Archivio della Categoria: ‘idee’
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Nuova sinistra, fai la guerra a questo sistema (o stai a casa)
Il patatrac del sistema elettorale finto tedesco, ah quanti guai in Italia a voler imitare la Germania, allontana la data delle elezioni. Questo forse depotenzierà l’urgenza della proposta di Anna Falcone e Tommaso Montanari, ma permetterà un confronto più rigoroso su di essa, senza l’assalto soverchiante di tutti quelli che “mamma mia, come superiamo il 5%?”. Non basta affermare che una proposta di sinistra unita debba essere nuova perché essa effettivamente lo sia. Dal 2008 queste proposte si susseguono, spesso con le stesse premesse e gli stessi risultati, catastrofici. Le liste della sinistra unita hanno sempre fallito il loro obiettivo elettorale tranne che alle elezioni europee, dove la lista Tsipras ha superato lo sbarramento, salvo poi frantumarsi un minuto dopo il voto, come le precedenti esperienze sconfitte. Quindi il primo elemento di novità della proposta dovrebbe essere quello di non ripetere le esperienze del passato e di porre condizioni e discriminanti affinché il nuovo sia davvero tale. Sinceramente, non trovo chiarezza sufficiente al riguardo nel testo di Falcone e Montanari.Si parte dalla Costituzione, anzi dalla sua anima sociale e antiliberista affermata meravigliosamente dall’articolo 3, e si sostiene che si deve prima di tutto rispondere a quel popolo di sinistra che in nome di quell’anima ha votato No il 4 dicembre. Benissimo, questo però significa esplicitare subito alcune discriminanti. Prima di tutto non possono essere interlocutori di questa proposta coloro che hanno votato Sì, per capirci sono fuori Giuliano Pisapia e Romano Prodi. Il problema si pone però anche verso chi ha votato No, ma prima ha sostenuto il Jobsact, la legge Fornero e soprattutto quella mina a orologeria contro i principi sociali della Costituzione, quale è il nuovo articolo 81 che obbliga al pareggio di bilancio in ottemperanza al mostruoso Fiscal Compact. Durante il governo Monti il Parlamento quasi unanime ha costituzionalizzato quella austerità che giustamente Falcone e Montanari vogliono rovesciare. E se non sono solo buoni propositi, la rottura con l’austerità significa soppressione immediata delle misure che emblematicamente la realizzano. Chi le ha votate naturalmente può ammettere di essersi sbagliato e sostenere un programma che proponga di cancellare quelle misure, ma lo deve fare con rigore e sofferenza e non per furbizia.Jeremy Corbyn ha riconquistato fiducia nel mondo del lavoro, dopo essere stato svillaneggiato dalle sinistre liberali e dai loro mass media, accettando il voto sulla Brexit e proponendo un programma secco di nazionalizzazioni. Questa parola da noi è tabù nei sindacati confederali e anche in buona parte della sinistra più radicale, eppure è proprio sul terreno delle privatizzazioni che si gioca la possibilità di arrestare e veder dilagare ancora le politiche economiche liberiste. Alitalia e Ilva sono i primi banchi di prova, poi seguiranno le Poste, le Ferrovie, Enel ed Eni e naturalmente ciò che resta del sistema bancario. O torna l’intervento pubblico diretto nell’economia, o da noi va tutto in mano alle multinazionali, visto che la grande borghesia italiana non esiste più come classe autonoma dai poteri della globalizzazione. O pubblico, o si svende ciò che resta del paese, questa è l’alternativa reale oggi e che scelta fa al riguardo la sinistra prefigurata da Falcone e Montanari?Lavoro con diritti, scuola pubblica e stato sociale, ambiente, territorio e beni comuni sono dichiaratamente al centro della proposta di nuova sinistra. Anche qui possiamo solo dire giustissimo, ma dobbiamo però aggiungere: che misure concrete si vogliono subito attuare, che leggi si vogliono cancellare, che nuovi atti si vogliono varare? Naturalmente ci sono programmi decennali da individuare, ma il buongiorno si vede dal mattino, per esempio dall’impegno a cancellare tutta la buona scuola e la controriforma della sanità, a quello a fermare tutte le grandi opere, a partire dalla famigerata Tav in valle Susa. Non è solo questo che basta, ma è questo che serve per capire se si vuol fare sul serio. Il bilancio delle spese militari dello Stato italiano è in continua ascesa e Gentiloni si è impegnato quasi a raddoppiarlo per raggiungere quel 2% del Pil posto dagli accordi Nato. Si ribalta questa scelta nel suo opposto con il taglio delle spese ed il ritiro dalle missioni all’estero, o ci si accontenta di partecipare alla sfilata del 2 giugno con la spilla della pace?Anche qui le scelte programmatiche, che Falcone e Montanari pongono giustamente come discriminanti, se sono vere individuano già di che pasta e di quali persone dovrebbe essere composta la nuova sinistra. Che alla fine dovrà misurarsi con la questione di fondo: le politiche del lavoro, dell’ambiente e dello stato sociale, in alternativa alla austerità e alle spese di guerra, sono realizzabili accettando i vincoli Ue e Nato? Noi che abbiamo costituito Eurostop pensiamo di no, che senza la rottura con quelle istituzioni nulla di buono sia possibile per i poveri e gli sfruttati. Noi pensiamo così, ma siamo disposti ad accettare la sfida di chi invece pensa che quelle istituzioni siano positivamente riformabili. Chi crede a questo però deve essere disposto a rompere se poi dovesse verificare che il suo programma posto è posto all’indice proprio da quelle istituzioni. E deve dirlo.Chi ha votato No il 4 dicembre non può dimenticare che tutta la governance europea si era spesa per il Sì. Né può ignorare che la Costituzione del 1948 e i trattati di Maastricht e Lisbona sono formalmente e concretamente incompatibili. Si può non volere la rottura con la Ue nel programma, ma si deve essere disposti a farla se le istituzioni comunitarie quel programma ti impediscono di realizzarlo. Tsipras tra il rispetto del referendum popolare e quello dei diktat della Troika ha scelto il secondo. La sinistra proposta da Falcone e Montanari è disposta a fare la scelta esattamente opposta? Siccome nel testo di Falcone e Montanari non ho trovato risposte chiare a domande per me decisive per capire cosa essi vogliano fare, mi sono permesso alcune di quelle domande di formularle io. Mi permetto di suggerire ai due estensori dell’appello di parlarne esplicitamente nell’assemblea del 18 giugno. Magari si affermi l’opposto di quanto scritto qui, ma per favore si faccia chiarezza. E non si parli d’altro per favore, sappiamo tutti che i nodi sono questi e non si sciolgono coprendoli di grandi valori e buoni propositi.(Giorgio Cremaschi, “Vorrei che Falcone e Montanari facessero chiarezza sulla loro idea di sinistra”, dal blog di Cremaschi sull’“Huffington Post” del 9 giugno 2017).Il patatrac del sistema elettorale finto tedesco, ah quanti guai in Italia a voler imitare la Germania, allontana la data delle elezioni. Questo forse depotenzierà l’urgenza della proposta di Anna Falcone e Tommaso Montanari, ma permetterà un confronto più rigoroso su di essa, senza l’assalto soverchiante di tutti quelli che “mamma mia, come superiamo il 5%?”. Non basta affermare che una proposta di sinistra unita debba essere nuova perché essa effettivamente lo sia. Dal 2008 queste proposte si susseguono, spesso con le stesse premesse e gli stessi risultati, catastrofici. Le liste della sinistra unita hanno sempre fallito il loro obiettivo elettorale tranne che alle elezioni europee, dove la lista Tsipras ha superato lo sbarramento, salvo poi frantumarsi un minuto dopo il voto, come le precedenti esperienze sconfitte. Quindi il primo elemento di novità della proposta dovrebbe essere quello di non ripetere le esperienze del passato e di porre condizioni e discriminanti affinché il nuovo sia davvero tale. Sinceramente, non trovo chiarezza sufficiente al riguardo nel testo di Falcone e Montanari.
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Pessoa: ma la vita è un mistero, non illudetevi di capirla
Quanti si ostinano ancora a segnalare siti ed articoli che finalmente svelano la “verità ultima” o individuano la risoluzione di ogni problema! Com’è facile immaginare, sono portali “quantici” o cose simili. Riflettiamo: è poi così importante conoscere la “verità ultima”? Inoltre è possibile conoscerla? Pessoa ritiene che non sia possibile. Scrive il celebre autore portoghese: “Non esiste altro problema, se non quello della realtà e questo problema è insolubile e vivo”. Ancora: “Nessun problema ha risoluzione. Nessuno di noi scioglie il nodo gordiano; tutti noi desistiamo o lo tagliamo. Per conseguire la verità, ci mancano dati sufficienti e processi intellettuali che chiariscano l’interpretazione di quei dati”. Quanti si ostinano a segnalare libri risolutivi! Si continuano a pubblicare testi presentati come la summa del sapere, come la rivelazione finale, ma, nel migliore dei casi, possono solo rischiarare per un istante l’oscurità in cui è avviluppato l’universo.Si può lumeggiare una sfaccettatura di un tema, chiarire un significato o definire un’etimologia, rispolverare un’intuizione dimenticata, ma non ci risulta che alcunché possa essere radicalmente cambiato, dopo aver letto qualche saggio… Tralasciamo tutte quelle segnalazioni attinenti alla cronaca di questi tempi ferrigni: è sufficiente un briciolo di discernimento per comprendere la piega (sinistra) che hanno preso gli eventi e la direzione verso cui ci stiamo incamminando. Non abbiamo quindi bisogno di scavare fosse già scavate. Nel campo delle domande fondamentali, le indicazioni che si ricevono sono di deprimente banalità e sempre le stesse da tempo immemorabile. E’ cambiato un po’ il linguaggio, ma la sostanza è la medesima. Annota sempre Pessoa: «La vita è un gomitolo che qualcuno ha aggrovigliato». E’ così: è impossibile trovare il bandolo della matassa, anzi, più ci incaponiamo nel tentare di districarla, più i fili si ingarbugliano.Di fronte all’«infinita complessità delle cose» siamo più inetti di bimbi che cercano di camminare, dopo che per molto tempo si sono mossi solo carponi. Meglio: siamo viandanti costretti a scalare una ripida parete rocciosa, senza corde, senza chiodi, senza alcuna esperienza. Non solo si creano illusioni, squadernando sentenze che sono balbettii, ogni volta in cui si additano sbocchi che sono vicoli ciechi, ma si dimostra superbia e persino un atteggiamento blasfemo rispetto all’imperscrutabile mistero della vita. Perché viviamo? Qual è il nostro destino oltre il fragile interludio terreno? Perché questa prolissità del cosmo, la ridondanza dell’essere, il vuoto incommensurabile del non-senso? Le risposte non soffiano nel vento, ma sono pietrificate nel più granitico silenzio.(“Segnalazioni”, dal blog “La Crepa nel Muro” del 31 maggio 2017. Le citazioni di Pessoa sono tutte desunte dal monumentale “Libro dell’inquietudine”, a cura di Maria José de Lancastre, con prefazione di Antonio Tabucchi, nel quale il grande scrittore portoghese scrive: «La metafisica mi è sempre sembrata una forma comune di pazzia latente. Se conoscessimo la verità la vedremmo; tutto il resto è sistema e periferia. Ci basta, se riflettiamo, l’incomprensibilità dell’universo; volerlo capire è essere meno che uomini, perché essere uomo è sapere che non si capisce»).Quanti si ostinano ancora a segnalare siti ed articoli che finalmente svelano la “verità ultima” o individuano la risoluzione di ogni problema! Com’è facile immaginare, sono portali “quantici” o cose simili. Riflettiamo: è poi così importante conoscere la “verità ultima”? Inoltre è possibile conoscerla? Pessoa ritiene che non sia possibile. Scrive il celebre autore portoghese: “Non esiste altro problema, se non quello della realtà e questo problema è insolubile e vivo”. Ancora: “Nessun problema ha risoluzione. Nessuno di noi scioglie il nodo gordiano; tutti noi desistiamo o lo tagliamo. Per conseguire la verità, ci mancano dati sufficienti e processi intellettuali che chiariscano l’interpretazione di quei dati”. Quanti si ostinano a segnalare libri risolutivi! Si continuano a pubblicare testi presentati come la summa del sapere, come la rivelazione finale, ma, nel migliore dei casi, possono solo rischiarare per un istante l’oscurità in cui è avviluppato l’universo.
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E’ il nostro bene più prezioso, ma ce lo facciamo rubare
Probabilmente pochi si rendono conto dell’estrema importanza di uno dei beni che abbiamo fin dalla nascita, ma che nessuno mai ci insegna ad utilizzare nel migliore dei modi. Di cosa sto parlando? Dell’attenzione, naturalmente. Ebbene sì, l’attenzione è il bene più prezioso che abbiamo, ma nessuno gli presta la necessaria cura, e quello che facciamo costantemente è farcelo rubare dagli altri, da coloro cioè che conoscono benissimo la sua importanza e sanno come rubarcela per utilizzarla per i loro scopi. Probabilmente non stai credendo molto a quello che sto dicendo, ma la cruda verità, che piaccia o no, è che viviamo tutti in un costante stato di addormentamento, frutto del rumore mentale che si esprime continuamente attraverso quella vocina con la quale ci parliamo, convinti di essere noi a farlo. Difficilmente siamo in grado di mantenere la concentrazione su di un pensiero o concetto per più di 5-6 secondi, senza che qualcosa ci distragga e rubi la nostra attenzione che, non più sotto il nostro controllo, vaga in modo del tutto casuale verso pensieri di ogni tipo, riempendo la nostra testa di cose del tutto inutili.Alzi la mano chi non si ritrova spesso a vagare col pensiero tra mille cose, del tipo: “Chissà quanto traffico troverò oggi per andare al lavoro… a proposito, la macchina è sporca, forse dovrei lavarla… lo farò stasera dopo il lavoro, sperando di uscire per tempo… ieri sera mi sono dovuto trattenere fino alle 19, ma oggi non dovrei avere molto lavoro da fare… è difficile ultimamente trovare nuovi clienti… questa crisi sta mietendo sempre più vittime” …e via discorrendo, in un dialogo con noi stessi senza fine, ma soprattutto senza alcun senso, che “ci porta a spasso”, come bambini trascinati per mano, attraverso concetti del tutto slegati tra di loro. E’ tutto normale, perchè quel dialogo interiore non è altro che il risultato di un programma automatico preimpostato nel nostro cervello, che in quanto macchina non può fare altro che funzionare eseguendo meccanicamente ciò per cui è stato programmato. Cos’è quel programma? E’ semplicemente il risultato di tutti i condizionamenti ricevuti fin dal nostro primo giorno di vita, che abbiamo accettato come veri e che quindi abbiamo fatto entrare nella nostra mente, creando così ciò che alla fine rappresenta la “strada a minor resistenza” per i nostri pensieri.Considerate quelle credenze come se fossero dei solchi incisi sul terreno. Se voi gettate dell’acqua, questa si incanalerà necessariamente lungo quei solchi, che rappresentano proprio il percorso “a minor resistenza” tra tutti quelli possibili. Analogamente, quando siamo “assenti” a noi stessi (il 95% del tempo), immersi nel nostro stato di “dormienti”, i nostri pensieri non possono fare altro che incanalarsi lungo i percorsi più comuni, ripetendo all’infinito sempre lo stesso tipo di ragionamenti. Dobbiamo comprendere che tutta la nostra energia creatrice si esprime attraverso l’osservazione. Così come ci insegna la fisica quantistica, siamo l’Osservatore che crea il proprio mondo attraverso l’atto dell’osservazione. L’energia creatrice va dove va l’attenzione, è come un raggio laser. Il meccanismo è molto semplice: soffermandoci su di un pensiero, questo diventa più importante, visibile, familiare, e un pensiero trattenuto diventa col tempo una credenza. La credenza è un pensiero “condensato”, che si è stratificato al nostro interno a forza di concedergli attenzione, fino a creare un percorso “a minor resistenza” all’interno del nostro cervello, un po’ come quei solchi di cui parlavamo prima nell’esempio dell’acqua.Dovete sempre tenere a mente, però, che i nostri pensieri creano il mondo che sperimentiamo, dato che nulla può esistere senza che venga osservato. Insomma, è attraverso l’attenzione che diamo il permesso alle cose di accadere. Ecco perchè è così importante riprendere in mano il controllo dei nostri pensieri. La cosa più importante di tutte è essere coscienti dei pensieri che passano nella nostra testa, onde evitare che vaghino in modo caotico e incontrollato, creando di conseguenza un mondo altrettanto caotico e incontrollato. Non importa a cosa stai pensando, l’importante è che tu ne sia cosciente. Fermati allora ogni tanto ad osservare i tuoi pensieri. Poni l’attenzione sulla tua attenzione (perdonatemi il gioco di parole), e fatti la domanda: “A cosa sto prestando ora la mia attenzione?”. E’ chiaro che la domanda non ha risposta perchè, se me la sto ponendo, vuol dire che la mia attenzione è diretta su di essa. E’ solo un trucco per riprendere in mano il controllo della nostra mente, e di conseguenza della nostra attenzione. Questo è quello che deve fare un creatore consapevole se vuole riprendere il controllo della propria vita, evitando che forze esterne gli sottraggano l’attenzione. Egli sa che quello è il modo, l’unico modo efficace, di diventare davvero il protagonista della propria esistenza. Bene, ora sai come fare, non hai più scuse.(Paolo Marrone, “Il bene più prezioso che hai”, dal blog “Campo Quantico”, 19 novembre 2016).Probabilmente pochi si rendono conto dell’estrema importanza di uno dei beni che abbiamo fin dalla nascita, ma che nessuno mai ci insegna ad utilizzare nel migliore dei modi. Di cosa sto parlando? Dell’attenzione, naturalmente. Ebbene sì, l’attenzione è il bene più prezioso che abbiamo, ma nessuno gli presta la necessaria cura, e quello che facciamo costantemente è farcelo rubare dagli altri, da coloro cioè che conoscono benissimo la sua importanza e sanno come rubarcela per utilizzarla per i loro scopi. Probabilmente non stai credendo molto a quello che sto dicendo, ma la cruda verità, che piaccia o no, è che viviamo tutti in un costante stato di addormentamento, frutto del rumore mentale che si esprime continuamente attraverso quella vocina con la quale ci parliamo, convinti di essere noi a farlo. Difficilmente siamo in grado di mantenere la concentrazione su di un pensiero o concetto per più di 5-6 secondi, senza che qualcosa ci distragga e rubi la nostra attenzione che, non più sotto il nostro controllo, vaga in modo del tutto casuale verso pensieri di ogni tipo, riempendo la nostra testa di cose del tutto inutili.
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Il neoliberismo ha conquistato lo Stato, complice la sinistra
Vi hanno raccontato che il liberismo è contro l’ingerenza dello Stato nell’ecomomia? Mentivano: il neoliberismo ha assoluto bisogno dello Stato, per creare un ambiente di leggi favorevoli alle multinazionali, che moltiplichi in modo esponenziale i profitti speculativi. Lo ricorda Sandro Vero, che denuncia il ruolo dei sedicenti progressisti in questa distorsione: «Senza la complicità della sinistra, e non solo quella socialdemocratica, il neoliberismo non avrebbe raggiunto un tale grado di penetrazione, di pervasione, di perversione». Le politiche ultraliberiste, dalla Thatcher a Reagan nei primi anni ‘80 «si sono perfezionate – si potrebbe dire compiute – con la “third way” di Blair, che ha cantato le lodi del mercatismo fino a farne il principio ispiratore di un’intera stagione di contro-riforme che ha smantellato una parte consistente della cultura del welfare, dei diritti del lavoro, della solidarietà sociale». La sinistra si è convertita «alle ragioni del management esistenziale, più ancora che aziendale», reiterando una «arrogante bugia», quella di «raccontarsi come portatrice di un valore – l’organizzazione della società da parte dello Stato – in netto contrasto con la strategia della spoliazione statale attribuita alla destra». Due bugie: la sinistra non ha difeso un bel niente, e la destra – anziché svuotarlo – lo Stato lo ha plasmato in funzione pro-business.«Già da tempo, e completamente dentro al suo dibattito interno – scrive Vero su “Megachip” – il neoliberismo aveva precisato la funzione fondamentale dello Stato nella cornice teorica e politica che assegnava ai mercati – al loro giudizio finale – una sorta di priorità metodologica nella definizione dei programmi economici e sociali». Quindi uno Stato in funzione di coordinatore strategico dei grandi interessi economici. «Il cosiddetto “laissez faire” era ed è rimasta solo una delle posizioni che compongono la galassia neo-liberale». Nell’accezione più diffusa, invece, proprio lo Stato «deve costruire, mantenere, sorvegliare una complessa struttura istituzionale che garantisca la realizzazione dei princìpi fondamentali della governamentalità neoliberista: la concorrenza sempre e dovunque, la misura della valorizzazione economica applicata alle materie più refrattarie, il dispiegamento pieno e privo di intralci della cultura del “capitale umano”». Una distinzione «fasulla», quella tra destra e sinistra, figlia di una narrazione «fraudolenta» del rapporto con l’istituzione statale.Quella attuale, aggiunge Vero, è «una sinistra che consegna l’anima e il corpo a una “razionalità” irriducibile, moderna, autocentrata, senza deroghe, fatta di progressive mortificazioni del patrimonio keynesiano di una politica economica e di una economia politica nel segno del compromesso sociale». Questa è una post-sinistra, «il cui sogno, da realizzare mediante la sostituzione della lotta per l’uguaglianza con la lotta alla povertà, è divenuto la scomparsa delle classi: e non nel senso vaticinato da Marx». Ma la responsabilità della sinistra, «specie nell’imminenza del varo dell’euro e dell’Europa come fetazione di quel processo ambiguo che è la globalizzazione (altra infatuazione ingovernabile)», secondo Vero non si esaurisce nel fatto di aver fornito alla destra finanziaria i suoi strumenti istituzionali: «Il potere di penetrazione che la nuova ragione del mondo ha dispiegato nel passaggio al nuovo millennio proviene dalla sottile, pervicace, quotidiana costruzione di una soggettività perfettamente speculare alle necessità oggettive di cui lo Stato si fa garante».E la “forgia” di un soggetto costantemente richiamato al suo diritto-dovere di essere libero e concorrenziale «è stata portata avanti nelle officine di una sinistra che ha fatto valere il peso delle sue rinunce, della sua sconfitta, della sua colpa, quasi come un enorme motivo di vanto». Per Sandro Vero è stata «una gara con la destra nella partita della modernità, una vigliacca dimostrazione di cambiamento epocale sulle spalle di un’intera umanità del lavoro, che ha visto stravolgere giorno dopo giorno il modo di intendere, di vivere, di sognare il rapporto con il proprio fare e con il proprio essere, entrambi risucchiati dentro la logica dell’auto-misurazione, dell’auto-premiazione, perfino dell’auto-esecrazione». La solidarietà sociale? «E’ divenuta presto una sorta di materia purulenta che infetta la mente e l’anima dell’individuo, privandolo dell’energia che gli occorre per realizzare la piena forma del suo essere: un capitale da amministrare, nei rischi e nei successi, nella certezza che l’infelicità è riconducibile solo e soltanto a un errore di computo!».Vi hanno raccontato che il liberismo è contro l’ingerenza dello Stato nell’ecomomia? Mentivano: il neoliberismo ha assoluto bisogno dello Stato, per creare un ambiente di leggi favorevoli alle multinazionali, che moltiplichi in modo esponenziale i profitti speculativi. Lo ricorda il filosofo Sandro Vero, che denuncia il ruolo dei sedicenti progressisti in questa distorsione: «Senza la complicità della sinistra, e non solo quella socialdemocratica, il neoliberismo non avrebbe raggiunto un tale grado di penetrazione, di pervasione, di perversione». Le politiche ultraliberiste, dalla Thatcher a Reagan nei primi anni ‘80 «si sono perfezionate – si potrebbe dire compiute – con la “third way” di Blair, che ha cantato le lodi del mercatismo fino a farne il principio ispiratore di un’intera stagione di contro-riforme che ha smantellato una parte consistente della cultura del welfare, dei diritti del lavoro, della solidarietà sociale». La sinistra si è convertita «alle ragioni del management esistenziale, più ancora che aziendale», reiterando una «arrogante bugia», quella di «raccontarsi come portatrice di un valore – l’organizzazione della società da parte dello Stato – in netto contrasto con la strategia della spoliazione statale attribuita alla destra». Due bugie: la sinistra non ha difeso un bel niente, e la destra – anziché svuotarlo – lo Stato lo ha plasmato in funzione pro-business.
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Magaldi: legge elettorale affondata, ma siamo in una palude
Affondata la legge elettorale alla tedesca? Per ora sì, per fortuna. «E, in parte, anche grazie a me», racconta Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, ai microfoni di “Colors Radio”. «Il back-office del potere, di cui ho parlato nel libro “Massoni”, vale anche per le vicende nazionali», premette. «E quindi, senza mai cercare influenze indebite ma operando legittimamente nel back-office, dando qualche consiglio richiesto a parlamentari dubbiosi sulla legge elettorale che stava per essere approvata, qualche contributo al suo fallimento l’ho dato». Palla al centro, ma senza farsi illusioni: lo scenario politico italiano resta «una palude», dalla quale nessuno sembra in grado di uscire. Nemmeno il Movimento 5 Stelle, che come si è visto alle amministrative non affonda né sfonda: «Campa di rendita, ma la sua mancanza di un programma e di una strutturazione ideologica lungimirante lo mette nella condizione di esser percepito da molti come la grande delusione, non più come la grande speranza». Anche per questo, Magaldi preferisce scommettere su un nuovo soggetto politico, il Pdp (Partito Democratico Progressista) magari guidato da Nino Galloni con un obiettivo chiaro: afferrare il toro per le corna e costringere Bruxelles a stracciare il Fiscal Compact e gli altri trattati-capestro che inguaiano l’Italia.Pd e 5 Stelle in affanno? Senz’altro, ma la verità è che nessuno è in forma, nell’Italia politica di oggi. «Il Pd è in difficoltà perché lo è il suo segretario», Matteo Renzi, che «naviga in bruttissime acque» dopo la “vittoria di Pirro” della rielezione. Alla sua sinistra, per così dire, si aggirano veri e propri fantasmi, come Bersani, che vorrebbe rappresentare istanze popolari dopo essersi piegato all’inserimento del pareggio di bilancio nella Costituzione, votando senza fiatare tutte le peggiori misure antipopolari del governo Monti, incluso il massacro sociale della legge Fornero sulle pensioni. Bersani, peraltro, ha l’impudenza di paventare il ritorno della “destra”, cioè il centrodestra insieme al quale lui stesso aveva sorretto il governo Monti. Destra, cioè Salvini e l’anziano Silvio? «La Lega non è in grado, da sola, di rappresentare un’alternativa, e del resto ha anch’essa le sue zone grigie», dichiara Gioele Magaldi. «C’è una freschezza politica in alcune istanze di Salvini, anche benemerite, ma ci sono moltissimi limiti nell’impostazione di fondo». Un po’ come per Marine Le Pen in Francia: obiettivamente, nonostante il coraggio e l’impegno, non poteva vincere contro Macron. Sicché, tolto Salvini, resta solo Silvio. E c’è chi vede nella “macchina del fango” prontamente riattivata dal “Fatto Quotidiano” (il boss Giuseppe Graviano intercettato in carcere) il segnale che il Cavaliere stia per tornare in campo.«Oggi Berlusconi non è un pericolo per nessuno», taglia corto Magaldi, che gli indirizzò una celebre lettera aperta. «Lo dico con autoironia: non sta seguendo i benevoli e “fraterni” consigli che il sottoscritto continua a lanciargli. Gli ripropongo di fare il padre nobile di un nuovo centrodestra, non di fare il grottesco imitatore di se stesso, che arranca dietro a una Forza Italia che non sarà mai più come prima». La leggenda delle origini “mafiose” del capitale all’origine delle fortune del Cavaliere? «Dev’essere chiaro che questa storia è intenzionale: Graviano sapeva di essere intercettato, e quindi ha detto delle cose su Berlusconi. Queste non sono prove di alcunché», insiste Magaldi: «Sono messaggi», da parte di «qualcuno, che magari ha qualche rancore nei confronti di Berlusconi, e lo sputtana». Questo, aggiunge Magaldi, «non significa non porsi sul piano storico il problema delle origini delle iniziative economiche di Berlusconi, ma va fatto con ben altra serietà e rigore. E naturalmente con un timing che è quello della storia, non quello della politica spicciola o del desiderio di screditare un personaggio a vantaggio di qualcun altro». Meglio stare alla larga da «dubbi e illazioni, laddove non regna certezza».Quanto a Berlusconi, Magaldi esprime un giudizio netto: un grande imprenditore e un pessimo politico, ancorché ingiustamente maltrattato. «Ha fallito politicamente, ma non è stata giusta tutta quella filiera di attacchi sul piano della sua vita privata o su quello della delegittimazione aprioristica», da parte di chi lo ha presentato «come personaggio immorale, indegno per ciò stesso di fare politica». Come imprenditore televisivo ha introdotto in Italia una nuova voce, la Tv commerciale. Si appoggiava a politici? Non era il solo: lo facevano anche i suoi concorrenti. Berlusconi è stato abile, magari non impeccabile, ma certo non il mostro dipinto dai suoi detrattori. «Non è stata colpa sua se non è stata fatta una legge sul conflitto d’interessi: la colpa non è mai della tigre che ti sbrana se la lasci libera, ci vuole il domatore e ci vogliono istituzioni che sappiano creare il pluralismo adeguato», ribadisce Magaldi. «Quindi l’incapacità di contenere le esigenze di profitto e di espansione di Berlusconi deve ricadere su quella classe politica che non è stata in grado (talvolta per interesse, vedi D’Alema) di arginare l’oligopolio berlusconiano». Ma adesso sarebbe meglio che Silvio si facesse da parte, il suo tempo è scaduto. E se Berlusconi sta maluccio, nemmeno gli altri si sentono bene, nella stagnante palude italiana, che contro la crisi non sa trovare credibile un Piano-B.Affondata la legge elettorale alla tedesca? Per ora sì, per fortuna. «E, in parte, anche grazie a me», racconta Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, ai microfoni di “Colors Radio”. «Il back-office del potere, di cui ho parlato nel libro “Massoni”, vale anche per le vicende nazionali», premette. «E quindi, senza mai cercare influenze indebite ma operando legittimamente nel back-office, dando qualche consiglio richiesto a parlamentari dubbiosi sulla legge elettorale che stava per essere approvata, qualche contributo al suo fallimento l’ho dato». Palla al centro, ma senza farsi illusioni: lo scenario politico italiano resta «una palude», dalla quale nessuno sembra in grado di uscire. Nemmeno il Movimento 5 Stelle, che come si è visto alle amministrative non affonda né sfonda: «Campa di rendita, ma la sua mancanza di un programma e di una strutturazione ideologica lungimirante lo mette nella condizione di esser percepito da molti come la grande delusione, non più come la grande speranza». Anche per questo, Magaldi preferisce scommettere su un nuovo soggetto politico, il Pdp (Partito Democratico Progressista) magari guidato da Nino Galloni con un obiettivo chiaro: afferrare il toro per le corna e costringere Bruxelles a stracciare il Fiscal Compact e gli altri trattati-capestro che inguaiano l’Italia.
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Il vero Brzezinski, grande architetto del terrorismo moderno
Era lui il vero “inventore” del cosiddetto “terrorismo islamico”. Zbigniew Brzezinski, già consulente per la sicurezza nazionale di Jimmy Carter, spentosi il 26 maggio 2017 all’età di 89 anni, è stato «il grande architetto del terrorismo moderno», secondo il blog “The AntiMedia”, che prova a riassumerne l’eredità. «Mentre il Regno Unito si destreggia con la “minaccia terroristica” ai più alti livelli, dopo un attacco devastante ispirato dall’Isis, e mentre le Filippine entrano in uno stato di legge marziale quasi totale, dopo la devastazione ispirata dall’Isis, la morte di Brzezinski giunge al momento giusto, come stimolo a una comprensione più profonda dell’origine del terrorismo moderno». Come spiega il “New York Times”, «il profondo odio di Brzezinski contro l’Unione Sovietica» ha guidato molta della politica estera americana, «nel bene e nel male». Brzezinski sostenne l’invio di miliardi di dollari ai militanti islamisti che combattevano contro l’invasione delle truppe sovietiche in Afghanistan. E incoraggiò tacitamente la Cina a mantenere il suo sostegno al brutale regime di Pol Pot in Cambogia, nel timore che i vietnamiti, sostenuti dall’Urss, prendessero il controllo del paese. Ma il “New York Times” «non non rende giustizia al vero orrore dietro le politiche di Brzezinski».Dopo che un colpo di stato in Afghanistan, nel 1973, aveva istituito un nuovo governo laico favorevole ai sovietici, gli Usa si impegnarono a rovesciarlo con una serie di tentativi di colpi di Stato «tramite i paesi lacché dell’America, il Pakistan e l’Iran (che a quel tempo era sotto il controllo dello Shah, sostenuto dagli Usa», scrive “The AntiMedia” in un post tradotto da “Voci dall’Estero”. Nel luglio 1979 Brzezinski autorizzò ufficialmente il sostegno ai ribelli mujaheddin in Afghanistan, tramite il programma della Cia denominato “Operazione Ciclone”. «Molti oggi difendono la decisione dell’America di armare i mujaheddin in Afghanistan, perché credono che fosse necessario per difendere il paese, e l’intera regione, dall’aggressione sovietica. Tuttavia le stesse affermazioni di Brzesinski contraddicono in pieno questa giustificazione». In un’intervista del 1998, Brzezinski ammise che, nel condurre questa operazione, l’amministrazione Carter stava «consapevolmente aumentando la probabilità» che i sovietici intervenissero militarmente. In altre parole, Brzezinski suggerisce che gli Usa «avessero iniziato ad armare le fazioni islamiste già prima dell’invasione sovietica».Brzezinski disse poi: «Pentirci di cosa? Quella operazione segreta fu un’idea eccellente. Ebbe l’effetto di attirare i russi nella trappola afghana e volete che me ne penta? Il giorno in cui i sovietici varcarono ufficialmente il confine afghano scrissi al presidente Carter: ora abbiamo l’opportunità di dare all’Urss il suo Vietnam». Questa affermazione, annota “The AntiMedia”, andava al di là del semplice vanto di avere istigato una guerra e il collasso definitivo dell’Unione Sovietica. Nelle sue memorie, intitolate “From the Shadows“, Robert Gates – ex direttore della Cia sotto Ronald Reagan e George W. Bush, nonché segretario alla difesa sia sotto Bush junior che sotto Obama – confermò direttamente che quella operazione segreta iniziò sei mesi prima dell’invasione sovietica, proprio con l’intento di attirare i russi in un pantano in stile vietnamita. «Brzezinski sapeva esattamente cosa stava facendo. I sovietici si impantanarono in Afghanistan per circa dieci anni, combattendo contro una riserva interminabile di armi fornite dagli americani e di combattenti addestrati dagli americani. A quel tempo i media si spinsero al punto di elogiare Osama Bin Laden – una delle figure più influenti dell’operazione segreta di Brzezinski. Sappiamo tutti come è andata a finire».Perfino dopo la piena consapevolezza di ciò che era diventata la sua creazione finanziata dalla Cia, nel 1998 Brzezinski fece queste dichiarazioni ai suoi intervistatori: «Cos’è più importante per la storia del mondo? I Talebani o il crollo dell’impero sovietico? Un po’ di musulmani scalmanati o la liberazione dell’Europa Centrale e la fine della guerra fredda?». L’intervistatore, allora, si rifiutò di lasciar passare questa risposta come se nulla fosse, e ribatté: «Un po’ di musulmani scalmanati? Ma è stato detto e ripetuto che il fondamentalismo islamico rappresenta una minaccia per il mondo moderno». Brzezinski troncò questa affermazione dicendo: «Nonsense!». Cose di questo genere, osserva il blog, «succedevano quando i giornalisti facevano ancora domande pressanti ai funzionari di governo, cosa che oggi accade assai di rado». Di fatto, il sostegno di Brzezinski a questi elementi radicali portò direttamente alla formazione di Al-Qaeda, che letteralmente significa “la base”, perché era in effetti la base da cui si lanciava la controffensiva contro l’invasione sovietica che si stava anticipando. «Ciò portò anche alla creazione dei Talebani, la mortale creatura che oggi sta combattendo una battaglia all’ultimo sangue contro le forze Nato».Inoltre, nonostante le affermazioni di Brzezinski, che cerca di far passare l’idea di una sconfitta definitiva dell’impero russo, «la verità è che, per Brzezinski, la guerra fredda non è mai terminata», sottolinea “The AntiMedia”. «Sebbene sia stato critico riguardo all’invasione dell’Iraq nel 2003, Brzezinski ha mantenuto un forte controllo sulla politica estera americana fino al momento della sua morte: non è una coincidenza che, in Siria, l’amministrazione Obama abbia adottato una strategia del tipo “pantano afghano” contro un altro alleato della Russia: il regime di Assad». Un comunicato divulgato da Wikileaks, datato dicembre 2006 e firmato da William Roebuck, a quel tempo incaricato d’affari presso l’ambasciata americana a Damasco, allude esplicitamente alla possibilità concreta di scommettere su «una crescente presenza di estremisti islamisti». Un po’ come con l’Operazione Ciclone in Afghanistan, sotto Barack Obama «la Cia ha speso circa un miliardo di dollari all’anno per addestrare i ribelli siriani, affinché si impegnassero in tattiche terroristiche». E la maggioranza di questi ribelli «condivide l’ideologia fondamentalista dell’Isis e ha l’obiettivo esplicito di stabilire la legge della Sharia in Siria».Proprio come in Afghanistan, la guerra in Siria ha coinvolto formalmente la Russia nel 2015, e l’eredità di Brzezinski è stata mantenuta viva attraverso gli “avvertimenti” di Obama al presidente russo Vladimir Putin, che avrebbe spinto la Russia verso un altro pantano in stile afghano. «Da chi può aver acquisito, Obama, queste tecniche “alla Brzezinski”, gettando la Siria nell’orrore di sei anni di guerra e di nuovo trascinando una grossa potenza nucleare in un conflitto pieno di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità?». Ecco la risposta: «Le ha acquisite da Brzezinski stesso». Secondo Obama, Brzezinski è stato un suo mentore personale, un «amico eccezionale», dal quale ha imparato moltissimo. «Alla luce di questo, c’è forse da sorprendersi che siano sorti così tanti conflitti dal nulla durante la presidenza Obama?». Un’azione a tutto campo, dal Medio Oriente all’Ucraina: il 7 febbraio 2014, la “Bbc” ha pubblicato la trascrizione dell’intercettazione telefonica di una conversazione tra l’assistente segretaria di Stato, Victoria Nuland, e l’ambasciatore americano in Ucraina, Geoffrey Pyatt. In quella conversazione, i due alti funzionari «stavano discutendo su chi avrebbero voluto piazzare al governo ucraino dopo il colpo di Stato che aveva cacciato il presidente filorusso Viktor Yanukovych».Ed ecco che Brzezinski stesso, nel suo libro del 1998, “La Grande Scacchiera”, sosteneva la necessità di prendere il controllo dell’Ucraina, dicendo che era «uno spazio nuovo e importante sulla scacchiera euroasiatica, un perno geopolitico, perché la sua stessa esistenza come nazione indipendente implicava che la Russia cessasse di essere un impero euroasiatico». Brzezinski ammoniva contro l’eventualità di permettere alla Russia di prendere il controllo dell’Ucraina, perché «la Russia si riprenderebbe automaticamente i mezzi per tornare ad essere un potente Stato imperiale, con influenze sia in Europa che in Asia». Dopo Obama, Donald Trump è salito in carica con tutta un’altra mentalità, con l’idea di lavorare con la Russia e con il governo siriano per combattere l’Isis. «Non c’è da sorprendersi che Brzezinski non abbia sostenuto la campagna di Trump per la presidenza, e abbia ritenuto che le idee di Trump sulla politica estera mancassero di coerenza», aggiunge “The AntiMedia”. Poi, forse, qualche ripensamento in extremis: l’anno scorso, Brzezinski è sembrato aver cambiato posizione sulla “geopolitica del terrore”, iniziando a sostenere una redistribuzione del potere globale, alla luce del fatto che gli Usa non sono più la grande potenza imperiale di un tempo.Tuttavia, Brzezinski sembrava ancora ritenere che, senza il ruolo-guida dell’America, il risultato sarebbe stato solo «il caos globale». Pare perciò improbabile che il suo cambiamento di posizione fosse fondato su un cambiamento reale e significativo sullo scacchiere geopolitico. «La stessa esistenza della Cia è fondata sull’idea di una minaccia russa, come è stato evidenziato dall’aggressione decisa da parte della stessa Cia contro l’amministrazione Trump non appena si è delineata una possibile distensione con l’ex Unione Sovietica», conclude “The AntiMedia”. «Brzezinski è morto nella tranquillità del suo letto di ospedale, a differenza di milioni di civili sfollati e assassinati, risucchiati nel suo contorto gioco di scacchi geopolitico, fatto di sangue e follia. La sua eredità è la militanza jihadista, la formazione di Al-Quaeda, il più devastante attacco su suolo americano che sia mai stato fatto da un’entità straniera nella storia recente, e la demonizzazione della Russia come eterno avversario, con il quale la pace non si può e non si deve fare».Era lui il vero “inventore” del cosiddetto “terrorismo islamico”. Zbigniew Brzezinski, già consulente per la sicurezza nazionale di Jimmy Carter, spentosi il 26 maggio 2017 all’età di 89 anni, è stato «il grande architetto del terrorismo moderno», secondo il blog “The AntiMedia”, che prova a riassumerne l’eredità. «Mentre il Regno Unito si destreggia con la “minaccia terroristica” ai più alti livelli, dopo un attacco devastante ispirato dall’Isis, e mentre le Filippine entrano in uno stato di legge marziale quasi totale, dopo la devastazione ispirata dall’Isis, la morte di Brzezinski giunge al momento giusto, come stimolo a una comprensione più profonda dell’origine del terrorismo moderno». Come spiega il “New York Times”, «il profondo odio di Brzezinski contro l’Unione Sovietica» ha guidato molta della politica estera americana, «nel bene e nel male». Brzezinski sostenne l’invio di miliardi di dollari ai militanti islamisti che combattevano contro l’invasione delle truppe sovietiche in Afghanistan. E incoraggiò tacitamente la Cina a mantenere il suo sostegno al brutale regime di Pol Pot in Cambogia, nel timore che i vietnamiti, sostenuti dall’Urss, prendessero il controllo del paese. Ma il “New York Times” «non non rende giustizia al vero orrore dietro le politiche di Brzezinski».
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La lezione inglese: se i socialisti tornano a fare i socialisti
Tutte le elezioni degli anni della crisi sono state caratterizzate dai risultati catastrofici dei partiti socialisti, che in vari casi – ultimi due l’Olanda e la Francia – da formazioni che competevano per il governo si sono ridotti a gruppetti irrilevanti. Sono i risultati di lungo termine della loro mutazione genetica, iniziata con la truffaldina “Terza via” blairiana che li ha portati ad accogliere senza riserve l’ideologia neoliberista. In vari casi i loro elettori tradizionali ci hanno messo un po’ a capire che erano passati dall’altra parte e quindi in una prima fase hanno avuto successo, usufruendo di un patrimonio di adesioni consolidatosi storicamente e raccogliendone altre nuove dall’area moderata. Ma poi hanno cominciato a franare, perché non c’è tradizione che tenga quando si sceglie di rappresentare interessi opposti a quelli per tutelare i quali il partito era nato. Questa è stata anche la parabola del Labour, che dopo il grande e anche lungo successo di Blair ha cominciato a perdere sempre più terreno, avviandosi a seguire quella stessa sorte.L’elezione a sorpresa di Jeremy Corbyn alla segreteria – grazie a primarie che hanno dato più peso alla base e meno ai notabili – ha rappresentato una rottura e un ritorno alla linea precedente. Non c’è stato osservatore o analista politico che non abbia accolto questa sterzata con commenti impregnati di uno scetticismo a volte ai limiti del dileggio: in questo modo, si è detto, il Labour si condanna a una sterile opposizione, senza alcuna speranza di tornare prima o poi al governo. I sondaggi sembravano confortare questa tesi, visto che fino a un paio di mesi fa accreditavano al Labour consensi intorno al 25%, con un abissale distacco di una ventina di punti rispetto ai rivali Tory. Poi Corbyn ha presentato il suo programma, subito bollato come “massimalista” e “populista”. In realtà, al di là di qualche esagerazione da campagna elettorale, era semplicemente un programma che rovesciava i paradigmi neoliberisti: basta all’austerità diretta a senso unico verso le classi più svantaggiate, basta riduzioni del welfare, ri-nazionalizzazione di servizi essenziali come poste e ferrovie (queste ultime oggetto di una privatizzazione particolarmente fallimentare).Basta con l’università così costosa da escludere gran parte di coloro che non hanno possibilità economiche: e probabilmente proprio questa è stata la carta vincente nei confronti dei giovani, che sono andati a votare (mentre al referendum sulla Brexit si erano astenuti per due terzi) e hanno votato in maggioranza per Corbyn. Il risultato è stato che un partito che sembrava avviato verso la triste sorte degli altri confratelli ha ottenuto un successo a cui il numero di seggi non rende giustizia: il Labour è arrivato al 40%, testa a testa con il 42,5 dei Tory. Altro che che “così non vincerà mai più”: la linea Corbyn ha dimostrato di essere l’unica che possa sperare di contendere il potere ai conservatori. Una speranza tutt’altro che peregrina: quando le percentuali sono così vicine basta l’ulteriore spostamento di un numero abbastanza limitato di voti per rovesciare la maggioranza dei seggi conquistati. Frutto di un sistema elettorale che produce risultati paradossali: anche questa volta, per esempio, l’irlandese Dup con lo 0,91% conquista 10 seggi, mentre il 7,36 dei Libdem ne vale appena 2 in più e il 3% dei nazionalisti scozzesi gliene assegna 35.Insomma la lezione, per chi la vuol capire, è molto chiara: se i socialisti non fanno i socialisti prima o poi vanno incontro alla scomparsa. Ogni paese ha le sue dinamiche e le sue specificità: per alcuni quel “poi” è già arrivato, in altri casi – come quello dell’Italia – non ancora, ma è sulla buona strada. Ne dovrebbero tener conto, per esempio, i fuoriusciti dal Pd, le cui analisi sulla globalizzazione, sull’Europa e sull’economia non recidono ancora quel legame con la Terza via che ha distrutto o sta distruggendo la sinistra. Cosa che invece ha fatto, per esempio, il francese Jean-Luc Mélenchon, ottenendo alle recenti presidenziali un successo che – anche in quel caso – nessuno aveva previsto. Il mondo è cambiato, è vero. Ma ciò non significa che non possa cambiare di nuovo. Soprattutto, non sono cambiati i bisogni e gli interessi di chi da questi mutamenti è stato danneggiato e vede un futuro in cui la propria condizione potrà semmai solo peggiorare. Chi vuole rappresentarli dovrà prenderne atto fino in fondo.(Carlo Clericetti, “Uk, quando i socialisti fanno i socialisti”, da “Repubblica” del 9 giugno 2017, articolo ripreso da “Micromega”).Tutte le elezioni degli anni della crisi sono state caratterizzate dai risultati catastrofici dei partiti socialisti, che in vari casi – ultimi due l’Olanda e la Francia – da formazioni che competevano per il governo si sono ridotti a gruppetti irrilevanti. Sono i risultati di lungo termine della loro mutazione genetica, iniziata con la truffaldina “Terza via” blairiana che li ha portati ad accogliere senza riserve l’ideologia neoliberista. In vari casi i loro elettori tradizionali ci hanno messo un po’ a capire che erano passati dall’altra parte e quindi in una prima fase hanno avuto successo, usufruendo di un patrimonio di adesioni consolidatosi storicamente e raccogliendone altre nuove dall’area moderata. Ma poi hanno cominciato a franare, perché non c’è tradizione che tenga quando si sceglie di rappresentare interessi opposti a quelli per tutelare i quali il partito era nato. Questa è stata anche la parabola del Labour, che dopo il grande e anche lungo successo di Blair ha cominciato a perdere sempre più terreno, avviandosi a seguire quella stessa sorte.
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Com’era bella l’Italia quando non eravamo ancora liberisti
Qualche giorno fa, illustrando il 25esimo rapporto sui cambiamenti economici e sociali, l’Istat ci ha spiegato con la forza fredda dei grandi numeri, che l’Italia è un paese in declino, nel quale le diseguaglianze aumentano invece che ridursi. La classe media è risucchiata nel proletariato, il proletariato si accapiglia col sotto-proletariato per un po’ di lavoro o un po’ di welfare mentre una piccola schiera di privilegiati scivola dietro la curva e scompare dall’orizzonte. Di fronte a questo scenario, di solito, i sociologi dicono che l’ascensore sociale si è rotto. Ma non è così. L’ascensore sociale non si è rotto; è stato manomesso da una selvaggia impostazione economica che regge la globalizzazione e che va sotto il nome di neo-liberismo. Per spiegarmi voglio essere del tutto anti-scientifico. Non ricorrerò alle medie di Trilussa che soccorrono gli economisti quando vogliono dirci che tutto va bene anche quando sembra che tutto vada male. No. Per convincervi che tutto andava bene quando sembrava che tutto andasse male, io ricorrerò ai miei ricordi di gioventù. Niente di più soggettivo, niente di più vero.Erano gli anni 80, i jeans si portavano ancora sopra il livello delle mutande, nessuno si sarebbe mai arrischiato a mangiare pesce crudo in un ristorante cinese e Mani Pulite non ci aveva ancora privato di una classe politica paurosamente incline alle tangenti ma anche fieramente impermeabile al capitalismo liberista. Dai grandi sentivo dire che avevamo un sacco di guai, che oggi scopro essere gli stessi di sempre; anzi, gli stessi di tutti i paesi. In quell’Italia però l’ascensore sociale funzionava. Coi suoi tempi, scalino dopo scalino, ma funzionava. La prima cosa che ricordo è che in classe l’appello contava una trentina di nomi. Le famiglie erano più numerose di oggi e a scuola ci mischiavamo tutti: i figli dei ricchi coi figli dei poveri coi figli della classe media. Al di là di qualche accessorio più scintillante, tuttavia, lo stile di vita non era poi così differente. Con diecimila lire trascorrevamo, tutti insieme, la serata in pizzeria.Non ricordo problemi di disoccupazione. Chi non aveva voglia di studiare, se ne andava a fare il muratore, l’operaio o l’artigiano e a 18 anni riuscivi pure ad invidiarlo perché si era già potuto comprare una macchina burina che piaceva alle ragazze burine. Ma allora nessuno sembrava burino, forse perché lo eravamo tutti. Una cosa che proprio non esisteva era Equitalia. Fatta eccezione per l’acquisto della casa e dell’automobile, non ci si indebitava per i beni voluttuari. Nessuno faceva un finanziamento per andare in vacanza, comprare un motorino e tantomeno un televisore da 42 pollici. Nemmeno te lo proponevano. Le cose, molto semplicemente, si compravano quando si avevano i soldi per comprarle. Altrimenti, si aspettava. In famiglia, ma più in generale nella società, c’era una cultura condivisa del risparmio. Il denaro non era il presente, il denaro era il futuro. Lo insegnavano i nonni, dotandoci di salvadanai nei quali accumulare gli spiccioli delle mance e regalandoci buoni postali che avremmo riscosso una volta maggiorenni, toccando con mano, e con anni di ritardo, tutta la concreta lungimiranza del loro affetto.Insieme al risparmio, l’altro grande valore era lo studio. Ricordo padri e madri fieri di poter mandare i propri figli, miei compagni, al liceo anziché alla scuola professionale e poi commossi fino alle lacrime per il primo laureato della casa. Nessuno allora parlava in modo sprezzante del “pezzo di carta”. La laurea era la garanzia di una promozione sociale che nessuno avrebbe più retrocesso e che diventava una conquista collettiva dell’intera famiglia. Non solo dello studente; anche di chi, con sacrificio, gli aveva consentito di studiare. L’istruzione, tuttavia, non era l’unico trampolino sociale. Tanti operai, dopo qualche anno di apprendistato e specializzazione, riuscivano a coronare il sogno di “mettersi in proprio”. Si diceva così e lo si diceva con orgoglio perché aprire una partita Iva, allora, era ancora una libera scelta. Andavi in banca, spiegavi il tuo progetto, ti davano un prestito e cominciava l’avventura che segnava la vita: da operaio a padrone. Quelli però erano padroni diversi dai grandi industriali di ieri e dai piccoli manager di oggi. Quelli erano padroni che, dentro, continuavano a sentirsi operai. Padroni che usavano le mani, che parlavano in dialetto e che conservavano un’intima diffidenza per i saputelli anglofili che poi avrebbero rovinato tutto.Com’era bella quell’Italia. Provinciale, ombelicale, modesta, furbacchiona, eppure così solida, generosa e vitale. Scrivere è terapeutico. Così mi accorgo solo ora del motivo profondo per cui ho scritto questo articolo senza capo né coda. L’ho scritto perché non riesco a perdonare chi mi ha portato via quel paese. Non perdono chi ci ha abituato a fare debiti per tv ultrapiatte, chi ci ha venduto come modernità i co.co.co, i co.co.pro e i voucher e chi ha inchiodato i giovani ad un telefonino per distrarli da un oggi senza domani. Più di tutto, però, io non riesco a perdonare chi non ha soccorso quei piccoli eroi dalle mani callose che, piuttosto di abbassare la saracinesca di una fabbrica, hanno scelto di abbassare la saracinesca di una vita. Padroni perché padroni di loro stessi. Operai perché operosi.(Alessandro Montanari, “Com’era bella l’Italia quando non eravamo liberisti”, da “Interesse Nazionale” dell’8 giugno 2017. Giornalista e autore televisivo, Montanari ha lavorato in Rai a “L’ultima parola” e ora, sempre con Gianluigi Paragone, lavora a “La Gabbia Open”, su La7).Qualche giorno fa, illustrando il 25esimo rapporto sui cambiamenti economici e sociali, l’Istat ci ha spiegato con la forza fredda dei grandi numeri, che l’Italia è un paese in declino, nel quale le diseguaglianze aumentano invece che ridursi. La classe media è risucchiata nel proletariato, il proletariato si accapiglia col sotto-proletariato per un po’ di lavoro o un po’ di welfare mentre una piccola schiera di privilegiati scivola dietro la curva e scompare dall’orizzonte. Di fronte a questo scenario, di solito, i sociologi dicono che l’ascensore sociale si è rotto. Ma non è così. L’ascensore sociale non si è rotto; è stato manomesso da una selvaggia impostazione economica che regge la globalizzazione e che va sotto il nome di neo-liberismo. Per spiegarmi voglio essere del tutto anti-scientifico. Non ricorrerò alle medie di Trilussa che soccorrono gli economisti quando vogliono dirci che tutto va bene anche quando sembra che tutto vada male. No. Per convincervi che tutto andava bene quando sembrava che tutto andasse male, io ricorrerò ai miei ricordi di gioventù. Niente di più soggettivo, niente di più vero.
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Per l’Occidente, i criminali sono sempre e soltanto gli altri
Secondo Furio Colombo, in un articolo pubblicato dal “Fatto Quotidiano” dell’8 maggio e intitolato “La follia come politica del mondo”, i leader dei paesi che non rientrano nel circolo buono delle democrazie occidentali propriamente dette, sono dei pazzi o quantomeno dei pericolosi psicolabili. Al primo posto sta, per antonomasia, “a prescindere”, di diritto, il dittatore della Corea del Nord Kim Jong-un. Al secondo Nicolás Maduro, il presidente del Venezuela, al terzo e al quarto, a scelta, leggermente distaccati, Putin ed Erdogan. Sarò più pazzo di lui, ma Kim Jong-un a me non sembra affatto pazzo. È l’unico a essere rimasto, col suo paese, nel famigerato “Asse del Male”. Saddam Hussein, che abbiamo a lungo utilizzato in funzione anti-iraniana e anti-curda, lo abbiamo fatto fuori quando non ci serviva più; al contrario, l’Iran degli ayatollah è uscito dall’ “Asse” perché, dopo averlo osteggiato per più di trent’anni con uno spietato embargo economico, e militarmente (aiuti a Saddam quando l’Iran stava per vincere una guerra in cui era l’aggredito e non l’aggressore) ora è tornato utile e ci serve nella guerra all’Isis. E stare nell’“Asse del Male” non è proprio tranquillizzante per chi vi è inserito. La Corea del Nord è l’ultimo paese comunista rimasto al mondo. È criminale, oltre che folle, essere comunisti?Per decenni, almeno fino al collasso dell’Urss, pregiati e stimati leader politici occidentali, italiani, francesi, tedeschi, appartenenti all’area della sinistra europea sono stati comunisti – alcuni ancora lo sono – senza che li si considerasse né criminali né folli. La Corea del Nord è circondata da paesi ostili, alcuni nucleari; e anche quelli che nucleari non sono, come la Corea del Sud, è come se lo fossero, perché sono di fatto un protettorato della più grande potenza atomica del mondo. È così strano, così criminale, così folle che la Corea del Nord voglia farsi un armamento nucleare peraltro minimo e ridicolmente inefficiente, come deterrente per non essere spazzata dalla faccia della terra dal primo che abbia la voglia di farlo? Il venezuelano Maduro, eletto democraticamente, è quotidianamente sotto il fuoco incrociato delle democrazie occidentali; non, come si afferma, per i suoi eccessi nella repressione degli oppositori (altri paesi nostri alleati fanno ben di peggio) ma perché è erede dello chavismo che è stato il tentativo, per qualche tempo riuscito, di sottrarre i paesi del Sud America, più efficacemente di quanto non avesse fatto Fidel, al soffocante abbraccio dell’“amico americano”.Putin è un autocrate criminale, responsabile insieme a Eltsin e al molto venerato Gorbačëv del genocidio ceceno; fa sparire in un modo o nell’altro i suoi oppositori, ma non è affatto un folle. La sua politica di appeasement con i Talebani afghani, che l’Isis lo combattono, lo dimostra. Perché se l’Isis sfonda in Afghanistan poi può dilagare in Turkmenistan, Tagikistan, e altri paesi con forti componenti musulmane che potrebbero diventare un serio pericolo per Mosca. Erdogan è effettivamente il peggiore di tutti. Come scrive Colombo, «il numero delle persone arrestate e tuttora detenute è troppo alto per essere compatibile con una pur crudele normalità». Peccato che Erdogan sia un nostro alleato e membro della Nato. Fra gli “imperatori folli” Colombo non inserisce, pudicamente, il generale Abd al-Fattāḥ al-Sīsī, che per giunta – e a differenza di Erdogan – non è stato democraticamente eletto, ma è autore di un colpo di Stato in cui ha messo in galera tutti i dirigenti dei Fratelli Musulmani vincitori delle prime elezioni libere in Egitto, ne ha ammazzati per ora circa 2.500 e ne ha fatti sparire 4.000 di cui ci siamo accorti solo quando è stato ritrovato il cadavere del ricercatore dilettante Giulio Regeni (diciamolo: non si va nell’Egitto di al-Sīsī a fare un’inchiesta sui “sindacati indipendenti”). Ma l’Egitto è da moltissimi anni un alleato degli americani che lo foraggiano e lo armano, e tanto più lo è ora al-Sīsī che l’imprudente Matteo Renzi, con la sua solita impudente leggerezza si è spinto a definire «un grande statista».I leader delle democrazie occidentali non sono folli. Si chiamino Bush padre, Bush figlio, Clinton, Obama, Hollande, Sarkozy, si presentano bene, ingiacchettati e incravattati. Sanno stare in società. Hanno modi gentili. Sono affidabili. Però da vent’anni a questa parte, perlomeno dall’attacco alla Serbia del 1999, si sono resi responsabili di cinque guerre di aggressione (Afghanistan, Iraq, Somalia e Libia più l’intromissione, con i russi e i turchi, nella guerra civile siriana) che hanno causato, direttamente o indirettamente, più di un milione di morti civili e altri ne continuano a causare, insieme a migrazioni bibliche. Non sono folli. Sono semplicemente dei criminali, o se si preferisce, dei terroristi di Stato. È la solita storia. Noi siamo il Bene per definizione; gli altri, di conseguenza, il Male. I nostri sono eserciti regolari, quelli degli altri sono “orde”. I nostri nemici non appartengono mai alla categoria dello iustus hostis, ma sono sempre dei terroristi. Quando li facciamo prigionieri non gli riconosciamo lo status di “prigionieri di guerra” e li trattiamo come criminali (vedi Guantánamo e Abu Ghraib). Forse dovremmo smetterla con questo doppiopesismo ipocrita e un tantino ripugnante. A mio avviso il vero folle è chi considera tutti gli altri “folli”.(Massimo Fini, “Per l’Occidente i criminali sono sempre gli altri”, dal “Fatto Quotidiano” del 15 maggio 2017).Secondo Furio Colombo, in un articolo pubblicato dal “Fatto Quotidiano” dell’8 maggio e intitolato “La follia come politica del mondo”, i leader dei paesi che non rientrano nel circolo buono delle democrazie occidentali propriamente dette, sono dei pazzi o quantomeno dei pericolosi psicolabili. Al primo posto sta, per antonomasia, “a prescindere”, di diritto, il dittatore della Corea del Nord Kim Jong-un. Al secondo Nicolás Maduro, il presidente del Venezuela, al terzo e al quarto, a scelta, leggermente distaccati, Putin ed Erdogan. Sarò più pazzo di lui, ma Kim Jong-un a me non sembra affatto pazzo. È l’unico a essere rimasto, col suo paese, nel famigerato “Asse del Male”. Saddam Hussein, che abbiamo a lungo utilizzato in funzione anti-iraniana e anti-curda, lo abbiamo fatto fuori quando non ci serviva più; al contrario, l’Iran degli ayatollah è uscito dall’ “Asse” perché, dopo averlo osteggiato per più di trent’anni con uno spietato embargo economico, e militarmente (aiuti a Saddam quando l’Iran stava per vincere una guerra in cui era l’aggredito e non l’aggressore) ora è tornato utile e ci serve nella guerra all’Isis. E stare nell’“Asse del Male” non è proprio tranquillizzante per chi vi è inserito. La Corea del Nord è l’ultimo paese comunista rimasto al mondo. È criminale, oltre che folle, essere comunisti?
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Foa: perdiamo tutti, se la nostra democrazia non conta più
Viviamo in uno strano mondo, in cui un genitore insegna ai propri figli quelli che considera valori sani e inviolabili: il rispetto della Costituzione, della democrazia come espressione della sovranità. Gli spiega che quando avrà 18 anni potrà votare, scegliere il partito che più lo rappresenta. Gli racconta che in Parlamento si approvano le leggi e gli spiega cos’è un paese. A scuola, questo bambino studia i confini e la storia, coltiva un’identità e scopre le proprie radici familiari e nazionali. Cose normalissime. Un tempo. Già, perché quando compirà 18 anni si accorgerà improvvisamente che quella realtà e quei valori, costati milioni di vite ai tempi della Seconda Guerra Mondiale, non valgono più e se proverà a rivendicarli verrà trattato come un eretico, anzi come un pericoloso populista. Non capirà più nulla o forse capirà fin troppo bene cosa significano il conformismo, le pressioni sociali, l’omologazione. Quel mondo, purtroppo, non è ipotetico ma sempre più reale, un mondo in cui principi elementari, anzi fondamentali, come democrazia e sovranità popolare sono considerati scomodi o vengono ridotti a feticci sull’altare della mondializzazione.E questo dovrebbe farci riflettere. Perché le differenze culturali, identitarie e politiche non devono più valere? Perché tutti i popoli devono assomigliarsi? Perché la famiglia tradizionale non va più bene e deve essere svuotata di significato? Ci rendiamo conto che la società che si delinea assomiglia sempre di più nella sua forma più ludica a quella descritta da Huxley nel romanzo “Mondo nuovo” e a quella più opprimente del citatissimo “1984” di Orwell? Io credo profondamente nella democrazia, mi scorre nelle vene e non riesco a reprimere l’impulso di parlare, di non tacere. E’ il dovere morale non di fare una rivoluzione ma di difendere quei valori e di contestare l’ineluttabilità della globalizzazione, soprattutto della sua omologazione, che si manifesta anche attraverso il continuo trasferimento di poteri a organismi sovranazionali, talvolta totalmente privi di qualunque legittimità popolare (Ocse, Nato, Oms, eccetera), talaltra diluiti in Parlamenti o altre forme di governance, poco efficaci, di rappresentanza, ridotti ad alibi morali, com’è stato fino ad oggi il Parlamento Europeo.Chiarisco subito che non si tratta di tornare a società autarchiche e dunque ottusamente protezionistiche, come lascia intendere certo pensiero mainstream; bensì di impostare una nuova forma di convivenza internazionale, in cui l’interesse e i poteri nazionali tornino ad avere il loro peso naturale e in cui i trattati internazionali non siano più calati dall’alto ma siano frutto di negoziazioni tra paesi sovrani e con pari diritti. Non si tratta di fermare il mondo, né di bloccare i commerci, ma di tenere conto anche di interessi che non siano solo quelli sovranazionali, nella convinzione che le democrazie siano ancora oggi il miglior sistema politico e che debba essere preservato, come peraltro lo Stato di diritto (altro valore che i globalisti tendono a disconoscere e a sostituire con forme molto strane di giustizia privata, quali gli arbitrati internazionali senza possibilità di ricorso, contemplati nel Ttip).Ecco perché le forme di protesta politica emerse recentemente in diversi paesi occidentali vanno salutate con favore. Testimoniano la capacità di resistenza di una parte importante della popolazione, l’attaccamento, talvolta istintivo, a quei valori e comunque a un sistema socioeconomico che negli ultimi 70 anni ha permesso un benessere senza precedenti e basato sull’ascensore sociale. La sfida, per chi ha il coraggio di definirsi sovranista, non è ovviamente di assecondare qualunque forma di protesta ma di contribuire alla nascita e allo sviluppo di movimenti culturali, civici e politici in grado di far maturare una risposta solida, concreta, credibile ai globalisti. E di denunciare ogni forma di insidia come quelle di chi prende a pretesto le fake news e le post-verità per imporre una censura alle opinioni scomode e spegnere sul nascere il contagio più pericoloso, quello delle idee. Non farlo significa rassegnarsi a società in cui sarà facilissimo privare ogni cittadino dei suoi diritti elementari e anche delle sue ricchezze personali. Un mondo che continuerà a dirsi democratico, perché la forma verrà rispettata, per trasformarsi nel suo esatto contrario. A voi quel mondo piace davvero?(Marcello Foa, “A voi questo mondo piace davvero? Le ottime ragioni dei sovranisti”, dal blog di Foa sul “Giornale” del 1° giugno 2017; intervento anticipato a Milano in un convegno su sovranità e globalizzazione organizzato dalla rivista “Logos” e moderato dal giornalista Gianluca Savoini, con oratori del calibro di Ted Malloch – diplomatico e fedelissimo di Trump, in predicato di diventare ambasciatore Usa a Bruxelles – nonché Giulio Tremonti, il politologo Giuseppe Valditara e Thomas Williams, responsabile di “Breitbart Italia”).Viviamo in uno strano mondo, in cui un genitore insegna ai propri figli quelli che considera valori sani e inviolabili: il rispetto della Costituzione, della democrazia come espressione della sovranità. Gli spiega che quando avrà 18 anni potrà votare, scegliere il partito che più lo rappresenta. Gli racconta che in Parlamento si approvano le leggi e gli spiega cos’è un paese. A scuola, questo bambino studia i confini e la storia, coltiva un’identità e scopre le proprie radici familiari e nazionali. Cose normalissime. Un tempo. Già, perché quando compirà 18 anni si accorgerà improvvisamente che quella realtà e quei valori, costati milioni di vite ai tempi della Seconda Guerra Mondiale, non valgono più e se proverà a rivendicarli verrà trattato come un eretico, anzi come un pericoloso populista. Non capirà più nulla o forse capirà fin troppo bene cosa significano il conformismo, le pressioni sociali, l’omologazione. Quel mondo, purtroppo, non è ipotetico ma sempre più reale, un mondo in cui principi elementari, anzi fondamentali, come democrazia e sovranità popolare sono considerati scomodi o vengono ridotti a feticci sull’altare della mondializzazione.
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Corbyn tallona la May? Urge attentato elettorale, a Londra
Finiti i botti, si può anche sospendere la campagna elettorale. Se lo devono essere detti l’Mi5, l’Mi6, la loro dependance Scotland Yard, i fratelloni Mossad, Cia e i suoi 14 nipotini in Usa, i cugini delle varie marche imperiali europee, alla vista di uno che s’impegnava per un apocalittico cambio «dalla politica per i pochi alla politica per i tanti» (Jeremy Corbyn). Roba mai vista da quando l’Ue è entrata in funzione su mandato Rothschild, Rockefeller, Bilderberg e galassia finanziaria globale. Anatema. E così, dopo gli impiegati e il poliziotto sul ponte di Westminster e i ragazzetti al concerto di Manchester, è toccata ai flaneur e alle flaneuses serali sul London Bridge e nei pub sottostanti a finire, come va il trend di questi tempi, sotto un veicolo e tra le lame dei servizi. Quattro morti, più 22, più sette = 33, più parecchie decine di feriti, mutilati, menomati. Esito di una battaglia elettorale sul destino dei pochi e dei tanti. La May, primo ministro, ha cancellato quanto restava della campagna dei tanti. Se ne poteva fare a meno. Forse.A Torino, nel tempo accuratamente costruito dal terrorismo di regime e media, in cui, se cade per terra un mazzo di chiavi, o esplode una miccetta, o qualcuno starnuta forte, scatta il panico da attentato e conseguente fuga tumultuosa che travolge e schiaccia chi non corre abbastanza veloce, o non trova varchi, o è inciampato, per una partita virtuale su maxischermo si contano mille feriti e alcuni a portata di Caronte. In entrambi i casi, come in tutti quelli del prima e del dopo, il risultato è raggiunto. Colpendo nel mucchio. Di quelli che non c’entrano niente. Di quelli spendibili. Non una volta che si spari una bazookata contro le finestre di Goldman Sachs, o si faccia saltare la corrente alla Nato a Bruxelles, o si infili un candelotto sotto il sedile dell’ambasciatore saudita. Che sia mai. Non facciamoci del male da soli.A cui si aggiunge un’altra considerazione. Social, vanterie degli specialisti e dei ministri della “sicurezza”, gole profonde della Nsa, perfino il “Report” disinquinato di Sigfrido Ranucci (Rai 3), o le voci alternative di Gianluigi Paragone (La7), ci informano a valanga di quanto tutti siamo controllati, di come non sfuggiamo neanche al cesso o nell’alcova, di come il nostro cellulare racconti al collegato di che pasta siamo fatti e che pasta consumiamo, insomma come nulla di nessuno sfugga al Grande Occhio. Grande Occhio onnivedente e onniconoscente che resta cieco o chiuso quando gli formicolano davanti migliaia di reclute dell’Isis (chiamiamole così, per non disturbare), istruite nelle carceri o nei campi di Siria e Iraq, pendolari tra sgozzamenti a Mosul e Raqqa e deflagrazioni o piraterie stradali in Europa. «Li conoscevamo, li abbiamo anche registrati, ma poi li abbiamo persi di vista…». Volatilità, volubilità, spensieratezze, disattenzioni, dei servizi di intelligence. Son ragazzi. Sempre meglio che farsi scoprire mandanti. «Tanto poi li secchiamo tutti». Basterebbe sparare alle gambe, o tirare una siringa come alle pantere randagie, o un po’ di gas come i russi nel teatro di Mosca… Ma i morti non parlano.(Fulvio Grimaldi, estratto dal post “Corbyn tallona May? Urge attentato”, pubblicato dal blog di Grimaldi il 4 giugo 2017).Finiti i botti, si può anche sospendere la campagna elettorale. Se lo devono essere detti l’Mi5, l’Mi6, la loro dependance Scotland Yard, i fratelloni Mossad, Cia e i suoi 14 nipotini in Usa, i cugini delle varie marche imperiali europee, alla vista di uno che s’impegnava per un apocalittico cambio «dalla politica per i pochi alla politica per i tanti» (Jeremy Corbyn). Roba mai vista da quando l’Ue è entrata in funzione su mandato Rothschild, Rockefeller, Bilderberg e galassia finanziaria globale. Anatema. E così, dopo gli impiegati e il poliziotto sul ponte di Westminster e i ragazzetti al concerto di Manchester, è toccata ai flaneur e alle flaneuses serali sul London Bridge e nei pub sottostanti a finire, come va il trend di questi tempi, sotto un veicolo e tra le lame dei servizi. Quattro morti, più 22, più sette = 33, più parecchie decine di feriti, mutilati, menomati. Esito di una battaglia elettorale sul destino dei pochi e dei tanti. La May, primo ministro, ha cancellato quanto restava della campagna dei tanti. Se ne poteva fare a meno. Forse.
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Foa: anche la Merkel nel complotto per abbattere Trump
Per capire il significato più autentico della rottura che si è consumata a Taormina tra Trump e gli alleati europei occorre individuare la chiave di lettura. E quella più appropriata si trova, ancora una volta, nell’articolo di uno degli ex consiglieri di Obama Charles A. Kupchan, pubblicato lo scorso mese di febbraio. Sembrava l’ennesimo editoriale tanto interessante quanto destinato a un rapido oblio e invece indicava la linea che l’establishment globalista avrebbe seguito per estromettere Trump. E cosa c’entra l’Europa? Penseranno molti di voi. C’entra, c’entra. I passaggi salienti erano due. Questi: «Mentre gli Stati Uniti e le altre democrazie occidentali sono scosse dalle forze populiste, gli effetti moderatori dei contrappesi istituzionali saranno di importanza cruciale. Il sistema legislativo, i tribunali, i media, l’opinione pubblica e l’attivismo – rappresentano tutti un freno all’autorità esecutiva e devono essere pienamente adoperati». Ora, pensate a cosa sta succedendo negli Stati Uniti: a condurre la campagna contro Trump sul Russiagate sono i media, i parlamentari e, in divenire, i tribunali. E pensate a quante manifestazioni ci sono state, su temi cari alla sinistra negli Usa ma anche in Europa.Pensate alle marce pro-immigrati come quelle svoltesi a Londra o a Milano: rientrano non solo in una certa linea di pensiero (e fin qui niente di sorprendente) ma anche – e forse soprattutto – in un movimentismo teso a contrastare le cosiddette forze populiste. L’Europa, però, veniva indicata da Kupchan come nuovo perno del potere globalista. La frase cruciale è questa: «Stati Uniti e la Gran Bretagna saranno, almeno temporaneamente, latitanti quando si tratta di difendere l’ordine liberale internazionale, l’Europa continentale dovrà difendere la posizione. Nel momento in cui la coesione interna dell’Unione europea è messa alla prova dallo stesso populismo che occorre sconfiggere, non è buon momento per chiederle di colmare il vuoto lasciato dal disimpegno anglo-americano. Ma almeno per ora, la leadership europea è la migliore speranza per l’internazionalismo liberale». Riflettete: quante volte in passato i leader europei hanno osato contestare pubblicamente un presidente degli Stati Uniti durante un vertice del G7 o in altri consessi ufficiali?Probabilmente bisogna risalire al 2003 quanto Schroeder e Chirac si opposero, con saggezza, alla guerra in Irak. Per il resto o i contrasti non emergevano in conferenza stampa o più frequentemente, gli alleati europei si allineavano ai desiderata di Washington, talvolta anche contro il proprio interesse geostrategico. Non è strano che un cancelliere prudentissimo come la Merkel trovi improvvisamente il coraggio per dire: “Impossibile ormai fidarsi degli Usa”? Ne converrete: non è da lei. Il sospetto è che tanto ardire sia calcolato e strumentale: ovvero che vada a rafforzare la tesi – o dovremmo dire gli auspici – di Kupchan. Quelle dichiarazioni rafforzano l’establishment anti-Trump, che può dire ai notabili di Washington: visto? Perdiamo anche l’Europa. In realtà non va intesa come una rottura ma come una parentesi politica, perché lo stesso Kupchan parlava di una latitanza angloamericana “temporanea”; dunque il tempo di far fuori Trump. Quando negli Usa loro riconquisteranno la Casa Bianca, l’Unione europea tornerà ad essere consenziente e l’audace Merkel di nuovo pragmaticamente mansueta.(Marcello Foa, “Anche l’Europa nel piano per far cadere Trump, ecco perché la Merkel è cpsì audace”, dal blog di Foa sul “Giornale” del 28 maggio 2017).Per capire il significato più autentico della rottura che si è consumata a Taormina tra Trump e gli alleati europei occorre individuare la chiave di lettura. E quella più appropriata si trova, ancora una volta, nell’articolo di uno degli ex consiglieri di Obama Charles A. Kupchan, pubblicato lo scorso mese di febbraio. Sembrava l’ennesimo editoriale tanto interessante quanto destinato a un rapido oblio e invece indicava la linea che l’establishment globalista avrebbe seguito per estromettere Trump. E cosa c’entra l’Europa? Penseranno molti di voi. C’entra, c’entra. I passaggi salienti erano due. Questi: «Mentre gli Stati Uniti e le altre democrazie occidentali sono scosse dalle forze populiste, gli effetti moderatori dei contrappesi istituzionali saranno di importanza cruciale. Il sistema legislativo, i tribunali, i media, l’opinione pubblica e l’attivismo – rappresentano tutti un freno all’autorità esecutiva e devono essere pienamente adoperati». Ora, pensate a cosa sta succedendo negli Stati Uniti: a condurre la campagna contro Trump sul Russiagate sono i media, i parlamentari e, in divenire, i tribunali. E pensate a quante manifestazioni ci sono state, su temi cari alla sinistra negli Usa ma anche in Europa.