Archivio della Categoria: ‘idee’
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Quegli 80 euro, il prezzo della paura che hanno di noi
L’importante, per decidere il nostro futuro, è che tutti sappiano come ci si è arrivati e perché, a questi 80 euro. Ci si è arrivati cioè come misura emergenziale a fronte di una situazione sociale che incuteva, ormai, vero terrore nelle classi dirigenti economiche, finanziarie e mediatiche di questo paese. Vale a dire che dopo trent’anni di lotta di classe dall’alto verso il basso e di aumento della forbice sociale, dopo cinque anni di austerità, precarizzazione e disoccupazione, ci si è accorti di avere un po’ esagerato. E che, esagerando, si rischia di far crollare tutto. Di far cadere a pezzi tutto il sistema. Alle urne o fuori dalle urne. In modi imprevedibili ma comunque paurosi.E allora, da sempre, si fa così: dare qualcosa – non molto, ma qualcosa – per vedere cosa succede. Se basta a calmare le acque. Se fra un anno questa donazione si può togliere o ridurre. O se, al contrario, le tensioni saranno tali da doverla aumentare o estendere ad altri. È così, da sempre. E «il potere vestito d’umana sembianza che volge lo sguardo a spiar le intenzioni degli umili, degli straccioni». Quindi, di nuovo, fanno schifo questi 80 euro, fa ridere il fatto che il governo abbia rinunciato (ad esempio) a un solo F35 per finanziare questa dazione? No, non fanno schifo – e non fa ridere la rinuncia a un solo aereo, perché un F35 in meno è meglio di un F35 in più.Basta sapere che accontentarsene e appagarsene – anziché esigerne altri 800, altri 8.000 da parte di chi ha meno – cambierà di nuovo la tendenza, farà ripartire la lotta di classe dall’alto verso il basso, riallargherà la mostruosa forbice sociale che si è creata da tempo: e lo farà molto oltre questi 80, benedetti, euro che dal mese prossimo arriveranno in tasca a una fetta di italiani.(Alessandro Giglioli, “A spiar le intenzioni”, 20 aprile 2014, dal blog “Piovono Rane” che Gilioli cura su “L’Espresso”).L’importante, per decidere il nostro futuro, è che tutti sappiano come ci si è arrivati e perché, a questi 80 euro. Ci si è arrivati cioè come misura emergenziale a fronte di una situazione sociale che incuteva, ormai, vero terrore nelle classi dirigenti economiche, finanziarie e mediatiche di questo paese. Vale a dire che dopo trent’anni di lotta di classe dall’alto verso il basso e di aumento della forbice sociale, dopo cinque anni di austerità, precarizzazione e disoccupazione, ci si è accorti di avere un po’ esagerato. E che, esagerando, si rischia di far crollare tutto. Di far cadere a pezzi tutto il sistema. Alle urne o fuori dalle urne. In modi imprevedibili ma comunque paurosi.
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Hopkins: filiera corta, la nostra rivoluzione fa miracoli
Se la crescita globale e globalizzata andava bene per il ventesimo secolo, quando c’erano combustibili fossili a basso prezzo, ora non è più fattibile. Bisogna utilizzare la resilienza e far sì che siano le persone normali a fare accadere il cambiamento. Io viaggio per tutto il mondo e vedo che queste cose stanno accadendo. I governi possono fare delle cose, le aziende e le imprese possono farne altre, ma per superare la crisi ci vuole la gente normale, che rappresenta la grande riserva di risorse, di energia, non sfruttata. Io sono uno dei fondatori del movimento “Transition Town, Transition Network”. Uno dei progetti che abbiamo in atto è proprio la Transition Town, la Totnes. “Transition” è un processo bottom up, parte dal basso verso l’alto per rendere la comunità locale resiliente. Non è un movimento politico, non è una cosa di destra odi sinistra, non è verde, non è contro la crescita né a favore della crescita, ma mira semplicemente a coinvolgere tutte le persone, la popolazione locale, nel creare questa forma di resilienza come forma di sviluppo economico.Come forma di sviluppo abbiamo la creazione di società energetiche, di piccole società agricole, l’agricoltura urbana, il tentativo di rivitalizzare a livello locale le comunità, dare supporto a agli imprenditori locali. Nella città di Bristol, una delle Transition Town, c’è la valuta locale, hanno fatto la Sterlina di Bristol con il supporto dell’amministrazione comunale. Uno dei progetti realizzato recentemente da Transition Network è “The New Economy in Twenty Enterprises”, la nuova economia in venti imprese. Abbiamo mappato tutto il territorio del Regno Unito e scelto venti imprese rappresentative dell’economia di transizione, che potevano essere replicate ovunque, non dipendenti perciò da una particolare situazione geografica o altro. Abbiamo scelto una banca della comunità, la comunità che aveva la propria valuta, piuttosto che il proprio sistema di trasporti, gestito dalla comunità, l’agricoltura, le aziende agricole della comunità, fonti energetiche.Alcune di queste iniziative nascono e si sviluppano in modo del tutto spontaneo; la differenza che fa “Transition” è creare un collegamento tra tutte queste cose. Infatti dalla natura, dall’ecologia, abbiamo imparato che la cosa potente è il collegamento tra i vari elementi, che vanno così a formare un sistema. “Transition” fa questo: tesse il tessuto che collega l’economia locale, consentendo a queste iniziative di parlare le une con le altre facendo sì che la resilienza della comunità diventi una forma di sviluppo economico.“Transition” è nata nel Regno Unito nel 2005 e da allora si è diffusa in tutto il mondo: siamo presenti in 44 paesi e ci sono migliaia di iniziative “Transition” in tutto il mondo. E’ è un movimento che si auto-organizza, nel senso che noi non siamo come un franchising della Coca Cola, che è sempre uguale ovunque esso si trovi, il nostro modello è diverso a seconda di dove nasce.C’è un movimento “Transition”, un’organizzazione, un Network Transition anche in Italia, che è stato uno dei primi posti a replicarlo, con grande successo, nel paese di Monte Veglio, in provincia di Bologna. C’è questa storia molto positiva, dove l’amministrazione locale ha promulgato una risoluzione per rendere il paese più resiliente, quindi esiste “Transition Italy”, Ci sono a disposizione possibilità di training, di collaborare a dei progetti. C’è una rete molto attiva, molto vitale, in Italia, cui ci si può collegare se si è interessati a “Transition”. Spesso pensiamo che il cambiamento possa accadere soltanto attraverso le proteste, i picchetti con i cartelli, le dimostrazioni, e sottovalutiamo quello che è il potere di ritirare il nostro supporto a ciò che non ci piace. C’è un movimento negli Stati Uniti che si chiama Divest, cioè “disinvestite”, che invita e incoraggia a disinvestire dal combustibile fossile per investire invece nelle rinnovabili.Si può disinvestire in un modo molto semplice, cioè con la spesa che facciamo ogni giorno: invece di fare delle scelte di acquisto che vanno a privilegiare l’economia “corporate”, quella delle grandi aziende, si scelgono prodotti che stimolano la resilienza locale, una economia locale, più inclusiva. Ogni giorno possiamo scegliere dove depositare i nostri risparmi, se dare supporto alle aziende locali o meno. Ho letto, per esempio, che negli Stati Uniti, prima che scoppiasse la guerra con l’Iraq, l’amministrazione Bush aveva previsto le dimostrazioni, ma era anche altrettanto sicuro che quella protesta non si sarebbe tradotta in cambiamento di modello del consumo – infatti le persone non hanno smesso di comprare benzina. Quindi il sistema è concepito proprio per lasciar sfogo a questo rumore, a queste dimostrazioni, perché tanto questo non corrisponde a un cambiamento delle azioni delle persone. Oggi, dare supporto all’economia locale rappresenta una delle scelte più radicali che si possano fare.(Rob Hopkins, “La transizione verso le economie locali”, sintesi del video-intervento di Hopkins sul blog di Beppe Grillo del 24 marzo 2014).http://www.beppegrillo.it/2014/03/passaparola_-la_transizione_verso_le_economie_locali_-_rob_hopkins.htmlSe la crescita globale e globalizzata andava bene per il ventesimo secolo, quando c’erano combustibili fossili a basso prezzo, ora non è più fattibile. Bisogna utilizzare la resilienza e far sì che siano le persone normali a fare accadere il cambiamento. Io viaggio per tutto il mondo e vedo che queste cose stanno accadendo. I governi possono fare delle cose, le aziende e le imprese possono farne altre, ma per superare la crisi ci vuole la gente normale, che rappresenta la grande riserva di risorse, di energia, non sfruttata. Io sono uno dei fondatori del movimento “Transition Town, Transition Network”. Uno dei progetti che abbiamo in atto è proprio la Transition Town, la Totnes. “Transition” è un processo bottom up, parte dal basso verso l’alto per rendere la comunità locale resiliente. Non è un movimento politico, non è una cosa di destra odi sinistra, non è verde, non è contro la crescita né a favore della crescita, ma mira semplicemente a coinvolgere tutte le persone, la popolazione locale, nel creare questa forma di resilienza come forma di sviluppo economico.
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Polizia violenta? L’Italia può ringraziare i suoi politici
«Quel poliziotto è un cretino, va punito», dice il capo della polizia, Alessandro Pansa, commentando l’immagine dell’agente in borghese che calpesta una ragazza a terra, alla manifestazione dei movimenti per la casa il 12 aprile a Roma. «E’ terribile, gli agenti non possono picchiare così», rincara la dose Filippo Bubbico, viceministro dell’interno. Altri invece difendono gli agenti: impossibile criminalizzare poliziotti bersagliati dal lancio di bottiglie e bulloni, biglie e sampietrini. «Non sono contro la polizia, ne ho solo paura». Parola di Alfred Hitchcock. «E se lo diceva lui, riconosciuto maestro del brivido, qualcosa vorrà pur dire», scrive Rossella Guadagnini. «Possiamo fidarci della polizia e di quella italiana in particolare?». Taglia corto il criminologo Francesco Carrer: «Ogni paese ha la polizia che si merita, la polizia che è stato capace di darsi: il che sarà democratico, ma garantisce risultati prevedibili».Censura e condiscendenza, rabbia e difesa corporativa, sconcerto e meraviglia: sono le emozioni che, dopo gli ultimi scontri di piazza, hanno scosso l’opinione pubblica stavolta in prima fila per via dei filmati resi pubblici, scrive Guadagnini su “Micromega”. «Le immagini nitide ed esplicite sono passate e ripassate in tv, in rete, sui social network», e la foto-shock dei ragazzi schiacciati per terra «ha fatto il giro del mondo». Le “cose” si sono viste, eccome: «I pestaggi, la violenza, l’intimidazione, la forza, la rabbia, la paura». Per Luigi Manconi, presidente della Commissione parlamentare sui diritti umani, «sono troppe le illegalità commesse negli ultimi 15 anni da militari chiamati a gestire l’ordine pubblico». Lo dicono i nomi di Giuliani, Uva, Sandri, Cucchi, Aldrovandi e Shalabayeva. «Raccontano una storia fatta di sopraffazioni e violenze ingiustificate a opera di chi è chiamato a difenderci», scrive la Guadagnini. «Una storia di abusi coperti da falsità e bugie nel tentativo di nascondere e proteggere i veri colpevoli».Indossare una divisa non significa essere autorizzati a travestirsi da giustizieri armati. «La polizia ha sempre funzionato come termometro della democrazia», spiega Marco Preve, autore di un saggio appena uscito per “Chiarelettere”, intitolato “Il partito della Polizia”. «Più è presente in una società, meno quella società è libera e democratica». Nessuno Stato può fare a meno della polizia, ammette Preve, perché ad essa sono affidati l’ordine pubblico, la difesa della proprietà privata, l’incolumità delle persone. Dunque, «il sacrificio di una piccola porzione di libertà individuale vale la pena se, in cambio, tutti si sentono più sicuri. A patto che, attraverso le istituzioni, la società sia in grado di controllare l’operato dei poliziotti e riesca a intervenire laddove emergano degli abusi. Nessun abuso, infatti, può essere commesso contro cittadini inermi. Se non è così – aggiunge Preve – i responsabili devono saltare, ma in Italia ciò non è avvenuto. E continua a non avvenire, dai tempi delle torture alle Br fino alle morti di Cucchi, Aldrovandi, Uva e molti altri: la polizia non garantisce la sicurezza, la politica non sorveglia, la stampa non sempre denuncia, la magistratura non sempre indaga».Il perché questa anomalia lo rivela Filippo Bertolami, vicequestore e sindacalista di polizia. «Negli ultimi anni si è assistito al paradosso di un sistema capace da un lato di coprire e premiare i colpevoli di violenze e insabbiamenti, dall’altro di punire chi ha “osato” mettersi di traverso». Imputati, condannati, premiati: a vincere è la paura, riassume Rossella Guadagnini. Il “partito della polizia” è «troppo forte», conta su «troppe protezioni politiche a destra e a sinistra», ricorda Preve, «da Berlusconi a Prodi, da Violante a Renzi». De Gennaro, capo della polizia al G8 di Genova? «E’ diventato presidente di Finmeccanica e i suoi collaboratori non si toccano. Troppe onorificenze, troppe amicizie, anche tra i media. Intanto le auto rimangono senza benzina e gli agenti continuano ad avere stipendi da fame, mentre vengono assegnati appalti miliardari».Il “partito della polizia” è anche un partito degli affari: «Se non c’è una cultura del diritto in chi orienta il pensiero collettivo – sostiene il criminologo Francesco Carrer – mi chiedo come possa nascere in un corpo di polizia i cui vertici sono più attenti ai desiderata dei politici che alle esigenze di chi è in prima linea». Un ragionamento che, volenti o nolenti, secondo Guadagnini non fa una piega. Per Preve, i gruppi che hanno controllato e controllano i vertici del Dipartimento della pubblica sicurezza «hanno potuto permettersi, o consentire ai loro fedelissimi, comportamenti al di sopra delle regole e delle istituzioni». E questo, precisa Preve, nonostante una “base” «sicuramente non collusa, in molti casi insofferente e addirittura vittima di questa gestione». Il giornalista fissa un discrimine: tutto questo è potuto accadere a partire dal 21 luglio 2001, la notte della “macelleria messicana” della scuola Diaz.«Quel poliziotto è un cretino, va punito», dice il capo della polizia, Alessandro Pansa, commentando l’immagine dell’agente in borghese che calpesta una ragazza a terra, alla manifestazione dei movimenti per la casa il 12 aprile a Roma. «E’ terribile, gli agenti non possono picchiare così», rincara la dose Filippo Bubbico, viceministro dell’interno. Altri invece difendono gli agenti: impossibile criminalizzare poliziotti bersagliati dal lancio di bottiglie e bulloni, biglie e sampietrini. «Non sono contro la polizia, ne ho solo paura»: parola di Alfred Hitchcock. «E se lo diceva lui, riconosciuto maestro del brivido, qualcosa vorrà pur dire», scrive Rossella Guadagnini. «Possiamo fidarci della polizia e di quella italiana in particolare?». Taglia corto il criminologo Francesco Carrer: «Ogni paese ha la polizia che si merita, quella che è stato capace di darsi: il che sarà democratico, ma garantisce risultati prevedibili».
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Torino, l’Hotel Gramsci e la sinistra che rinnega tutto
L’hotel di lusso a cinque piani sorgerà nel centro di Torino, in Piazza Carlo Emanuele: si chiamerà Hotel Gramsci. Sorgerà sulle ceneri della casa in cui Antonio Gramsci abitò dal 1919 al 1921, fondando “L’Ordine Nuovo” e gettando le basi del futuro Pci. Non conosco, personalmente, miglior modo di descrivere la storia della sinistra italiana: il passaggio dalla nobile figura di Antonio Gramsci all’hotel di lusso a lui dedicato, con il pieno sostegno della sinistra cittadina. È l’emblema dell’involuzione indecente della sinistra, la tragicomica vicenda del “serpentone metamorfico Pci-Pds-Ds-Pd” (la definizione è di Costanzo Preve): in essa è possibile leggere, in filigrana, una dialettica di progressivo abbandono dell’anticapitalismo e di graduale integrazione, oggi divenuta totale, alle logiche illogiche del mercato divinizzato da parte delle forze di sinistra.L’Hotel Gramsci presenta una sinistra (!) analogia con il Grand Hotel Abisso di cui diceva Lukács nella “Distruzione della ragione”. Il paradosso sta nel fatto che la sinistra oggi, per un verso, ha ereditato il giacimento di consensi inerziali di legittimazione proprio della valenza oppositiva dell’ormai defunto Partito Comunista e, per un altro verso, li impiega puntualmente in vista del traghettamento della generazione comunista degli anni Sessanta e Settanta verso una graduale “acculturazione” (laicista, relativista, individualista e sempre pronta a difendere la teologia interventistica dei diritti umani) funzionale alla sovranità irresponsabile dell’economia. I molteplici rinnegati, pentiti e ultimi uomini che popolano le fila della sinistra si trovano improvvisamente privi di ogni sorta di legittimazione storica e politica, ma ancora dotati di un seguito identitario inerziale da sfruttare come risorsa di mobilitazione conservatrice.Per questo, la sinistra continua inflessibilmente a coltivare forme liturgiche ereditate dalla fede ideologica precedente nell’atto stesso con cui abdica completamente rispetto al proprio originario spirito di scissione, aderendo alle logiche del capitale in forme sempre più volgari. Si tratta del tradizionale zelo dei neofiti, a cui peraltro – accanto ai riti di espiazione – si aggiunge il fatto che, sulla testa dei pentiti, pende sempre la spada di Damocle del loro passato comunista, che, ancorché rinnegato, può sempre essere riesumato all’occasione. Lungo il piano inclinato che dalla nobile figura di Antonio Gramsci porta a Massimo D’Alema, si è venuto consumando il tragicomico transito dalla passione trasformatrice di matrice marxiana al disincanto weberiano fondato sulla consapevolezza della morte di Dio, con annessa riconciliazione con l’ordo capitalistico. Con i versi di Shakespeare, “lilies that fester smell far worse than weeds”: orribile più di quello delle erbacce è l’odore dei gigli sfioriti.(Diego Fusaro, “Hotel Gramsci”, da “Lo Spiffero” del 15 aprile 2014).L’hotel di lusso a cinque piani sorgerà nel centro di Torino, in Piazza Carlo Emanuele: si chiamerà Hotel Gramsci. Sorgerà sulle ceneri della casa in cui Antonio Gramsci abitò dal 1919 al 1921, fondando “L’Ordine Nuovo” e gettando le basi del futuro Pci. Non conosco, personalmente, miglior modo di descrivere la storia della sinistra italiana: il passaggio dalla nobile figura di Antonio Gramsci all’hotel di lusso a lui dedicato, con il pieno sostegno della sinistra cittadina. È l’emblema dell’involuzione indecente della sinistra, la tragicomica vicenda del “serpentone metamorfico Pci-Pds-Ds-Pd” (la definizione è di Costanzo Preve): in essa è possibile leggere, in filigrana, una dialettica di progressivo abbandono dell’anticapitalismo e di graduale integrazione, oggi divenuta totale, alle logiche illogiche del mercato divinizzato da parte delle forze di sinistra.
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Baranes: la finanza sta sabotando l’economia dell’umanità
Se stai facendo una riparazione domestica e ti si rompe il cacciavite che fai, cambi cacciavite o cambi casa? «Per compiacere i mercati abbiamo cambiato la nostra Costituzione, inserendovi il pareggio di bilancio. Il cacciavite non funzionava. Abbiamo cambiato casa». Secondo Andrea Baranes, la finanza «ci ha caricato sulle spalle un insostenibile fardello fatto di disoccupazione, precarietà, perdita di diritti» e «ci ha gettato nel fango di una recessione globale». E ora «lo stesso sistema finanziario ci dice che con questo fardello e in questo fango dobbiamo metterci a correre, perché altrimenti si arrabbia e ci toglie la fiducia». E’ una macchina mostruosa, che sfugge a ogni controllo: «Il totale di beni e i servizi importati ed esportati nel mondo ammonta a 20.000 miliardi di dollari all’anno. Le transazioni tra valute hanno superato i 5.000 miliardi di dollari al giorno: circola più denaro in soli 4 giorni sui mercati finanziari che in un intero anno nell’economia reale».Da trent’anni, scrive Baranes in una riflessione ripresa da “Micromega”, siamo immersi in un pensiero economico che si fonda sull’idea dell’efficienza dei mercati, da cui discende la necessità di rimuovere vincoli e controlli pubblici che possano ostacolarne il funzionamento. In realtà, «la finanza ha dimensioni decine di volte superiori all’economia di cui dovrebbe essere al servizio». Si sospetta che la quasi totalità delle operazioni finanziarie sia pura speculazione: «Nessun rapporto con l’economia reale, ma unicamente soldi che inseguono soldi per fare altri soldi». La seconda possibilità, ancora peggiore, è che «la finanza lavori con un’efficienza intorno al 1%». Non si tratta solo di risorse economiche, ma anche di risorse umane. I migliori studenti di economia, matematica, informatica e statistica sono attratti dagli alti stipendi verso i centri finanziari, «per creare prodotti sempre più complessi, incomprensibili e rischiosi».Avvertiva il Premio Nobel James Tobin già negli anni ‘80: «Stiamo gettando sempre più risorse, inclusa la crema della nostra gioventù, dentro attività finanziarie lontane dalla produzione di beni e servizi, attività che generano alte remunerazioni private, sproporzionate rispetto alla loro produttività sociale». Il sistema finanziario, dice Baranes, ha «moltiplicato i rischi» in modo esplosivo, sabotando l’economia, «all’esasperata ricerca del massimo profitto nel minor tempo possibile». La finanza? «Dovrebbe essere il mercato dei soldi, per fare incontrare chi ha un risparmio da investire con chi ne ha bisogno per le proprie attività». Oggi, invece, «abbiamo da un lato una montagna di denaro alla disperata ricerca di sbocchi di investimento, e dall’altro una montagna altrettanto alta di bisogni che non sono soddisfatti». Nonostante il vortice di trilioni in costante movimento, è praticamente impossibile ottenere un mutuo: piccole imprese e artigiani sono strangolati dalla mancanza di accesso al credito. La finanza non risolve problemi, crea solo disastri. Salvo poi tentare di incolpare il sistema pubblico: scuola, sanità e acqua potabile da privatizzare, facendo vincere il profitto. Se parliamo di bisogni essenziali dell’umanità, la finanza «ha dimostrato un’assoluta incapacità di operare nell’interesse generale».Se stai facendo una riparazione domestica e ti si rompe il cacciavite che fai, cambi casa o cambi cacciavite? «Per compiacere i mercati abbiamo cambiato la nostra Costituzione, inserendovi il pareggio di bilancio. Il cacciavite non funzionava. Abbiamo cambiato casa». Secondo Andrea Baranes, la finanza «ci ha caricato sulle spalle un insostenibile fardello fatto di disoccupazione, precarietà, perdita di diritti» e «ci ha gettato nel fango di una recessione globale». E ora «lo stesso sistema finanziario ci dice che con questo fardello e in questo fango dobbiamo metterci a correre, perché altrimenti si arrabbia e ci toglie la fiducia». E’ una macchina mostruosa, che sfugge a ogni controllo: «Il totale di beni e i servizi importati ed esportati nel mondo ammonta a 20.000 miliardi di dollari all’anno. Le transazioni tra valute hanno superato i 5.000 miliardi di dollari al giorno: circola più denaro in soli 4 giorni sui mercati finanziari che in un intero anno nell’economia reale».
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E bravo Renzi, hai bruciato un milione di posti di lavoro
Con 10 miliardi di euro si può creare quasi un milione di posti di lavoro, con stipendi da 1.200 euro netti al mese: perché invece disperdere quella cifra su dieci milioni di persone che un lavoro ce l’hanno già, e a cui 80 euro in più non cambiano certo la vita? Luciano Gallino non ha dubbi: «Al reale cambiamento, Renzi ha preferito lo spot ad effetto, l’impatto mediatico: 10 miliardi per 10 milioni di persone. Rimane impresso nelle menti, ma non cambia le sorti di nessuno». Tutto perfettamente in linea col rigore – per i lavoratori – raccomandato dai “padroni del mondo”, interessati a mantenere alta la disoccupazione: lo stesso progetto del Jobs Act che frammenta e precarizza ulteriormente il lavoro «nasce vecchio di vent’anni», già proposto nel lontano 1994 proprio dall’Ocse, uno dei massimi super-poteri mondiali, quello da cui oltretutto proviene l’attuale ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan.A colloquio con Giacomo Russo Spena per “Micromega”, il sociologo dell’ateneo torinese denuncia il Jobs Act come un residuato bellico che porta la firma dell’Ocse, cioè «uno dei tanti organismi internazionali che entrano negli affari dei singoli Stati raccomandando sempre flessibilità, concertazione, taglio dello stato sociale». Esattamente vent’anni fa, spiega Gallino, l’Ocse produsse uno studio sull’indice di Lpl, cioè “legislazione a protezione dei lavoratori”, un indicatore di rigidità del mercato. Tesi: più alto è l’indicatore, più alta è la disoccupazione. «Da allora – dice Gallino – molti giuristi, economisti e sociologi hanno dimostrato come lo studio fosse stato scritto scegliendo prima le conclusioni, ovvero l’idea che bisognava smantellare e ridurre la protezione giuridica del lavoro per creare nuovi posti di lavoro, e solo successivamente analizzati i dati che, ovviamente, suffragavano quest’impostazione. In realtà – conclude il sociologo – non c’è alcuna conferma che il taglio dell’indice Lpl possa portare ad aumento dell’occupazione».Nel 2006, continua Gallino, la stessa Ocse, dopo una serie di risultati, ha ammesso la contraddittorietà del fondamento: l’indice Lpl per l’Italia nel 1994 era superiore al 3,5. Dopo 12 anni, con le riforme delle leggi Treu 1997 (govenro Prodi) e Maroni-Sacconi 2003 (governo Berlusconi), era sceso ad 1,5. Più che dimezzato, eppure «i precari sono diventati 4 milioni». Identica musica col governo Monti: «La riforma Fornero ha seguito la stessa scia». E ora ecco il Jobs Act, a favorire ancora una volta la mobilità in uscita. «Nel 2014 ci ritroviamo con progetti lanciati su scala nazionale nel 1994». Sicché, «l’idea di continuare a perseverare con la medesima tecnica, che ha prodotto l’attuale disastro sociale, è preoccupante». Sintetizzando: con Renzi, «siamo di fronte a un conducente che affronta una strada tortuosa di montagna guardando soprattutto nello specchietto retrovisore: una cosa pericolosa, da non fare».Precarizzazione “espansiva”, come l’austerity “felice” spacciata dai guru di Harvard e adottata dalla Troika europea? «La precarietà mina la vita di milioni di persone, com’è evidente dagli ultimi 15-20 anni. Distrugge professionalità, costringendo una persona nell’arco di 10 anni a passare da un mestiere all’altro penalizzando esperienze magari indispensabili. E inoltre riduce la produttività del lavoro, come si palesa nelle statistiche. In Italia, culla della precarietà, le imprese ottengono un minimo di profitto e fanno quadrare il bilancio tagliando sul costo del lavoro e puntando sulla compressione salariale dei dipendenti o sulla loro estrema flessibilizzazione». Tutto questo, «invece di investire su tecnologia qualificata, innovazione, ricerca e nuovi settori produttivi: così la precarietà non rappresenta una pessima strada solo per le condizioni di vita dei lavoratori, ma anche per l’economia perché incentiva una strada sbagliata». A questo punto sarebbe fondamentale una vera opposizione. La Cgil? Non pervenuta: il sindacato della Camusso è ormai «appannato».Con 10 miliardi di euro si può creare quasi un milione di posti di lavoro, con stipendi da 1.200 euro netti al mese: perché invece disperdere quella cifra su dieci milioni di persone che un lavoro ce l’hanno già, e a cui 80 euro in più non cambiano certo la vita? Luciano Gallino non ha dubbi: «Al reale cambiamento, Renzi ha preferito lo spot ad effetto, l’impatto mediatico: 10 miliardi per 10 milioni di persone. Rimane impresso nelle menti, ma non cambia le sorti di nessuno». Tutto perfettamente in linea col rigore – per i lavoratori – raccomandato dai “padroni del mondo”, interessati a mantenere alta la disoccupazione: lo stesso progetto del Jobs Act che frammenta e precarizza ulteriormente il lavoro «nasce vecchio di vent’anni», già proposto nel lontano 1994 proprio dall’Ocse, uno dei massimi super-poteri mondiali, quello da cui oltretutto proviene l’attuale ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan.
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Brancaccio: tutti precari? Pessimo affare, ditelo a Renzi
«I contratti precari incentivano forse i datori di lavoro ad assumere, ma favoriscono anche la distruzione di posti di lavoro nelle fasi di crisi. L’effetto netto è prossimo allo zero». Secondo Emiliano Brancaccio, si sta profilando lo scenario previsto dal “monito degli economisti”, pubblicato lo scorso settembre sul “Financial Times”. La dottrina della “austerità espansiva”, secondo cui l’austerità dovrebbe assicurare la crescita, viene sostituita da quella – altrettanto improbabile – della “precarietà espansiva”: «L’idea è che attraverso ulteriori dosi di precarizzazione del lavoro si dovrebbe generare crescita dei redditi e dell’occupazione», ma rischio è che «si passi da una vecchia a una nuova illusione». Già la “austerità espansiva”, invece di favorire la ripresa, ha solo «alimentato la depressione». Idem per l’aumento della precarizzazione su cui puntano Renzi e la Merkel: «Le evidenze empiriche, dell’Ocse come del Fondo Monetario Internazionale, ci dicono che la flessibilità del lavoro non è correlata all’aumento dell’occupazione».Dare ossigeno all’economia senza aumentare il deficit oltre i limiti imposti da Bruxelles? «La scommessa di Renzi – rispettare il vincolo e abbassare le tasse – si basa evidentemente sulla possibilità che il Pil aumenti, che sia cioè il denominatore ad aumentare facendo scendere il rapporto», dice Brancaccio, intervistato da Luca Sappino per “L’Espresso”. L’economista è scettico: «L’effetto espansivo che Renzi ha previsto di ottenere con questa riduzione delle tasse sarà in realtà modesto, e verrà in parte mitigato dalla diminuzione della spesa pubblica. La spending review su cui tutti puntano può avere un effetto contrario agli 80 euro in busta paga, soprattutto quando si tagliano spese sensibili, come ad esempio il trasporto pubblico». Per il 2014, aggiunge Brancaccio, il taglio della spesa sarà certamente inferiore rispetto a quanto previsto da Renzi. «E’ chiaro quindi che siamo di fronte a un buco di bilancio. Anzi, in un certo senso dovremmo augurarcelo. Anche perché, a prescindere dalle cifre, non esiste un programma di revisione della spesa che sia credibile se realizzato in un semestre».La storia, continua Brancaccio, ci insegna che le revisioni di spesa condotte in fretta e furia «si trasformano in tagli lineari brutali, che colpiscono sempre i soggetti più deboli e non aiutano certo la crescita del Pil». Forse, in Europa sono iniziate «le prove generali per l’annunciato scambio tra un po’ meno austerità e un po’ più riforme del lavoro», ma certo non se ne esce con la dottrina della “precarietà espansiva”, perché la precarietà non espande proprio nulla. Dietro, «vi è l’idea che l’intera Eurozona si salva solo se i paesi periferici, a colpi di precarizzazione del lavoro, riescono ad abbattere i salari, i costi e i prezzi. In questo modo si dovrebbe colmare il divario di competitività rispetto alla Germania e si dovrebbero quindi riequilibrare i rapporti di credito e debito all’interno dell’Unione». La storia però smonta ogni illusione: questo meccanismo non funziona, perché «impone ai soli paesi debitori il peso del riequilibrio». In questo modo, «l’intera Unione viene trascinata in una corsa salariale al ribasso, che può determinare una deflazione generalizzata e una nuova crisi del debito».«I contratti precari incentivano forse i datori di lavoro ad assumere, ma favoriscono anche la distruzione di posti di lavoro nelle fasi di crisi. L’effetto netto è prossimo allo zero». Secondo Emiliano Brancaccio, si sta profilando lo scenario previsto dal “monito degli economisti”, pubblicato lo scorso settembre sul “Financial Times”. La dottrina della “austerità espansiva”, secondo cui l’austerità dovrebbe assicurare la crescita, viene sostituita da quella – altrettanto improbabile – della “precarietà espansiva”: «L’idea è che attraverso ulteriori dosi di precarizzazione del lavoro si dovrebbe generare crescita dei redditi e dell’occupazione», ma rischio è che «si passi da una vecchia a una nuova illusione». Già la “austerità espansiva”, invece di favorire la ripresa, ha solo «alimentato la depressione». Idem per l’aumento della precarizzazione su cui puntano Renzi e la Merkel: «Le evidenze empiriche, dell’Ocse come del Fondo Monetario Internazionale, ci dicono che la flessibilità del lavoro non è correlata all’aumento dell’occupazione».
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Frantumare il mondo: a chi serve la macchietta Renzi
Se avete visto il magnifico e sconvolgente “The wolf of Wall Street”, di quel bimbo di Andersen (“Il re è nudo”) che è Martin Scorsese, avrete compreso l’affinità antropologica tra quei cannibali e il loro sottoprodotto al mandolino, Renzi. Ma, per capire il modello che stanno mettendo in opera, conviene fare un breve elenco dei tratti fisiognomici di una classe di criminali che ha imperversato sulle Americhe e poi sul mondo dalla Mayflower in qua. Dal genocidio degli indio-americani a oggi, gli Usa hanno superato qualsiasi altro Stato della storia per numero di guerre e vittime; in media una guerra all’anno, sempre portate, mai ricevute. Dal 1945 al 2014 sono intervenuti militarmente in 90 paesi. Attualmente sono impegnati con forze speciali, Ong, quinte colonne, bombardieri e droni, colpi di Stato effettuati o tentati, sanzioni, destabilizzazioni e mercenariato surrogato, in 135 paesi.I serial-mass-killer insediati nella Casa Bianca dal 1991 hanno ammazzato 3 milioni in Iraq, 40 mila in Afghanistan, 4000 in Serbia, 100 mila in Libia, 130 mila in Siria, migliaia in Pakistan, Yemen, Somalia. Altri milioni li hanno fatti uccidere da proconsoli e ascari in Ruanda (dove si sono confrontati Francia e Usa per chi facesse scannare più hutu), Congo, Mali, Rac, Latinoamerica. E abbiamo saltato Vietnam, Corea, Centroamerica. Con il 4% della popolazione mondiale contano per il 75% dell’inquinamento globale, l’80% del traffico e consumo di stupefacenti e il 65% dell’acqua dolce del mondo è stata avvelenata dagli agro-tossici Usa. Ogni anno la polizia Usa uccide più di 5.000 persone disarmate. Con 2,5 milioni di detenuti, sono il paese con il più alto tasso di carcerazione del mondo. Lo 0,01 più ricco possiede il 23% della ricchezza nazionale, il 90% più povero il 4%. La loro teoria economica chiamata “crisi” ha procurato al 3% un più 75% di ricchezza, alle multinazionali più 171%.Una macchina da devastazione, saccheggio, terrorismo e morte che, nel nostro paese, ha espettorato una serie di zombie addestrati a tirarsi uova marce di giorno e banchettare insieme di notte, come dal ‘700, sotto varie denominazioni, partito repubblicano e partito democratico nordamericani insegnano. E, come in ogni teatro di marionette che si rispetti, i pupi si scambiano i ruoli, a seconda delle temperie e delle urgenze di “cambiamento” e “innovazionie”, da Bertinotti a Renzi, da Occhetto a Letta, da Berlusconi ai fascisti dichiarati. Di questo avvicendarsi di parti in commedia oggi vediamo l’espressione più chiara, del tutto de-mimetizzata: il blob che si definisce centrosinistra, socialdemocrazia, rappresentante di classe operaia e ceti popolari, mette in campo un manipolo di trucidi e sciacquette che soffiano al finto avversario il modello Chiesa-Wall Street-Pentagono-mafia; gli altri, mutati da grassatori, puttanieri, ladri, in “moderati”, saltano il fosso e si pretendono a fianco di operai, ceti medi scarnificati, euroschifati e perfino Putin.Di tutto questo l’incarnazione più lineare è il capobastone del Colle, transitato dagli inni ai carri sovietici di Budapest a quelli agli F-35 Usa. E’ vero che il sangue nelle vene di costoro, se non intorbidito, si deve essere un bel po’ diluito, se riusciamo a resistere in poltrona davanti a certi vaudeville, oltre a tutto sempre più Grand Guignol. Con, per opposizione, solo una ruspa truccata da tanko di chi si vorrebbe fare lo stesso spettacolo tutto da solo. Lo stupefacente e agghiacciante fatto che un saltimbanco, incolto e abissalmente ignorante, spargitore di fuffa tossica, manifestamente imbroglione e bugiardo al solo sguardo volpino da pusher, al solo arricciarsi della boccuccia a culo di gallina, possa aver affascinato, interessato, anche solo incuriosito, questi vasti pezzi di società italiana (fuori se la ridono), è la dimostrazione di cosa ci hanno fatto vent’anni di vaudeville berlusconiana, con la stuoina “centrosinistra” a fargli strofinare le scarpe.Il volgare e mediocre Stenterello schiamazzone, accademico ineguagliato di populismo, restauratore mascherato da rottamatore, confezionato con un tweet di Bilderberg e carburato da euro-merda e cianuro, ha fatto meglio in pochi mesi di Andreotti in quarant’anni. Si permette di definirsi rullo compressore e, pur essendo di cartone, l’ignavia di massa gli consente di fare il lavoro dello schiacciasassi che tutto asfalta e sotto cui niente vive. Assimilata la pseudo-opposizione parlamentare sindacale e mediatica, quella residua delle istituzioni e dell’intelletto è considerata stravaganza di comici e, insistendo in piazza, eversione e terrorismo (vedi No Tav o No Muos). Nessun Mussolini, nessun Hitler e nemmeno i falsari elettorali delle democrazie borghesi avrebbero avuto la protervia di presentarci una legge elettorale così spudoratamente da roulette truccata con la calamita sotto. Una legge che vieta agli elettori di scegliere i loro rappresentanti, che, escludendo da ogni voce in capitolo milionate di cittadini, dà, alla tibetana, potere di vita e di morte sui sudditi a chi arriva al 20% del 50% di italiani che votano.Neanche la Gorgone Fornero, del rettilario bancario, avrebbe osato sognare la socialdemocratica riduzione in panico e schiavitù delle generazioni presenti e a venire, grazie ai 36 mesi a tempo determinato, a zompi intervallati di 4 mesi, dopodiché fuori dalle palle e sotto un altro. Infine, per elevare l’indispensabile tasso di criminalità, il bellimbusto pitocco fa passare una legge sulla custodia cautelare che esime dal gabbio quelli che, forse, si beccherebbero fino a 4 anni, cioè in prima fila i compari elettori e finanziatori dai colletti bianchi. Dopo l’avvenuta evirazione dei Comuni, abolizione delle provincie per collocare negli enti sostitutivi altri 30 mila clienti, come dimostrato dai Cinque Stelle, ma soprattutto per togliere di mezzo gli organismi intermedi di rappresentanza, potenzialmente più vicini al territorio e più distanti dalle cosche apicali. Obliterazione, grazie allo tsunami propagandistico dei “costi della politica”, di quell’istanza d’appello e di controllo che è il Senato. La sua scomparsa, per risparmiare, dicono, 300 milioni (fatti passare per 1 miliardo) ci costerà quanto costò alle libertà romane, nel passaggio dalla Repubblica al Principato, il Senato trasformato in innocua camera di compensazione di latifondisti e usurai. Riduzione delle pene per il voto di scambio, per chi si fa comprare – e obbligare – dai voti procurati dall’altra criminalità, a conferma dell’unità di gestione aziendale di Stato e mafia.Mascherine da festa cotillon che si agitano ai piani bassi dei palazzi dove, in alto, si scatenano i lupi mannari di Wall Street. Rispetto a quella realizzata nel ‘22, la loro dittatura in fieri parrebbe l’avanspettacolo di Bonolis a fronte di una tragedia di Euripide. Ma le cose stanno molto peggio. Rispetto ai triumviri e federali di Mussolini, ai gauleiter e feldmarescialli di Hitler, fenomeno assediato dal resto del mondo, questi sono i tentacoli di una piovra gigante che abbranca mezzo emisfero, tre quarti di tutte le bombe atomiche, mezzo patrimonio produttivo e finanziario, le tecnologie di controllo e soppressione più avanzate e la complicità del più potente istituto per la manipolazione religiosa di coscienze di tutti i tempi. A proposito di quest’ultimo, capeggiato oggi dal quasi-santo Francesco, a strappare i veli dall’umile buonismo esibito da costui basta la pronuncia della gerarchia cattolica del Venezuela, capeggiata dal nunzio nominato dal papa, Parolin, avverso al “despota” Maduro, e a sostegno delle bande di terroristi scatenati dalla Cia contro la nazione bolivariana. Oscenità imperialista che si affianca alla nomina a consigliere del papa di Oscar Maradiaga, primate dell’Honduras e complice di quei golpisti che proseguono nella strage di oppositori, contadini e indigeni. Fin dal suo primo “buonasera”, si sarebbe dovuto capire che il Bergoglio silente tra i generali argentini sarebbe stato l’anti-Chavez dell’America Latina.Del rilievo dato al burattino italiota dalla strategia del Nuovo Ordine Mondiale sono stati testimoni gli augusti visitatori che si sono precipitati a Roma a completare l’agenda che a Renzi era stata commissionata nei giri per Londra, Berlino, Bruxelles e Parigi. Per Obama, d’intesa con il proconsole sul Colle, è stata la consueta intimazione-consacrazione del vassallo di turno. Per la regina Elisabetta è stato il rinnovo del patto tra classe dirigente italiana e la secolare loggia Rothschild-Windsor, sancito nel 1992 in forma definitiva sul suo yacht “Britannia”, quando emissari come Soros, Draghi, Andreatta e bancari vari, concordarono con Ciampi e poi Amato e Prodi la privatizzazione dell’Italia e la sua riduzione a piattaforma mediterranea di guerre d’aggressione e a hub del traffico di energia e stupefacenti, terra di rapina per multinazionali perfezionata nel Ttip, “Partneriato Transatlantico per Commercio e Investimenti”.Prima mossa domestica, capitoletto dell’ordine di servizio imperiale eseguito in Ucraina, Venezuela, Iran, Siria, non i soli F-35, ma la messa fuori gioco di Paolo Scaroni, ad dell’Eni. Non si tratta di compiangere un lestofante, con stipendio milionario, che s’è aperto la strada verso giacimenti e rotte petroliferi in tutto il mondo a forza di creste e tangenti. Così fan tutte ed è la condizione in questo mondo di merda per assicurare al tuo paese rifornimenti energetici. Specie se di fornitori incorrotti ne hai solo uno, il Venezuela e quell’altro onesto, la Libia, l’hai regalato ai terroristi Al Qaida. E per farcene prevedere la detronizzazione basterebbe la corifea delle banche (“basta col contante, tutto per via bancaria”), Milena Gabanelli, con la sua ossessiva denuncia delle malefatte del capo dell’Eni, in “profonda sintonia” con l’avversione al tipo da parte di governanti e petrolieri angloamericani, per le libertà che si prendeva nel saltare, insieme a russi, iraniani, africani e centroasiatici, i tubi del petrolio e del gas sotto controllo Usa. Per molto meno Enrico Mattei e Giorgio Mazzanti furono fatti fuori, uno per attentato, l’altro per scandalo.Sette sorelle, vecchie, ma sempre arrapate. In un sistema in cui i petrolieri texani devono tenere in mano il rubinetto dell’energia e neutralizzare, come predica Brzezinski, demonio all’orecchio di Obama, Bush, Clinton, Reagan e Nixon, la fisiologica tentazione europea verso l’orizzonte euroasiatico, uno come Scaroni risulta incompatibile. Ci vogliono, come per la Jugoslavia, quinte colonne imperiali che contribuiscano alla debolezza e subalternità del proprio continente e dei suoi singoli Stati. Renzi è perfetto. Il frenetico tour di Obama tra i valvassori europei e partner del Golfo va visto in sinergia con le mattanze in atto in Afghanistan, avamposto asiatico anti-russo, il caos creativo del terrorismo nel Pakistan nucleare, le stragi da droni in Somalia e Yemen, capisaldi geostrategici non normalizzati, lo sminuzzamento della Siria antisraeliana, come prima della Libia, le spedizioni degli ascari francesi nel Sahel dell’uranio e del petrolio, lo spolpamento dell’Ucraina dagli enormi terreni da assegnare alle multinazionali del cibo e dell’agrocombustibile e dei missili da piazzare sui piedi di Putin, lo scatenamento del naziterrorismo contro il Venezuela bolivariano.E’ in gioco una dittatura mondiale, fatta gestire agli Usa con stampelle anglosassoni che, attraverso il controllo del rubinetto dell’energia, regoli i rapporti di forza globali. Il Pakistan e l’Iran non devono realizzare l’oleodotto che li unirebbe. Iran, Iraq e Siria non si sognino di approvvigionare, con una nuova pipeline, l’Europa. Russia ed Europa non devono collegarsi tramite i due tubi “North Stream” e “South Stream”. Il Venezuela la deve smettere di assicurare a basso prezzo e con notevoli ricadute politiche e sociali i paesi poveri dell’area e, magari, domani l’Europa. I recentemente scoperti enormi giacimenti di gas nel bacino est del Mediterraneo devono essere sottratti a titolari come Siria, Libano, Gaza, Egitto (apposta paralizzati da costanti fibrillazioni indotte) e Cipro e messi tutti sotto controllo israeliano. Ovunque, in questi fastidi recati a “Big Oil”, c’è stata anche lo zampino dell’Eni di Scaroni (“Senza il gas russo siamo nei guai”). Tutti i percorsi indicati lacerano per il lungo e per il largo la rete sotto controllo anglo-franco-statunitense, solleticano l’insubordinazione dell’America Latina, legano Europa ai detestati Russia e Iran, garantiscono i rifornimenti alla secca Cina.Fratturare il mondo? Lo strumento si chiama scisti. Il metodo per estrarli dal sottosuolo, “fracking”, fratturazione idraulica. L’esito, la destabilizzazione del pianeta dalle profondità alla superficie, l’inquinamento delle falde e dei terreni attraverso l’immissione forzata di enormi quantità d’acqua mista a sostanze chimiche tossiche che spaccano la roccia e liberano le riserve fossili. E, come sperano, la graduale riduzione dei flussi dagli Stati indipendenti, sostituiti dal gas liquefatto che dai destinatari deve poi essere rigassificato. Costi di gran lunga superiori all’estrazione dai giacimenti e perfino alle energie rinnovabili (quelle che i petrolieri raccomandano a Sgarbi di demonizzare) e, perciò, uso della potenza militare, di cecchini nazisti, tagliagole jihadisti e vicerè obbedienti, per imporne l’inconveniente adozione.Il commercio tra Europa e Russia è 10 volte quello tra Europa e Usa. L’Europa orientale trae un terzo della sua energia dalla Russia e una bella fetta dall’Iran. L’Italia quasi metà, con il resto che arriva dall’Algeria, anche per questo in costante guerra di bassa intensità con le armate di complemento jihadiste, non più dalla Libia, e da fonti minori. Berlino ha 6.000 aziende operanti in Russia. Unica a far valere questa situazione è la Germania, che tenta una resistenza sia alle sanzioni a Mosca, sia alla deriva nazista dell’Ucraina favorita dagli Usa (il suo candidato al governo di Kiev era il “moderato” Klitschko, “fottuto”, nelle sue stesse parole, dalla sottosegretaria Usa, Nuland, con il candidato amerikano Jatseniuk). Renzianamente, Obama (vengono tutti dalla stessa caverna) ha promesso a noi e agli altri bischeri europei tanto gas dai suoi scisti da farci rinunciare a quello finora preso dalla Russia. E’ vero che le riserve nordamericane sembrano vaste e sono già fratturate da migliaia di trivelle (con altrettante rivolte della popolazione locale).Ma, se l’Europa ha un po’ di rigassificatori per il gas liquefatto negli Usa, questo paese non dispone neanche di un solo liquefattore. Nella migliore delle ipotesi il gas da scisti arriverà in Europa fra quattro anni, convogliato dal primo liquefattore costruito, capace di spedirci la miseria di 4 miliardi di Bcf di gas al giorno. Basta appena per il Belgio. E ricordiamo: il fracking per scisti incastrati tra rocce da far esplodere, e che dovrà col Ttip essere imposto a un’Europa che già si è dichiarata disponibile e ha iniziato a spaccare il sottosuolo (anche in Italia), sarà costosissimo e quindi provocherà ribellioni tra i consumatori. Sconvolge la pancia della Terra con l’immissione forzata di gigantesche quantità d’acqua – in prospettiva della guerra dell’acqua che si sta per scatenare in tutto il pianeta – e conseguente rottura verticale e orizzontale di ciò che stabilizza i nostri piedi e le nostre case. Scarseggerà l’acqua per bere, per irrigare, per tutto, e conflitti e mega-migrazioni sconvolgeranno quel che resta della stabilità globale.(Fulvio Grimaldi, estratti dall’intervento “Il fracking di Renzi e quello di Obama”, dal blog di Grimaldi dell’8 aprile 2014).Se avete visto il magnifico e sconvolgente “The wolf of Wall Street”, di quel bimbo di Andersen (“Il re è nudo”) che è Martin Scorsese, avrete compreso l’affinità antropologica tra quei cannibali e il loro sottoprodotto al mandolino, Renzi. Ma, per capire il modello che stanno mettendo in opera, conviene fare un breve elenco dei tratti fisiognomici di una classe di criminali che ha imperversato sulle Americhe e poi sul mondo dalla Mayflower in qua. Dal genocidio degli indio-americani a oggi, gli Usa hanno superato qualsiasi altro Stato della storia per numero di guerre e vittime; in media una guerra all’anno, sempre portate, mai ricevute. Dal 1945 al 2014 sono intervenuti militarmente in 90 paesi. Attualmente sono impegnati con forze speciali, Ong, quinte colonne, bombardieri e droni, colpi di Stato effettuati o tentati, sanzioni, destabilizzazioni e mercenariato surrogato, in 135 paesi.
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Augè: noi, l’umanità, contro l’utopia nera dell’oligarchia
Gli ideologi neoliberisti come Francis Fukuyama ci avevano annunciato la “fine della storia”, cioè la grande narrazione in base alla quale avremmo conquistato una “democrazia universale” fondata sul libero mercato? Tutto sbagliato, come s’è visto. Sotto i nostri occhi, sostiene il filosofo Marc Augé, c’è «l’utopia nera dell’oligarchia planetaria»: nel mondo delle reti globalizzate, la competenza scientifica e il potere economico e politico si concentrano in poche mani. Non una democrazia diffusa su tutta la Terra, bensì «un’oligarchia planetaria dominata da tutti coloro che sono in qualche modo collegati alla sfera del potere politico, scientifico ed economico, mantenuto e riprodotto dalla massa degli utilizzatori passivi quali sono i consumatori costretti al dovere di consumare, ma anche dalla massa sconfinata di tutti gli esclusi dal sapere e dai consumi». Altro che “fine della storia” concepita come accordo unanime sulla forma definitiva di governo degli uomini. Uscite di sicurezza? Una, l’utopia: rimettere la conoscenza al centro della nostra vita, declassando il culto della produttività.Voler scindere economia e educazione, scrive Augè in una riflessione su “La Stampa” ripresa da “Micromega”, ha significato il fallimento di entrambi i campi. «Dissociarli significa infatti cedere alla grande tentazione postmoderna: rifiutare di porsi la questione delle finalità». Oggi, sotto i morsi della grande crisi, la priorità viene sempre data agli obiettivi a breve termine: aiuti d’emergenza, piani sociali, formazione professionale. Ma, intanto, viene elusa la questione centrale: «In vista di cosa si lavora o si studia?». Il nostro fine ultimo, la nostra umanità profonda. «È considerata una sorta di lusso, un sogno da intellettuali idealisti a beneficio di altri sognatori», da dimenticare in fretta per ripiegare prontamente sugli obiettivi a breve termine. «Come in altri ambiti, il problema dei fini ultimi è abbandonato alle divagazioni talvolta letali dei fanatici e dei folli». Ma le conseguenze sono catastrofiche: non siamo più sicuri di sapere perché facciamo quello che facciamo, in una sorta di pericolosa alienazione sempre più funestata dal peggiorare delle condizioni socio-economiche.«Nel momento in cui si invocano requisiti di redditività per giustificare i ridimensionamenti che provocano un calo del potere d’acquisto, a sua volta causa del rallentamento della crescita (è uno dei circoli viziosi del capitalismo nella sua fase attuale), le politiche educative sono sempre meno orientate all’acquisizione del sapere in sé e per sé», scrive Augè. Risultato: a cominciare da quelli “economicamente svantaggiati”, i bambini hanno una possibilità alquanto scarsa se non nulla di accedere a determinati tipi di insegnamento. Così, il sistema educativo tende a riprodurre le disuguaglianze sociali. E persino l’apertura delle università a tutti «è ufficialmente considerata come un mutamento della loro vocazione: le si invita a rispondere anzitutto ai bisogni del mercato del lavoro». Forse, continua Augè, un giorno ci ricorderemo che «non v’è altra finalità per gli uomini sulla Terra se non l’imparare a conoscersi e a conoscere l’universo che li circonda», un compito “infinito” che definisce l’umanità: «La conoscenza è l’unico modo di conciliare le tre dimensioni dell’uomo: individuale, culturale e generica».Se decidessimo di sacrificare tutto all’istruzione, alla ricerca e alla scienza, «facendo investimenti massicci e senza precedenti, nel settore dell’insegnamento a ogni livello», secondo Augè avremmo «più occupazione e maggior prosperità», perché l’ideale della conoscenza «non ha bisogno di disuguaglianze sociali o economiche ma, all’opposto, tali disuguaglianze sono fattori di stagnazione, sono ostacoli, una notevole dispersione di energia, un attentato al potenziale intellettuale dell’umanità». È certo, invece, che lasciare aumentare lo scarto tra i più istruiti e i non istruiti significa «aggravare irrimediabilmente l’impoverimento della stragrande maggioranza». Idea utopica? Per contro, quelle che guidano le politiche reali sono «follie», nutrite di «settarismo e ignoranza». Sicché, «obbligandoci a porre nuovamente la questione dei fini», proprio l’utopia «può aiutarci a definire un programma». In fondo, continua Augè, «quali individui mortali, siamo tutti condannati all’utopia. In vista di cosa viviamo? Malgrado la forma interrogativa, questa domanda è l’unica risposta – risposta critica, risposta di crisi – che si possa dare a coloro che pretendono di gestire la nostra vita quotidiana e al contempo di incaricarsi del nostro avvenire».È probabile che la crisi del mondo globalizzato «firmi l’atto di morte dell’ultimo “grande racconto”», per citare l’espressione di Jean-François Lyotard. Era il racconto liberale di Fukuyama: la felicità universale garantita da democrazia rappresentativa e libero mercato. Come sappiamo, la storia ha ripreso a correre – ma purtroppo in direzione opposta: siamo in balia di una élite nient’affatto democratica, anzi dispotica e oligarchica. Capace di infliggere infinite sofferenze all’umanità: diventa abissale il divario tra ricchi e poveri, pure «in un universo socio-economico in espansione», crescita che peraltro contrasta «con le dimensioni limitate del pianeta: ecco cosa la crisi ci ha manifestamente rivelato o confermato». A forza di «cullarci nell’illusione di un eterno presente», finiremo per scoprire di colpo che «i problemi attuali non erano che le premesse di uno sconvolgimento più radicale». Stiamo già vivendo «un ridimensionamento, al quale il nostro sguardo non si è ancora abituato e di cui la crisi è una delle conseguenze». Non possiamo sapere se a vincere sarà «l’utopia nera dell’oligarchia» o l’umanità, magari grazie «a un capovolgimento storico imprevisto, a qualche importante scoperta scientifica». Ma intanto già conosciamo l’utopia di domani: sarà la Terra, «il pianeta in quanto tale».Gli ideologi neoliberisti come Francis Fukuyama ci avevano annunciato la “fine della storia”, cioè la grande narrazione in base alla quale avremmo conquistato una “democrazia universale” fondata sul libero mercato? Tutto sbagliato, come s’è visto. Sotto i nostri occhi, sostiene il filosofo Marc Augé, c’è «l’utopia nera dell’oligarchia planetaria»: nel mondo delle reti globalizzate, la competenza scientifica e il potere economico e politico si concentrano in poche mani. Non una democrazia diffusa su tutta la Terra, bensì «un’oligarchia planetaria dominata da tutti coloro che sono in qualche modo collegati alla sfera del potere politico, scientifico ed economico, mantenuto e riprodotto dalla massa degli utilizzatori passivi quali sono i consumatori costretti al dovere di consumare, ma anche dalla massa sconfinata di tutti gli esclusi dal sapere e dai consumi». Altro che “fine della storia” concepita come accordo unanime sulla forma definitiva di governo degli uomini. Uscite di sicurezza? Una, l’utopia: rimettere la conoscenza al centro della nostra vita, declassando il culto della produttività.
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Jobs Act, il ricatto: precari per decreto e per sempre
C’è da essere indignati, certamente e anzitutto, per il contenuto dell’annunziato decreto che precarizza definitivamente il mercato del lavoro.La riforma del contratto di lavoro a termine e di apprendistato che Matteo Renzi ha annunciato, come unica misura concreta e immediata in mezzo allo scoppiettio dei suoi annunci di riforma, preclude per il futuro l’accesso ad un lavoro stabile a tutti i lavoratori giovani e adulti. Ma indignazione anche per il modo assolutamente passivo con cui le forze politiche “di sinistra” e le organizzazioni sindacali hanno accolto la notizia, anche perché probabilmente cloroformizzate dall’annunzio di una non disprezzabile “mancia” elargita ai lavoratori sotto forma di sgravio Irpef. Salvo gli opportuni approfondimenti, la sostanza è comunque chiarissima e inequivocabile. Si vuole introdurre la possibilità di stipula di un contratto di lavoro a termine senza indicazione di alcuna causale con durata lunghissima, fino a tre anni.Si dirà, ipocritamente, che questo vale solo per il “primo contratto” a termine tra lo stesso datore di lavoro e il lavoratore, ma l’ipocrisia è evidente, perché a ben guardare, il primo contratto a termine acausale sarà anche l’ultimo, in quanto dopo i 36 mesi di lavoro scatterebbe la regola legale, già esistente, secondo la quale continuando la prestazione di lavoro il contratto si trasforma a tempo indeterminato. Quale è, allora, la formula semplicissima che il decreto offre e suggerisce al datore? Tenere il lavoratore con contratto acausale e alla scadenza sostituirlo. Dal punto di vista del lavoratore significa cercare ogni tre anni un diverso datore di lavoro, e ciò all’infinito, concedendo a Dio la dignità, e rassegnandosi ad una totale sottomissione a ricatti di ogni tipo, sperando di essere confermato a tempo indeterminato una volta o l’altra. È evidente che così, lo stesso datore di lavoro nel suo complesso diventerà una sorta di favola non traducibile in realtà.Rispondo subito ad una prevedibile obiezione: si dirà che però, secondo la bozza del decreto, i lavoratori a contratto a termine acausale non potranno superare il 20% dell’occupazione aziendale: si tratta comunque di una percentuale assai alta (attualmente i contratti prevedono il 10–15%), ed è evidente che quella “fascia” del 20% funzionerà come una sorta di anello esterno all’azienda, nella quale finiranno imprigionati i nuovi assunti e dal quale usciranno solo per entrare in analogo anello di altra azienda. Per i giovani e per i disoccupati, dunque, vi è un solo futuro: restare per sempre precari triennali, ora presso una azienda, ora presso un’altra, ma la stessa sorte attende i lavoratori già stabili i quali magari si sentiranno grati a Renzi per quella mancia economica nel caso dovessero per qualsiasi ragione perdere quel posto di lavoro.Va poi aggiunto che il rispetto effettivo della percentuale massima di occupati a termine su un organico è di difficile monitoraggio: come si farà a sapere se l’azienda alfa di 100 dipendenti o con 100 dipendenti ha già colmato la suo quota di 20 lavoratori a termine? I dati già ci sarebbero presso i Centri per l’impiego, ma sono riservati. Occorrerebbe istituire, presso i Centri per l’impiego, una anagrafe pubblica dei rapporti di lavoro per ottenere l’indispensabile trasparenza: sarebbe una dimostrazione minima di onestà da parte del governo e dell’azienda, ma dobbiamo confessare tutto il nostro scetticismo. Resta da considerare la conformità di questo decreto alla normativa europea in tema di contratto a termine. Il pericolo di abuso che la normativa Ue connette alla ripetizione di brevi contratti a termine, è tutto condensato nella previsione di un lungo contratto a termine acausale, dopo il quale, se il datore consentisse di continuare la prestazione vi sarebbe la trasformazione a tempo indeterminato, ma poiché non la consentirà, vi sarà una condizione di disoccupazione e sottoccupazione, perché il prossimo datore di lavoro si comporterà nello stesso modo.Il principio europeo che la bozza del decreto con vistosa ipocrisia ripete, per il quale la forma normale del contratto di lavoro è quella a tempo indeterminato, viene così non solo aggirato e violato, ma ridotto ad una burletta e questo potrà essere fatto valere di fronte alla Corte di Giustizia Europea. Per fortuna, nel nostro paese fra il tanto diffuso conformismo anche tra le forze politiche e sindacali, esiste la coscienza critica dei singoli operatori indipendenti. Resta da esaminare lo scempio del contratto di apprendistato che viene banalizzato, eliminando qualsiasi severo controllo sulla effettività della formazione professionale ed eliminando altresì quella elementare regola antifrode per la quale non potevano essere conclusi nuovi contratti di apprendistato dal datore di lavoro che non avesse confermato a tempo indeterminato i precedenti apprendisti. È evidente che una regola di questo genere andrebbe introdotta anche per la possibile stipula di contratti a termine ed, invece, la volontà di eliminarla ove già esiste, e cioè nell’apprendistato, dimostra quali sono le vere intenzioni del governo di Matteo Renzi.(Piergiovanni Alleva, “Jobs Act, precari per decreto e per sempre”, da “Il Manifesto” del 14 marzo 2014, ripreso da “Micromega”).C’è da essere indignati, certamente e anzitutto, per il contenuto dell’annunziato decreto che precarizza definitivamente il mercato del lavoro.La riforma del contratto di lavoro a termine e di apprendistato che Matteo Renzi ha annunciato, come unica misura concreta e immediata in mezzo allo scoppiettio dei suoi annunci di riforma, preclude per il futuro l’accesso ad un lavoro stabile a tutti i lavoratori giovani e adulti. Ma indignazione anche per il modo assolutamente passivo con cui le forze politiche “di sinistra” e le organizzazioni sindacali hanno accolto la notizia, anche perché probabilmente cloroformizzate dall’annunzio di una non disprezzabile “mancia” elargita ai lavoratori sotto forma di sgravio Irpef. Salvo gli opportuni approfondimenti, la sostanza è comunque chiarissima e inequivocabile. Si vuole introdurre la possibilità di stipula di un contratto di lavoro a termine senza indicazione di alcuna causale con durata lunghissima, fino a tre anni.
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Col Dottor Stranamore, l’austerity estesa fino al Don
Se la Germania impone anche all’Ucraina la super-austerità della Troika, la guerra con la Russia sarebbe alle porte: il malessere sociale infatti farebbe letteralmente esplodere le regioni russofone dell’est, come quella di Donetsk, le più avanzate e industrializzate, popolate da milioni di russi. Lo afferma l’economista Joseph Halevi, allarmato per le dichiarazioni di un super-falco come il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble, secondo cui il programma di rigore che ha ucciso la Grecia dev’essere esteso all’Ucraina. Una pazzia da Dottor Stranamore, dice Halevi: la politica di Schäuble, che vuole «estendere l’austerità fino al Don», di fatto «implica una guerra con la Russia», perché «l’ultra-catastrofe economica» provocherebbe sofferenze che «verrebbero imputate a Mosca, con estrema virulenza, dal governo di Kiev appoggiato da Usa, Nato e Ue». Tutto questo, mentre la Bank of England ha appena demolito la teoria del rigore, “ammettendo” che le banche creano moneta dal nulla, «cioè non la scavano da qualche miniera, né la pompano da qualche giacimento».Non esistono dunque vincoli monetari, sottolinea Halevi: «Scuole, ospedali, ferrovie, pensioni, università e ricerca possono essere finanziate senza vincoli di bilancio». La banca centrale può sempre convalidare qualsiasi richiesta da parte del Tesoro, emettendo moneta per sostenere debito e deficit pubblici. Gli unici vincoli? Quelli reali, che dipendono dalle capacità produttive esistenti e utilizzabili. Ma senza più totem come quello del 3%. E’ ovvio, continua Halevi, che se alla banca centrale – in questo caso la Bce – viene impedito di alimentare i necessari flussi monetari, il circuito economico va in crisi. Verità notissime e persino banali, eppure fino a ieri taciute, un po’ come accadeva «durante l’età di Galileo Galilei, quando per la navigazione oceanica verso le Americhe la Chiesa permetteva l’uso da parte della Spagna della concezione copernicana della Terra, mentre in Europa, in Italia in particolare, imponeva la visione tolemaica, bruciando chi la confutava pubblicamente». Le ammissioni ufficiali della Banca d’Inghilterra sono dunque «un’ulteriore ragione per non dare alcun credito all’Ue», quando impone di tagliare la spesa perché “non ci sono soldi”.Il dramma, osserva Halevi, è che l’Unione Europea è una struttura burocratica non responsabile, non elettiva, non democratica. Bisognerebbe «cambiarne le fondamenta», il che implicherebbe «demolire e rifare la costruzione che su queste poggia». Peccato si vada nella direzione opposta: già prima di Mitterrand, sostiene Halevi, la Francia «ha preceduto Bruxelles di parecchi anni», con un turbo-presidenzialismo che ora, con Hollande, ha sottratto all’Assemblea Nazionale il controllo parlamentare della finanza pubblica, demandato all’Alta Autorità sulla spesa pubblica e il debito, creata dall’Eliseo. Elezioni sempre più inutili anche in Italia, dove «la dimensione extra-parlamentare del sistema di governo cresce a vista d’occhio». Il paese europeo che meglio riesce a difendere il suo ordinamento democratico è proprio la Germania: la sua politica potrà non piacere, ma certo rispetta – al contrario dell’Ue – la volontà popolare.Il guaio è che a Berlino oggi siedono ministri come Schäuble, sostenuti da ultra-conservatori che sognano una “moneta fissa” (ancora più rigida dell’oro) e influenti economisti come Werner Sinn, secondo cui l’export tedesco è «un sacrificio», anziché una fonte colossale di profitto per il grande capitale tedesco. Il conservatorismo economico, conclude Halevi, produce un pericoloso cortocircuito – sia il rigore che Schäuble impone all’Europa attraverso la Troika, sia la concezione del surplus di Sinn. «Ne consegue – scrive Halevi – che è estremamente importante assorbire ciò che hanno scritto gli economisti della Bank of England», i quali «non partono da una visione normativa, bensì analizzano come effettivamente funzionano la moneta e il sistema bancario, arrivando ad affermare cose che in Italia si trovavano già in Augusto Graziani», il grande economista napoletano, maestro di Emiliano Brancaccio. Se non altro, ora «la verità è venuta a galla», come ha affermato il “Guardian”: «A galla per il pubblico», certo, «ed è ciò che conta». Il testo della Banca d’Inghilterra «costituisce un’importante base di partenza per pensare se e – eventualmente – come rifare le fondamenta» dell’Unione Europea. Prima che i “Dottor Stranamore” – di Berlino e della Nato – arrivino davvero sulle rive del Don.Se la Germania impone anche all’Ucraina la super-austerità della Troika, la guerra con la Russia sarebbe alle porte: il malessere sociale infatti farebbe letteralmente esplodere le regioni russofone dell’est, come quella di Donetsk, le più avanzate e industrializzate, popolate da milioni di russi. Lo afferma l’economista Joseph Halevi, allarmato per le dichiarazioni di un super-falco come il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble, secondo cui il programma di rigore che ha ucciso la Grecia dev’essere esteso all’Ucraina. Una pazzia da Dottor Stranamore, dice Halevi: la politica di Schäuble, che vuole «estendere l’austerità fino al Don», di fatto «implica una guerra con la Russia», perché «l’ultra-catastrofe economica» provocherebbe sofferenze che «verrebbero imputate a Mosca, con estrema virulenza, dal governo di Kiev appoggiato da Usa, Nato e Ue». Tutto questo, mentre la Bank of England ha appena demolito la teoria del rigore, “ammettendo” che le banche creano moneta dal nulla, «cioè non la scavano da qualche miniera, né la pompano da qualche giacimento».
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Giannuli: sono di sinistra, per questo non voterò Tsipras
La lista Tsipras? «E’ un aggregato che non ha nessuna vitalità o prospettiva. E’ la sommatoria deprimente di quel che resta di alcuni apparati di sinistra, alla ricerca disperata di margini di sopravvivenza, ma senza alcun reale progetto politico». Aldo Giannuli boccia sonoramente l’esperimento messo in piedi per le europee da Barbara Spinelli e Paolo Flores d’Arcais. E di chiara di aver «ascoltato con crescente desolazione» un recente comizio di Moni Ovadia, che sosteneva: «Non si torna indietro dall’Europa, perché bisogna battere i nazionalismi che hanno portato alla prima ed alla seconda guerra mondiale». Replica Giannuli: «Ancora con questa accozzaglia di luoghi comuni? Ci mancava solo che dicesse che di mamma ce n’è una sola e che non ci sono più le mezze stagioni. Vogliamo riflettere su cosa è in concreto questa Europa e le sue istituzioni, al di là della propaganda “europeista” in cui non crede più nessuno?».Secondo Giannuli, non essendoci né un’analisi («e come volete che venga fuori in poche settimane di raffazzonata corsa a fare le liste?») non c’è neppure una linea politica e, di conseguenza, nessuna azione politica. «E voi pensate di prendere voti così?». Il politologo, docente universitario e con alle spalle una lunga militanza, anche in Rifondazione Comunista, si dichiara «non ostile» alla “Lista Tsipras”, ma la considera «una cosa morta». E aggiunge: «Posso fare le mie condoglianze, ma non ho molta voglia di restare a vegliare la salma. Se altri ritengono di doverlo fare, per carità, facciano pure, ma, ci rivediamo dopo le esequie». Ci sono molti modi di essere “di sinistra”, charisce Giannuli. «Ad esempio, io sono convinto della inconciliabilità fra capitalismo e giustizia sociale, perché il capitalismo è costitutivamente portatore di ingiustizie sociali. Ed è il motivo per cui mi definisco comunista. Poi altri la pensano diversamente, ad esempio la lista Tsipras si muove nell’ottica di una socialdemocrazia moderata, cercando di realizzare “spazi di giustizia sociale” all’interno del sistema dato, che non rimette in discussione».Dunque, se uno si considera “di sinistra” – cioè convinto del «nesso inscindibile fra giustizia sociale e libertà individuali e politiche», all’interno di una comunità di persone che aspirano a «un ordinamento sociale giusto e libero» – come può credere nella “Lista Tsipras”, che di fatto non propone di radere al suolo l’attuale ordinamento dell’Unione Europea, sostanziale dittatura dell’élite finanziaria imposta attraverso strumenti come l’austerity, il Fiscal Compact e la camicia di forza dell’Eurozona? Come dire: è illusorio pensare di riformare e correggere l’Ue, bisogna proprio abbatterla. Ma il vero problema è che, in Italia, il “popolo di sinistra” ha ben poche chanches: se la “Lista Tsipras” è così deludente, quello che ha attorno è ancora peggio. Per Giannuli, il Pd è ormai un partito «organicamente di destra», ligio ai diktat dell’élite finanziaria europea, anche se tiene ancora in ostaggio una residua porzione di “popolo di sinistra”, per lo più composta da pensionati, segnati più che altro «da una nobile ma sterile nostalgia». Si salva solo Civati, ma il suo «è un gruppo minuscolo e neanche tanto coeso». Dov’è finito, allora, il popolo della sinistra? Soprattutto nell’astensionismo e nel Movimento 5 Stelle.Nel 2006, ricorda Giannuli, le liste di sinistra (Rifondazione, Pdci, Verdi) ottennero complessivamente circa 4 milioni di voti. Nel 2013 “Rivoluzione Civile” guidata da Ingroia (con dentro anche un pezzo di Idv) ottenne 765.000 voti, e Sel un milione di suffragi. Totale, meno di 2 milioni di voti. E gli altri 2 milioni persi per strada? Fronte Pd: nel 2008 il partito di Veltroni ottenne 12 milioni di voti, mentre nel 2013 quello di Bersani si è fermato a 8 milioni e mezzo, perdendo cioè quasi 3 milioni e mezzo di elettori. Sommati a quelli della sinistra radicale, fanno 5 milioni e mezzo di italiani. Dove sono finiti? «Mi pare che non sia necessario fare calcoli particolarmente raffinati o interpellare chiromanti per capire che si sono divisi fra astensione e M5s». Il resto, oggi, è ancora collocato nel Pd per «una residua ma non trascurabile quota, direi un 25-30%», più forse un 10% nella «pozzanghera in cui si agitano Rifondazione, Sel, Pdci». Giannuli non ha dubbi: «Se qualcosa di sinistra ripartirà in questo paese, è dall’area dell’astensione o da quella del M5s che può succedere. Non certo dal Pd, da Rifondazione o Sel».Certo, ammette Giannuli, i grillini dovrebbero accelerare una sorta di evoluzione democratica. Pessime le espulsioni a catena dei dissidenti, «una pratica stalinista». Un problema anche «la proprietà privata del simbolo» del movimento creato da Grillo. D’accordo, serviva a «tutelare il simbolo da parte di “assalti” esterni», ma resta «una soluzione strampalata». Molto meglio «avere uno statuto ed una regolare costituzione come soggetto politico». Il professor Giannuli è convinto che, tra un po’, il M5S «rivedrà questa stramba sistemazione». Certo, il “populista” fondatore-padrone resta ingombrante, ma anche decisivo sul piano elettorale. «Non ho mai nascosto le mie critiche alle pose leaderistiche di Grillo», premette Giannuli, che però ribalta il ragionamento: come mai, nonostante il populismo, le esternazioni “isteriche” di Grillo e la mancanza di democrazia di cui è accusato, il M5S prende tutti quei voti, sottraendoli tanto al Pd quanto alla cosiddetta sinistra radicale? «Non sarà che, nonostante tutte le sue numerose pecche (che i suoi elettori conoscono benissimo, state tranquilli) il M5S appare più credibile, poniamo, di Rivoluzione Civile o della lista Tsipras?». Possibile che i signori della sinistra ufficiale siano così poco credibili da essere superati «da un rivale così pieno di difetti»?La lista Tsipras? «E’ un aggregato che non ha nessuna vitalità o prospettiva. E’ la sommatoria deprimente di quel che resta di alcuni apparati di sinistra, alla ricerca disperata di margini di sopravvivenza, ma senza alcun reale progetto politico». Aldo Giannuli boccia sonoramente l’esperimento messo in piedi per le europee da Barbara Spinelli e Paolo Flores d’Arcais. E di chiara di aver «ascoltato con crescente desolazione» un recente comizio di Moni Ovadia, che sosteneva: «Non si torna indietro dall’Europa, perché bisogna battere i nazionalismi che hanno portato alla prima ed alla seconda guerra mondiale». Replica Giannuli: «Ancora con questa accozzaglia di luoghi comuni? Ci mancava solo che dicesse che di mamma ce n’è una sola e che non ci sono più le mezze stagioni. Vogliamo riflettere su cosa è in concreto questa Europa e le sue istituzioni, al di là della propaganda “europeista” in cui non crede più nessuno?».