Archivio della Categoria: ‘idee’
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Cesaratto: l’euro uccide la democrazia, ditelo alla sinistra
Il nostro è un paese dall’identità storicamente fragile. Sfiducia nello Stato nazionale o sfiducia nella saldezza democratica del popolo hanno fatto in modo che sia a destra che a sinistra si guardasse all’Europa per rafforzare la nostra debole costituzione. Un pizzico di utopia spinelliana ha fatto il resto. Quest’ultima di per sé non guasta, se non fosse andata (in particolare a sinistra) troppo oltre, dimenticando che l’Europa è un consesso di Stati nazionali che fanno ciascuno il proprio interesse. L’utopismo ha inoltre offuscato il segno reazionario che ha preso la costruzione europea, soprattutto col progetto della moneta unica. Come l’antico gold standard, la moneta unica è uno strumento disciplinante. C’è chi ha detto che precisamente attraverso questa crisi, frutto dell’euro, la moneta unica sta realizzando i suoi obiettivi: un ritorno a un capitalismo ottocentesco, quello del gold standard appunto. La sinistra ha assistito imbelle e genuflessa agli ideali europeisti, allo svuotamento dei poteri dello Stato nazionale.Quest’ultimo è il playing field naturale della democrazia, del conflitto democratico su come creare e distribuire le risorse. Una volta svuotato dei sui poteri, trasferiti a livello sovra-nazionale, con lo Stato nazionale scompare la democrazia. Fior di economisti hanno sostenuto l’incompatibilità fra moneta unica e democrazia! Il Parlamento Europeo non può sostituire le democrazie nazionali perché troppo cacofonico. Lì finiscono per prevalere gli interessi nazionali, mentre le classi lavoratrici nazionali non hanno più un terreno rivendicativo su cui esprimersi. A me pare, contrariamente alle accuse mosse dagli utopisti delle liste di sinistra, che Stati sovrani siano il presupposto di democrazia e cooperazione internazionale, mentre sia l’europeismo superficiale a fomentare il nazionalismo: dio ci scampi dagli utopisti!L’Europa dovrebbe invertire il segno delle politiche di bilancio con un forte sostegno della Bce nel controllo dei tassi di interesse e nell’agevolare forme di ristrutturazione del debito (vi sono varie proposte in merito). Il dramma è che la Germania non è interessata a quest’Europa. Essa ha un modello mercantilista (export-led) basato su un forte ordine sociale interno accompagnato dalla moderazione salariale e fiscale che non intende mettere in forse (e ciò è comprensibile). Quindi è un bel pasticcio. Parlare di Europe federali vuol dire vaneggiare. Una forte affermazione delle forze anti-euro è dunque benvenuta, se smuoverà le acque, anche se sia chiaro che in nessun senso personalmente appoggio compagini xenofobe o di destra con cui, a differenza di qualche collega (o presunto tale), non intendo avere rapporti.La sinistra avrebbe dovuto riprendere la bandiera della nostra libertà nazionale in un senso democratico e positivo, ma ne ha paura. Questo è un dramma. Una rottura consensuale dell’euro sarebbe benvenuta, ma è un processo assai complicato, forse troppo. Ma certo, se l’Europa ci prova a chiederci di applicare il Fiscal Compact, allora la rottura se la saranno cercata. Ricordiamo poi che tutto il dramma europeo cade in un quadro mondiale a sua volta assai complesso: dal pericolo di una “stagnazione secolare” del capitalismo – anche alla luce delle crescenti disuguaglianze che mortificano la domanda aggregata oltre che le coscienze – alla sfida epocale dei paesi emergenti fatta del combinato disposto di bassi salari e crescente tecnologia. Una vera unione politica, che implicherebbe uguali diritti sociali, non è e non sarà nel futuro prevedibile all’ordine del giorno. Dimentichiamoci queste stupide utopie.(Sergio Cesaratto, dichiarazioni rilasciate a “ForexInfo” per l’intervista “L’Europa che non c’è”, ripresa da “Megachip” il 6 maggio 2014. Eminente economista, esperto di politica fiscale europea, il professor Cesaratto è docente all’università di Siena e curatore del blog “Politica Economia”).Il nostro è un paese dall’identità storicamente fragile. Sfiducia nello Stato nazionale o sfiducia nella saldezza democratica del popolo hanno fatto in modo che sia a destra che a sinistra si guardasse all’Europa per rafforzare la nostra debole costituzione. Un pizzico di utopia spinelliana ha fatto il resto. Quest’ultima di per sé non guasta, se non fosse andata (in particolare a sinistra) troppo oltre, dimenticando che l’Europa è un consesso di Stati nazionali che fanno ciascuno il proprio interesse. L’utopismo ha inoltre offuscato il segno reazionario che ha preso la costruzione europea, soprattutto col progetto della moneta unica. Come l’antico gold standard, la moneta unica è uno strumento disciplinante. C’è chi ha detto che precisamente attraverso questa crisi, frutto dell’euro, la moneta unica sta realizzando i suoi obiettivi: un ritorno a un capitalismo ottocentesco, quello del gold standard appunto. La sinistra ha assistito imbelle e genuflessa agli ideali europeisti, allo svuotamento dei poteri dello Stato nazionale.
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L’euro di Hitler, una moneta unica per l’Europa nazista
Sembra che la Grande Germania, ritornata soggetto geopolitico egemone in Europa, stia realizzando attualmente la prospettiva immaginata dai politici e dagli economisti nazisti per il loro dopoguerra vittorioso: di rendersi esportatrice netta di merci verso una periferia monetariamente subalterna ad una moneta unica che allora sarebbe stato il marco e adesso è l’euro. Alla metà degli anni ’30 la stabilità degli scambi commerciali con l’estero era stata raggiunta in Germania mediante accordi bilaterali di clearing che consentivano di scambiare le merci senza “consumare” moneta perché le importazioni, non coperte da esportazioni, venivano contabilizzate in una “stanza di compensazione” e rinviate al futuro, senza interessi, in attesa d’essere saldate con esportazioni a venire. A seguito dei successi militari del 1940 una sua evoluzione venne ritrovata nella compensazione multilaterale tra le nazioni progressivamente alleate o conquistate, così che se la Germania si trovava con un debito verso A ma pure con un credito verso B, B pagava A e la Germania era libera dal debito senza nessun movimento di valuta.Nasceva in questo modo l’idea di costituire un Grande Spazio di scambi commerciali europei di cui la Germania sarebbe stata il centro, come nel 1940 spiegava una nota della Cancelleria del Reich: «I grandi successi della Wehrmacht tedesca hanno creato i fondamenti per il Nuovo Ordine Economico Europeo sotto il dominio tedesco. La Germania, dopo aver concentrato negli ultimi anni le proprie forze principalmente sul riarmo militare, potrà seguire in futuro anche la strada della crescita economica e dello sviluppo delle proprie forze produttive su ampia base e una grossa crescita del tenore di vita ne sarà la conseguenza». Questo Nuovo Ordine Economico Europeo sarebbe però nato asimmetrico, perché gli stati aderenti si sarebbero collocati in due diversi gironi d’importanza: un “cerchio interno” composto dalla Germania allora impinguata dell’Austria e dei Sudeti, dal Protettorato di Boemia e Moravia, dal Governatorato Generale polacco e da Danimarca, Norvegia, Olanda, Belgio e Lussemburgo in quanto nazioni razzialmente affini ma pure economicamente omogenee, tanto da potersi pensare ad un unico livello dei prezzi, dei redditi e dei salari; ed un “cerchio esterno” in cui avrebbero gravitato Svezia, Svizzera e poi Portogallo, Italia, Grecia e Spagna (i Pigs, i paesi “maiali” già previsti!) con estensione all’Unione Sovietica (quando sconfitta), alla Turchia e all’Iran per proiettare il Grande Spazio fino al Pacifico e al Golfo Persico.Qui però prezzi e salari sarebbero stati mantenuti più bassi per favorire le esportazioni verso il cerchio interno. Il marco avrebbe dovuto diventare la moneta comune (in mancanza, «la fissazione di tassi di cambio stabili sarebbe assolutamente necessaria»), mentre sarebbe stata istituita una Banca Centrale Europea con sede a Vienna, che allora era tedesca, per il conteggio incrociato dei saldi tra i paesi associati «in cui, naturalmente, la Germania deve essere predominante». Tanto progetto d’unificazione commerciale e monetaria europea non ha però mai visto la luce, travolto dal rovesciamento delle sorti della guerra dal 1942 in poi. Ma si può avanzare il legittimo sospetto che, dopo la costituzione della Unione Monetaria, la Germania post-1989 abbia ripreso con determinazione l’idea del Grande Spazio europeo partendo dall’adozione di una politica commerciale lucidamente “mercantilistica” per compensare con l’esportazione all’estero il rigore fiscale e la moderazione salariale interne (e qualcuno ha scritto che «se non ci fossero state le robuste esportazioni verso l’Europa periferica, la Germania sarebbe scivolata dalla bassa crescita alla stagnazione»).Ma il disavanzo commerciale che si veniva a formare in periferia, non più correggibile con le “svalutazioni competitive” di un tempo per il vincolo della moneta unica, come sarebbe stato coperto? A sostenere la capacità di spesa dei paesi “maiali” sono intervenuti i prestiti di capitale dal centro; per cui, se quelli s’indebitavano, questo otteneva il doppio vantaggio di guadagnare interessi sul denaro prestato, assicurandosi contemporaneamente un mercato di sbocco privilegiato perché privo di rischio di cambio. Il gioco non è tuttavia senza difetto perché, mentre la periferia si deindustrializza per l’invasione delle merci straniere, il centro si fa partecipe della sua progressiva instabilità finanziaria per quell’indebitamento crescente di cui è creditore. E così quando, e ai primi casi d’insolvibilità periferica (in Grecia, ma soprattutto a Cipro), il centro ha temuto che i propri crediti potessero venire “ripudiati”, è corso ai ripari richiedendone alla periferia il rientro, almeno in parte, coatto. Sta in questo il senso del Trattato per la stabilità, il coordinamento e la governance, sinteticamente noto come “Fiscal Compact”, approvato il 23 luglio 2012 dal Parlamento italiano.Con esso si sono a tal punto irrigiditi i vincoli di bilancio pubblico e di debito sovrano da poter essere giudicato, dopo il Trattato di Maastricht (1991) ed il Trattato di Lisbona (1999), come «il terzo atto della storia dell’euro che radicalizza in maniera inedita i principi neoliberisti che hanno caratterizzato fin dall’inizio la costruzione della moneta unica», anche a rischio di realizzare una forma di austerità perpetua che potrebbe fare esplodere l’Unione Monetaria Europea. Il Fiscal Compact richiede all’articolo 3 che le spese statali vengano integralmente coperte da imposte e tasse (al netto di variazioni minimali emergenziali); in caso contrario è previsto «un meccanismo automatico di correzione» che di fatto priva i paesi colpevoli d’infrazione d’ogni potere decisionale proprio. L’articolo 4 impone invece il rientro del debito pubblico al 60% del Pil a partire dal 2015 (un impegno confermato dalla “Agenda Monti” del 24 dicembre 2013), il che significherebbe per l’Italia, che ha un debito pubblico del 134% su di un Pil di oltre 2.000 miliardi di euro, un aggravio sul bilancio statale e per vent’anni di una quota di restituzione del debito di oltre 50 miliardi all’anno.Ma perché un simile provvedimento è stato introdotto? Chi l’ha pensato si è affidato a certe stime del Fondo Monetario Internazionale, secondo le quali ad un punto di “contrazione fiscale” (più imposte e tasse e/o meno spesa pubblica) corrisponderebbe un calo del Pil dello 0,5%, e quindi una riduzione del rapporto debito-Pil. Però all’inizio del 2013 lo stesso Fmi ha convenuto che quella stima funziona soltanto in caso di crescita economica, perché in recessione la riduzione del Pil sale all’1,7%, aumentando (e non diminuendo) il rapporto debito-Pil e quindi costringendo ad ulteriori interventi d’austerità che peggiorano il rapporto e così via seguitando (come s’è visto in Italia con le manovre di riduzione del debito dei governi Monti e Letta che, invece di diminuirlo, lo hanno aumentato). Ma se tutto questo succede in periferia, che capita al centro? Di fronte ad un eventuale collasso economico periferico, esso vedrebbe restringersi l’area privilegiata d’esportazione dovendo ricercare altri sbocchi fuori dalla zona-euro, dove però il rischio di cambio esiste.E qui, a fronte di un euro troppo rivalutato, la sostituzione delle esportazioni potrebbe non risultare “a somma zero”, come sta già succedendo alla Germania: calano le esportazioni verso i paesi Ue, ma «Berlino sbaglierebbe davvero molto se d’ora in poi potesse pensasse di poter puntare tutte le sue carte solo sul resto del mondo. Con una domanda interna tendenzialmente debole e senza la vecchia Europa che torni a comprare il “made in Germany”, il suo attivo rischia di non correre più come quello di un tempo, sicché nel 2012 la somma del saldo complessivo Ue ed extra-Ue ha fatto segnare soltanto quota 185 miliardi, un livello ancora lontano, dopo cinque anni, dal record storico di 194 miliardi toccato nel 2007». Quale soluzione allora ci sarebbe per il centro se non quella di una svalutazione competitiva dell’euro per guadagnare maggiori quote di mercato? Ma questa decisione, favorevole agli industriali, danneggerebbe il sistema finanziario, che vedrebbe minacciato quell’euro forte difeso fino ad ora a spada tratta. Ecco perché non è da escludere l’alternativa di un arroccamento su di un euro del nord che abbandoni al proprio destino i paesi “maiali” per riciclare il centro come luogo privilegiato d’importazione di capitali invece che di esportazione di merci. E’ quest’ultima una soluzione praticabile? L’antagonismo tra finanza e industria è un tema ricorrente nella storia economica.Sembra che la Grande Germania, ritornata soggetto geopolitico egemone in Europa, stia realizzando attualmente la prospettiva immaginata dai politici e dagli economisti nazisti per il loro dopoguerra vittorioso: di rendersi esportatrice netta di merci verso una periferia monetariamente subalterna ad una moneta unica che allora sarebbe stato il marco e adesso è l’euro. Alla metà degli anni ’30 la stabilità degli scambi commerciali con l’estero era stata raggiunta in Germania mediante accordi bilaterali di clearing che consentivano di scambiare le merci senza “consumare” moneta perché le importazioni, non coperte da esportazioni, venivano contabilizzate in una “stanza di compensazione” e rinviate al futuro, senza interessi, in attesa d’essere saldate con esportazioni a venire. A seguito dei successi militari del 1940 una sua evoluzione venne ritrovata nella compensazione multilaterale tra le nazioni progressivamente alleate o conquistate, così che se la Germania si trovava con un debito verso A ma pure con un credito verso B, B pagava A e la Germania era libera dal debito senza nessun movimento di valuta.
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Investire in Italia? Sì, quando l’euro ci avrà rasi al suolo
«Nell’epoca dell’avidità e delle guerre per massimizzare i profitti delle SpA nessun politico calato dall’alto avrà il coraggio di spegnere l’interruttore dell’immoralità», e ovviamente «nessun partito pensa di riformare il processo decisionale della politica – riforma dei partiti, elezioni primarie per legge, democrazia diretta», sostiene Peppe Carpentieri. «Una delle più grandi menzogne spacciate dai media e dai politici nostrani è che l’Eurozona avrebbe promesso un miglioramento del benessere collettivo». I mantra della “religione” liberista? Crescita e competitività, a parole. Nei fatti, invece, il cambio fisso dell’Eurozona, il patto di stabilità e crescita nonché il Fiscal Compact «sono tutti strumenti che hanno sostenuto il processo di recessione avviato prima con lo Sme, poi nel 1981 con la separazione fra Tesoro e Banca d’Italia, e accelerato con la deregolamentazione bancaria e finanziaria, fino ad esplodere nel 2008 con la crisi dei mutui subprime che ha raggiunto l’Eurozona».Gli Stati che aderiscono all’euro, e quindi abdicano alla sovranità monetaria – cioè rinunciano ad una propria politica monetaria – e decidono di farsi condizionare dallo spread e dalle “opinioni” dei mercati finanziari, scrive Carpentieri in un post ripreso da “Megachip”. I mercati finanziari hanno anch’essi la loro “religione”, cioè «l’avidità e la crescita del Pil». E così, «accade che i fondi di investimento internazionali guidati da soggetti privati, favoriti dalla deregolamentazione globale, scelgono di investire i capitali seguendo la crescita del Pil, l’andamento demografico e lo sviluppo urbano dei singoli Stati». Non conviene più investire nel nostro paese? Ovvio: «I vantaggi di investire in Italia non ci sono poiché la globalizzazione sposta gli interessi verso i paesi emergenti». Molto meglio puntare su paesi neppure democratici, senza sindacati né diritti umani, ma con «l’opportunità di sfruttare e usurpare risorse materiali», senza contare i «vantaggi fiscali» e le «opportunità per massimizzare i profitti», utilizzando lavoratori-schiavi. I diritti civili e la cultura democratica? «Rappresentano un ostacolo oggettivo, per i fondi di investimento privati».Consapevoli di questa enorme contraddizione fra avidità e democrazia, il progetto politico dell’Eurozona «rappresenta non solo una minaccia concreta per gli uomini liberi, ma è di fatto un progetto immorale, incostituzionale, che pregiudica la sopravvivenza delle generazioni presenti e future», sottolinea Carpentieri. «Non è tollerabile e tanto meno accettabile che la Repubblica italiana sia cancellata dalla storia per l’apatia dei cittadini stessi, manipolati, ingannati e traditi da dipendenti politici, nella migliore delle ipotesi incapaci e stupidi, nella peggiore traditori della Repubblica». La depressione dell’Eurozona e soprattutto dei paesi periferici dell’Ue ha una radice comune: «Cessione della sovranità monetaria, assenza di una banca pubblica che faccia l’interesse pubblico, sgretolamento dello Stato sociale, un sistema contabile fiscale stupido perché i criteri della crescita impediscono di fare investimenti pubblici, assenza di una politica industriale utile allo sviluppo umano».Tutto questo, ovviamente, non viene mai ammesso dall’establishment e dal suo mainstream: si continua a «blaterare di crescita e sviluppo», cercando solo di «confondere le idee degli elettori». Nella realtà, i mercati finanziari «ignorano le chiacchiere di questi utili idioti». L’Unione Europea «serve ai paesi “centrali” per drenare risorse (tasse), e serve a produrre disperazione, istigazione al suicidio e povertà crescente nei paesi “periferici”». Sicché, «quando i paesi “periferici” avranno raggiunto i livelli di povertà dei paesi emergenti, può darsi che i famigerati mercati finanziari avranno pietà e interesse nell’investire anche in Italia», ma in quel caso «non ci saranno più gli italiani». A quel punto, di fronte alla catastrofe socio-economica, ridiventerà finalmente “conveniente” investire in Italia, quando cioè ci si metterà in fila per un lavoro qualsiasi, con paga “cinese”. E’ una macchina imponente, che funziona a meraviglia. Da dove vengono tutti quei soldi, impiegati contro di noi? Dai paradisi fiscali, che insieme agli strumenti finanziari «rappresentano il modo più efficace di far perdere le tracce e distribuire soldi per corrompere politici e pagare la politica delle multinazionali SpA: guerre e controllo del debito».Per Moisés Naìm, economista e direttore di “Foreign Policy”, già dirigente della Banca Mondiale, il numero dei territori che offrono servizi off-shore continua a crescere. Una piaga inarrestabile: «Non si tratta di catturare questa o quella persona, qui si tratta di un problema di sistema, “sistema mondo” intendo, che sta minacciando l’equilibrio globale». L’alta finanza ha creato paradisi bancari come Euroclear e Clearstream, dove vige il segreto assoluto: «Conti su cui è possibile far comparire e scomparire il denaro occultandone la fonte di provenienza». L’organizzazione “taxjustice.net”, continua Carpentieri, ha creato un indice della segretezza finanziaria, una ricchezza monetaria che sfugge alle regole fiscali nazionali: «Si tratta di un sistema globale che consente di non pagare tasse o pagarne poche grazie alle maglie larghe di leggi deboli e inefficaci». Secondo “Taxjustice”, ci sono da 21 a 32 trilioni di dollari depositati nei paradisi fiscali. In cima alla classifica brilla la Svizzera, seguita da Lussemburgo, Hong Kong, le Cayman, Singapore, gli Usa.Secondo John Christensen, dato che il capitale di privato depositato offshore è pari a 11.500 miliardi di dollari, «se questo capitale generasse un profitto modesto diciamo del 7% e se questo reddito fosse tassato a un’aliquota molto bassa, ad esempio del 30%, i governi del mondo avrebbero ogni anno un surplus di reddito pari a 250 miliardi di dollari, che potrebbero spendere per alleviare la povertà e raggiungere gli obiettivi di sviluppo fissati dalle Nazioni Unite». Sicuramente, aggiunge Carpentieri, in termini di giustizia sociale determinate istituzioni bancarie, grandi imprese e politici dovrrebbero «pagare il danno morale, sociale e ambientale che stanno causando a singole comunità, a singoli Stati e all’umanità intera». La soluzione? «Il ripristino della sovranità monetaria per favorire l’interesse della Repubblica e avviare un percorso di transizione, dall’era industriale verso una comunità fondata sul lavoro dell’equilibrio ecologico e non più sul profitto».«Nell’epoca dell’avidità e delle guerre per massimizzare i profitti delle SpA nessun politico calato dall’alto avrà il coraggio di spegnere l’interruttore dell’immoralità», e ovviamente «nessun partito pensa di riformare il processo decisionale della politica – riforma dei partiti, elezioni primarie per legge, democrazia diretta», sostiene Peppe Carpentieri. «Una delle più grandi menzogne spacciate dai media e dai politici nostrani è che l’Eurozona avrebbe promesso un miglioramento del benessere collettivo». I mantra della “religione” liberista? Crescita e competitività, a parole. Nei fatti, invece, il cambio fisso dell’Eurozona, il patto di stabilità e crescita nonché il Fiscal Compact «sono tutti strumenti che hanno sostenuto il processo di recessione avviato prima con lo Sme, poi nel 1981 con la separazione fra Tesoro e Banca d’Italia, e accelerato con la deregolamentazione bancaria e finanziaria, fino ad esplodere nel 2008 con la crisi dei mutui subprime che ha raggiunto l’Eurozona».
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Svalutazione, i miracoli dell’export e la catastrofe euro
In un mondo glabalizzato, la svalutazione competitiva – invocata e impugnata da molti no-euro – non sarebbe più un toccasana, sostengono Carlo Altomonte e Tommaso Sonno, in un intervento su “La Voce”, ripreso da “Megachip”. La loro critica alla “svalutazione facile” si concentra però su un solo aspetto dell’economia, e cioè l’export, mentre trascura totalmente il problema più acuto della presente crisi economico-finanziaria, ovvero l’attacco storico allo Stato, ricattato dalla finanza mondiale e dalla moneta “privatizzata” che trasforma in un incubo il peso del debito pubblico. Molti economisti, sia i “sovranisti” keynesiani che i fautori della riconversione sostenibile dell’economia, insistono infatti sulla fragilità strutturale di un sistema economico neoliberista fondato sulle esportazioni, a cui sarebbe necessario contrapporre un sistema alternativo, nazionale, più ecologico, fondato sulla domanda interna e sulla filiera corta, l’economia sociale dei territori.Nel loro lungo intervento, nel quale si elencano i presunti rischi dell’uscita dalla camicia di forza della moneta unica governata dalla Bce su input della Bundesbank, Sonno e Altomonte dimostrano che «l’Italia esporta beni “direttamente” alla Germania, ma “indirettamente” esporta componenti che entrano in prodotti che poi la Germania vende agli Usa». Oggi, aggiungono i due analisti, l’80% del commercio internazionale di beni avviene attraverso le catene globali del valore: «Mentre uscire da una “value chain” è facile, entrarci è difficile, perché i costi fissi di chi importa input sono alti, l’efficienza richiesta a chi esporta è elevata e, in generale, prima di modificare la struttura di una catena del valore ci si pensa seriamente». Rilevanti, inoltre, «i ritardi strutturali dell’economia italiana, con un sistema di imprese ancora in parte piccolo, sottocapitalizzato e meno efficiente rispetto ai concorrenti internazionali».Sempre riguardo all’export, «agli occhi americani tutto quello che conta è il prezzo dei beni tedeschi, che a quel punto dipenderà dalla competitività delle imprese tedesche (che noi non controlliamo) e dal tasso di cambio euro tedesco-dollaro, che oggi in parte controlliamo attraverso la Bce, ma che domani, uscendo dall’euro, non controlleremmo più». Con una svalutazione della nuova lira, aggiungono Altomonte e Sonno, se decidessero di non modificare i loro prezzi, «le imprese tedesche pagherebbero sicuramente meno la stessa quantità di beni italiani, facendo profitti maggiori, senza che per questo le imprese italiane vendano di più alla Germania, poiché la domanda americana dei prodotti tedeschi non varia». In compenso «le aziende italiane, senza vendere di più, pagherebbero comunque di più le importazioni di materie prime comunque necessarie per produrre gli input da vendere alla Germania».Questa è la ragione che spinge i due analisti a sostenere che «un’uscita dell’Italia dall’euro rischia di avere come risultato profitti che salgono in Germania e che scendono in Italia». La colpa dei no-euro dell’ultima ora? «Guardare al mondo di oggi con gli strumenti analitici del secolo scorso». Se è vero però che i vantaggi della moneta sovrana per le esportazioni potrebbero essere effimeri, sono invece catastroficamente palesi tutti gli svantaggi dell’euro per l’economia nazionale complessiva, la tenuta dello Stato, il governo democratico delle istituzioni. E a proposito di storia, bisogna risalire non al secolo scorso, ma al medioevo feudale, per rilevare un analogo dispositivo di potere, così verticistico, elitario e oligarchico. La politica dell’euro di fatto amputa lo Stato nelle sue prerogative costituzionali (investire, a deficit, per i cittadini) e gli toglie il portafoglio con cui far fronte al debito pubblico e alla spesa sociale. Ne sono diretta conseguenza la contrazione del credito, la chiusura di centomila aziende all’anno, la super-tassazione, la disoccupazione record. In altre parole: l’unica certezza è che, se resta nell’euro, l’Italia non ha scampo. E secondo il sociologo Luciano Gallino, un’economia fatta di solo export – cioè di salari sempre più magri, per riuscire a competere nella fabbrica-mondo – finirà a gambe all’aria anche la Germania.In un mondo globalizzato, la svalutazione competitiva – invocata e impugnata da molti no-euro – non sarebbe più un toccasana, sostengono i bocconiani Carlo Altomonte e Tommaso Sonno, in un intervento su “La Voce”, ripreso da “Megachip”. La loro critica alla “svalutazione facile” si concentra però su un solo aspetto dell’economia, e cioè l’export, trascurando totalmente il problema più acuto della presente crisi economico-finanziaria, ovvero l’attacco storico allo Stato, ricattato dalla finanza mondiale e dalla moneta “privatizzata” che trasforma in un incubo il peso del debito pubblico. Molti economisti, sia i “sovranisti” keynesiani che i fautori della riconversione sostenibile dell’economia, insistono infatti sulla fragilità strutturale di un sistema economico neoliberista fondato sulle esportazioni, a cui sarebbe necessario contrapporre un sistema alternativo, nazionale, più ecologico, fondato sulla domanda interna e sulla filiera corta, l’economia sociale dei territori.
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Il giudice: l’euro condanna a morte l’Italia antifascista
Il trattati europei violano apertamente la Costituzione italiana, vanno in direzione diametralmente opposta: per la nostra Carta, «scritta da persone che avevano fatto la Resistenza e preso atto dell’anti-socialità di un certo capitalismo», la spesa sociale (deficit) è il “mestiere” dello Stato: «L’essenza stessa delle democrazie è la garanzia del benessere a lungo termine, che c’è solo con la piena occupazione della forza lavoro». L’euro e gli eurocrati fanno esattamente il contrario: costringono lo Stato a tagliare la spesa sociale, cioè a tradire la propria missione costituzionale. Lo afferma un magistrato, Luciano Barra Caracciolo, già membro del Consiglio di Stato, impegnato a smascherare l’impostura della governance Ue, affidata a tecnocrati al servizio dell’élite finanziaria. Personaggi che colpevolizzano paesi come l’Italia, che in realtà versa a Bruxelles molto più di quanto non riceva. E’ il gioco sporco dell’oligarchia: «Tanto più si privilegia il capitale nella sua dimensione finanziaria, tanto più si sacrifica il livello di benessere generale e si sposta la ricchezza nelle mani di pochi».Una volta attuate, dichiara Barra Caracciolo ad “Abruzzo Web”, le democrazie costituzionali contemporanee portano a una crescita incrementata programmaticamente da un intervento pubblico «che è, prima di tutto, correttivo dell’assetto di forze che il capitalismo tende a creare». Un assetto «redistributivo verso la parte più debole, e largamente maggioritaria, della comunità sociale». L’effetto di questa correzione statale è che «tutti stanno meglio», perché la priorità indiscutibile è «la soddisfazione dei bisogni collettivi, non certo la stabilità finanziaria intesa come garanzia della intangibilità dei profitti del capitalismo finanziario». La democrazia moderna quindi “aiuta” la maggioranza, non i privilegiati, e questo «non sta bene a chi sta in cima alla piramide», anche perché la crescita del benessere diffuso «comporta una crescita culturale della massa e fa sì che questa abbia maggiore peso politico», contrastando le élite che tendono invece a condizionare i governi dall’alto del loro potere economico. Ed ecco spiegata l’attuale Ue con la sua Eurozona: sbaraccare lo Stato democratico e restituire il potere all’oligarchia, secondo uno schema pre-moderno, neofeudale.Certo, chi è a favore dell’euro spara a zero contro l’Italia, considerata incapace di intercettare al meglio i fondi europei. Errore, interviene il magistrato: i fondi europei sono nel bilancio dell’Ue ma non dell’unione monetaria, «che è stata deliberatamente creata senza un bilancio fiscale federale: i trattati non offrono strumenti compensativi degli squilibri interni all’area euro, e le dimensioni dei cosiddetti fondi Ue sono assolutamente inadeguate al Pil europeo». Ogni altro sistema federale al mondo – Usa, Canada, la stessa Germania – dispone di ben altro budget. Dato il peso economico dell’Europa, secondo l’economista francese Jacques Sapir servirebbe un bilancio federale europeo paragonabile a quello degli Stati Uniti. «Ma di questo bilancio, la Germania dovrebbe sopportare un peso pari a 8-9 punti del proprio prodotto interno lordo: un risultato semplicemente impensabile, e certamente respinto senza equivoci dalla stessa Germania».Dall’Unione Europea (non dall’area euro) si ripete che agli Stati come l’Italia viene semplicemente “restituita”, in parte, una somma che gli Stati hanno già versato. Per effettuare questa contribuzione netta, dati i vincoli di bilancio (drastica limitazione del deficit, fino all’attuale vincolo al pareggio di bilancio), «dobbiamo sostanzialmente rinunciare ai programmi pubblici previsti dalla nostra Costituzione» dice Caracciolo. «L’Unione Europea, in pratica, ne vieta la piena attuazione nei livelli solidaristici da essa previsti, non si scappa. Insomma, diamo dei soldi e ne riceviamo di meno, il meccanismo è questo. Le priorità, poi, vengono pianificate a livello eurocentrico, secondo finalità settoriali, ben diverse da quelle previste dalla nostra Costituzione». Cifre: ogni anno, secondo la Corte dei Conti, sono oltre 6 miliardi in meno che riceviamo rispetto alla nostra contribuzione. Inoltre, per la stabilizzazione della moneta unica – cioè degli squilibri creati dall’euro – solo negli ultimi tre anni abbiamo dovuto pagare, a vario titolo ed emettendo debito pubblico aggiuntivo (che ci viene poi rimproverato come “colpa”, costringendoci a ulteriori dosi di austerità) oltre 53 miliardi, tra cui i 10 miliardi di soccorsi bilaterali concessi a Spagna e Grecia.Ma anche spendendo per sostenere i paesi più deboli, l’Unione Europea non fa la cosa giusta, nel modo giusto: «I fondi accumulati per tenere su i sistemi bancari greci o spagnoli non sono stati usati per incrementare i bilanci di intervento sull’economia reale di quei paesi, ma vengono direttamente dati in pagamento alla Bce», che compra – da Francia e Germania – i titoli di Stato spagnoli e greci Parigi e Berlino avevano acquisito. Oppure, gli “aiuti” vengono immediatamente girati dagli Stati debitori al sistema bancario dei paesi creditori, quello tedesco in primis. In ogni caso, data la sua esiguità, per un vero “salvataggio” non sarebbe sufficiente neppure il fondo del Mes, il meccanismo europeo di stabilità. E così, nel frattempo le tasse aumentano: «Dall’assetto giuridico attuale non possiamo attenderci che una continua progressione della pressione fiscale», dice Barra Caracciolo. Una super-tassazione, «spesso artificiosa e contraria alla Costituzione», realizzata sia attraverso la moltiplicazione del tipo di imposte, sia attraverso «il continuo allargamento normativo delle basi imponibili», che però tendono a contrarsi dato che siamo in recessione.Uno dei drammi italiani è proprio il crollo della domanda interna di consumi, che aggrava il debito perché riduce il gettito fiscale e compromette il futuro: «Se non c’è più domanda interna, non c’è incentivo alcuno a fare nuovi investimenti in Italia. Chi vorrebbe produrre non lo fa perché non ci sono prospettive di vendere il prodotto, e il carico fiscale rende difficile immaginare anche la convenienza dell’esportazione». Per il magistrato, «siamo nel pieno della visione neoclassica dell’economia», quella della destra economica. «Siamo praticamente in stagnazione dal 1992». Già all’epoca del Trattato di Maastricht «era evidente che non si potesse tollerare un vincolo di cambio e di bilancio fiscale del genere e mantenerlo insieme alla crescita». L’euro – moneta rigida e non sovrana – non può che deprimere l’economia, tagliando le gambe all’unico possibile volano risolutivo, l’intervento statale: in una situazione di crisi, senza investimenti pubblici il settore privato crolla.«In un’economia liberista come quella dell’area euro, fondata sulla lotta all’inflazione e sulla limitazione dell’intervento pubblico, si finisce nella trappola della liquidità», spiega Luciano Barra Caracciolo. «Anche se i tassi praticati dalla banca centrale sono vicini allo zero, i soldi rimangono là, fermi. E i risparmi fermi non si trasformano in investimenti». Questo viene regolarmente imputato «alla mancanza di produttività del lavoro, che viene ulteriormente compresso nel salario: ciò che chiamano “riforme strutturali”», dalla riforma Fornero al Jobs Act di Renzi, dopo il pacchetto Treu del primo governo Prodi e poi la legge Biagi. Secondo Giulio Sapelli, siamo sull’orlo di una guerra. In realtà, la competizione tra Stati è già esplosa: avremmo dovuto cooperare, ma è lo stesso Trattato di Maastricht a parlare di “economia sociale di mercato fortemente competitiva”, prefigurando quindi «una competizione tra Stati per la supremazia sul mercato unico».Eccoci qua: «Privi di governo federale e di sovranità monetaria, stretti da vincoli di bilancio che escludono ogni autonoma politica economica e industriale nazionale, gli Stati non hanno più la parte essenziale della sovranità. Ma quella sovranità, sottrattagli ben oltre i limiti previsti dalla Costituzione per consentire di aderire a un’organizzazione internazionale, non è poi esercitata da nessuno, in termini di politiche di interesse generale dei popoli. È come se ci fosse un buco nero in cui la sovranità si disperde». Gli Stati della nuova Europa? «Devono competere tra loro, altre vie non vengono indicate». Secondo Paul Krugman, Premio Nobel per l’Economia, tutto questo non porta sviluppo: si può anche vincere sulle esportazioni, ma nessuno vince se si vuole realizzare questo obbietivo tutti insieme simultaneamente. Risultato: zero crescita comune, proprio grazie alla perduta sovranità “dispersa nel nulla”. L’export in ogni caso non è la soluzione: «Le esportazioni si mandano avanti comprimendo domanda interna e salari: quindi, negli effetti sociali, siamo in guerra», sottolinea Caracciolo. «Chi perde si trova di fronte a perdite epocali e a un impoverimento che diviene irreversibile».Apriamo gli occhi, aggiunge il magistrato: «Non è l’euro ad aver garantito la pace: semmai è uscire dall’euro che porterebbe finalmente a una “pace”, intesa come armonizzazione cooperativa sul piano commerciale e industriale, che oggi non c’è perché è appunto incentivata una guerra commerciale-finanziaria dalla stessa struttura istituzionale della non-politica monetaria accentrata nella Bce». A questa analisi, la propaganda comune – e i mezzi di informazione di massa – replicano nel solito modo, cioè puntando il dito contro i presunti vizi italiani: non abbiamo mai saputo governarci bene, quindi non cresceremmo nemmeno in caso di uscita dall’euro. Il che è falso, puntualizza il giudice: «L’Italia se la cavava benissimo, riuscendo a stare almeno alla pari di Francia e Inghilterra, con una struttura industriale più dinamica». Fino all’irruzione dello Sme, il sistema monetario europeo e quindi il “vincolo esterno” alla spesa pubblica, «la realtà economico-industriale italiana non era affatto quella mostruosità che è stata dipinta ad arte da chi voleva “ridimensionare” l’Italia». Cifre alla mano, Bara Caracciolo smentisce i pro-euro: tra gli anni ‘70 e gli ‘80 l’Italia aveva una bassa spesa pubblica, inferiore di 10 punti alla spesa tedesca.C’era un deficit strutturale, certo, «ma il deficit non è un in sé un elemento negativo per il prodotto interno lordo», visto che corrisponde «all’immissione pubblica di moneta nel sistema», cosa che da noi «ha generato un grande risparmio privato», il primo d’Europa: gli italiani, in altre parole, si sono arricchiti anche grazie all’azione strategica dello Stato, che ha “speso a deficit per i cittadini”, aziende e famiglie, permettendo al sistema-paese di svilupparsi nel modo che abbiamo visto. Il debito pubblico? Altra mistificazione: nel 1981, al momento del divorzio fra Tesoro (Andreatta) e Banca d’Italia (Ciampi), il debito era appena al 58%, sottolinea Barra Caracciolo. Poi è esploso, quando è stato affidato ai titoli di Stato sul mercato finanziario privato, imbrigliando lo Stato prima con lo Sme – tassi di cambio a oscillazione limitata – e infine con l’euro, moneta iper-rigida che ci vincola «a realtà economiche come la Germania, strutturalmente inconciliabili con la nostra». Morale: «Sottraendo deficit e debito dalle mani dello Stato sovrano, si è avuta un’esplosione degli interessi». Non a caso, naturalmente: «Già in quel momento hanno cominciato ad arricchirsi minoranze di privati che sono diventati i sottoscrittori privilegiati di questo debito a interessi superiori al livello dell’inflazione, determinandosi un trasferimento a loro favore dei soldi dei contribuenti».Uno dei refrain del centrosinistra – da Prodi a Renzi – è la necessità di tagliare la spesa pubblica. E’ solo «una scusa», replica Luciano Barra Caracciolo. «In termini assoluti la spesa italiana non è mai stata alta, era sotto controllo: il problema del deficit era in realtà dovuto alla pressione fiscale relativamente bassa rispetto agli altri paesi europei come Francia e Germania», con in più una vasta evasione fiscale. Con Maastricht, si è cercato di “rimediare” aumentando la pressione fiscale su tutte le categorie produttive. Questo, insieme al cambio sfavorevole (l’euro troppo “forte”) e al venir meno del sostegno pubblico (il taglio del deficit) ha provocato «il blocco dello sviluppo industriale», cioè la grande crisi italiana, sottoposta allo choc improvviso della moneta unica, del rigore fiscale e della fine del sostegno pubblico. Il problema dunque non è l’Italia, ma questa Unione Europea. Il famoso malgoverno italiano? «Non era peggiore di altri ordinamenti in competizione, come Francia e Germania», e in ogni caso gli illustri tangentocrati del passato non hanno certo impedito al paese di svilupparsi rapidamente, arricchendo famiglie e aziende. «Capiamoci bene», insietre Caracciolo: «Con le attuali politiche fiscali, e specialmente col pareggio di bilancio, si azzererà il risparmio privato delle famiglie».«È un fatto di contabilità nazionale, non si può non capire un concetto così elementare», continua il magistrato. «Se devo tenere il deficit sotto un certo limite, si deve comprimere la domanda fino a provocare la recessione». Ma attenzione: il deficit non è un problema. Al contrario: «E’ il risparmio del settore privato». Sono soldi che lo Stato spende per cittadini e aziende. Se invece si taglia, e quindi si comprime la domanda interna di beni e servizi, il saldo arriva allo zero. Pareggio di bilancio, appunto. Così, l’onere degli interessi viene trasferito «nelle mani di chi detiene il debito pubblico», cioè «non certo le famiglie, ormai marginalizzate». Peggio ancora: «Col pareggio di bilancio si arriverà addirittura a un risparmio negativo: per fronteggiare la vita e le tasse, i cittadini dovranno vendere i propri beni patrimoniali, intaccando lo stock di risparmio. Questi beni andranno in sovraofferta, e i prezzi caleranno drammaticamente. Guardate i prezzi degli immobili, già in aperta flessione. In vent’anni di Fiscal Compact i valori reali saranno ridotti almeno a un terzo rispetto ai picchi della metà degli anni 2000. Alla fine del processo saremo tutti più poveri».E mentre il Pd continua a chiedere “più Europa”, proponendo il tedesco Martin Schulz alla guida dell’Ue, «si sta deindustrializzando l’Italia: la Germania su tutte vuole controllarla, in quanto sua principale concorrente industriale nell’area euro». Obiettivo: fare del nostro paese «una gigantesca fabbrica-cacciavite, a bassi salari, progressivamente decrescenti». Insiste il giudice: «La Germania non vuole un’Italia viva e vitale, proprio perché è il principale concorrente sul mercato unico. Fingendo di non volerci – come confermano le posizioni di Helmut Kohl durante la trattativa finale per l’introduzione dell’euro – costrinse l’Italia a entrare nella moneta unica, sapendo di poterla neutralizzare definitivamente nella sua competitività grazie al livello di cambio impostoci per sempre». Certo, televisioni e giornali non hanno certo aiutato gli italiani a capire quello che stava accadendo: «Gli editoriali italiani degli ultimi trent’anni sui più importanti quotidiani ci hanno detto enormi bugie, falsificando il senso economico del deficit e della spesa pubblica. Un lavoro ben orchestrato dai padroni finanziari. Colpevolizzando gli italiani e l’Italia spendacciona siamo arrivati alla povertà: dovevamo espiare i peccati e rinunciare a tutti i nostri diritti sociali. In Europa funziona così». Alla Bce è vietato espressamente di sostenere gli Stati e l’occupazione. «Se non cambiamo è la fine: di tutti».I trattati europei violano apertamente la Costituzione italiana, vanno in direzione diametralmente opposta: per la nostra Carta, «scritta da persone che avevano fatto la Resistenza e preso atto dell’anti-socialità di un certo capitalismo», la spesa sociale (deficit) è il “mestiere” dello Stato: «L’essenza stessa delle democrazie è la garanzia del benessere a lungo termine, che c’è solo con la piena occupazione della forza lavoro». L’euro e gli eurocrati fanno esattamente il contrario: costringono lo Stato a tagliare la spesa sociale, cioè a tradire la propria missione costituzionale. Lo afferma un magistrato, Luciano Barra Caracciolo, già membro del Consiglio di Stato, impegnato a smascherare l’impostura della governance Ue, affidata a tecnocrati al servizio dell’élite finanziaria. Personaggi che colpevolizzano paesi come l’Italia, che in realtà versa a Bruxelles molto più di quanto non riceva. E’ il gioco sporco dell’oligarchia: «Tanto più si privilegia il capitale nella sua dimensione finanziaria, tanto più si sacrifica il livello di benessere generale e si sposta la ricchezza nelle mani di pochi».
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Scarpinato: la crisi aumenta il potere del sistema-mafia
Pensare un’azione antimafia realmente efficace in un contesto di sgretolamento dei diritti è una contraddizione in termini. Si potrebbero arrestare tutti i giorni centinaia di affiliati con la certezza che il giorno dopo verrebbero prontamente sostituiti. La storia italiana è una storia diversa da quella degli altri paesi di democrazia europea avanzata, perché nei paesi come la Francia, come l’Inghilterra, come la Gemania quasi non esiste una questione criminale, o meglio, la questione criminale è un capitolo assolutamente marginale e secondario della storia nazionale, di cui si occupano soltanto gli specialisti, i magistrati e i criminologi, perché tranne poche eccezioni le gesta criminali sono quelle della criminalità comune: rapine, omicidi e traffico di stupefacenti. In Italia non è così. Perché in Italia la questione criminale è sempre stata inestricabilmente intrecciata con la storia nazionale, la storia con la S maiuscola. I protagonisti delle vicende criminali non sono stati soltanto esponenti delle classi disagiate e popolari, ma anche pezzi importanti della classe dirigente.L’oscenità del potere? E’ l’impostura culturale che la mafia è solo una storia di brutti sporchi e cattivi, di cui sono protagonisti personaggi come Riina, Provenzano o i casalesi. La realtà è che, tranne un breve periodo che dura dal 1980 al 1990, i più grandi capi della mafia sono sempre stati borghesi. Il capo della mafia di Corleone, prima di Riina e Provenzano, era un medico chirurgo: il dottor Michele Navarra. La lezione della storia ci insegna che in questo paese nessuno – fosse di centro, destra o sinistra – ha mai potuto governare senza venire a patti con questo blocco sociale che è anche il principale responsabile del sottosviluppo del Mezzogiorno, della privazione sistematica delle risorse. Situazione che oggi è più grave: a causa di fattori macrosistemici come l’avanzare del federalismo fiscale, il tetto massimo stabilito alla spesa pubblica dopo il Trattato di Maastricht e altri fattori di crisi economica, il Sud precipita sempre di più in una situazione di degrado economico, la forbice del differenziale tra Nord e Sud aumenta, una parte del Nord tende a staccarsi per seguire la locomotiva del Nord Europa e abbandonare il Sud al suo destino.Questo Sud privato di risorse avrà il problema di garantire a milioni di persone di mettere insieme il pranzo e la cena. In assenza di spesa pubblica, il pericolo è che per evitare che il Sud diventi una polveriera sociale ci si affida all’economia alternativa del crimine, cioè che il Sud diventi un’enorme zona di no-tax, una sorta di Singapore del Mediterraneo, dove l’economia si genererà grazie al porto franco, all’afflusso di capitali sporchi, alle case da gioco, alla benzina defiscalizzata e quant’altro. Noi continuiamo ad avere un Parlamento, consigli regionali, governi e organi rappresentativi affollati di persone che sono state condannate per mafia, e che nonostante ciò restano degli “intoccabili”. Continuiamo ad avere quella che poco fa ho chiamato borghesia mafiosa, che è un pezzo importante di classe dirigente, ed è il vero terreno su cui si gioca il futuro della lotta alla mafia.Nel libro “Il ritorno del Principe” leggo il sistema di potere mafioso attraverso la lente dei “Promessi sposi”: non ci si può illudere di sconfiggere la mafia arrestando solo i Bravi. Rispetto a quella legale dello Stato, l’offerta sociale mafiosa prospera quando le persone non hanno la possibilità di vedere riconosciuti i propri diritti, quando sono costrette a piegarsi per avere un lavoro, per avere un minimo di dignità sociale, quando uno Stato non è in grado di offrire occupazione e pari dignità ai cittadini. È allora che molta gente è spinta a mettersi nelle mani della mafia, che quantomeno garantisce una sopravvivenza economica.(Roberto Scarpinato, dichiarazioni rilasciate ad Antonello Castellano per l’intervista “Il lato osceno del potere”, apparsa su “Narcomafie” e ripresa da “Megachip” il 22 aprile 2014. Magistrato antimafia, Scarpinato ha firmato con Saverio Lodato il libro “Il ritorno del Prinicipe”, edito da Chiarelettere).Pensare un’azione antimafia realmente efficace in un contesto di sgretolamento dei diritti è una contraddizione in termini. Si potrebbero arrestare tutti i giorni centinaia di affiliati con la certezza che il giorno dopo verrebbero prontamente sostituiti. La storia italiana è una storia diversa da quella degli altri paesi di democrazia europea avanzata, perché nei paesi come la Francia, come l’Inghilterra, come la Germania quasi non esiste una questione criminale, o meglio, la questione criminale è un capitolo assolutamente marginale e secondario della storia nazionale, di cui si occupano soltanto gli specialisti, i magistrati e i criminologi, perché tranne poche eccezioni le gesta criminali sono quelle della criminalità comune: rapine, omicidi e traffico di stupefacenti. In Italia non è così. Perché in Italia la questione criminale è sempre stata inestricabilmente intrecciata con la storia nazionale, la storia con la S maiuscola. I protagonisti delle vicende criminali non sono stati soltanto esponenti delle classi disagiate e popolari, ma anche pezzi importanti della classe dirigente.
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Zupo, ex dirigente Pci: il M5S unico erede di Berlinguer
«Ai miei tempi l’onestà era un dna che andava preservato accuratamente, oggi è un optional fastidioso. Il pensiero di Berlinguer è attualissimo e l’unico erede della questione morale è il Movimento 5 Stelle». Parola dell’avvocato Giuseppe Zupo, 73 anni, responsabile nazionale giustizia del Pci ai tempi di Berlinguer. «Allora – dice Zupo, intervistato da “Micromega” – la corruzione non aveva il peso devastante che ha assunto negli anni successivi». C’era il terrorismo, che «trovava terreno fertile tra l’insoddisfazione dei giovani e delle masse popolari». Per questo Berlinguer «si è preoccupato di riguadagnare la fiducia dei cittadini nei confronti dello Stato, da qui la questione morale e l’intransigenza sull’onestà delle istituzioni». La battaglia di Grillo, dunque. E Renzi? «E’ il nulla, e sul niente c’è poco da dire». Quanto a Vendola, «sull’Ilva di Taranto ha fatto uno scivolone terribile e avrebbe dovuto trarne immediatamente le conseguenze: non si ride con i padroni che hanno inquinato una città e prodotto morti su morti».Questione morale non significa solo “non rubare”, è l’idea che lo Stato e le istituzioni democratiche sono un bene pubblico, «da preservare con attenzione essendo di proprietà di una comunità, frutto di sforzi di generazioni che nel passato hanno costruito le fondamenta per quelle future». Per Zupo, la “questione morale” impugnata dal leader del Pci era figlia della grande tradizione liberale, proveniente dalla Rivoluzione Francese, «non relegabile al campo della sinistra» ma cara a qualsiasi sincero democratico. Poi, dopo Berlinguer, il declino inarrestabile dei grandi ideali, in quel partito. Zupo “salva” anche il successore di Berlinguer, Alessandro Natta: dice che fu «defenestrato, mentre era in ospedale, dai vari D’Alema, Occhetto e Veltroni: lo dichiararono dimissionario – mentre era un falso – e lui apprese dal giornale radio di non essere più segretario del Pci». Prima di morire, nel 2001, Natta ha rilasciato un’intervista all’Unità: denunciava «la degenerazione che si era creata con Occhetto».Domanda: tra le forze politiche organizzate di oggi, chi ha preso il testimone di Berlinguer sulla questione morale? «Lo so, farò inorridire i miei compagni di una volta», premette Zupo. «Sono comunista semel semper berlingueriano e dopo il Pci non mi sono iscritto a nessun partito perché nessuno ha portato più avanti quei valori. Ora – dichiara – vedo nel M5S l’unico possibile erede». Una convinzione radicata: «Ho votato il movimento alle ultime elezioni nazionali e – pur non essendo un uomo ricco – l’ho finanziato. Sono andato al comizio di San Giovanni a Roma, prima del voto, e sono rimasto colpito dall’enorme partecipazione e dalla composizione della piazza: cittadini, lavoratori, giovani. La rappresentanza come servizio nelle istituzioni, a termine, per poi ritornare al proprio status di prima. Senza fortune politiche come avviene per gli altri partiti». Confortante, per Zupo, anche il dopo-voto: «I parlamentari 5 Stelle sono persone normalissime: casalinghe, ingegneri, impiegati, gente dalla porta accanto, non arruffoni di soldi e poltrone. Per questo sono del M5S e tornerò a votarlo».«Dall’altra parte – continua l’avvocato – abbiamo quel Pd che, tra l’incostituzionale “Porcellum” e la nuova legge elettorale, ha abrogato le preferenze togliendo alle persone il diritto di poter selezionare la propria classe dirigente. Il nominare loro i parlamentari è solo l’ennesimo atto di autoreferenzialità di una politica ormai lontana dai cittadini». Ormai il Pd è il partito di Renzi. «Berlinguer riteneva che Occhetto fosse solo un venditore di slogan e non un costruttore di politiche. Io penso lo stesso del premier Matteo Renzi, non aggiungo altro: è il nulla». Nella sinistra ufficiale, ci sono anche personaggi come Civati, il quasi-dissidente. «Civati è una persona simpatica e educata ma è compatibile al sistema», dice Zupo: «Ogni volta è lì lì per rompere e poi rientra nei ranghi: voto il M5S perché voglio una forza capace di ribaltare il tavolo su cui questi signori consumano la politica, e non qualcuno che cambi loro le stoviglie».Ai 5 Stelle, conclude l’avvocato, sono stati tesi dei trabocchetti, per esempio da Bersani, e i neoparlamentari hanno commesso errori d’inesperienza e ingenuità: per questo vanno sostenuti, perché continuino a crescere. Il Pd, invece, «ha disperso un immenso patrimonio, quello del Pci». Come diceva Natta, «non hanno tenuto conto che eravamo il punto di arrivo di una particolarità storica, significativa e apprezzata a livello internazionale: un partito socialdemocratico, sul modello scandinavo, che aveva con sé la classe operaia». Tutto questo, sostiene Zupo, non deve andare perduto, e il Movimento 5 Stelle è un’occasione: «In Europa il malcontento si sta riversando verso partiti reazionari, fascisti o addirittura neonazisti, mente qui da noi prende le sembianze del M5S che è invece antifascista, democratico e progressista. Basta osservare come Grillo ha replicato al corteggiamento di Marine Le Pen. Questa specificità del M5S andava compresa e sostenuta, e non osteggiata come fatto dal Pd. Anche le istituzioni che continuano ad accusare il movimento di populismo sbagliano in maniera grossolana».«Ai miei tempi l’onestà era un dna che andava preservato accuratamente, oggi è un optional fastidioso. Il pensiero di Berlinguer è attualissimo e l’unico erede della questione morale è il Movimento 5 Stelle». Parola dell’avvocato Giuseppe Zupo, 73 anni, responsabile nazionale giustizia del Pci ai tempi di Berlinguer. «Allora – dice Zupo, intervistato da “Micromega” – la corruzione non aveva il peso devastante che ha assunto negli anni successivi». C’era il terrorismo, che «trovava terreno fertile tra l’insoddisfazione dei giovani e delle masse popolari». Per questo Berlinguer «si è preoccupato di riguadagnare la fiducia dei cittadini nei confronti dello Stato, da qui la questione morale e l’intransigenza sull’onestà delle istituzioni». La battaglia di Grillo, dunque. E Renzi? «E’ il nulla, e sul niente c’è poco da dire». Quanto a Vendola, «sull’Ilva di Taranto ha fatto uno scivolone terribile e avrebbe dovuto trarne immediatamente le conseguenze: non si ride con i padroni che hanno inquinato una città e prodotto morti su morti».
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Euro-nazisti, negano la strage. Hitler era meno bugiardo
Quattro milioni e 68.250: è il numero delle persone che in Italia sono state costrette a chiedere aiuto per mangiare nel 2013, con un aumento del 10% sull’anno precedente. Lo ha calcolato la Coldiretti, analizzando il piano di distribuzione degli alimenti agli indigenti realizzato dall’Agea, l’Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura, in riferimento ai dati Istat sulle famiglie rimaste senza reddito. Notare che si tratta di cifre ufficiali, approssimate per difetto, visto che non tengono conto di chi ha chiesto aiuto attraverso canali informali, cioè amici e parenti. Un dato destabilizzante, rileva “Come Don Chisciotte”, nonostante sia stato sostanzialmente oscurato dai media mainstream. Colpo d’occhio: «Se mettessimo in fila quelle persone, dando a ciascuna soltanto mezzo metro di spazio, si formerebbe una fila che parte da Reggio Calabria e finisce a Bruxelles», ovvero la città «in cui ha sede il meccanismo di dominazione tirannica basato sullo smantellamento delle istituzioni democratiche e sull’impoverimento generalizzato che si definisce Unione Europea».Si può calcolare che, «per ciascuno di quelli che hanno chiesto un pasto caldo o il pacco alimentare, ci sia solo un’altra persona a condividerne in qualche modo o a subirne di riflesso le sofferenze: giusto quanti ne bastano per far sì che quella fila, una volta arrivata a Bruxelles, possa tornare indietro fino a Reggio Calabria». E se agli italiani costretti a umiliarsi aggiungiamo milioni di cittadini Ue, ridotti in miseria dalla moneta unica? «A quel punto, il continente che un tempo possedeva il più avanzato e inclusivo sistema di welfare – e per questo era universalmente stimato e rispettato come quello in cui la sua civiltà millenaria si esprimeva al livello più alto – si vedrebbe attraversato in ogni direzione da file di diseredati, lunghe migliaia e migliaia di chilometri», scrive “Clack” su “Come Don Chisciotte”. «Se i progetti grandiosi della Ue, come i cosiddetti corridoi ferroviari trans-europei ad alta velocità che avrebbero dovuto attraversare il continente da un lato all’altro sono rimasti in gran parte sulla carta, in compenso l’Europa reale ha realizzato file ancora più lunghe di poveri, disoccupati e affamati, e ha fatto in modo da distribuirle sul territorio in maniera persino più capillare».Solo la Seconda Guerra Mondiale, aggiunge il blog, è stata capace di produrre qualcosa di simile: le conseguenze della moneta unica sono paragonibili a un evento bellico di quella portata. «Negli Stati che dovrebbero essere affratellati dai trattati di unione si sta effettivamente combattendo una guerra», con mezzi «forse più micidiali dei carri armati, essendo capaci di produrre danni ancora maggiori». Tutto questo per che cosa? «Per dare soddisfazione alla patologia di accumulazione compulsiva di un branco di oligarchi, e il doveroso compenso ai politici al loro servizio», politici «non eletti da nessuno» ma con un potere da usare «nella realizzazione del più micidiale strumento di devastazione sociale e istituzionale oggi conosciuto, quello che risponde al nome di euro». Sicché, «di fronte a un disastro simile, causato deliberatamente, il capo del terzo governo fantoccio che si succede in Italia in poco più di due anni non trova di meglio che rispondere con l’elemosina degli 80 euro una tantum», che peraltro «dovranno essere ripagati mediante misure più costose e permanenti, come al solito a spese dei redditi medio-bassi».Quella somma andrà a chi ha già una busta paga, per quanto misera. Viceversa, chi non ha niente – ovvero il milione e più di famiglie senza reddito – non avrà nulla. «Questo in base alla logica consolidata negli anni che prevede l’abbandonare al proprio destino la fascia dei più bisognosi, di giorno in giorno più ampia». Per “Clack”, è «il principio fondamentale della politica sociale dei partiti di falsa sinistra, da decenni intenta alla spoliazione e all’impoverimento generalizzato dei ceti subalterni». Quei partiti – Pd in testa – si sono «messi al servizio delle élite per eseguire le politiche più oltranziste della destra finanziaria», che sono lo strumento per realizzare «gli obiettivi propri del capitalismo assoluto», anche di fronte all’opinione pubblica si tenta sempre di «nascondere le responsabilità oggettive di chi ha precipitato nelle condizioni attuali un paese che, prima della moneta unica, era ai vertici delle classifiche dei paesi manifatturieri e caratterizzato da un benessere diffuso con equità ragionevole». Torniamo al potere assoluto dell’élite, al tempo i cui, in Colorado, i Rockefeller facevano strage delle famiglie dei minatori, che chiedevano condizioni di vita meno disumane.Autori ed esecutori della restaurazione iper-capitalistica e della conseguente macelleria sociale oggi in atto? Sono «nazisti, moderni Mengele», anche se questo può «apparire come la più inaccettabile delle enormità, alle anime belle e tanto volenterose del progressismo nostrano, fedele seguace della sinistra asservitasi al fondamentalismo reazionario del liberismo globalizzato». Nel mondo occidentale si viene ammaestrati fin dalla più tenera età a riconoscere il nazismo come il male assoluto per definizione, inarrivabile per ogni altra cosa. Ma se il nazismo «agiva in nome e per conto del proprio Stato», sia pure con metodi abominevoli, la classe politica di oggi «opera su mandato di poteri esterni, dei quali si è fatta collaborazionista, o meglio fantoccio». Inoltre, «il nazismo riconosceva la propria natura, non aveva problemi a palesarla», viceversa «i moderni sgherri dell’assolutismo iper-capitalista si mascherano vilmente dietro le loro teorie deliranti», ripetute fino a renderle dogma, «dietro la facciata delle istituzioni democratiche che nel frattempo hanno provveduto a sovvertire, svuotandole».Proprio l’essersi palesate in quanto tali è stato il primo punto debole di quelle dittature, aggiunge il blogger, che non a caso a suo tempo sono state finanziate molto generosamente dalle banche controllate da chi oggi persegue il disegno di dominazione globale. Le dittature storiche le guerre le dichiaravano, combattendo alla luce del sole, mentre i tiranni di oggi «muovono guerre invisibili ma ancora più micidiali, che sovente hanno per vittima il loro stesso Stato o quelli con cui si è legati da trattati di unione o amicizia». Se il nazismo non temeva l’evidenza delle sue azioni, l’istinto dei dominatori attuali è quello, innanzitutto, di nascondersi, mentire, non ammettere i loro obiettivi. E’ una «cripto-dittatura», ben più pericolosa e devastante «proprio perché praticamente invisibile». Continua “Come Don Chisciotte”: «Definire nazisti gli autori dell’odierno massacro sociale, dunque, è fuorviante ma soprattutto riduttivo». Già Orwell, in “1984”, segnalava la mancanza di vocaboli adeguati a definire un totalitarismo pervasivo e subdolo, non dichiarato. E’ questo il vero capolavoro dell’élite: l’uomo comune – la sua vittima – non sa neppure cosa stia accadendo. Come potrebbe difendersi dall’aggressione?Quattro milioni e 68.250: è il numero delle persone che in Italia sono state costrette a chiedere aiuto per mangiare nel 2013, con un aumento del 10% sull’anno precedente. Lo ha calcolato la Coldiretti, analizzando il piano di distribuzione degli alimenti agli indigenti realizzato dall’Agea, l’Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura, in riferimento ai dati Istat sulle famiglie rimaste senza reddito. Notare che si tratta di cifre ufficiali, approssimate per difetto, visto che non tengono conto di chi ha chiesto aiuto attraverso canali informali, cioè amici e parenti. Un dato destabilizzante, rileva “Come Don Chisciotte”, nonostante sia stato sostanzialmente oscurato dai media mainstream. Colpo d’occhio: «Se mettessimo in fila quelle persone, dando a ciascuna soltanto mezzo metro di spazio, si formerebbe una fila che parte da Reggio Calabria e finisce a Bruxelles», ovvero la città «in cui ha sede il meccanismo di dominazione tirannica basato sullo smantellamento delle istituzioni democratiche e sull’impoverimento generalizzato che si definisce Unione Europea».
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Governabilità? E’ la solita truffa per blindare i partiti
La stabilità politica non dipende dal sistema elettorale, ma dalla forma di governo. Se è il Parlamento a votare la fiducia, non c’è da giurare sulla durata del premier. L’unica forma veramente sicura, per l’esecutivo, è il presidenzialismo: si elegge un capo del governo, che spesso è anche il capo dello Stato, che resta in carica per l’intero mandato, al riparo dal voto delle Camere. Se l’obiettivo dei maggiori partiti è questo, cioè la famosa “governabilità”, perché ostinarsi a cambiare il sistema elettorale? Perché le «vere intenzioni» sono altre e restano occulte, sostiene Aldo Giannuli. Con il Porcellum e ora l’Italicum, il Parlamento viene subordinato al governo anche nella formazione delle leggi. Attraverso il maggioritario, il sistema politico viene blindato, sbarrando la strada agli outsider. Risultato: il ceto politico domina la società civile ed emargina le potenziali forze anti-sistema.Il ventennio maggioritario italiano, ricorda Giannuli nel suo blog, conferma che il sistema elettorale fondato su premio di maggioranza e soglia di sbarramento non mette affatto il governo al riparo dalle crisi: in 19 anni, dal 1994 a oggi, non c’è stato un solo governo capace di durare per l’intera legislatura. Nel ‘94 fu la Lega di Bossi a uscire dalla coalizione di centrodestra dopo soli sette mesi, determinando la caduta del governo Berlusconi. Quattro anni dopo, nel ‘98, fu Rifondazione Comunista a disertare dalla maggioranza di centrosinistra facendo cadere l’esecutivo Prodi. Il successivo governo D’Alema si dimise a sua volta nel 2000 per le tensioni interne alla maggioranza, lasciando il posto ad Amato. E ancora: nel 2005 fu l’Udc di Casini a provocare la caduta del Cavaliere, cui seguì un nuovo governo Berlusconi che concesse la riforma del sistema elettorale ( il “Porcellum”). E nel 2008 furono i gruppi di Dini e Mastella a far cadere nuovamente Prodi, aprendo la strada alle elezioni anticipate. Non si è trattato solo di rotture interne alle coalizioni, precisa Giannuli, ma anche di scissioni del partito di maggioranza: accadde nel 2010 con la defezione di Fini dal Pdl, che ridusse ai minimi termini la maggioranza di centrodestra, che poi crollò definitivamente nel novembre 2011.Finora, la regola del maggioritario è stata: chi si divide perde, ma chi vince poi non governa. «Il maggioritario tende a stabilizzare il quadro politico esistente e, pertanto, determina la formazione di sinistra e destra nominali, che in realtà sono entrambe forze di centro tendenti verso l’una o l’altra sponda del sistema», scrive Giannuli. «Non è un caso che, dal 1994, le coalizioni abbiano preso a denominarsi “centrosinistra” e “centrodestra”», a conferma del fatto che «nel maggioritario c’è solo un grande centro, più o meno caratterizzato in un senso o nell’altro». Legittimo proporre un assetto di sistema che abbia caratteristiche di centralità dell’esecutivo, «ma perché non dichiararlo apertamente e contrabbandare tutto con la truffa della governabilità? Forse perché la gente reagirebbe malissimo all’idea di blindare il ceto politico esistente?».La stabilità politica non dipende dal sistema elettorale, ma dalla forma di governo. Se è il Parlamento a votare la fiducia, non c’è da giurare sulla durata del premier. L’unica forma veramente sicura, per l’esecutivo, è il presidenzialismo: si elegge un capo del governo, che spesso è anche il capo dello Stato, che resta in carica per l’intero mandato, al riparo dal voto delle Camere. Se l’obiettivo dei maggiori partiti è questo, cioè la famosa “governabilità”, perché ostinarsi a cambiare il sistema elettorale? Perché le «vere intenzioni» sono altre e restano occulte, sostiene Aldo Giannuli. Con il Porcellum e ora l’Italicum, il Parlamento viene subordinato al governo anche nella formazione delle leggi. Attraverso il maggioritario, il sistema politico viene blindato, sbarrando la strada agli outsider. Risultato: il ceto politico domina la società civile ed emargina le potenziali forze anti-sistema.
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Filingeri contro Chiamparino, il populista privatizzatore
«Un mondo migliore? Me lo immagino con un contagio culturale che parta dai movimenti che hanno animato le marce per la pace, le manifestazioni della valle di Susa e che percorrono tutta l’Italia fino ad arrivare alla Sicilia con i NoMuos. Bisogna partire da persone che si scrollino di dosso l’indifferenza e la rassegnazione non solo per gridare la loro rabbia nelle piazze dei forconi, ma per tornare ad essere capaci di sognare un futuro migliore pensando ad un altro modello di sviluppo». Mauro Filingeri, 36 anni, chimico in mobilità, sindacalista Cgil e animatore dei comitati di lotta dei pendolari, è il volto nuovo della sinistra piemontese, deciso a sfidare alle regionali il Pd di Chiamparino con la lista “L’altro Piemonte a sinistra”, consonante con “L’Altra Europa con Tsipras”. Chiamparino? Impossibile definirlo “di sinistra”: «E’ il simbolo dell’attuale modello governativo nazionale in cui contano i rapporti preferenziali con la finanza e la grande industria, a scapito dei diritti e dei bisogni dei lavoratori e dei piccoli imprenditori».Anche Torino, per cent’anni capitale della Fiat, è in crisi: delocalizzazioni e disoccupazione, mentre la Fca di Marchionne emigra. «Bisognerebbe provare a frenare le multinazionali, e nel settore auto puntare anche su altri produttori, per esempio di motori elettrici». I critici dicono che i sindacati si sono lasciati ingabbiare nella concertazione, rassegnandosi alla perdita progressiva dei diritti del lavoro. «Certamente la concertazione ha contribuito a limitare la resistenza del mondo del lavoro», ammette il candidato di sinistra, «ma questo non ci impedirà di lottare: contro la riforma Fornero, l’articolo 8 e le modifiche all’articolo 18. Nelle crisi, bisogna incentivare i contratti di solidarietà e la riduzione dell’orario». Ma intanto siamo nella fabbrica-mondo: le aziende scappano, dove il lavoro costa meno. Proprio per questo, dice Filingeri, bisogna battersi contro il Ttip, il Trattato Transatlantico, che tutela le multinazionali e demolisce lo spazio sociale europeo. Il trattato è incostituzionale, e «la stessa Regione Piemonte, presente nel Comitato delle Regioni Ue, può avere voce in capitolo in materia di ambiente, istruzione e salute».«Per uscire dalle scelte nefaste delle multinazionali e dalla crisi è centrale l’intervento pubblico», indispensabile per «per mettere in campo un vero e proprio “Piano del Lavoro”, con risorse certe», per creare occupazione e stabilizzare i precari. Il guaio è che «a differenza del passato, oggi lo sviluppo non porta automaticamente a nuova occupazione: ogni aumento di produttività, se non regolato, comporta la contrazione dell’occupazione e dei salari». Per Filingeri servono “reti sociali”, ora più che mai, per rimediare ai disastri della malapolitica al servizio dei poteri forti: No-Tav, acqua pubblica, nuova finanza sociale per la gestione della Cassa Depositi e Prestiti. «Una miriade di realtà che in genere nascono dicendo “no”, proprio perché non accettano questo modello di sviluppo». Il loro grande “nemico” è proprio il Pd, che si dichiara ancora “di sinistra”. «Definire di sinistra personaggi che stanno facendo politiche di destra e che non si vergognano non solo di governarci assieme alla destra moderata, ma nemmeno di essere meri esecutori di politiche neoliberiste e tagli sociali che vengono imposti dalla Bce, è sicuramente un tranello in cui cadono tutti coloro che continuano a votare per il Pd convinti che mettere una crocetta su quel simbolo significhi essere di sinistra e serva per “evitare che vada al governo la destra”!».«La politica della “limitazione del danno”, che ha pervaso in questi anni gran parte della sinistra del nostro paese», secondo Filingeri «ci ha portato alla tragica situazione politico-sociale in cui oggi ci ritroviamo». Chiamparino, transitato dal Pci-Pds al Comune, poi alla fondazione bancaria di Intesa SanPaolo e ora proiettato in Regione, ne è un simbolo perfetto. «Un populista», lo definisce Filingeri. Che spiega: «Il populismo di Berlusconi si rivolge di più a chi vede nello Stato la controparte, l’esattore che sottrae risorse ai privati cittadini e ne limita con le leggi la libertà di sfruttare, speculare e di potersi arricchire, mentre il populismo di Chiamaprino è rivolto a chi crede che basti promuovere eventi sportivi o grandi opere (come le olimpiadi e il Tav) per dimostrare di far parte dell’Italia “sana”», tralasciando per carità di patria lo scempio ambientale delle strutture olimpiche di Torino 2006, trasformatesi in cattedrali nel deserto. «Il problema è che mentre tutti si ricordano che il condannato Berlusconi ha fondato Forza Italia con il latitante Dell’Utri, nessuno sembra si ricordi i tempi in cui La Ganga faceva il vicerè a Torino per conto di Craxi e che oggi è nuovamente tra i dirigenti del Pd torinesi. Una cosa hanno però in comune Berlusconi e Chiamparino, la volontà di privatizzare i servizi pubblici locali, i trasporti, l’acqua, la sanità, i beni comuni, che rappresentano la centralità della stato sociale del nostro paese, per favorire le imprese private. nelle scelte concrete sembrano diversi, ma sono uguali».Per il candidato di “L’altro Piemonte”, il “bisogno di sinistra” oggi è «una ribellione alle politiche di sfruttamento messe in atto dalla finanza mondiale e dalle multinazionali, che vedono le persone come consumatori o come forza lavoro al pari di un macchinario». Non solo merci, ma diritti civili, contro chi vedere solo praterie da sfruttare per arricchirsi, e non beni da preservare per le generazioni future. «Serve una rete solidale di persone che sappia creare anche un’economia solidale». Pessimo spettacolo, però, quello offerto dai partiti di sinistra. «Facile commuoversi per i barconi dei migranti e gli operai sui tetti, più difficile mettere in pratica i propri principi». Colpa dei militanti? «Sì, dovrebbero svegliarsi. Ma ora la crisi sta mettendo con le spalle al muro molte persone». Un brusco risveglio potrebbe essere anche il voto europeo: Tsipras punta a combattere «la sovrastruttura tecnocratica che reprime la democrazia». Chi lo voterà spera in una legislatura “costituente”, che possa colpire l’oligarchia finanziaria e risollevare l’economia reale dei lavoratori. «Oggi, scegliere Tsipras ha un valore simbolico per la sinistra, esprime il tentativo di recuperare l’idea di vera democrazia».“L’altra Europa” dichiara guerra all’austerity ma teme l’uscita dalla moneta unica: «Abbandonare l’euro non sarebbe indolore (aumento del debito, dell’inflazione, dei costi delle importazioni, della povertà) e non restituirebbe ai paesi il governo della moneta, ma ci renderebbe più che mai dipendenti da mercati incontrollati, dalla potenza Usa o dal marco tedesco. Soprattutto – aggiunge Filingeri – segnerebbe una ricaduta nei nazionalismi autarchici, e in sovranità fasulle. Noi siamo per un’Europa politica e democratica che faccia argine ai mercati, alla potenza Usa, e alle le nostre stesse tentazioni nazionaliste e xenofobe». Secondo il candidato piemontese, è possibile cambiare rotta anche usando le risorse esistenti, a partire dal Piemonte: «Per treni efficienti e puliti i soldi ci sono, basta vedere quello che spendono per il Tav!». E’ possibile «finanziare le cosiddette imprese ricostituite ai lavoratori, cioè le situazioni di uscita dalle crisi aziendali in forma di gestione cooperativa», che spesso hanno «performance superiori».A fine 2012 il Piemonte (Regione e Provincia di Torino) ha chiuso, per “spending review”, il suo centro strategico per l’agricoltura biologica, il Crab, guida tecnica di uno dei pochissimi settori economici in espansione, per di più ecologico. L’agricoltura, secondo Filingeri, è esattamente uno dei comparti in cui i finanziamenti non mancano, se solo li si sa utilizzare bene: «Il programma europeo di sviluppo rurale 2014-2020 dovrà essere impostato per essere Ogm-free. I fondi devono essere usati per dare impulso a un’agricoltura a basso impatto sull’ambiente, liberata dalla chimica, che valorizzi le produzioni biologiche, capace di mantenere il livello produttivo necessario alle esigenze della popolazione. Inoltre, siamo per un intervento sul sistema della distribuzione, favorendo il consumo di prodotti locali, a chilometri zero, per il passaggio diretto produttore-consumatore». Sono temi cari alla galassia dei nuovi movimenti, che ora rialzano la testa, No-Tav in primis. «Più riusciranno a contarstare il modello neoliberista, più ci sono probabilità che il risveglio porti a qualcosa». Mauro Filingeri cita Saint Exupéry: «Se vuoi costruire una nave, non devi dividere il lavoro, dare ordini e convincere gli uomini a raccogliere la legna. Devi insegnargli, invece, a sognare il mare aperto e sconfinato».«Un mondo migliore? Me lo immagino con un contagio culturale che parta dai movimenti che hanno animato le marce per la pace, le manifestazioni della valle di Susa e che percorrono tutta l’Italia fino ad arrivare alla Sicilia con i NoMuos. Bisogna partire da persone che si scrollino di dosso l’indifferenza e la rassegnazione non solo per gridare la loro rabbia nelle piazze dei forconi, ma per tornare ad essere capaci di sognare un futuro migliore pensando ad un altro modello di sviluppo». Mauro Filingeri, 36 anni, chimico in mobilità, sindacalista Cgil e animatore dei comitati di lotta dei pendolari, è il volto nuovo della sinistra piemontese, deciso a sfidare alle regionali il Pd di Chiamparino con la lista “L’altro Piemonte a sinistra”, consonante con “L’Altra Europa con Tsipras”. Chiamparino? Impossibile definirlo “di sinistra”: «E’ il simbolo dell’attuale modello governativo nazionale in cui contano i rapporti preferenziali con la finanza e la grande industria, a scapito dei diritti e dei bisogni dei lavoratori e dei piccoli imprenditori».
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Usciremo dall’euro e da questa Ue, il problema è come
Si è scatenata «una campagna terroristica sugli effetti di un’uscita dell’Italia dall’euro», che parla di inflazione alle stelle, mutui insostenibili che costringerebbero a vender casa, termosifoni spenti, cure mediche proibitive, aziende fallite. «Mi spiace notare che anche “Il Fatto” si sia associato a questa campagna», annota Aldo Giannuli nel suo blog, prendendo le distanze da chi pretende che ci si debba semplicemente rassegnare all’euro, visto che ormai c’è. «Ma chi via ha garantito che l’euro sia destinato a restare in piedi?». La moneta unica, ricorda Giannuli, nacque alla fine della guerra fredda, dalla Francia di Mitterrand, come contrappeso alla riunificazione tedesca. Due versioni: quella “buonista” dice che gli eurocrati speravano che la moneta unica «avrebbe aiutato i paesi meno forti favorendo una dinamica virtuosa convergente delle diverse economie nazionali che, a sua volta, avrebbe spinto verso una celere unificazione politica». L’altra versione, la peggiore, spiega forse meglio l’attuale catastrofe: l’euro nacque essenzialmente come piano criminale dell’élite contro la democrazia sociale europea, quella del welfare.Lo sostiene tra i tanti il professor Alain Parguez, insider all’Eliseo all’epoca in cui il “monarca” Mitterrand si circondava di personaggi come Jacques Delors, futuro primo presidente della Commissione Europea, e di super-consiglieri come Jacques Attali, ben consci che l’euro non fosse certo nato «per la felicità della plebaglia europea». Una moneta senza Stato, per Stati senza più moneta, non funzionerà mai, disse Giorgio La Malfa a Tommaso Padoa Schioppa, il quale rispose: «E credi che non lo sappiamo?». Nino Galloni, per anni alto dirigente del Tesoro, sintetizza: il futuro centrosinistra italiano – ben conscio che l’euro avrebbe rovinato l’Italia – decise ugualmente di lavorare per la cessione della sovranità nazionale senza vere contropartite, pur di liberarsi per sempre della classe dirigente della Prima Repubblica, quella dei tangentocrati indagati da Mani Pulite. Che l’euro non potesse “funzionare” non è mai stato un mistero per nessun potente: e l’apparente fallimento messo in luce dall’attuale spaventosa recessione, in realtà, corrisponde a un successo fino a ieri impensabile per l’oligarchia economico-finanziaria, che ha visto schizzare in cielo il proprio potere e la propria ricchezza a spese della maggioranza della popolazione, su cui si è scaricato interamente il costo della cosiddetta crisi.Dal canto suo, Giannuli si limita a constatare che l’unificazione politica europea «è una leggenda persa nelle brume di un futuro vaghissimo», visto che «da sette anni infuria una crisi senza precedenti dal 1929» e che «le economie nazionali europee divergono più che mai e diversi paesi sono sull’orlo del default». In queste condizioni politiche e finanziarie, conclude Giannuli, «il rischio di un crollo dell’euro è più che una semplice possibilità teorica». Se dovessero cedere una serie di paesi come Grecia, Portogallo e Irlanda, «la sopravvivenza della moneta unica diverrebbe assai problematica». Se poi il default dovesse riguardare Italia o Spagna, «non si vede come la costruzione possa restare in piedi». Ma attenzione: «Anche sviluppi imprevisti della crisi Ucraina potrebbero innescare dinamiche divaricanti nella Ue tali da mettere a rischio la moneta». Senza calcolare che, a un certo punto, «i costi di mantenimento dell’unione monetaria potrebbero rivelarsi tali da rendere inevitabile l’uscita di alcuni partner, con l’effetto di un “rompete le righe” generalizzato».Questa, per Giannuli, è esattamente la prospettiva più probabile: «E non è detto che a iniziare debbano essere i paesi deboli come Grecia o Portogallo, potrebbe iniziare uno scollamento anche di uno dei paesi forti e persino la Germania non è esente da queste tentazioni». E se la cosa non sarà stata preparata e dovesse avvenire con un improvviso crack – poco importa se finanziario o politico – allora finiremmo dentro una tempesta devastante. «E qui si capisce cosa non funziona nel ragionamento degli “euristi ad oltranza”: non prevedere il rischio di un crollo improvviso della moneta e non capire che dalla moneta unica si può uscire in modo scarsamente traumatico, a condizione che questo avvenga nei modi e nei tempi opportuni». Paradossalmente, continua Giannuli, «i fautori di “euro o muerte” ragionano allo stesso modo della Lega e dei populisti che tanto disprezzano». Due facce della stessa medaglia: «I populisti più estremi prospettano un’uscita dalla moneta unica, con ritorno alla moneta nazionale, con una decisione semplice ed immediata: hic et nuc! E gli “euromani” ragionano solo su questo scenario. Ma dall’euro non si può uscire come da una festa fra amici: “Scusate, dobbiamo andare: abbiamo lasciato i bambini soli a casa”».Secondo Giannuli, non è che – una volta liberi «dall’orrenda moneta» – tutto ricomincia a girare per il verso giusto, con l’economia che rifiorisce d’incanto: l’euro è una micidiale camicia di forza, certo, ed è il principale “mandante” della devastante politica di austerità, però – intorno a noi – c’è anche una gigantesca crisi planetaria del modello produttivo globalizzato, che richiede «un ripensamento complessivo dell’ordinamento neoliberista dell’economia mondiale». Meglio allora le soluzioni intermedie: lasciare l’euro come unità di conto (com’era l’Ecu) cui agganciare le monete nazionali, con bande di oscillazione prestabilite, «in modo da dare il tempo di far riprendere la bilancia dei pagamenti dei paesi del sud Europa». Oppure, adottare per un certo periodo «un regime di doppia circolazione, con retribuzioni date in parte con una moneta e in parte con l’altra». Complesso, certo. «Ma neppure il passaggio all’euro è avvenuto in due minuti: da Maastricht all’entrata in funzione della moneta unica sono passati ben 10 anni».Il problema sembra economico, ma è eminentemente politico – lo stesso euro, del resto, è uno strumento politico che verticalizza il potere e fa sparire la democrazia, con le sue imposizioni tassative. «Non è detto che la Ue debba restare questo mostro onnivoro che è oggi», si augura Giannuli. «Di fatto, questa fusione delle tre Europe (del nord, del sud e dell’est) non ha molto funzionato né politicamente (e si pensi al fianco est), né economicamente (e si pensi al fianco Sud). Forse l’ipotesi di una unificazione politica potrebbe essere più facilmente realizzata fra paesi più omogenei, con tre federazioni a sua volta alleate fra loro. Tre federazioni europee (del nord, del sud, dell’est) sembrano una soluzione più praticabile di un’improbabilissima unione politica di tutto il continente. E la questione della moneta potrebbe trovare uno scioglimento in questo ordinamento a tre». Conclude Giannuli: «La Storia non è finita, come pensava quell’imbecille di Francis Fukuyama, e l’esistente è solo il presente. Non l’eternità».Si è scatenata «una campagna terroristica sugli effetti di un’uscita dell’Italia dall’euro», che parla di inflazione alle stelle, mutui insostenibili che costringerebbero a vender casa, termosifoni spenti, cure mediche proibitive, aziende fallite. «Mi spiace notare che anche “Il Fatto” si sia associato a questa campagna», annota Aldo Giannuli nel suo blog, prendendo le distanze da chi pretende che ci si debba semplicemente rassegnare all’euro, visto che ormai c’è. «Ma chi via ha garantito che l’euro sia destinato a restare in piedi?». La moneta unica, ricorda Giannuli, nacque alla fine della guerra fredda, dalla Francia di Mitterrand, come contrappeso alla riunificazione tedesca. Due versioni: quella “buonista” dice che gli eurocrati speravano che la moneta unica «avrebbe aiutato i paesi meno forti favorendo una dinamica virtuosa convergente delle diverse economie nazionali che, a sua volta, avrebbe spinto verso una celere unificazione politica». L’altra versione, la peggiore, spiega forse meglio l’attuale catastrofe: l’euro nacque essenzialmente come piano criminale dell’élite contro la democrazia sociale europea, quella del welfare.
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Foa, imporre l’euro: ieri con l’inganno, oggi con la paura
Le tecniche usate per influenzare l’opinione pubblica sono sofisticate. Lo scopo principale è quello di creare un “frame”, ovvero una cornice mentale attraverso la quale ognuno di noi forma un giudizio su un determinato fatto. E’ un meccanismo naturale, anzi innato. Ogni giorno noi creiamo decine di “frames” ovvero giudizi sovente fugaci, quando entriamo in un negozio, quando conosciamo una persona, quando mangiamo in un ristorante, eccetera. Uno spin doctor, invece, mira a creare un “frame” collettivo dalla cornice molto spessa, dunque radicato in maniera profonda nel subconscio collettivo riguardo all’argomento che gli interessa. E’ facile formare un “frame” su un tema che il pubblico non conosce bene. Ad esempio, la crisi in Ucraina dove il confine tra bene e male, tra giusto e sbagliato, tra buoni e cattivi è stato tracciato con notevole disinvoltura e un certo successo in un’opinione pubblica occidentale che mai si è occupata di quel paese e che pertanto è facilmente suggestionabile.Oppure associando il “frame” a un’emozione (pensate allo choc collettivo provocato dall’11 Settembre) tanto più se suffragata da immagini, filmati che non hanno bisogno di spiegazioni e parlano da sé. O da valori assoluti, indiscutibili, nobili come quelli creati per un ventennio attorno all’euro. Che cosa ci hanno raccontato dalla metà degli anni Novanta? Che era nell’interesse dei popoli europei, che avrebbe accresciuto la ricchezza di tutti, che avrebbe portato l’Italia sui livelli della Germania, che avrebbe promosso l’uguglianza dei popoli, il benessere di tutti, garantito la pace in Europa, la fratellenaza la democrazia, la giustizia… E ora che molti si accorgono di essere stati ingannati, gli spin doctor usano un “frame” potentissimo: quello della paura. Paura dell’inflazione, della povertà, della disoccupazione, della punizione dei mercati finanziari, della benzina a 4 euro, della svalutazione del prezzo delle case, in genere del costo altissimo di una scelta irresponsabile come questa. Ed è un “frame” così forte che ha quasi sempre successo.Guardate quel che è successo in Grecia, un paese oggi in ginocchio, annichilito, impoverito come se fosse uscito da una guerra. E invece paga semplicemente il “dividendo” per essere rimasto nell’euro. Diciamola tutta: la Grecia avrebbe fatto meglio a uscire e a ricominciare dalla dracma. Così rischia di restare schiava per sempre. Ma al momento di dare la spallata finale, il popolo greco si è diviso in due. Quelli che hanno perso tutto sono scesi nelle strade, ma l’altra metà, coloro che hanno mantenuto un lavoro o che sono stati indotti a indebitarsi e dunque sono ricattabili, hanno avuto timore di perdere quel poco che hanno e si sono allineati ai voleri della Troika. Per paura, solo per paura.Gli spin doctor hanno vinto due volte, prima e dopo. E nulla cambierà, in Europa, se chi si oppone all’euro non prenderà coscienza di queste tecniche, che vanno oltre la comunicazione e sfociano nella manipolazione sociale e si trasformano in una forma di governo, per quanto invisibile e mai dichiarato. Solo contrastandole con efficacia e consapevolezza, i popoli europei – a cui è stata tolta la possibilità di decidere sull’euro – potranno riprendere in mano il proprio destino. Altrimenti nuovi “frame” spegneranno i sussulti di libertà e di sana, democratica, legittima indignazione.(Marcello Foa, “Euro e manipolazione mediatica: è semplice, si fa così”, dal blog di Foa su “Il Giornale”, 23 aprile 2014).Le tecniche usate per influenzare l’opinione pubblica sono sofisticate. Lo scopo principale è quello di creare un “frame”, ovvero una cornice mentale attraverso la quale ognuno di noi forma un giudizio su un determinato fatto. E’ un meccanismo naturale, anzi innato. Ogni giorno noi creiamo decine di “frames” ovvero giudizi sovente fugaci, quando entriamo in un negozio, quando conosciamo una persona, quando mangiamo in un ristorante, eccetera. Uno spin doctor, invece, mira a creare un “frame” collettivo dalla cornice molto spessa, dunque radicato in maniera profonda nel subconscio collettivo riguardo all’argomento che gli interessa. E’ facile formare un “frame” su un tema che il pubblico non conosce bene. Ad esempio, la crisi in Ucraina dove il confine tra bene e male, tra giusto e sbagliato, tra buoni e cattivi è stato tracciato con notevole disinvoltura e un certo successo in un’opinione pubblica occidentale che mai si è occupata di quel paese e che pertanto è facilmente suggestionabile.