 2012 ha avviato un’indagine sulle procedure seguite dalle tre principali agenzie di rating nella loro valutazione della solidità patrimoniale delle banche. Il presidente dell’Esma, Steven Maijoor, dopo i «downgrade di massa», ha sollevato il dubbio che vi siano «sufficienti risorse analitiche» presso le tre agenzie. A Moody’s si rimprovera anche di aver attribuito un rating di massima affidabilità (la cosiddetta tripla A) alla banca Lehman Brothers, fino a alla vigilia della bancarotta, sebbene l’amministratore dell’istituto, Richard Fuld, avesse esibito da tempo dei bilanci falsi e quantunque si sapesse che negli ultimi dieci anni aveva versato 300.000 dollari a deputati e senatori del Congresso statunitense al fine di corromperli. Per non parlare di tutti gli altri procedimenti che pendono o si sono conclusi a volte con condanne pesanti. E l’Italia, “piaccia o non piaccia”, dovrebbe essere valutata da costoro? Per le attività che analizza, continua Benigni, Moody’s realizza il rating che porta il suo nome: si tratta di un indice che misura la capacità di restituire i crediti ricevuti in base a una scala standardizzata e suddivisa tra debiti contratti a medio e a lungo termine. Insieme a Standard & Poor’s, Moody’s è una delle due maggiori agenzie di rating al mondo. Dal 19 giugno 1998 è quotata al New York Stock Exchange.Il primo azionista di Moody’s, con una quota maggioritaria del capitale, risulta Warren Buffett, con la holding Berkshire Hathaway (24 milioni di azioni). Successivamente, compaiono in ordine (dal sito del New York Stock Exchange): Vanguard (16,8 milioni di azioni), BlackRock (11 milioni), StateStreet (7) e Baillie Gifford (6 milioni). Alcuni critici, si legge su Wikipedia, hanno evidenziato come Moody’s – alla pari di altre agenzie – sia «remunerata dalle stesse società su cui è chiamata a esprimere giudizi di redimibilità». Inoltre, «i suoi stessi azionisti principali (banche, gruppi finanziari, fondi privati), si servono dei suoi rating per acquistare prodotti finanziari sul mercato finanziario, evidenziando una situazione di conflitto di interesse». A causa dei ripetuti e clamorosi errori di valutazione, evidenti dagli anni Novanta, le Borse in vari casi hanno mostrato di ignorare il “downgrade” di Moody’s. Lo stesso Mario Draghi, presidente della Bce, il 24 gennaio 2011 ha detto al pm di Trani: «Bisogna fare a meno delle agenzie di rating: sono altamente carenti e discreditate».Glauco Benigni fa notare che ben 11 milioni di azioni dell’agenzia Moody’s sono gestite da BlackRock, la più grande società di investimento nel mondo. Con sede a New York, Blackrock vanta un patrimonio totale di oltre 6.000 miliardi di dollari – quasi quattro volte il Pil italiano – di cui un terzo collocato in Europa. Cosa gestisce BlackRock in Italia? Dispone di pacchetti azionari tra il 5 e il 6% in Banco Popolare, Unicredit, RaiWay, Banca Popolare Milano, Azimut, Intesa SanPaolo, Atlantia e Telecom Italia, più pacchetti di circa il 3% di Fiat e Generali. «Qualche analista la considera la maggiore potenza finanziaria straniera in Italia», sottolinea Benigni. La giornalista Heike Buchter, autrice di un saggio su BlackRock pubblicato nel 2015, conclude così una sua ricerca su “Handelsblatt”: «Nessun governo, nessuna autorità ha una visione così completa e profonda del mondo finanziario e aziendale globale come BlackRock». Dunque, che farà BlackRock a Piazza Affari dopo il declassamento? E cosa aspettiamo, ribadisce Benigni, a potare Moody’s in tribunale?Gli italiani dovevano arrivare sull’orlo del baratro, annusare l’aspro odore di tragico default e immaginare poveri i propri figli per rendersi conto della colossale truffa internazionale che è stata (e continua ad essere) perpetrata da trent’anni ai danni dell’Italia dal capitalismo finanziario globale? Evidentemente sì, sostiene Glauco Benigni su “Megachip”, segnalando che Moody’s declassa il governo Italiano – da Baa2 a Baa3 – nel suo ruolo di emettitore di moneta e titoli di Stato, perché nel suo programma il deficit ipotizzato per il 2019 è troppo alto e le riforme fiscali non sono adeguate a garantire la crescita nel medio termine. In sostanza: attenti italiani, perché l’eventuale prossimo declassamento vi identifica come nazione non affidabile, impedirà la compravendita dei vostri titoli di Stato e aprirà la porta al commissariamento (la Grecia docet). Da notare che Moody’s si arroga il diritto di valutare l’Italia solo conto di un terzo dei creditori (non gli stranieri), esprimendo però un’opinione a beneficio di tutti. Sul “Sole 24 Ore”, Morya Longo si domanda: «Perché mai il destino dell’Italia deve essere determinato da valutatori che in passato non hanno sempre azzeccato le previsioni?». Piaccia o non piaccia, aggiunge Longo, questa è la realtà: il motivo per cui tutti gli occhi sono puntati su Moody’s e Standard & Poor’s è perché l’Italia rischia, prima o poi, di essere declassata a “junk”, spazzatura.
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Il Corsera: solo lo spread è reale, il popolo è un’invenzione
Il “Corriere della Sera”, in un editoriale di Angelo Panebianco, è arrivato a sostenere che lo spread è reale, mentre il popolo è un’astrazione, non esiste, se non nella propaganda sovranista. Panebianco rispondeva a una semplificazione demagogica, ma la conclusione a cui portava era questa: il popolo è un’invenzione dei populisti; lo spread, invece, è vero e vivo nel regno della finanza, quindi esiste quasi in natura… Ecco come capovolgere la realtà che ci dice esattamente l’inverso: le difficoltà della gente, il carovita, i disagi popolari, la forte pressione fiscale, la mortificazione delle sovranità popolari e nazionali sono cose reali e realmente vissute, mentre quel coefficiente finanziario è un’entità fittizia, che appare e scompare a comando, usata per colpire i governi sgraditi e non allineati. Tutti i precedenti governi avevano indebitato il paese e sforato i limiti ma solo ad alcuni suona il campanello d’allarme dello spread. Arrivo a dire che lo spread diventa reale, acquista vita, quando si abbatte su un’entità vera, fatta di carne e sangue, che è il popolo.Ma per i cosiddetti giornaloni, compreso un autorevole e solitamente realista politologo come Panebianco, il popolo è una diceria dei populisti, una vanteria dei sovranisti. In ogni caso la vita reale dei popoli è subordinata all’assetto contabile della finanza. Anzi, è considerata retorica fascista evocare il popolo, è un’entità fittizia. Invece l’umanità, la donna, le classi, i gender, i migranti sono reali?… Anche l’Italia è per loro un’astrazione, una truffa retorica e fascistoide; invece l’Europa, la modernità, il progresso, no, perdio, quelle sono Verità Assolute e Incontestabili. Ora a noi la manovra economica che si va profilando non piace, almeno sul versante grillino, e in alcuni tratti – dal reddito di cittadinanza alle pensioni – ci appare veramente odiosa e immorale, quasi un incubo da cui vorremmo svegliarci.Ma un conto è diffidare di chi parla in nome di entità generali, di chi non considera le differenze in seno al “popolo”, di chi fa demagogia egualitaria o di chi crede all’utopia pericolosa dell’autogoverno del popolo; un altro è ritenere che ogni universale, ogni entità generale sia fittizia, mentre la finanza sia la vita autentica. Addio democrazia, politica, città, nazioni allora e addio pensiero, scienza e fede: sono tutte astrazioni universali, di vero c’è solo il debito o il differenziale coi bund tedeschi… Il popolo non esiste mentre lo spread si, perché così hanno stabilito le oligarchie tecno-finanziarie. E il popolo deve pagare anche se non esiste… Ma paga come singolo contribuente. Siamo alla mistificazione assoluta e alla prevaricazione senza appello. Come quando si dice che le nazioni non esistono più da quando c’è l’Unione Europea, salvo poi accollare all’Italia il peso degli sbarchi… Poi vi meravigliate se crescono i populisti.(Mercello Veneziani, “Lo spread esiste, il popolo no”, da “Il Tempo” del 17 ottobre 2018, articolo ripreso sul blog di Veneziani).Il “Corriere della Sera”, in un editoriale di Angelo Panebianco, è arrivato a sostenere che lo spread è reale, mentre il popolo è un’astrazione, non esiste, se non nella propaganda sovranista. Panebianco rispondeva a una semplificazione demagogica, ma la conclusione a cui portava era questa: il popolo è un’invenzione dei populisti; lo spread, invece, è vero e vivo nel regno della finanza, quindi esiste quasi in natura… Ecco come capovolgere la realtà che ci dice esattamente l’inverso: le difficoltà della gente, il carovita, i disagi popolari, la forte pressione fiscale, la mortificazione delle sovranità popolari e nazionali sono cose reali e realmente vissute, mentre quel coefficiente finanziario è un’entità fittizia, che appare e scompare a comando, usata per colpire i governi sgraditi e non allineati. Tutti i precedenti governi avevano indebitato il paese e sforato i limiti ma solo ad alcuni suona il campanello d’allarme dello spread. Arrivo a dire che lo spread diventa reale, acquista vita, quando si abbatte su un’entità vera, fatta di carne e sangue, che è il popolo.