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Avremo i tank a Barcellona, il franchismo non è mai morto
L’Europa è stata sorpresa dalla brutalità della polizia spagnola contro il referendum catalano. Brutalità del tutto gratuita, peraltro: se il referendum era illegittimo ed inefficace giuridicamente e politicamente, tam quam non esset, come Rajoi ha sostenuto, perché darsi tanto da fare per impedirlo? In realtà Madrid temeva che andassero a votare più della metà dei catalani, il che, giuridicamente non avrebbe cambiato nulla, ma politicamente avrebbe dato ben più forza contrattuale agli indipendentisti. E la manovra è riuscita perché ha votato meno della metà, anche se nessuno può dire quanti non sono andati a votare per timore delle violenze poliziesche che dimostrano che il franchismo non è proprio del tutto un ricordo del passato. E non c’è dubbio che, al bisogno, Rajoi schiererebbe i carri armati, o avete dubbi in proposito? La radice del problema sta nel modo in cui la Spagna è uscita dal franchismo ed ha fondato l’assetto di potere vigente ancora oggi. Già dalla metà degli anni sessanta, la borghesia spagnola iniziò a pensare di uscire dall’isolamento (la Spagna non faceva parte né della Nato – a differenza del Portogallo né della Comunità europea). E questo avrebbe mantenuto il paese nelle condizioni di strema arretratezza economica in cui era (insieme a Portogallo e Grecia, era il paese più povero dell’Europa Occidentale).Un avvicinamento venne tentato dallo stesso Franco che, a questo scopo, nel 1969 compose un governo con una forte componente Opus Dei, ma invano. La Spagna restava un paese dichiaratamente fascista ed era incompatibile con i trattati istitutivi dell’allora Cee. D’altro canto, nel tardo 1970 un processo a Burgos si concluse con il garrotamento di cinque attivisti baschi che non giovò all’immagine del paese, come anche, quattro anni dopo, la condanna a morte dell’anarchico Puig Antich, garrotato nel marzo 1974. Era chiaro che sinchè Franco fosse vissuto il regime fascista sarebbe durato e sinché la Spagna fosse stata fascista, non sarebbe entrata nella Cee. E peraltro, Franco aveva designato suo successore l’ammiraglio Carrero Blanco per assicurare la continuità del regime. Un contributo indiretto venne dai baschi che, il 20 dicembre 1973 giustiziarono l’ammiraglio con uno spettacolare attentato esplosivo. La meritoria azione basca tolse di mezzo l’unico che avrebbe potuto assicurare la continuità del regime. Il 19 novembre 1975 Franco morì e salì al trono il re Juan Carlos di Borbone che poneva fine alla reggenza del caudillo. Il Re trovò subito l’intesa con la parte moderata della Falange che faceva riferimento al capo del governo Arias Navarro, con il quale avviò il ritorno alla democrazia che fu quasi completato entro il 1976.Nel 1977 le elezioni politiche segnarono la vittoria dell’Unione di Centro Democratico di Adolfo Suarez che ebbe il 34%; i suoi aderenti si dichiaravano formalmente socialdemocratici, liberali, democristiani, ma, in realtà, nelle sue fila si riciclò gran parte del ceto politico franchista mentre un’altra parte confluì nell’Alleanza Popolare di Fraga Iribarne che ottenne l’8% e che proclamava una più diretta filiazione franchista. Sino ai primi anni ottanta il governo restò nelle mani di Suarez. La sinistra ottenne più del 40% fra socialisti, comunisti, baschi e catalanisti, ma il rapporto di forze era assai più sfavorevole dei numeri: il regime fascista era caduto non per una guerra persa, come in Grecia, né per un pronunciamento militare di segno progressista (come in Portogallo), né tantomeno per una insurrezione popolare, ma per una operazione trasformistica dello stesso ceto politico franchista in accordo con la Corona. Il franchismo non venne mai sottoposto ad alcun processo politico o culturale, anzi, la sinistra accettò di buon grado il “pacto dell’olvido” per cui si stendeva una coltre di silenzio sulla storia recente del paese e i monumenti del franchismo, compreso il sacrario della Valle de Los Caidos restavano tutti al loro posto. Soprattutto, non c’era alcuna epurazione delle forze armate di polizia o dell’esercito (da cui verrà fuori quel Tejero che, nel febbraio 1981, tentò il colpo di Stato), dei loro organici e del tipo di formazione delle reclute, donde le odierne brutalità.Stante questa situazione di partenza si comprende come nessuno abbia tentato neppure di rimettere in discussione la monarchia, magari con un referendum istituzionale, e come sia venuta fuori la Costituzione a centralismo castigliano, di cui abbiamo dello nel precedente articolo. Il Re fu il perno intorno a cui si riaggregò il blocco di potere, il garante di una costituzione materiale che mantenesse i rapporti di potere del passato, il punto di riferimento dello sviluppo economico del paese (non a caso, Juan Carlos ebbe, sino alla sua abdicazione, un ruolo attivo in molte trattative economiche, non tutte limpide, peraltro). Ed è impressionante come la sinistra non abbia cercato di far nulla di concreto per rimettere in discussione la monarchia per decenni e nonostante sia stata a lungo al governo. Oggi, anche se lo scettro è nelle mani dell’imbelle Filippo VI (un re che mentre il suo paese rischia la secessione o la guerra civile, tace per cinque giorni per poi andare al soccorso del vincitore, rinunciando ad avere qualsiasi ruolo di mediatore) la situazione cambia poco perchè quel che conta è l’istituto ed il suo rapporto speciale con le forze armate. Di quella antica origine resta anche la debolezza della sinistra in questa occasione: non parliamo dei soliti venduti del Psoe (che come tutti i partiti dell’attuale internazionale socialista sono pronti a qualsiasi tradimento), ma anche dei comunisti e di tutti i componenti di Izquierda Unida che sono stati incapaci di qualsiasi protesta di fronte alle violenze governative. Le ombre del passato spesso sono assai lente a tramontare.(Aldo Giannuli, “Catalogna: le cause vicine nel tempo”, dal blog di Giannuli del 18 ottobre 2017).L’Europa è stata sorpresa dalla brutalità della polizia spagnola contro il referendum catalano. Brutalità del tutto gratuita, peraltro: se il referendum era illegittimo ed inefficace giuridicamente e politicamente, tam quam non esset, come Rajoi ha sostenuto, perché darsi tanto da fare per impedirlo? In realtà Madrid temeva che andassero a votare più della metà dei catalani, il che, giuridicamente non avrebbe cambiato nulla, ma politicamente avrebbe dato ben più forza contrattuale agli indipendentisti. E la manovra è riuscita perché ha votato meno della metà, anche se nessuno può dire quanti non sono andati a votare per timore delle violenze poliziesche che dimostrano che il franchismo non è proprio del tutto un ricordo del passato. E non c’è dubbio che, al bisogno, Rajoi schiererebbe i carri armati, o avete dubbi in proposito? La radice del problema sta nel modo in cui la Spagna è uscita dal franchismo ed ha fondato l’assetto di potere vigente ancora oggi. Già dalla metà degli anni sessanta, la borghesia spagnola iniziò a pensare di uscire dall’isolamento (la Spagna non faceva parte né della Nato – a differenza del Portogallo né della Comunità europea). E questo avrebbe mantenuto il paese nelle condizioni di strema arretratezza economica in cui era (insieme a Portogallo e Grecia, era il paese più povero dell’Europa Occidentale).
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Blondet: Cane Pazzo fermerà il Cretino della Casa Bianca?
«E’ un cretino», avrebbe detto di Trump il segretario di Stato Rex Tillerson, anzi «un fottuto cretino». «Compariamo i quozienti intellettivi e vediamo chi vince», ha twittato in risposta “The Donald”, confermando involontariamente la valutazione di Tillerson. Secondo Steve Bannon, Trump «ha il 30% di probabilità di terminare regolarmente il mandato», visto che potrebbe decadere non per impeachment, ma per il 25° emendamento, in base al quale il gabinetto, a maggioranza, può rimuovere il presidente per ragioni (fra l’altro) psichiatriche. Lo riporta Maurizio Blondet, registrando lo stato di caos che regnerebbe a Washington. «Diverse persone vicine al presidente mi hanno detto in privato che Trump è “instabile”, che “perde colpi”, che “va in pezzi”», scrive Gabriel Sherman su “Vanity Fair”, dopo l’intervista rilasciata al “New York Times” del senatore repubblicano Bob Corker, che ha definito la Casa Bianca di questi giorni «un asilo nido per adulti» e ha detto di temere che Trump scateni la Terza Guerra Mondiale. Esagerazioni? «Il capo di gabinetto, generale John Kelly, è profondamente a disagio e infelice nella sua carica, ma vi resta per senso del dovere, per frenare le decisioni più disastrose che Trump da solo potrebbe prendere: per esempio, ordinare un attacco atomico preventivo contro la Corea del Nord».Lo stesso Kelly e il generale James Mattis, il segretario alla difesa, avrebbero discusso fra loro cosa fare se Trump ordinasse il “first strike”, il temutissimo “primo colpo” nucleare. «Gli si opporranno?», si domanda l’anonimo spifferatore della storia a “Vanity Fair”, indicato come ex funzionario della Casa Bianca. Altra indiscrezione: in una riunione dello scorso luglio, Trump avrebbe espresso il desiderio di «decuplicare l’arsenale atomico», salvo poi negare via Twitter, minacciando di «togliere la licenza» alla catena televisiva “Nbc” per quella “fake news”. Ma diverse voci smentiscono il presidente e confermano la notizia, aggiunge Blondet: saputo in quella riunione che gli Usa hanno attualmente 4.000 testate nucleari, contro le 32.000 a loro disposizione nel 1960, Trump avrebbe «espresso il desiderio di riportarle a quel numero, lasciando basiti i generali». Si parla anche di una riunione del consiglio di sicurezza nazionale nella Situation Room, a luglio, in cui Trump avrebbe «ordinato ai capi militari di licenziare il comandante dello forze Usa in Afghanistan», paragonando i loro consigli a quelli di un consulente di sua conoscenza di un ristorante di New York, «i cui suggerimenti sbagliati avevano fatto perdere tempo e denaro».La riunione era stata convocata perché il presidente approvasse la nuova strategia sull’Afghanistan, ma è stata così improduttiva che i consiglieri hanno deciso di continuare la discussione il giorno dopo al Pentagono, con la speranza che in una riunione con meno persone il presidente si sarebbe «concentrato di più». Si interroga Blondet: forse non è il Deep State ad aver messo alle costole di Trump i generali Mattis e Kelly per neutralizzarlo e fargli continuare la politica bellicista di sempre. Forse i “buoni” sono proprio i generali, che provano a frenare un presidente che «gioca a fare il dittatore folle, impartendo ordini pericolosissimi». Ordini «aggravati da una mente sconclusionata, incapace di concentrarsi», nonché «da una furiosa mancanza di conoscenze» specifiche e da «idee da cartone animato». Così almeno scrive il sito “Red State”, politicamente ostile a “The Donald”. Fatto sta che Trump ha apertamente sconfessato il suo segretario di Stato, Tillerson, nei suoi sforzi di aprire (o mantenere aperto) un canale diplomatico con la Corea del Nord, con tweet del tipo: «Risparmiati la fatica, Rex. Serve una sola cosa», la Bomba. Tillerson, aggiunge Blondet, «appare in lotta non solo con il Cretino, ma anche con il Deep State, che quanto a intensità di follia non è certo secondo».Se infatti l’inquilino della Casa Bianca sembra quantomeno in confusione, lo “Stato Profondo” rappresentato dal complesso militare-industriale, Cia e Pentagono più Wall Street, è «sempre più fanaticamente impegnato a portare le relazioni con Mosca ad un punto di non ritorno», come dimostra «l’uccisione del generale Asapov, la bollatura della redazione americana di “Russia Today” come “agenzia straniera”, il bando all’antivirus Kasperski in Usa, accusato dagli israeliani di avere dentro un software spionistico, l’armamento nuovo ai ribelli in Siria». Lo stesso Tillerson, aggiunge Blondet, ha fatto una telefonata cordiale a Lavrov, in cui, secondo il comunicato ufficiale, s’è parlato perfino della «prospettiva di collaborazione Russia-Usa per far funzionare le zone di de-escalation» in Siria. «Una telefonata che ha forse solo il senso di dare un disperato segnale: non è il segretario di Stato la fonte degli attacchi e delle provocazioni», scrive Blondet. Ancor più grave: Tillerson è a favore dell’idea che gli Usa «continuino a mantenere l’accordo nucleare iraniano, che Trump invece sicuramente straccerà, fra l’altro aggravando la rottura con gli europei che invece continuano a sostenerlo». E quindi «cosa farà, imporrà sanzioni agli europei che commerciano con Teheran?».Tillerson, continua Blondet, «ha indetto una conferenza stampa per smentire – non già di aver dato del cretino al suo presidente (su questo ha glissato) – ma di essere sul punto di dare le dimissioni». Anche lui, come Kelly, «per senso del dovere». E pure il generale “Mad Dog” Mattis, nonostante il suo soprannome (“cane pazzo”), «esercita quanto può il ruolo di ragionevole trattenitore» del Folle. «Anche lui davanti al Congresso s’è dichiarato a favore del fatto che gli Usa mantengano fede all’accordo con l’Iran (e gli alleati europei e la Russia) sul nucleare iraniano, che Teheran sta rispettando. Ciò ha fruttato a Mattis la furiosa visita di un altro pazzo, il ministro della difesa israeliano Avigdor Lieberman», il quale sostiene la posizione di Trump e ha informato il capo del Pentagono – testualmente – che «il conflitto Israele-Iran in Siria ha raggiunto il punto di non ritorno», e che «siccome Teheran continua ad ignorare gli altolà di Israele all’espansione iraniana nel Medio Oriente, Israele va ad un conflitto con l’Iran» in Siria. Infatti «Israele ha reso chiaro, sia gli iraniani che ai siriani, e anche ai russi, che non consentirà alcuna presenza iraniana in Siria, specialmente aerei da guerra o un molo iraniano nel porto di Tartus».Per adesso, scrive il sito israeliano “Yenet News”, ciò che Lieberman potrà ottenere sarà al massimo l’appoggio del Pentagono per intensificare la guerra contro quello che chiamano «la sovversione dell’Iran in Medio Oriente, dallo Yemen a Gaza al Libano». Già esiste «un piano americano contro Hezbollah come parte della guerra contro l’Iran e i suoi satelliti». Un piano che farebbe parte delle misure contro «l’espansione iraniana nella regione», vale a dire – traduce Blondet – la continuazione della sovversione del governo siriano con il pieno sostegno ai jihadisti e con le uccisioni di russi. Nell’articolo di “Vanity Fair” si racconta che Steve Bannon, quand’era ancora il capo-stratega alla Casa Bianca, ha detto francamente a Trump che, col suo comportamento, non doveva temere l’impeachment, ma il 25° emendamento. Al che, Trump ha risposto: «E che cos’è?». Blondet fa notare «quante personalità disturbate, irresponsabili, pericolosamente instabili o con gravi problemi di sociopatia» siano attualmente al potere, citando anche Netanyahu e Erdogan, «che sta rompendo i rapporti diplomatici con gli Usa, nello sgomento dei suoi ministri». Per Blondet, questo è «un passo apocalittico della storia», che aumenta «il disordine demolitorio ed esplosivo», là dove prima esistea un ordine mondiale fondato su equilibri dinamici.«E’ un cretino», avrebbe detto di Trump il segretario di Stato Rex Tillerson, anzi «un fottuto cretino». «Compariamo i quozienti intellettivi e vediamo chi vince», ha twittato in risposta “The Donald”, confermando involontariamente la valutazione di Tillerson. Secondo Steve Bannon, Trump «ha il 30% di probabilità di terminare regolarmente il mandato», visto che potrebbe decadere non per impeachment, ma per il 25° emendamento, in base al quale il gabinetto, a maggioranza, può rimuovere il presidente per ragioni (fra l’altro) psichiatriche. Lo riporta Maurizio Blondet, registrando lo stato di caos che regnerebbe a Washington. «Diverse persone vicine al presidente mi hanno detto in privato che Trump è “instabile”, che “perde colpi”, che “va in pezzi”», scrive Gabriel Sherman su “Vanity Fair”, dopo l’intervista rilasciata al “New York Times” del senatore repubblicano Bob Corker, che ha definito la Casa Bianca di questi giorni «un asilo nido per adulti» e ha detto di temere che Trump scateni la Terza Guerra Mondiale. Esagerazioni? «Il capo di gabinetto, generale John Kelly, è profondamente a disagio e infelice nella sua carica, ma vi resta per senso del dovere, per frenare le decisioni più disastrose che Trump da solo potrebbe prendere: per esempio, ordinare un attacco atomico preventivo contro la Corea del Nord».
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Carpeoro: Fusaro e Di Pietro, tribuni dell’Italia non-pensante
Diego Fusaro in televisione accusa Antonio Di Pietro e i magistrati di Mani Pulite di aver fatto un colpo di Stato? Da un punto di vista linguistico, non definirei Mani Pulite un colpo di Stato, quanto piuttosto un complotto internazionale, nel senso che il golpe ha caratteristiche squisitamente politiche e personalistiche, che quella storia non ha avuto. Dietro c’erano interessi internazionali e servizi segreti: altre cose. Il colpo di Stato è il voler sostituire un regime con un altro regime. Qui non si voleva sostituire un regime politico: si voleva soltanto mandare a casa la sua dirigenza. Cosa che è stata fatta, con una serie di fattori che si sono incrociati, e una serie di persone che pensavano di poter gestire questo fenomeno e poi ne sono rimaste esse stesse vittime. Una di queste è stato Andreotti: quand’è stato fatto senatore a vita da Cossiga, insieme a Gianni Agnelli, circa sei mesi prima che esplodesse Mani Pulite, Andreotti sapeva bene cosa sarebbe scoppiato. Lo sapeva molto bene, come lo sapeva Cossiga – che guardacaso ha nominato due senatori a vita, Andreotti e Agnelli: vi sembra complicato dedurre che Giulio Andreotti e Gianni Agnelli sapessero cosa stava accadendo, e che lo sapesse anche Cossiga?Pensavano di poter gestire la situazione, ma queste cose scappano di mano: come diceva Craxi, prima o poi le volpi ci finiscono, in pellicceria. Poi si sono incrociate vendette internazionali: se uno sottrae all’arresto americano colui che ha materialmente ucciso uno dei capi del B’nai B’rith, non può pensare che quel braccio operativo, connesso col Mossad, “se la tenga”. E quindi ci è entrato il problema di Sigonella e tutta una serie di problemi. Di Pietro un golpista? No: Di Pietro è un opportunista, che ha lucrato politicamente (e probabilmente anche economicamente) sul fatto di trovarsi in una posizione gestita dai servizi segreti sin dalle origini, fin da quando da poliziotto diventa magistrato, sulla base di un certo piano, gestito anche dagli americani. E tramite questa posizione ha gestito rapporti con servizi segreti di tutto il mondo: dimessosi da magistrato, risulta che il primo viaggio che Di Pietro fa è in Turchia, dove partecipa a incontri con i servizi segreti turchi.Non è stato il primo, Fusaro, a sollevare la questione Mani Pulite in quei termini. Ma il problema è che Fusaro rappresenta una categoria non-pensante dell’Italia (per delle cose che ha detto prima, per come si pone). Non ho detto che lui è non-pensante: ho detto che è gradito ai non-pensanti. E questo è pericoloso, per Di Pietro, perché il suo successo lo ha dovuto ai non-pensanti. Questo per lui è un rischio forte: Di Pietro ha temuto lo scontro televisivo con Fusaro perché entrambi sono sullo stesso piano; affondano nello stesso pubblico, attingono allo stesso consenso, e quindi per Di Pietro è molto pericoloso, incrinare questo tipo di copertura. Il problema, in Italia, è che quelli che fanno qualcosa contro qualcuno vorrebbero prendergli il posto. Questa è la dinamica: attacco qualcuno perché voglio fare le cose che fa lui, al posto suo.Se questa è la dinamica, perché dovrei essere entusiasta di Fusaro? Se non lo sono stato di Di Pietro, non posso esserlo neanche di Fusaro. Le motivazioni sono uguali, le modalità sono uguali: le modalità di analisi, il populismo, la superficialità di certi giudizi, il non voler far pensare la gente (o forse, il non riuscirci). E quindi perché dovrei essere entusiasta di Fusaro se non lo sono stato di Di Pietro e di qualunque altro di questi Cola di Rienzo, di questi personaggi un po’ tribunizi che hanno cavalcato le scene italiane negli ultimi anni? Io sono per una politica diversa, una politica non fatta di tribuni. In Italia si sono abolite le tribune e si sono potenziati i tribuni. Io vorrei che venissero rispolverate le tribune e aboliti i tribuni. Magari ci riusciremo.(Gianfranco Carpeoro, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti di “Border Nights” durante la diretta web-streaming “Carpeoro Racconta” del 22 ottobre 2017, ripresa su YouTube. Il filosofo Diego Fusaro si è scontrato il 19 ottobre nel corso della trasmissione “L’aria che tira”, condotta sul La7 da Myrta Merlino. Il riferimento di Carpeoro al B’nai B’rith è relativo a Lion Klinghoffer, israelo-statunitense ucciso dal commando palestinese del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina, che dirottò la nave da crociera Achille Lauro nel 1985. Dirottamento organizzato dagli uomini di George Habbash, leader del Fplp, e poi “risolto” dall’inviato di Arafat, Abu Abbas, con la collaborazione dell’Egitto e dell’Italia, il cui premier Craxi protesse poi il rimpatrio dei dirottatori e dello stesso Abu Abbas, dopo averli contesi a Sigonella ai marines schierati da Reagan per catturarli e tradurli negli Usa).Diego Fusaro in televisione accusa Antonio Di Pietro e i magistrati di Mani Pulite di aver fatto un colpo di Stato? Da un punto di vista linguistico, non definirei Mani Pulite un colpo di Stato, quanto piuttosto un complotto internazionale, nel senso che il golpe ha caratteristiche squisitamente politiche e personalistiche, che quella storia non ha avuto. Dietro c’erano interessi internazionali e servizi segreti: altre cose. Il colpo di Stato è il voler sostituire un regime con un altro regime. Qui non si voleva sostituire un regime politico: si voleva soltanto mandare a casa la sua dirigenza. Cosa che è stata fatta, con una serie di fattori che si sono incrociati, e una serie di persone che pensavano di poter gestire questo fenomeno e poi ne sono rimaste esse stesse vittime. Una di queste è stato Andreotti: quand’è stato fatto senatore a vita da Cossiga, insieme a Gianni Agnelli, circa sei mesi prima che esplodesse Mani Pulite, Andreotti sapeva bene cosa sarebbe scoppiato. Lo sapeva molto bene, come lo sapeva Cossiga – che guardacaso ha nominato due senatori a vita, Andreotti e Agnelli: vi sembra complicato dedurre che Giulio Andreotti e Gianni Agnelli sapessero cosa stava accadendo, e che lo sapesse anche Cossiga?
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Piazzale Loreto, sacrificio rituale: morte del nuovo Cesare
Piazzale Loreto: macelleria messicana o rito esoterico? Giorgio Galli, eminente politologo italiano, propende per la seconda ipotesi. Per questo firma il breve saggio pubblicato in appendice nel volume “Mussolini e gli Illuminati”, nel quale Enrico Montermini, giovane ricercatore indipendente, rivisita l’intera parabola del Duce, “da piazza San Sepolcro al rito sacrificale di piazzale Loreto”. L’autore mette in luce il legame occulto tra il fascismo, la massoneria italiana e gli ambienti della supermassoneria finanziaria anglosassone. Una lettura raggelante, quella della fine del dittatore interpretata in chiave esoterica: Mussolini ucciso sul Lago di Como e quindi “battezzato”, da morto, in uno strano rito di purificazione, per poi essere tradotto a Milano, fotografato cadavere con in pugno uno scettro (come l’Imperatore dei tarocchi) e infine appeso a testa in giù, per richiamare un altro degli “arcani”, l’Appeso, simbolo del potere capovolto. Tutto questo a piazzale Loreto, cioè «non a caso, nella piazza milanese dedicata alla Madonna», visto che – nella folle visione dei registi del macabro spettacolo – proprio «nel grembo della beata vergine» doveva “nascere”, simbolicamente, il nuovo Cristo. Un secondo avvento del messia, «propiziato dalla caduta del nuovo Giulio Cesare».Delirio? Eppure coincide alla lettera con la cronologia di quei drammatici giorni. Montermini sostiene che l’atroce scempio di piazzale Loreto parrebbe la diligente attuazione della “profezia” pronunciata nel 1908 dall’esoterista inglese Annie Besant, leader della Società Teosofica fondata da Helena Petrovna Blavatsky. La Besant parla per la prima volta di un nuovo periodo, il passaggio dall’Età dei Pesci all’Età dell’Acquario, segnata dal ritorno di Cristo sulla Terra, preceduto però dalla reincarnazione di Giulio Cesare, che dovrà regnare e poi cadere. Ma che c’entra Mussolini con le visioni di certo esoterismo? C’entra eccome, assicura Montermini, che si incarica di indagare cercando «l’altra faccia della storia, quella che si nasconde dietro gli avvenimenti narrati nei libri». Basta verificare chi favorì la nascita ufficiale del fascismo, il 23 marzo 1919 in piazza San Sepolcro a Milano: «Intorno a Mussolini troviamo sempre personaggi legati al substrato del mondo esoterico: massoneria e altri ordini iniziatici ancora più segreti e potenti, e naturalmente molto meno conosciuti, come la paramassoneria finanziaria con i suoi circoli elitari». La tesi: «Mussolini fu selezionato, fu aiutato ad arrivare al potere». Lo dimostrano «forze politiche ed esoteriche, presenti a piazza San Sepolcro nel momento in cui fu fondato il fascismo».Secondo Montermini, documenti alla mano, Mussolini ricevette una vera e propria investitura dal mondo delle società segrete, da parte di un personaggio in apparenza folkoristico, Regina Teruzzi, che in realtà «era la medium di un gruppo di potentissimi e autorevolissimi cultori della tradizione romana, l’aristocrazia nera dedita alla tradizione pagana». Personaggi di spicco: il duca Giovanni Antonio Colonna Di Cesarò, noto cultore della teosofia e dell’antroposofia (che poi diventerà ministro delle Poste del governo Mussolini) e Don Leone Caetani, anche lui appartenente a una delle più antiche e potenti famiglie dell’aristocrazia nera romana, il cui fratello – Celaso Caetani – diventerà ambasciatore d’Italia a Washington subito dopo la Marcia su Roma (una nomina irrituale, di provenienza non diplomatica, che suscitò scandalo alla Farnesina). Questi personaggi «invitarono la Teruzzi nel “dies natalis” del fascismo per dare a Mussolini la loro investitura». Lei, la medium, «gli profetizzò che sarebbe diventato “console d’Italia”», cioè autocrate. Investitura “profetica” che avvenne a Palazzo Castani, in piazza San Sepolcro, «sede notoria della massoneria milanese».La sala per il ricevimento, aggiunge Montermini, fu messa a disposizione da Cesare Goldman, «israelita, altissimo dignitario della massoneria italiana». Nella regia dell’operazione c’era anche il maggiore sponsor del fascismo “antemarcia”, cioè la Banca Commerciale Italiana, massonica, allora diretta da Jósef Leopold Toeplitz, «seguace dell’eresia “franchista”, una setta ereticale ebraica che aveva mischiato l’antico sapere cabalistico ebraico con i riti orgiastici delle religioni gnostiche del mondo antico». Tra i fondatori del fascismo, in quella occasione, «troviamo un lungo elenco di personaggi associati alla massoneria». Lo stesso gran maestro del Grande Oriente d’Italia, Domizio Torrigiani, «dice che una centuria di massoni milanesi fu tra i fondatori dei Fasci di Combattimento». Mussolini – deduce Montermini – fu accuratamente selezionato dalle società segrete «per rimettere in piedi l’Italia», piegata dagli scioperi insurrezionali del “biennio rosso”, con le fabbriche di armi occupate dagli operai.Il futuro Duce «era perfettamente consapevole di quei piani». La cosa non sorprende: «Già all’indomani della Prima Guerra Mondiale era molto vicino alla massoneria». Per un certo periodo «andò d’amore e d’accordo con le logge, e questo spiega l’aiuto che la massoneria ha dato al successo della Marcia su Roma, soprattutto in termini di desistenza, da parte degli apparati repressivi dello Stato». Fino al 1922, continua lo storico, Mussolini ebbe stretti rapporti con Torrigiani, il leader del Goi. E alla vigilia della Marcia su Roma iniziò a intrattenere rapporti (durati fino al 1925) anche con Raoul Palermi, il “venerabile” della Gran Loggia d’Italia, la massoneria “scozzese” di Piazza del Gesù. «Non a caso Mussolini era circondato da massoni, basta guardare le foto della Marcia su Roma, i cui “quadrumviri” sono tutti affiliati alla massoneria: Italo Balbo, Michele Bianchi, Emilio De Bono e Cesare Maria De Vecchi». Montermini esibisce un’altra foto storica, quella della stretta di mano tra il capo del fascismo e il sovrano, Vittorio Emanuele III, all’indomani della marcia. Un momento solenne, con la frase passata alla storia («Sire, vi offro l’Italia di Vittorio Veneto») suggellata da una stretta di mano particolare, “massonica”. Il Savoia era massone? Sì, secondo documenti dell’intelligence Usa: era il numero uno della Gran Loggia, al di sopra di Palermi. «E nel libro – rivela Montermini – dimostro che era massone lo stesso Mussolini», anche se poi, nel 1925, il dittatore non esiterà a mettere fuorilegge le società segrete.Nel volume, Montermini cita le testimonianze di Cesare Rossi (segretario del Duce, affiliato alla Gran Loggia d’Italia) e Michele Terzaghi (deputato del Pnf, alto dignitario della Gran Loggia): entrambi confermano che Mussolini ricevette “in punta di spada” la consacrazione al 33esimo grado del “rito scozzese antico e accettato”.Terzaghi testimonia che Palermi consegnò a Mussolini il brevetto massonico del 33esimo grado “ad honorem” e gli esibì la Dichiarazione di Principi contenuta nel Manuale massonico degli Apprendisti, su cui Mussolini appose di suo pugno le parole “Visto e approvato”. «Firmò un impegno scritto con la massoneria». Glielo ricorderà lo stesso Palermi molti anni dopo, nel 1934, in una lettera autografa – rintracciata da Montermini – in cui il “sovrano gran maestro” della Gran Loggia d’Italia rinfresca la memoria al Duce, rammentandogli come “onorò” quella dichiarazione massonica «il 12 novembre 1922, all’Hotel Savoia». Quel documento, scrive Palermi a Mussolini, «fu riprodotto nei libri di Piazza del Gesù». Aggiunge il gran maestro, sempre rivolto al dittatore: «Il prezioso originale fa ora parte di un museo di quegli americani fedeli, ai quali ci rivolgemmo all’indomani della trionfante Marcia su Roma. Ricordate?».Quella lettera, secondo Montermini, certifica in modo evidente l’affiliazione di Mussolini nella massoneria, da cui poi prese le distanze sacrificando la libera muratoria «sull’altare dei Patti Lateranensi», privilegiando il rapporto con l’altro super-potere italiano, il Vaticano. Ma anche la sopressione formale delle comunioni massoniche «rientrava in un disegno più vasto, di cui Mussolini era al corrente: azzerare la massoneria italiana per poi rifondarla, in ossequio al progetto anglosassone di “nuovo ordine mondiale”». Secondo il ricercatore, «Mussolini firmò la sua condanna a morte quando si rifiutò (sulla base probabilmente degli impegni presi con Churchill il 15 gennaio 1927 a Roma) di adempiere alla sua parte dell’accordo, cioè permettere alla massoneria di ricostituirsi e riprendere a operare, rifondata su più solide basi spirituali. Ma c’erano anche stringenti ragioni finanziarie: per esempio, i tentativi dell’Agip di mettere le mani sul pozzi di petrolio iracheni di Mosul». Forse non è casuale neppure la scelta della “forca” di piazzale Loreto: un distributore di carburante della Standard Oil, poi Esso, compagnia fondata da John Davison Rockefeller.Gli storici sottolineano il primo Mussolini, antimassonico: da direttore dell’“Avanti” fu il regista del congresso che, nel 1914, dichiarò incompatibile l’appartenza alla massoneria con la militanza nel partito socialista. Ma la vera storia del Duce è oscillante e contraddittoria, obietta Montermini: appena un anno dopo quel congresso, quando Mussolini ruppe con la direzione del Psi e venne cacciato dal partito (politicamente era un uomo finito) a salvarlo, letteralmente, fu il massone Filippo Naldi, «altissimo dignitario di Piazza del Gesù», che mise in piedi il “Popolo d’Italia” affidandone la direzione a Mussolini. Dopo l’ascesa al potere (e il successivo scaricamento della massoneria, che l’aveva aiutato nella Marcia su Roma), il Duce subì diversi attentati «di matrice esoterica», tra cui quello di una donna irlandese, Violet Gibson, che il 7 aprile 1926 gli sparò, ferendolo al naso. «Il gesto di una pazza», si disse, ma Montermini non concorda: la Gibson aveva conosciuto Colonna Di Cesarò (il promotore di piazza San Sepolcro) durante una riunione della Società Teosofica a Monaco di Baviera. E tentò di uccidere Mussolini «poche ore dopo la morte di Giovanni Amendola, massone e teosofo». I mandanti? «A Londra», sospetta Montermini.Sul fascismo, sostiene lo storico, premevano gli antesignani del New World Order (la finanza “illuminata” di Wall Street) ma anche «il progetto del paganesimo guerriero indoeuropeo e il Movimento Sinarchico d’Impero, francese», ispirato al parigino Joseph Alexandre Saint-Yves, marchese d’Alveydre, teorico della “sinarchia”: il governo oligarchico delle élite visto quasi come una forma di religione. «Quelli che nel libro chiamo “gli Illuminati” esercitavano fortissime pressioni su Mussolini, ma erano divisi al loro interno sulla spartizione del potere». Poi però un accordo lo trovarono, perlomeno sulla fine del Duce italiano: «A inchiodare Roosevelt e Churchill è una intercettazione dei servizi segreti tedeschi», racconta Montermini. Il presidentre americano e il premier britannico «stabilirono nel 1943 che Mussolini doveva essere ucciso». Per la cronaca: «Roosevelt era un 32esimo grado del rito scozzese e Churchill un 33esimo grado, come il successore di Roosevelt, Harry Truman, presidente degli Stati Uniti quando Mussolini venne ucciso».La morte del dittatore, catturato a Dongo il 27 aprile 1945, e avvenuta l’indomani nel pomeriggio a Giulino di Mezzegra, secondo la storiografia ufficiale, per Montermini sarebbe avvenuta in circostanze controverse e non del tutto chiarite. In particolare, racconta il ricercatore, la popolazione locale rimase turbata dallo strano “rito” cui sarebbe stato sottoposto il cadavere del dittatore: spogliato e lavato a una fontana, «come una sorta di rito battesimale di purificazione». Qualcosa di anomalo, al punto da «spingere gli abitanti della zona a far benedire quei luoghi, poi, dai parroci». Montermini parla di «modalità esoteriche della fine di Mussolini, trascurate dagli storici forse perché privi degli strumenti per penetrare quel linguaggio allegorico e simbolico». L’autore sostiene che la scena dell’esecuzione sia stata alterata, e il cadavere «spostato dal luogo del delitto al cancello di Villa Belmonte», prima di raggiungere Milano il 29 aprile. Il corpo di Mussolini, insieme a quello di Claretta Petacci e dei 16 “gerarchi” fucilati, fu condotto a piazzale Loreto: il luogo dove, il 10 agosto 1944, erano stati giustiziati 15 partigiani, i cui corpi erano stati dileggiati e lasciati esposti al sole per l’intera giornata, impedendo ai familiari di raccoglierne i resti.Secondo Montermini, però, la scelta di piazzale Loreto può avere anche un’altra spiegazione, lugubremente simbolica: la preparazione del “nuovo avvento di Cristo”. Fra le tante immagini, scattate e filmate dai “combat filmakers” della Quinta Armata americana agli ordini del Moral Operations Branch dell’Oss (futura Cia), ce n’è una che mostra il corpo di Mussolini ricomposto, con nella mano destra «qualcosa di simile a uno scettro», proprio come l’Imperatore nei tarocchi. «E’ una foto stra-pubblicata ma con l’inquadratura ristretta sui volti di Mussolini e della Petacci, escludendo lo scettro». Per Montermini quella messinscena «è il secondo atto della cerimonia: la consacrazione». Cosa si voleva consacrare? «Mussolini è consacrato come il nuovo Giulio Cesare di cui parlava la Besant nel 1909, nella conferenza “Il secondo ritorno di Cristo sulla Terra”». In altre parole «un Giulio Cesare esoterico, in previsione di propiziare il ritorno di Cristo sulla Terra. E dove altro poteva reimcarnarsi, Gesù Cristo, se non nel grembo della vergine Maria, ossia – a livello metaforico, sempre – al centro di piazzale Loreto, la piazza dedicata alla Madonna di Loreto?».Non è finita: «Terza e ultima fase del rituale, Mussolini viene appeso a testa in giù», come appunto l’Appeso dei tarocchi. La cosa ha «un duplice significato: il sacrificio (ecco quindi l’atto sacrificale per propiziare qualcosa) e l’iniziato, cioè colui che si fa ricettacolo passivo di forze cosmiche, e questo può avvenire soltanto in una fase successiva alla consacrazione esoterica di Mussolini quale novello Giulio Cesare». Per Montermini, si tratterebbe di un dramma simbolico in tre atti – battesimo, consacrazione “romana” e capovolgimento – che suggerisce l’identità dei mandanti, cioè gli alti vertici delle società segrete, gli Illuminati del tempo, e la massoneria angloamericana. Fantasie? Non proprio. «Giorgio Galli si è misurato con le tesi del mio libro, arrivando alla mia stessa conclusione: i fatti di piazzale Loreto, così come raccontati nei libri di storia per 70 anni, sono da riscrivere», ribadisce Montermini. «La mia intuizione la si può analizzare e discutere, ma non confutare: non si può più fare finta di niente». Aggiunge il ricercatore: «Tendiamo a dare spiegazioni sempre razionali deella storia, ma la storia la fanno gli esseri umani, con le loro convinzioni anche religiose. Io non credo in questo tipo di attività occulte – precisa l’autore – ma dal punto di vista storico non possiamo negare il fatto che esistano persone che credono in queste cose, e spesso queste persone sono ai vertici della società».Politica, burocrazia, forze armate: «Non è indifferente sapere che tutte queste persone, che occupano posizioni di potere, credono in una dottrina esoterica che rappresenta il mondo in un certo modo, e che vuole dare un certo indirizzo anche spirituale all’attività quotidiana degli affiliati», sottolinea Montermini. «Ma non c’è solo la massomeria, c’è anche la massoneria deviata, quella dei contro-iniziati, i gruppi esoterici che si ispirano alla massoneria come tipo di organizzazione ma portano avanti un pensiero, una filosofia, una dottrina esoterica diversa, in tutto o in parte, da quella massonica». Lo sappiamo: «Ci sono maestri spirituali che hanno tra i loro adepti personaggi potentissimi, in grado di condizionare la politica degli Stati e quindi la vita di milioni di persone. E dal punto di vista storico, far finta che questa cosa non esista è una mistificazione», concude Montermini. «Si presuppone che i fatti abbiano sempre una consequenzalità logica, negando quindi la presenza dell’irrazionale all’interno della storia: una visione “magica” del mondo che è stata insegnata all’interno dei circoli esoterici, magici, alchemici». Se i grandi poteri non potevano non essere con Mussolini, al momento della sua prodigiosa ascesa, forse non c’è da stupirsi troppo se poi qualcuno sostiene che la sua caduta sia stata davvero “celebrata” come un terribile sacrificio rituale.(Il libro: Enrico Montermini, “Mussolini e gli Illuminati. Da piazza San Sepolcro al rito sacrificale di piazzale Loreto”, Edizioni Sì, 214 pagine, 16 euro. In appendice, nel volume, uno studio di Giorgio Galli, “Piazzale Loreto: macelleria messicana o rito esoterico?”. Molte dichiarazioni di Montermini, in merito al contenuto del libro, sono rintracciabili in filmati su YouTube come “Da piazza San Sepolcro al rito sacrificale di piazzale Loreto” e “Mussolini e gli Illuminati”).Piazzale Loreto: macelleria messicana o rito esoterico? Giorgio Galli, eminente politologo italiano, propende per la seconda ipotesi. Per questo firma il breve saggio pubblicato in appendice nel volume “Mussolini e gli Illuminati”, nel quale Enrico Montermini, giovane ricercatore indipendente, rivisita l’intera parabola del Duce, “da piazza San Sepolcro al rito sacrificale di piazzale Loreto”. L’autore mette in luce il legame occulto tra il fascismo, la massoneria italiana e gli ambienti della supermassoneria finanziaria anglosassone. Una lettura raggelante, quella della fine del dittatore interpretata in chiave esoterica: Mussolini ucciso sul Lago di Como e quindi “battezzato”, da morto, in uno strano rito di purificazione, per poi essere tradotto a Milano, fotografato cadavere con in pugno uno scettro (come l’Imperatore dei tarocchi) e infine appeso a testa in giù, per richiamare un altro degli “arcani”, l’Appeso, simbolo del potere capovolto. Tutto questo a piazzale Loreto, cioè «non a caso, nella piazza milanese dedicata alla Madonna», visto che – nella folle visione dei registi del macabro spettacolo – proprio «nel grembo della beata vergine» doveva “nascere”, simbolicamente, il nuovo Cristo. Un secondo avvento del messia, «propiziato dalla caduta del nuovo Giulio Cesare».
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Eroina, soldi e “terre rare”: perché restiamo in Afghanistan
Sette miliardi e mezzo in sedici anni, cioè quasi mezzo miliardo l’anno: un milione e 300.000 euro al giorno. Questo – a fronte di 260 milioni per la cooperazione civile – è il costo della partecipazione dell’Italia alla campagna militare afghana, la più lunga della nostra storia, secondo il rapporto “Afghanistan, sedici anni dopo” pubblicato dall’Osservatorio Milex sulle spese militari italiane, che traccia un bilancio di questa guerra, iniziata il 7 ottobre 2001. «In realtà l’onere finanziario complessivo della missione italiana è assi più pesante considerando i suoi costi indiretti, difficilmente quantificabili: l’acquisto ad hoc di armi, munizioni, mezzi da combattimento ed equipaggiamenti, il loro continuo aggiornamento a seconda delle esigenze operative e il ripristino delle scorte, l’addestramento specifico del personale e, non da ultimo, i costi sanitari delle cure per le centinaia di reduci feriti e mutilati», scrive Enrico Piovesana su “Micromega”. In 16 anni, la guerra in Afghanistan è costata complessivamente 900 miliardi di dollari: 28.000 dollari per ogni cittadino afghano (che mediamente ha un reddito di 600 dollari l’anno). In termini umani è costata la vita di 3.500 soldati occidentali (53 italiani) e di 140.000 afghani.I caduti afghani sono combattenti (oltre 100.000, un terzo governativi e due terzi talebani) e civili (35.000, in aumento negli ultimi anni). E sono stime ufficiali dell’Onu, che trascurano le tante vittime civili non riportate. Senza considerare i civili afghani morti a causa dell’emergenza umanitaria provocata dal conflitto: sono 360.000, secondo i ricercatori americani della Brown University. Chi sostiene la necessità di portare avanti questa guerra si appella alla difesa dei progressi ottenuti. Quali? A parte un lieve calo del tasso di analfabetismo (dal 68% del 2001 al 62% di oggi) e un modestissimo miglioramento della condizione femminile (limitato alle aree urbane e imputabile al lavoro di organizzazioni internazionali e Ong, non certo alla Nato), l’Afghanistan – aggiunge Piovesana – ha ancora oggi il tasso più elevato al mondo di mortalità infantile (113 decessi su mille nati), tra le più basse aspettative di vita del pianeta (51 anni, terzultimo prima di Ciad e Guinea Bissau) ed è ancora uno dei paesi più poveri del mondo (207° su 230 per ricchezza procapite).Politicamente, il regime integralista islamico afghano (fondato sulla sharìa e guidato da ex signori della guerra della minoranza tagika) «è tra i più inefficienti e corrotti al mondo e ben lontano dall’essere uno Stato di diritto democratico: censura, repressione del dissenso e tortura sono la norma». Per non parlare del problema del narcotraffico: l’Afghanistan sotto occupazione occidentale è fonte dell’80% dell’eroina globale, che raggiunge l’Europa non più solo attraverso la rotta balcanica, ma soprattutto attraverso l’Africa, con la Nigeria come snodo principale. La cartina al tornasole dei “progressi” portati dalla presenza occidentale è il crescente numero di afghani che cercano rifugio all’estero: tra i richiedenti asilo in Europa negli ultimi anni, gli afghani sono i più numerosi dopo i siriani, precisa “Micromega”. E anche dal punto di vista militare i risultati sono deludenti. Dopo 16 anni di guerra, i Talebani controllano o contendono il controllo di quasi metà del paese. «Una situazione imbarazzante che ha spinto il presidente americano Donald Trump a riprendere i raid aerei e rispedire truppe combattenti al fronte, e la Nato a spostare i consiglieri militari dalle retrovie alla prima linea per gestire meglio le operazioni e intervenire in caso di bisogno».Il fronte occidentale è sotto il comando italiano: per fronteggiare l’avanzata talebana, dall’inizio dell’anno i nostri soldati (un migliaio di uomini, il secondo contingente dopo quello Usa: alpini della brigata Taurinense e forze speciali del 4° reggimento alpini paracadutisti) sono tornati in prima linea a pianificare e coordinare le offensive dei soldati afghani. Gli esperti militari dubitano del successo di questa strategia, riferisce Piovesana: perché mai poche migliaia di soldati che combattono a fianco dell’inaffidabile esercito locale dovrebbero riuscire laddove gli anni passati hanno fallito 150.000 soldati occidentali armati fino ai denti? «Secondo esperti e diplomatici, l’unica via d’uscita è il dialogo con i Talebani e la loro inclusione in un governo federale e multietnico, il ritiro delle truppe Usa e Nato e la riconversione della cessata spesa militare in ricostruzione e cooperazione». Piovesana ricorda che i Talebani, fortemente sostenuti dalla maggioranza Pashtun degli afghani, non rappresentano una minaccia per l’Occidente: la loro agenda è infatti la liberazione del suolo nazionale, non la jihad internazionale.Per questo i Talebani combattono i jihadisti stranieri dell’Isis-Khorasan infiltratisi in Afghanistan e non hanno mai organizzato attentati in Occidente, «né hanno avuto alcun ruolo negli attacchi dell’11 Settembre, che avevano apertamente condannato». L’alternativa all’accordo? Non esiste. O meglio, sarebbe «il prolungamento indefinito di una guerra sanguinosa che nessuno ha la forza di vincere e che sprofonderà l’Afghanistan in una situazione di caos e instabilità crescenti, facendone un rifugio ideale per formazioni terroristiche transnazionali come Isis-Khorasan». Secondo Piovesana si tratta di una prospettiva «pericolosa ma utile da un punto di vista geostrategico», dal momento che «uno stato di guerra permanente giustificherebbe un’altrettanto permanente presenza militare occidentale che, seppur minima, basterebbe a scoraggiare interferenze da parte di potenze regionali avverse». Russia, Cina, Iran e Pakistan sarebbero infatti desiderose di estendere la loro influenza strategica per «stroncare il narcotraffico afghano che le colpisce» e, non ultimo, «mettere le mani sulle ricchezze minerarie afghane (in particolare le “terre rare” indispensabili per l’industria hi-tech) valutate tra i mille e i tremila miliardi di dollari».Sette miliardi e mezzo in sedici anni, cioè quasi mezzo miliardo l’anno: un milione e 300.000 euro al giorno. Questo – a fronte di 260 milioni per la cooperazione civile – è il costo della partecipazione dell’Italia alla campagna militare afghana, la più lunga della nostra storia, secondo il rapporto “Afghanistan, sedici anni dopo” pubblicato dall’Osservatorio Milex sulle spese militari italiane, che traccia un bilancio di questa guerra, iniziata il 7 ottobre 2001. «In realtà l’onere finanziario complessivo della missione italiana è assi più pesante considerando i suoi costi indiretti, difficilmente quantificabili: l’acquisto ad hoc di armi, munizioni, mezzi da combattimento ed equipaggiamenti, il loro continuo aggiornamento a seconda delle esigenze operative e il ripristino delle scorte, l’addestramento specifico del personale e, non da ultimo, i costi sanitari delle cure per le centinaia di reduci feriti e mutilati», scrive Enrico Piovesana su “Micromega”. In 16 anni, la guerra in Afghanistan è costata complessivamente 900 miliardi di dollari: 28.000 dollari per ogni cittadino afghano (che mediamente ha un reddito di 600 dollari l’anno). In termini umani è costata la vita di 3.500 soldati occidentali (53 italiani) e di 140.000 afghani.
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Soros, 18 miliardi a Open Society: nuovo colpo in arrivo?
George Soros ha “donato” 18 miliardi di dollari alla Open Society Foundation, facendo registrare una cifra record per una donazione ad un ente di diritto privato. Il trasferimento di questo ingente quantitativo di denaro sarebbe avvenuto negli anni passati. La notizia, però, è stata ripresa solo ieri dai quotidiani. Il “Wall Street Journal”, al riguardo, ha parlato di “Instant Giant”. Alcuni, ancora, mettono in evidenza come più che di una “donazione” si possa parlare di un “trasferimento di denaro”. L’Open Society Foundation, lo strumento che Soros ha utilizzato per le sue iniziative “filantropiche”, diverrebbe così un vero e proprio gigante della “beneficenza”, ma questo ente, in realtà, è anche il cavallo di Troia che Soros mette puntualmente in moto per le sue campagne progressiste e per orientare mediante i finanziamenti la politica americana e non. Alcuni quotidiani stanno inserendo questa notizia all’interno di una narrativa che vedrebbe Geroge Soros contrapposto a Bill Gates in una sfida tra titani nel campo della “filantropia”. Secondo questo articolo, poi, i 18 milardi di dollari donati da Soros corrisponderebbero all’80% del suo patrimonio totale. Un moto di bontà giunto durante la terza età oppure l’avvio di una campagna spietata sui temi cari al magnate ungherese?Per “Bloomberg”, semplicemente, il gesto sarebbe nato dalla necessità di pagare meno tasse sui gestori degli hedge fund negli Stati Uniti. “Bretibart News”, il portale dell’Alt-Right americana, ha sottolineato, nel riportare la notizia, che Soros è coinvolto, tra le varie campagne più attuali, in azioni contrastanti l’attuale governo israeliano, nel promuovere l’integrazione e l’arrivo dei migranti e in alcune promozioni di campagne pro-aborto in Irlanda. “Breitbart”, ovviamente, si riferisce a Soros come a un influencer che starebbe contribuendo all’invasione islamica dell’Occidente. Il sospetto, per l’Alt-Right e per quanti hanno messo in evidenza le attività di Soros in questi anni, è che il magnate si prepari per mezzo di questo maxifinanziamento ad operare con forza nel campo della geopolitica e in quello degli equilibri economico-finanziari mondo. Leggere le prossime mosse, in questo senso, potrebbe risultare decisivo. Un obiettivo possibile è certamente Donald Trump, contro la cui presidenza Soros ha già scommesso.Oltre ad aver finanziato la campagna elettorale di Hilary Clinton, infatti, il fondatore della Open Society aveva scommesso un miliardo di dollari sul fatto che Trump non vincesse le elezioni presidenziali. Sappiamo com’è andata a finire. Ultimamente, poi, il nome del magnate che ha adottato gli Stati Uniti come seconda patria era stato citato dal quotidiano spagnolo “La Vanguardia” in relazione alla Catalogna. L’Open Society Foundationc ha finanziato con 27.049 dollari il consiglio per la diplomazia pubblica della Catalogna. Indirettamente, quindi, il miliardario avrebbe avuto un ruolo anche nella partita per l’indipendenza catalana. Il fine del maxifinanziamento potrebbe essere quello di allargare ancor di più la sua influenza nel mondo. La fondazione avrebbe dichiarato, tuttavia, di non essere intenzionata ad espandersi nell’immediato. L’Open Society, del resto, è già operativa in 120 nazioni del mondo. Se questo denaro dovesse servire per cercare di modificare indirettamente gli equilibri globali, per sostenere ancor di più l’arrivo dei migranti in Occidente e per sponsorizzare la causa gender e quella favorevole all’aborto, si scoprirà solo nel tempo. Di certo c’è che Soros pare intenzionato a mettere nuovamente mano al portafoglio.(Francesco Boezi, “Quegli strani giri di soldi di Soros: sta preparando un nuovo colpo?”, dal “Giornale” del 19 ottobre 2017).George Soros ha “donato” 18 miliardi di dollari alla Open Society Foundation, facendo registrare una cifra record per una donazione ad un ente di diritto privato. Il trasferimento di questo ingente quantitativo di denaro sarebbe avvenuto negli anni passati. La notizia, però, è stata ripresa solo ieri dai quotidiani. Il “Wall Street Journal”, al riguardo, ha parlato di “Instant Giant”. Alcuni, ancora, mettono in evidenza come più che di una “donazione” si possa parlare di un “trasferimento di denaro”. L’Open Society Foundation, lo strumento che Soros ha utilizzato per le sue iniziative “filantropiche”, diverrebbe così un vero e proprio gigante della “beneficenza”, ma questo ente, in realtà, è anche il cavallo di Troia che Soros mette puntualmente in moto per le sue campagne progressiste e per orientare mediante i finanziamenti la politica americana e non. Alcuni quotidiani stanno inserendo questa notizia all’interno di una narrativa che vedrebbe Geroge Soros contrapposto a Bill Gates in una sfida tra titani nel campo della “filantropia”. Secondo questo articolo, poi, i 18 milardi di dollari donati da Soros corrisponderebbero all’80% del suo patrimonio totale. Un moto di bontà giunto durante la terza età oppure l’avvio di una campagna spietata sui temi cari al magnate ungherese?
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Bufera su Visco, ma silenzio sul retroscena (supermassonico)
Si può anche chiamarla massoneria, ma la definizione è imprecisa: perché non tutti gli affiliati alle superlogge internazionali sono stati iniziati all’obbedienza massonica. Forse non ha mai indossato il grembiulino neppure l’uomo attualmente nella bufera, Ignazio Visco, in quota alla Ur-Lodge reazionaria “Edmund Burke”, difeso da Giorgio Napolitano (superloggia “Three Eyes”, come il ministro Padoan) e attaccato da Matteo Renzi, «che non è massone ma ha ripetutamente bussato – invano, finora – alle stesse reti: quelle della aristocrazia supermassonica neo-conservatrice, attraverso entità paramassoniche come il potentissimo Council on Foreign Relations, di Washington». L’autore di queste indicazioni sulla presunta identità supermassonica del vero potere è Gioele Magaldi, già gran maestro del Goi e poi affiliato alla Ur-Lodge progressista “Thomas Paine”. Nel 2014 Magaldi ha dato alle stampe “Massoni, società a responsabilità illimitata”, edito da Chiarelettere e trasformatosi in bestseller-fantasma: solo il “Fatto Quotidiano” l’ha adeguatamente recensito, nel silenzio assordante dei grandi media. Che peraltro continunano a ignorare Magaldi, anche quando parla di massoneria italiana e di casi scottanti come l’affare Mps, su cui pesa tra l’altro anche lo strano “suicidio” di David Rossi.«Anziché attaccare il Grande Oriente per le vicende provinciali di Banca Etruria – afferma Magaldi, oggi presidente del Movimento Roosevelt – giornali e televisioni farebbero meglio a interrogarsi sul ruolo di Mario Draghi e Anna Maria Tarantola, poi ministra di Monti: erano al vertice di Bankitalia quando la banca centrale avrebbe dovuto vigilare sull’operato del Montepaschi». Analoga polemica con Ferruccio De Bortoli, già direttore del “Corriere della Sera”: «Si parla genericamente di massoneria, in relazione a piccole vicende locali, mentre si continua a ignorare il ruolo supermassonico di primo piano rivestito in Italia, per conto di reti internazionali, da personalità come Monti, Draghi, la stessa Tarantola, l’ex presidente Napolitano e l’attuale ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan». Sotto il fuoco renziano è ora finito Ignazio Visco? Non una parola, dal mainstream, sul possibile retroterra comune dei contendenti, legati a influenti “salotti” non italiani. Silenzio anche sul ruolo della banca centrale, a cui un altro supermassone, l’eurocrate Carlo Azeglio Ciampi, “staccò la spina” nel 1980, facendo in modo che Bankitalia cessasse di fungere da “bancomat del governo”, a costo zero, costringendo lo Stato – per finanziare il debito pubblico – a rivolgersi all’esosa finanza internazionale, mettendo all’asta i propri bond. Risultato: una falla rovinosa nel debito italiano, perfetta per indebolire il paese di fronte all’eurocrazia.«La messa alla berlina del governatore Visco ad opera della maggioranza piddina rappresenta un patetico scaricabarile politico», scrive Alberto Bagnai sul blog “Goofynomics”, che parla di «modus paraculandi». Bankitalia non vigilava adeguatamente sulla crisi delle banche italiane? Consob neppure? Chi, onestamente, può dire il contrario? «Ma pensiamo davvero che Visco e Fazio fossero degli incompetenti, dei dilettanti? Se così fosse – aggiunge Bagnai – la loro nomina ad opera della classe dirigente che ancora oggi si ripropone come insostituibile oligarchia dovrebbe suscitare alcune domande anche nell’elettore più superficiale». Forse, continua Bagnai, la causa di tante “sviste” ad opera degli organismi di controllo esterni e interni alle banche italiane «era imputabile non all’umana pochezza ma ad un’altra causa: ad un vincolo esterno». Più precisamente «a un chiaro e inequivocabile ordine di scuderia», emanato in sede europea. «Un ordine al quale tutti, ma proprio tutti, dai vertici Bce fin al più passivo sindaco e revisore della più piccola banca territoriale», dovevano sottostare. Ovvero: «Non intralciare l’enorme arbitraggio finanziario reso possibile dal Trattato di Maastricht e dall’unione monetaria».Arbitraggio? «Così si chiama il prendere a prestito nel nucleo e prestare con spread ai mal-investitori della periferia senza subire rischi di cambio e senza alcun controllo sui movimenti dei capitali», spiega l’economista. «Una colossale macchina da soldi, la cui già enorme potenza era ulteriormente amplificata dal mercato dei derivati, grazie al quale si diluivano i rischi di credito nell’oceano degli ignari e polverizzati investitori globali». In pratica, una droga: «Come nel narcotraffico fisico, nel narcotraffico finanziario tutti si sono sporcati le mani: i coltivatori (ingegneri e top manager finanziari), i cartelli dei trafficanti (le grandi banche del nucleo, cresciute in “Germagna” sino a diventare uno Stato nello Stato), i cartelli degli spacciatori e la loro rete di “down the line dealers” (le grandi banche commerciali periferiche e le numerose banchette che le contornano)». E poi anche «i governi, i responsabili dei controlli a tutti i livelli: pubblici e privati, nazionali e internazionali, i partiti e le forze politiche, tutti pro-Maastricht e pro-euro (ricordo che la “Costituzione europea” da noi fu votata all’unanimità e il Fiscal Compact con dibattito praticamente zero»).E’ stato questo il “miracolo” dell’euro, sintetizza Bagnai con sarcasmo: «È stata questa la fonte di accumulo di capitale finanziario che ora permette la fase due: sfruttare la mobilità incontrollata del lavoro». Quindi, «cari moralisti falliti e vigliacchi – chiosa l’economista – chi di voi è senza Maastricht scagli la prima pietra». Se è difficile leggere analisi di questo tenore sulla grande stampa, o tantomeno ascoltarle in televisione, è addirittura impensabile imbattersi in spiegazioni dettagliate su quello che Bagnai chiama “vincolo esterno”. La piaga del neoliberismo finanziario in versione europea ha drasticamente impoverito centinaia di milioni di persone? Certamente, osserva Magaldi, ma bisogna pur sapere che ogni piano – compreso questo – cammina sulle gambe di individui precisi, accuratamente selezionati da un’élite occulta per occupare posti-chiave. Rarissimo che l’oligarchia si dichiari: è accaduto di recente in Francia, quando il supermassone reazionario Jacques Attali ha rivendicato la partenità del progetto che ha portato all’Eliseo la sua creatura, Emmanuel Macron, già dirigente della Banca Rothschild. In Italia, invece, si sorvola regolarmente anche su un altro difensore di Ignazio Visco: Romano Prodi. «Ne parlerò nel sequel di “Massoni”, di prossima uscita», annuncia Magaldi.«Pessimo interprete di questa globalizzazione privatizzatrice», l’ex premier ulivista, ex presidente della Commissione Europea nonché advisor di Goldman Sachs: benché ufficialmente “progressista” sarebbe anch’esso «affiliato a quelle potenti reti supermassoniche internazionali che hanno progettato la grande crisi, in termini di svuotamento della democrazia e colossale trasferimento della ricchezza dal basso verso l’alto», sostiene Magaldi. La stampa ne coglie sempre e solo gli effetti terminali – la disoccupazione, la crisi dei risparmiatori colpiti dai crack bancari – evitando però sempre di inquadrare il disegno, i suoi architetti occulti e i relativi interpreti locali. Non stupisce che giornali e televisioni continuino a ignorare le rivelazioni di Magaldi, che forniscono un’inedita geografia del vero potere. Tra le 36 superlogge mondiali, da cui dipendono entità paramassoniche come il Bilderberg e la stessa Trilaterale, spicca il ruolo nefasto svolto negli ultimi decenni dalle Ur-Lodges neoaristocratiche e oligarchiche, come la “Edmund Burke”, la “Compass Star-Rose”, la “Leviathan”, la “White Eagle”, senza contare la potentissima “Three Eyes” (Kissinger, Rockefeller, Rothschild) e la “Hathor Pentalpha” fondata dai Bush, secondo Magaldi con intenti addirittura terroristici (11 Settembre, Al-Qaeda, Isis).A valle, la mappa del back-office del potere si rifletterebbe in Italia – come in ogni altro paese, non solo occidentale – nel reticolo dei leader locali: Magaldi ha ripetutamente indicato l’appartenenza di Giorgio Napolitano alla “Three Eyes” (la stessa di Attali). Della “Three Eyes” farebbero parte anche Padoan e Draghi, Gianfelice Rocca (Techint) e Giuseppe Recchi (costruzioni), Marta Dassù (Finmeccanica), Enrico Tommaso Cucchiani (banchiere, già a capo di Intesa Sanpaolo) e l’ex ministra renziana Federica Guidi. Altri circuiti della stessa supermassoneria neo-conservatrice sarebbero rappresentati da uomini affiliati a Ur-Lodges come la “Babel Tower” (Mario Monti), la “Compass Star-Rose” (Fabrizio Saccomanni, Massimo D’Alema, Vittorio Grilli), la “Atlantis-Aletheia” (Corrado Passera), la “Pan-Europa” (Alfredo Ambrosetti, Emma Marcegaglia). Ignazio Visco, l’attuale governatore di Bankitalia, sarebbe invece legato alla “Edmund Burke” (insieme all’ex ministro dell’economia Domenico Siniscalco). Ma non c’è caso che ne si faccia cenno, nelle cronache: tutto finirà, come sempre, attorno alle chiacchiere di Renzi, più quelle su Renzi e quelle contro Renzi, senza spiegare verso quali scogli sta andando la nave, e per ordine di chi.Si può anche chiamarla massoneria, ma la definizione è imprecisa: perché non tutti gli affiliati alle superlogge internazionali sono stati iniziati all’obbedienza massonica. Forse non ha mai indossato il grembiulino neppure l’uomo attualmente nella bufera, Ignazio Visco, in quota alla Ur-Lodge reazionaria “Edmund Burke”, difeso da Giorgio Napolitano (superloggia “Three Eyes”, come il ministro Padoan) e attaccato da Matteo Renzi, «che non è massone ma ha ripetutamente bussato – invano, finora – alle stesse reti: quelle della aristocrazia supermassonica neo-conservatrice, attraverso entità paramassoniche come il potentissimo Council on Foreign Relations, di Washington». L’autore di queste indicazioni sulla presunta identità supermassonica del vero potere è Gioele Magaldi, già gran maestro del Goi e poi affiliato alla Ur-Lodge progressista “Thomas Paine”. Nel 2014 Magaldi ha dato alle stampe “Massoni, società a responsabilità illimitata”, edito da Chiarelettere e trasformatosi in bestseller-fantasma: solo il “Fatto Quotidiano” l’ha adeguatamente recensito, nel silenzio assordante dei grandi media. Che peraltro continunano a ignorare Magaldi, anche quando parla di massoneria italiana e di casi scottanti come l’affare Mps, su cui pesa tra l’altro lo strano “suicidio” di David Rossi.
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Senza Catalogna, la Spagna crolla: rischio bagno di sangue
Repressione brutale della Catalogna, a meno che Bruxelles non conceda robusti sgravi a Madrid. Perché la tempesta iberica è essenzialmente economica: la coperta è sempre più corta e, senza Barcellona, la Spagna non sta in piedi. Lo sostiene Jesus de Colon in un’analisi su “Scenari Economici”: prima ancora che una questione di lingua e cultura, la rivolta catalana nasce dalla volontà di smettere di sostenere finanziariamente le regioni più arretrate, come l’Andalusia e l’Estremadura. Ma senza i soldi della Catalogna, il tenore di vita spagnolo sarebbe destinato a crollare. Certo è normale che i catalani vogliano smarcarsi dalla Spagna, «il paese con più nobili in tutta Europa, a maggior ragione in presenza di notabili locali – a partire dai Borboni – che, si sa, non brillano troppo spesso di lucente intelletto». In Spagna, poi, sopravvivono inquietanti reliquie del franchismo: c’è «la presenza ingombrante e marziale della Legion, l’erede militare della Falange di Melilla», una milizia «protetta dalla Vergine, con cui sfila ogni Pasqua». In altre parole: comunque vada a finire, la situazione non sarà mai più come prima. E quello che sta per andare in scena potrebbe essere un brutto spettacolo, con molta violenza.A differenza dei Paesi Baschi, «che hanno smesso di combattere solo dopo aver ottenuto l’indipendenza economica grazie a 35 anni di guerra», Barcellona quell’indipendenza se la può sognare, scrive l’analista di “Scenari Economici”, ricordando che ad aprire la vertenza fu José Maria Aznar, «che per governare si mise in coalizione coi catalani dovendo concedere l’indipendenza culturale, la lingua e il decentramento amministrativo, ma non quello economico». Poi i catalani «non servirono più», e rimasero in un angolo fino al 2006, quando il nuovo premier socialista José Luis Rodriguez Zapatero, «con un mix di idealismo progressista unito al solito calcolo politico», fece nuove concessioni alla Catalogna. Ma attenzione: lo fece «in periodi di vacche grassissime». Per legge e con approvazione parlamentare, Zapatero concesse a Barcellona «anche l’indipendenza economica a termine, un po’ come accaduto in Italia con l’Alto Adige». Tradotto: i catalani potevano «tenersi la maggior parte delle tasse pagate nella regione». All’epoca, ricorda Jesus de Colon, «l’economia spagnola scoppiava di salute, dunque i calcoli dicevano che la baracca sarebbe rimasta in piedi comunque».Poi è arrivata la tremenda crisi finanziaria mondiale, e nel 2010 la Corte Costituzionale ha annullato l’autonomia fiscale catalana: «Se non l’avesse fatto la Spagna sarebbe fallita», scrive “Scenari Economici”. Da quel momento «l’irredentismo catalano iniziò a decollare», per ragioni «squisitamente economiche». Ovvero: la Catalogna oggi vuole tornare a tenere per sé le proprie tasse, a maggior ragione dopo la crisi dei mutui sub-prime, per uscire dalla quale «Madrid ha obbligato tutti i lavoratori spagnoli a tirare la cinghia». E ora, visto che a Barcellona e dintorni i turisti affluiscono in massa, in una situazione che ha «costi europei ma stipendi spagnoli», la conclusione è quella che sta andando in scena: la ribellione. Secondo Jesus de Colon, le possibili soluzioni sono tre: Madrid si “suicida” finanziariamente lasciando le tasse a Barcellona, oppure ottiene in cambio importanti sgravi dall’Unione Europa, o più probabilmente – terza ipotesi – annulla l’autonomia catalana proedecendo con la più brutale repressione del separatismo. La prima ipotesi è pura fantascienza: senza i soldi di Barcellona, tutti gli spagnoli sarebbero costretti a ridurre ulteriormente il già declinante tenore di vita. Ma anche il Piano-B sarebbe poco realistico, perché incoraggerebbe altre disgregazioni in Europa.Anche se l’Ue permettesse a Madrid ulteriori sforamenti di bilancio, non ci sarebbe più una situazione di equilibrio: i conti spagnoli non starebbero più in piedi come prima dell’ipotetica indipendenza catalana, «soprattutto in presenza di un eventuale neo-paese vicinale, appunto la Catalogna indipendente, che inevitabilmente si svilupperebbe molto di più della madrepatria». E in tal caso, aggiunge Jesus de Colon, anche l’Italia e la Grecia potrebbero accampare ulteriori pretetese di flessibilità nel bilancio, sulla falsariga della flessibilità spagnola. Di consegenza, l’analista considera di gran lunga più probabile la terza ipotesi – la repressione – vista «l’impossibilità materiale di Madrid di concedere i soldi (e il benessere) che i catalani di fatto pretendono». Per Madrid sarà inevitabile «soddisfare gli istinti “idealistici” castigliani», ovvero «i principi poco mediabili ereditati dal franchismo», con il mantenimento dello status quo: la Spagna unita. «In tal caso inevitabilmente ci sarà repressione». La misura della violenza? «Dipenderà dalla volontà di Barcellona di accettare la sconfitta: che dovrà essere piena». Il problema, chiosa l’analista, «sta nel fatto che un popolo, quando annusa la libertà e soprattutto quando gli viene fatto ben capire che è nel suo interesse, non viene mai veramente sconfitto: a meno di usare la forza bruta o di trucidarlo».Repressione brutale della Catalogna, a meno che Bruxelles non conceda robusti sgravi a Madrid. Perché la tempesta iberica è essenzialmente economica: la coperta è sempre più corta e, senza Barcellona, la Spagna non sta in piedi. Lo sostiene Jesus de Colon in un’analisi su “Scenari Economici”: prima ancora che una questione di lingua e cultura, la rivolta catalana nasce dalla volontà di smettere di sostenere finanziariamente le regioni più arretrate, come l’Andalusia e l’Estremadura. Ma senza i soldi della Catalogna, il tenore di vita spagnolo sarebbe destinato a crollare. Certo è normale che i catalani vogliano smarcarsi dalla Spagna, «il paese con più nobili in tutta Europa, a maggior ragione in presenza di notabili locali – a partire dai Borboni – che, si sa, non brillano troppo spesso di lucente intelletto». In Spagna, poi, sopravvivono inquietanti reliquie del franchismo: c’è «la presenza ingombrante e marziale della Legion, l’erede militare della Falange di Melilla», una milizia «protetta dalla Vergine, con cui sfila ogni Pasqua». In altre parole: comunque vada a finire, la situazione non sarà mai più come prima. E quello che sta per andare in scena potrebbe essere un brutto spettacolo, con molta violenza.
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Usura, nuova religione: il Sacro Romano Impero della finanza
Siamo entrati in un Sacro Romano impero della finanza in cui il sistema bancario detta legge, e noi sventurate plebi europee dobbiamo fare i sacrifici – “sacrum facere”, appunto: qualcosa di religioso in nome del sistema bancario, una divinità demiurgica: le sofferenze sono sempre quelle del sistema bancario e guardacaso mai quelle delle classi lavoratrici e dei ceti medi martoriati dalla crisi del sistema bancario. Secondariamente, il Partito Democratico si conferma essere il partito di rappresentanza eletto del sistema bancario. Un tempo, il Partito Comunista era contro il sistema bancario e difendeva le classi lavoratrici, scendeva in piazza con il popolo. Oggi invece il Partito Democratico, indegno erede del Partito Comunista ed esito di una metamorfosi kafkiana, difende il sistema bancario contro i lavoratori. Infatti alla Leopolda non vedete mai i lavoratori: vedete sempre i grandi esponenti come Serra del sistema finanziario, vedete sempre Marchionne. Ed è appunto il partito di rappresentanza di questo sistema usurocratico e bancocratico che sta massacrando il ceto medio e le classi lavoratrici.Questo è il punto da cui partire per elaborare mappe alternative del pensiero e per procedere poi con l’azione, per rovesciare questo sistema del tutto iniquo, che sta abbattendosi sulle sventurate plebi europee, che sono costituite ormai dal ceto medio disgregato dalle élite finanziarie e dalle classi lavoratrici. Le sinistre Pd non sono la soluzione ma sono il problema. E la signora Boschi incarna un problema enorme da questo punto di vista, quali che siano poi gli esiti. Il fatto che si schierino a favore del sistema bancario, che invece dovrebbe essere nazionalizzato, di modo che si eviti questa sciagura per cui i beni pubblici vengono privatizzati e le perdite private vengono pubblicizzate ai danni dei lavoratori e delle classi medie. La dipendenza dei ceti lavoratori dal sistema bancario è una dipendenza sempre più simile a un nesso di usura, di fatto, che indebita e crea dipendenza da parte di chi è indebitato.Faccio un solo esempio: il bail in. Non è stato esso forse un attacco frontale, direttissimo, gestito dal sistema bancario e dalla sua élite apolide di riferimento, ai danni del ceto medio risparmiatore e delle classi lavoratrici? La crisi del 2007 non è forse, come ci insegna Stiglitz, un grandioso tentativo da parte dell’aristocrazia finanziaria di sottrarre i risparmi ai lavoratori e alle classi medie, e di drenarli verso l’alto, verso il vertice della piramide? Non siamo di fronte a una nuova, inedita forma del conflitto di classe, gestito univocamente da una élite che vive di rendite finanziarie e che odia il lavoro del ceto medio e delle classi lavoratrici, e che vive – ripeto – di rendite finanziarie e di rapine legalizzate bancocratiche? Questa è la domanda che dobbiamo porci seriamente, se vogliamo ragionare al di là del contingente accadere puntiforme degli eventi.(Diego Fusaro, “Il Sacro Romano Impero della finanza e delle banche”, da una trasmissione televisiva su La7 il 15 maggio 2017, ripresa su YouTube).Siamo entrati in un Sacro Romano impero della finanza in cui il sistema bancario detta legge, e noi sventurate plebi europee dobbiamo fare i sacrifici – “sacrum facere”, appunto: qualcosa di religioso in nome del sistema bancario, una divinità demiurgica: le sofferenze sono sempre quelle del sistema bancario e guardacaso mai quelle delle classi lavoratrici e dei ceti medi martoriati dalla crisi del sistema bancario. Secondariamente, il Partito Democratico si conferma essere il partito di rappresentanza eletto del sistema bancario. Un tempo, il Partito Comunista era contro il sistema bancario e difendeva le classi lavoratrici, scendeva in piazza con il popolo. Oggi invece il Partito Democratico, indegno erede del Partito Comunista ed esito di una metamorfosi kafkiana, difende il sistema bancario contro i lavoratori. Infatti alla Leopolda non vedete mai i lavoratori: vedete sempre i grandi esponenti come Serra del sistema finanziario, vedete sempre Marchionne. Ed è appunto il partito di rappresentanza di questo sistema usurocratico e bancocratico che sta massacrando il ceto medio e le classi lavoratrici.
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Scalea: voto inutile, Pd e Fi costretti a “sgovernare” insieme
Una legge elettorale fatta apposta per congelare l’Italia, impedendole di affrontare davvero la devastante crisi che l’attanaglia. L’esito inevitabile delle elezioni 2018? Il centrodestra in vantaggio, ma costretto ad allearsi col Pd. Risultato: l’ennesimo governo “di palazzo”, condannato a subire ogni sorta di diktat europeo. E’ analisi di Daniele Scalea, specialista del Centro studi politici e strategici “Machiavelli”. «Questa legge elettorale è stata fatta principalmente per sfavorire il M5S e spingere le forze a sinistra del Pd ad allinearsi con esso». Non a caso, aggiunge, la cifra principale del Rosatellum-bis è che, «con la sua quota maggioritaria (oltre un terzo dei seggi assegnati), sfavorisce le forze non coalizzate». Naturalmente, sbarrare la strada ai 5 Stelle è però costato caro ai promotori della legge: «Infatti è improbabile che anche il centrosinistra o il centrodestra raggiungano la quota di voti necessari a formare un governo (calcolata al 40% abbondante). L’ipotesi più credibile è dunque quella di una grande coalizione trasversale», sostiene Scalea, intervistato da Marina Tantushyan per il newsmagazine “Sputnik News”. «I vincitori sono dunque il Pd e Forza Italia, che in nessun scenario potranno essere tenuti fuori da questa coalizione trasversale».Dal canto suo, «Berlusconi mantiene un elettorato di fedelissimi che, malgrado il Cavaliere abbia ormai perso il suo smalto e non stia nemmeno proponendo un programma elettorale, è pronto a garantirgli un numero cospicuo di voti». Con questa legge, osserva Scalea, «potrà verosimilmente realizzare il suo proposito: evitare di dover governare con Salvini premier, ma farlo con Renzi che è a lui molto più congeniale». Salvo un suo exploit imprevisto e imprevedibile, il Movimento 5 Stelle non potrà raggiungere la maggioranza, insiste l’analista: «Ed essendo una forza ostile alle alleanze e con un programma distante da tutti gli altri partiti, non farà mai parte di alcuna possibile coalizione di governo». D’altra parte «nemmeno il Pd dovrebbe riuscire a vincere, pur aggregando forze alla sua sinistra e alla sua destra». Per Scalea «il contesto è scoraggiante, perché l’Italia avrebbe ora bisogno di un governo forte, con soluzioni precise e coraggiose su problemi pressanti come il declino economico e l’immigrazione incontrollata. Lo scenario sembra invece quello di una nuova legislatura di galleggiamento, con uno o più esecutivi deboli».Secondo Daniele Scalea, questo panorama mediocre e deludente emergerà già alle elezioni regionali siciliane di novembre: «In Sicilia dovrebbe confermarsi la preminenza riconquistata nazionalmente dal centrodestra, ma anche la forza del M5S e la resistenza del Pd, che continua a mantenere una cospicua base elettorale composta di ceti abbienti, cattolici praticanti, postcomunisti e cittadini d’origine extra-europea». Un voto destinato dunque a «confermare che l’Italia è divisa in tre». Pessimistiche le previsioni di Scalea per il voto delle politiche, nella primavera del 2018: «Mi attendo un successo del centrodestra anche più ampio di quello previsto nei sondaggi, trainato – più che dai meriti della coalizione – dal malcontento diffuso per l’immigrazione incontrollata: malcontento non mitigato da un’economia ancora claudicante». Ma attenzione: «Un paese diviso in tre, l’ambivalenza di Forza Italia che sogna un “Nazzareno bis” e l’indecisione della Lega che non sa farsi realmente partito nazionale, coniugato con una legge elettorale fatta su misura per rendere ingovernabile il paese, ci suggerisce che l’esito sarà un no-contest». Conseguenze? Le peggiori: «Il mazzo passerà dalle mani degli elettori a quelle dei giocatori nei palazzi».Una legge elettorale fatta apposta per congelare l’Italia, impedendole di affrontare davvero la devastante crisi che l’attanaglia. L’esito inevitabile delle elezioni 2018? Il centrodestra in vantaggio, ma costretto ad allearsi col Pd. Risultato: l’ennesimo governo “di palazzo”, condannato a subire ogni sorta di diktat europeo. E’ analisi di Daniele Scalea, specialista del Centro studi politici e strategici “Machiavelli”. «Questa legge elettorale è stata fatta principalmente per sfavorire il M5S e spingere le forze a sinistra del Pd ad allinearsi con esso». Non a caso, aggiunge, la cifra principale del Rosatellum-bis è che, «con la sua quota maggioritaria (oltre un terzo dei seggi assegnati), sfavorisce le forze non coalizzate». Naturalmente, sbarrare la strada ai 5 Stelle è però costato caro ai promotori della legge: «Infatti è improbabile che anche il centrosinistra o il centrodestra raggiungano la quota di voti necessari a formare un governo (calcolata al 40% abbondante). L’ipotesi più credibile è dunque quella di una grande coalizione trasversale», sostiene Scalea, intervistato da Marina Tantushyan per il newsmagazine “Sputnik News”. «I vincitori sono dunque il Pd e Forza Italia, che in nessun scenario potranno essere tenuti fuori da questa coalizione trasversale».
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Giacché: l’Europa ha un nemico, si chiama Unione Europea
Se l’Europa vira a destra è per precise responsabilità della sinistra, che è stata in buona parte corresponsabile delle politiche neoliberali (mi riferisco in particolare ai partiti socialisti/socialdemocratici) e dove non lo è stata, non ha saputo affrontare le radici della crisi e mettere davvero in discussione l’assetto dell’Europa di Maastricht. Il crollo (annunciato) della Spd e la vittoria dell’estrema destra dell’Afd sono stati predominanti del voto tedesco. Aggiungo il crollo della Cdu e della Csu, le due forze che sostenevano Angela Merkel. Non si tratta di un dettaglio: la frana riguarda entrambi i partiti che un tempo determinavano la politica tedesca. Il voto sancisce la fine della socialdemocrazia europea come l’abbiamo conosciuta, confermando un trend già visto in opera in Grecia, in Francia, in Spagna, in Olanda – e che credo sarà confermato in Italia. Ma più in generale quella delle “famiglie” politiche tradizionali un tempo egemoni a livello europeo: la popolare/cristiano-democratica e quella socialdemocratica. Credo che il Pd perderà la centralità politica; tenterà di mantenerla al prezzo di un’ulteriore deriva a destra, ma senza successo.L’operazione politica che ha dato vita al Pd si rivela per quello che era: un’operazione trasformistica priva di respiro. Oggi è il bersaglio di tutti coloro che ritengono socialmente regressiva ed economicamente sbagliata la politica seguita dal 2011 in poi. Mi riesce difficile dar loro torto. In Germania, malgrado la vittoria di Merkel, dal voto si evincerebbe una crisi di sistema? Oggi viene letto tutto in termini di instabilità, ma non credo che sia la lettura corretta: semplicemente, l’elettorato ha votato contro la gestione di questi partiti nei 10 anni che ci separano dall’inizio della Grande Recessione. Può essere sorprendente che questo avvenga anche in un paese come la Germania, che è considerato da molti il vero vincitore di questa crisi. Ma il punto è che non tutta la Germania ha vinto, anzi. Proviamo a dirlo in “economese”. La Germania in questi anni ha coerentemente praticato una politica mercantilistica, basata sulle esportazioni, sacrificando la domanda interna e gli investimenti. La capacità esportativa tedesca si è avvalsa per un verso della costruzione di una rete di subfornitori con manodopera a basso prezzo nei paesi dell’Est (che perlopiù non hanno adottato l’euro, e quindi hanno potuto beneficiare di svalutazioni rispetto ad esso), per l’altro di una vera e propria compressione dei salari.I salari tedeschi, nei settori esposti alla concorrenza internazionale, sono scesi in termini reali, tra il 1999 e il 2008, di qualcosa come il 9% (sono dati forniti da Bofinger, uno degli esperti economici che assistono il governo tedesco). Con l’Agenda 2010 del socialdemocratico Schröder sono stati precarizzati i rapporti di lavoro (i minijobs), riducendo al contempo fortemente le indennità di disoccupazione. Nel frattempo, le tasse alle imprese e alla parte più ricca dei cittadini venivano diminuite. Ecco spiegata l’ampliarsi della disuguaglianza, e anche il mistero di una Germania che “va bene”, ma in cui tanti cittadini sono scontenti. E votano di conseguenza. Il tema dell’immigrazione ha fatto da detonatore a un disagio sociale presente già da tempo. All’Est le sue motivazioni si possono sintetizzare in due dati: una disoccupazione doppia che all’Ovest, e stipendi inferiori di un quarto. Si tratta di una situazione che affonda le sue radici nelle modalità dell’unificazione tedesca, e in particolare – come ho spiegato anni fa nel mio libro sull’unificazione, “Anschluss” – in un’unione monetaria affrettata e realizzata con un tasso di cambio assurdo (parità tra marco ovest e marco est nonostante che il tasso di cambio reale fosse all’epoca di 1 a 4,4), che ha distrutto l’economia della ex Germania Est.A questo punto tutti gli asset industriali dell’Est furono svenduti attraverso la Treuhandanstalt (curiosamente riproposta come modello durante questa crisi, da Juncker e da altri, alla Grecia). Il risultato furono milioni di disoccupati, emigrazione di massa e la distruzione dell’industria dell’Est. Una distruzione cui non hanno potuto porre rimedio i massicci trasferimenti statali successivi: molto semplicemente, al di là di poche isole felici, l’Est del Paese non è a tutt’oggi autosufficiente. Alternative für Deutschland prende i voti delle classi popolari e dei ceti meno abbienti? L’Afd non vince soltanto all’Est, ma anche in zone certamente tutt’altro che povere come la Baviera, dove la motivazione anti-immigrati è senz’altro prevalente. La Linke, la sinistra radicale tedesca, ha preso quasi il 10 per cento. Il vento di protesta si muove anche a sinistra? La Linke prende mezzo milione di voti dalla Spd, ma cede poco meno alla Afd. In questi numeri sta scritto tutto quanto ci è necessario sapere, e quanto del resto confermano le evidenze sulle zone di maggiore radicamento della Linke stessa: che guadagna voti all’Ovest ma li perde ad Est; che conquista consensi nei quartieri della borghesia riflessiva, ma li perde nelle zone operaie.Non ha pagato la linea sull’immigrazione (“refugees welcome” non è una politica), e questo ha neutralizzato il fatto (importante) che una parte dell’elettorato deluso dalla Grosse Koalition si è rivolto a sinistra, preferendo la Linke alla Spd. A questo proposito va detto che all’interno della stessa Linke chi aveva avanzato idee sensate sulla necessità di un’immigrazione regolata (Sahra Wagenknecht) è stata attaccata violentemente: i risultati si sono visti nelle elezioni. E la Francia? Era a un bivio: accodarsi all’Agenda 2010 della Germania e proseguire sulla linea dell’austerity o far cambiare marcia all’Europa opponendosi al dominio della locomotiva tedesca. Macron ha imboccato la prima strada, in questa direzione vanno senza alcun dubbio le (cosiddette) riforme del lavoro annunciate. È una pessima notizia per la Francia e per l’Europa. Se Macron riuscirà a realizzare queste misure proseguirà e si rafforzerà la tendenza alla deflazione salariale e alla compressione della domanda interna in Europa.L’Europa a due velocità ha imboccato un vicolo cieco, e il vento populista ha terreno fertile? Direi che più importante della velocità qui è la direzione: che è quella sbagliata. Si è troppo spesso confuso l’internazionalismo con l’europeismo, e l’Europa con l’Unione Europea. Per contro, si è data troppo poca importanza al tema della democrazia e a quello, connesso, della sovranità popolare: la verità è che l’Europa di Maastricht è profondamente antidemocratica. Lo è per essenza, e non per accidente. È un’architettura disegnata nel periodo trionfale del neoliberismo, quello immediatamente successivo al crollo dell’Urss. Il suo impianto non è soltanto antisocialista, ma antikeynesiano. Quando Tietmeyer (presidente della Bundesbank) nel 1998 si compiacque per il fatto che i politici europei, spogliandosi della sovranità monetaria – conferita a un’unica banca centrale indipendente – avevano avuto la saggezza di sostituire il “plebiscito quotidiano dei mercati” al “plebiscito delle urne”, sapeva cosa diceva. Per di più durante la crisi, una classe politica e tecnocratica assai poco lungimirante ha deciso di dare un ulteriore giro di vite a questa macchina neoliberale con il Fiscal Compact. Quel Fiscal Compact che oggi si vorrebbe includere nei Trattati. Faccio fatica a trovare un’idea più miope e regressiva.Come uscirne? Capendo fino in fondo che l’assetto attuale dell’Unione Europea è il problema, e non la soluzione. Sinceramente non sono ottimista. Mi sembra che la consapevolezza dei problemi a livello politico sia assolutamente inadeguata. Si continua a perdere tempo con problemi nella migliore delle ipotesi secondari, non si ha alcuna strategia, e quindi si soggiace a quelle altrui. È quello che emerge dall’esame di tutti i principali dossier degli ultimi anni: dall’Unione bancaria al problema dell’immigrazione, alla politica energetica. Non conosco un solo caso in cui la soluzione adottata non sia stata svantaggiosa per il nostro paese, e favorevole ad altri. L’Italia dovrebbe maggiormente battere i pugni sul tavolo a Bruxelles? Non si tratta soltanto né soprattutto di incapacità negoziale, che sarebbe comunque sconfortante. C’è un pregiudizio ideologico: ogni passo avanti dell’integrazione europea è considerato positivo a priori. E c’è la convinzione – contraria a ogni evidenza – che solo il “vincolo esterno” ci possa salvare. Quasi che, per qualche tara genetica, fossimo incapaci di governarci da soli. In genere la storia non è stata tenera nei confronti delle classi dirigenti e dei popoli dominati da questo tipo di convinzioni.(Vladimiro Giacché, dichiarazioni rilasciate a Giacomo Russo Spena per l’intervista “In Germania ha vinto la protesta e l’Ue è irriformabile, come non capirlo?”, pubblicata su “Micromega” il 28 settembre 2017. Eminente economista, Giacché è presidente del centro studi Europa Ricerche).Se l’Europa vira a destra è per precise responsabilità della sinistra, che è stata in buona parte corresponsabile delle politiche neoliberali (mi riferisco in particolare ai partiti socialisti/socialdemocratici) e dove non lo è stata, non ha saputo affrontare le radici della crisi e mettere davvero in discussione l’assetto dell’Europa di Maastricht. Il crollo (annunciato) della Spd e la vittoria dell’estrema destra dell’Afd sono stati predominanti del voto tedesco. Aggiungo il crollo della Cdu e della Csu, le due forze che sostenevano Angela Merkel. Non si tratta di un dettaglio: la frana riguarda entrambi i partiti che un tempo determinavano la politica tedesca. Il voto sancisce la fine della socialdemocrazia europea come l’abbiamo conosciuta, confermando un trend già visto in opera in Grecia, in Francia, in Spagna, in Olanda – e che credo sarà confermato in Italia. Ma più in generale quella delle “famiglie” politiche tradizionali un tempo egemoni a livello europeo: la popolare/cristiano-democratica e quella socialdemocratica. Credo che il Pd perderà la centralità politica; tenterà di mantenerla al prezzo di un’ulteriore deriva a destra, ma senza successo.
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L’immigrazione: una vergogna, come la povertà da cui nasce
Rassegnarsi all’immigrazione-fiume: sarà la nuova normalità che ci attende? Niente affatto: l’esodo dei migranti è innanzitutto «una vergogna, esattamente come la povertà che spinge milioni di persone a lasciare le loro case, in gran parte per colpa dei nostri politici» che hanno letteralmente spolpato il cosiddetto terzo mondo, in combutta con i dittatori locali. Parola di Gianfranco Carpeoro, romanziere e saggista, irritato dai toni della polemica nostrana sulla tragedia dell’emigrazione. Dietro agli sbarchi c’è una voragine morale, una mostruosa ingiustizia sottaciuta e oggi coperta dall’ipocrisia buonista dell’accoglienza, che spaccia l’esodo come un fatto naturale, fisiologico. La presidente della Camera, Laura Boldrini, dice addirittura che gli immigrati «sono l’elemento umano, l’avanguardia di questa globalizzazione». Sostiene che sono «l’avanguardia di uno stile di vita che presto sarà lo stile di vita per moltissimi di noi». Carpeoro replica con un linguaggio esplicito: «L’immigrazione esiste perché questo mondo se n’è fottuto, di creare sacche enormi di povertà e degrado. Quindi la Boldrini, che è una querula signora che parla senza analisi, si limita a fare sponda ad un certo diffuso pietismo contemporaneo».Beninteso: «Io non sono favorevole all’idea di lasciar affondare i barconi nelle nostre acque», chiarisce Carpeoro, in diretta streaming con Fabio Frabetti di “Border Nights”. «Non sono favorevole a trattar male dei disperati, la cui unica colpa è quella di seguire solo la loro disperazione. E non sono neanche in grado – aggiunge – di ammettere come legittima una distinzione tra chi scappa per fame e chi scappa per guerra, perché la morte è morte: uno che muore di fame non è diverso da uno che muore di guerra». Fatta questa precisazione, continua Carpeoro, sarebbe meglio smetterla di affrontare il problema «senza capire che l’immigrazione è una vergogna, che va rimossa». Il guaio è a monte: «Non è colpa degli immigrati: è colpa degli Stati da cui vengono, degli Stati che hanno spogliato altri Stati, di un liberismo sfrenato che ha trattato gli esseri umani come se non contassero nulla». In altre parole: il problema va affrontato onestamente, alla radice, e quindi non dando per scontato che l’immigrazione «sarà sempre più frequente, come sento dire, che è un fenomeno di sistema, che l’immigrazione deve esserci e noi dobbiamo imparare a gestirla. No: io non la voglio, l’immigrazione».Insiste Carpeoro: «Io voglio che la gente stia bene a casa sua, perché non glieli ho rubati io, loro soldi». Ovvero: «Non ho corrotto i loro governanti per fare i miei affari», magari fingendo di inviare aiuti, «soldi che poi sono finiti in altre cose». Perché rassegnarsi a quella che sono gli stessi migranti a vivere come una tragedia? «Io non voglio l’immigrazione, come non voglio la povertà». E niente pietismo, per favore: «Non voglio i preti che mi vengono a dire che la prima cosa è aiutare i poveri: la prima cosa è eliminare la povertà». Bisogna impegnarsi a «ridurla ai minimi termini», intervenendo alle radici del problema, «e non continuando a dire “eh, ma è ineluttabile, vi dovete abiutare”». Abituarsi a cosa? «Da un lato vai a dire agli africani che si devono abituare a morire, se non scappano, e dall’altro vai a dire agli italiani che devono accettare frotte di africani perché è giusto così, e il fenomeno non è reversibile». Carpeoro si ribella: «Io lo voglio rendere reversibile, il fenomeno. Penso che ci sia un modo. E penso che questi politici debbano cominciare a occuparsene, visto che non se ne sono occupati per quarant’anni».Rassegnarsi all’immigrazione-fiume: sarà la nuova normalità che ci attende? Niente affatto: l’esodo dei migranti è innanzitutto «una vergogna, esattamente come la povertà che spinge milioni di persone a lasciare le loro case, in gran parte per colpa dei nostri politici» che hanno letteralmente spolpato il cosiddetto terzo mondo, in combutta con i dittatori locali. Parola di Gianfranco Carpeoro, romanziere e saggista, irritato dai toni della polemica nostrana sulla tragedia dell’emigrazione. Dietro agli sbarchi c’è una voragine morale, una mostruosa ingiustizia sottaciuta e oggi coperta dall’ipocrisia buonista dell’accoglienza, che spaccia l’esodo come un fatto naturale, fisiologico. La presidente della Camera, Laura Boldrini, dice addirittura che gli immigrati «sono l’elemento umano, l’avanguardia di questa globalizzazione». Sostiene che sono «l’avanguardia di uno stile di vita che presto sarà lo stile di vita per moltissimi di noi». Carpeoro replica con un linguaggio esplicito: «L’immigrazione esiste perché questo mondo se n’è fottuto, di creare sacche enormi di povertà e degrado. Quindi la Boldrini, che è una querula signora che parla senza analisi, si limita a fare sponda ad un certo diffuso pietismo contemporaneo».