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Onu: italiani in via di estinzione, nel 2050 saremo 40 milioni
Arrivano ogni anno e sono come un bollettino di guerra. Sono i rapporti dell’Istat sulla popolazione: mai così basso il numero delle nascite. Nel 2016 l’Italia è “dimagrita” di 134.000 persone: come avessimo perso una città delle dimensioni di Salerno. La fecondità è scesa a 1,34 figli per donna: nessun paese al mondo fa meno figli dell’Italia. Secondo lo storico francese Pierre Chaunu, nei paesi europei la disaffezione a procreare ha conseguenze simili alla peste nera che sterminò un terzo della popolazione del continente. A differenza dell’epidemia del medioevo che riempiva i cimiteri, scrive Giulio Meotti sul “Foglio”, l’epidemia di sterilità volontaria svuota i reparti di maternità. Persino per l’Onu, gli italiani sono un gruppo etnico in via di estinzione: nel nostro paese, il rapporto fra nascite e decessi è negativo dal 1990 (per inciso, l’epoca in cui il paese – con il collasso della Prima Repubblica – ha imboccato la via delle privatizzazioni, dell’euro e dell’Unione Europea). I dati per l’Italia – meno di 60 millioni di persone, inclusi però gli immigrati – per le Nazioni Unite sono ancora più terribili se consideriamo il rapporto fra nascite e decessi: indicatore che ha appena raggiunto il valore peggiore di sempre. Dieci anni fa, su “Le Monde”, il sociologo Henri Mendras scrisse che, di questo passo, la popolazione dello Stivale si sarebbe ridotta da 60 a 40 milioni nel 2050.«Nessun popolo può sopportare un evento così traumatico e l’equilibrio generale dell’Europa ne sarebbe scosso», scriveva Mendras. «L’Italia del nord, oggi così opulenta, ha il più basso tasso di fecondità in Europa: in media, meno di un bambino per donna». Le grandi città italiane “resistono” soltanto grazie all’immigrazione, continua Meotti nella sua analisi sul “Foglio” pubblicata nel 2017. «Prendiamo Venezia: 2.102 nuovi nati nell’ultimo anno, a fronte di 2.878 morti. Nel giro di quindici anni, a Bologna nasceranno il 10% di bambini in meno, il 20% in provincia. Gli anziani tra 65 e 79 anni cresceranno del 15%. Senza immigrazione, l’Emilia Romagna in vent’anni perderebbe 871.000. Si passerebbe dai quattro milioni e 454.000 residenti emiliano-romagnoli del 2016 a tre milioni e 583.000. Una contrazione del 20%». E’ un trend nazionale. Crollano le nascite a Milano: 17.681 nel 2006, 13.682 nel 2014, 12.688 nel 2015 e poco oltre le diecimila nel 2016. Genova è diventata la “città più vecchia d’Europa”. In Val d’Aosta, dal 2008 al 2015 la natalità è diminuita del 24%, il dato peggiore in Italia. «Nel ricchissimo Veneto le nascite sono calate del 20%». Sta “dimagrendo” la Toscana, meno 5,8%. Per Mendras, siamo di fronte a «una rivoluzione ideologica che rischia di mettere in pericolo la civiltà italiana».Una rivoluzione “culturale”: «Nascerà un nuovo tipo di famiglia: senza fratelli, zii, cugini». Un’Italia composta per due terzi da anziani e con pochissimi bambini. E’ esplicito l’economista americano Nicholas Eberstadt: «Ci sarete ancora domani? Un popolo può scomparire». Perché accade questo? Per soldi: «Una delle ragioni è che i figli sono bellissimi, ma non sono economicamente convenienti», afferma Eberstadt. «E in una società che premia ciò che è conveniente, non è una buona idea costruire una nuova famiglia». Se ieri non avere figli era una tragedia, oggi è anche uno stile di vita: si è più “liberi”. Secondo Eberstadt, continua il “Foglio”, «in una società grigia il welfare diventerà insostenibile: dovrete aumentare l’età pensionabile a 72, 73, 74 anni». Continundo su questa strada, «non penso che la società italiana sopravvivrà così come è oggi», aggiunge Eberstadt: «E’ possibile che l’Italia sarà osservata dal resto del mondo come un esperimento, per capire come una società sopravvive a questo terremoto. Sarete una cavia per il resto del genere umano». Sarà un’Italia di centenari, sostiene il noto demografo James Vaupel, già a capo dell’Istituto tedesco Max Planck: «La maggior parte delle persone vive oggi in Italia sarà probabilmente ancora viva nel 2050». La popolazione dell’Italia? «Potrebbe essere di 10 milioni alla fine del XXI secolo, un quinto della popolazione oggi».«Non conosco nessuna società pre-moderna che ha smesso di avere figli», dichiara al “Foglio” lo storico Bruce Thornton, studioso di antichità alla California State University e autore di “Decline and fall of Europe”. «Si vede questo fenomeno tra le élite, per esempio nella Roma tardo-repubblicana, con Augusto che ha cercato di incoraggiare gli aristocratici romani ad avere più figli. Prima dell’età moderna, la gente ha visto i bambini come risorsa più importante di ogni cultura. Solo i moderni possono essere così stupidi da ignorare questa saggezza». Entrerà in crisi la democrazia, in una simile spirale di invecchiamento e sterilità. «La democrazia sarà in pericolo», afferma Thornton, perché welfare sanitario, assistenza e pensioni dipendono dai lavoratori più giovani che pagano le tasse. «Cosa succede quando una maggioranza di vecchi voterà per averne sempre di più, a scapito dei giovani ormai ridotti al lumicino?». Troviamo difficile sacrificarci per le generazioni successive, dice Thornton: «Per questo abortiamo così tanti bambini. Per questo non distribuiamo più la ricchezza dai ricchi ai poveri, ma dai non nati ai vivi». Un paese di vecchi, geopoliticamente irrilevante e vulnerabile. In Francia, gli immigrati islamici – con alto tasso di natalità – sono il 10% della popolazione francese: avranno «il potere politico per iniziare a cambiare la cultura del paese ospitante».Per Thornton, «vedremo grandi investimenti per aumentare la lunghezza della vita, con la produzione ad esempio di reni e cornee artificiali». Esisteranno ancora le pensioni? «Lavorerete di più, come vediamo in America dal 2008. Ma chi pagherà le pensioni? Qui sorgeranno i conflitti». Che cultura produrremo? «Già oggi non ne produciamo più. Ci sarà molta cultura popolare per intrattenere gli anziani». E la religione? «Se n’è andata dall’Occidente: quando i baby boomers saranno vecchi, l’edonismo avrà vinto completamente». Dice il celebre psichiatra inglese Anthony Daniels: «La situazione in Italia mi sembra senza precedenti», simile a quelle di Spagna, Germania e Giappone. «Questa Italia prevalentemente di anziani avrà difficoltà a difendersi dalle popolazioni più giovani. I capelli saranno grigi, ma le persone saranno molto più vigorose di quelle di una volta. Ci saranno adolescenti geriatrici o una geriatria di adolescenti. La gente cercherà un qualche tipo di trascendenza, la troverà nella cosiddetta ‘spiritualità’, paganesimo, culto della natura, il potere curativo dei cristalli, candele, carillon tibetani. La piramide della popolazione tradizionale sarà invertita, gli anziani dovranno lavorare fino a tardi nella vita e saranno assistiti da robot importati dal Giappone».In questo quadro, la Chiesa romana latita. Dovrebbe usare la crisi demografica per una rinascita. Lo sostiene George Weigel, saggista cattolico. «Una nazione che non si riproduce versa in una crisi morale e culturale», dice Weigel al “Foglio”. «La Chiesa dovrebbe prestare attenzione a questo, ma significherebbe rimuovere la polvere dalla propria mentalità museale». Pochi prelati oggi parlano della catastrofe demografica. «Penso che in Occidente abbiamo un desiderio di morte», dice Rod Dreher, giornalista conservatore americano: «Abbiamo scelto il comfort sulla vita». Ratzinger ha detto che ci troviamo di fronte a una crisi spirituale: una grande crisi di civiltà, peggiore di qualsiasi altra dalla caduta di Roma. «Ratzinger è un profeta», sostiene Weigel. «Siamo diretti verso giorni molto bui. I musulmani che arrivano in Europa oggi credono in qualcosa. Troppi di noi occidentali non credono in niente, non nel Dio della Bibbia, ma neanche in se stessi». Per l’americano David Goldman, editore di “Asia Times”, «il declino della popolazione è l’elefante nel salotto del mondo. E’ una questione di aritmetica, sappiamo che la vita sociale della maggior parte dei paesi sviluppati si romperà entro due generazioni. Due italiani su tre e tre giapponesi su quattro saranno anziani nel 2050».Se gli attuali tassi di fertilità continuano, dice Goldman, il numero di tedeschi scenderà del 98% nel corso dei prossimi due secoli. «Nessun sistema pensionistico e sanitario è in grado di supportare tale piramide rovesciata della popolazione». Aritmetica, appunto: «Il tasso di natalità di tutto il mondo sviluppato è ben al di sotto del tasso di sostituzione, e una parte significativa di essa ha superato il punto di non ritorno demografico». La teoria geopolitica convenzionale, dominata da fattori materiali quali il territorio, le risorse naturali e la tecnologia, «non affronta il problema di come i popoli si comporteranno sotto questa minaccia esistenziale, in cui la questione cruciale è la volontà o mancanza di volontà di un popolo che abita un determinato territorio di sfornare una nuova generazione». Il declino demografico, inesorabile, nel XXI secolo «porterà a violenti sconvolgimenti nell’ordine del mondo». E l’Italia? «E’ sulla buona strada, secondo le Nazioni Unite: il numero di donne in età fertile si ridurrà di due terzi nel corso di questo secolo, e diminuirà di circa la metà dal mezzo secolo in poi», Ciò implica «una riduzione della popolazione paragonabile al declino di Roma nel Quinto e Settimo secolo». La causa immediata? E’ la crisi economica, dice Goldman. «L’Italia sarà simile a una casa di riposo, con il 45% popolazione sopra i sessant’anni». Conseguenza: «Il ruolo internazionale dell’Italia si ridurrà con la sua economia».Mentre l’economia continuerà a contrarsi, conclude Goldman, il rapporto deficit-Pil aumenterà. «L’Italia richiederà acquirenti stranieri per le sue attività, il che significa prima di tutto la Cina. L’Italia, insomma, si trasformerà in un parco a tema». Se il Giappone sarà abitato da filippine e indonesiane «pagate da una oligarchia di vecchi», agli italiani resterà il turismo per i cinesi: Roma, Firenze e Venezia. Secondo Goldman, il suicidio demografico italiano ha a che fare anche con il declino della religione. «I più bassi tassi di fertilità si incontrano tra le nazioni dell’Europa orientale, dove l’ateismo è stato l’ideologia ufficiale per generazioni». Al contrario, «Israele avrà più giovani dell’Italia o della Spagna. Un secolo e mezzo dopo l’Olocausto, lo Stato ebraico avrà più uomini in età militare e sarà in grado di mettere in campo un esercito di terra più grande di quello della Germania. Quando la fede scompare, la fertilità svanisce». La spirale di morte in gran parte del mondo industriale, aggiunge Goldman, ha costretto i demografi a pensare anche in termini di fede. «Decine di nuovi studi documentano il legame tra fede religiosa e fertilità. La religione ha cessato di svolgere un ruolo significativo nella società italiana. La metà dei seminaristi di Roma sono africani. Non c’è un Papa italiano da quarant’anni. Ci sarà sempre un nucleo di cattolici in Italia, ma la religione non è ora e non sarà un fattore significativo».Eppure, osserva Meotti, in Italia nessuno parla di suicidio demografico. «Due guerre mondiali – dice ancora Goldman – hanno mostrato agli europei che la loro cultura era deperibile e, per certi versi, costruita su illusioni di superiorità nazionale, e quando queste illusioni sono state chiamate in causa, gli europei hanno visto che non c’era alcuna ragione di sacrificare i piaceri per la cultura». Ancora: «Gli individui intrappolati in una cultura di morte vivono in un crepuscolo del mondo. Abbracciano la morte attraverso l’infertilità, la concupiscenza e la guerra». I membri di una cultura “malata” «cessano di avere figli, si stordiscono con l’alcool e la droga, diventano scoraggiati e spesso la fanno finita con se stessi». Una buona parte del mondo sembra aver perso il gusto per la vita, sostiene Goldman. «La fertilità è scesa finora in alcune parti del mondo industriale in maniera tale che lingue come ucraino ed estone saranno in pericolo in un secolo, e l’italiano nel giro di due». Le culture di oggi «stanno morendo di apatia, non per le spade dei nemici». E l’apatia europea «è il rovescio della medaglia dell’estremismo islamico». Potrà la geriatria italiana essere democratica? «Certamente», conclude Goldman. «Potrete votare democraticamente per chiedere all’ultima persona di spengere la luce».Arrivano ogni anno e sono come un bollettino di guerra. Sono i rapporti dell’Istat sulla popolazione: mai così basso il numero delle nascite. Nel 2016 l’Italia è “dimagrita” di 134.000 persone: come avessimo perso una città delle dimensioni di Salerno. La fecondità è scesa a 1,34 figli per donna: nessun paese al mondo fa meno figli dell’Italia. Secondo lo storico francese Pierre Chaunu, nei paesi europei la disaffezione a procreare ha conseguenze simili alla peste nera che sterminò un terzo della popolazione del continente. A differenza dell’epidemia del medioevo che riempiva i cimiteri, scrive Giulio Meotti sul “Foglio”, l’epidemia di sterilità volontaria svuota i reparti di maternità. Persino per l’Onu, gli italiani sono un gruppo etnico in via di estinzione: nel nostro paese, il rapporto fra nascite e decessi è negativo dal 1990 (per inciso, l’epoca in cui il paese – con il collasso della Prima Repubblica – ha imboccato la via delle privatizzazioni, dell’euro e dell’Unione Europea). I dati per l’Italia – meno di 60 millioni di persone, inclusi però gli immigrati – per le Nazioni Unite sono ancora più terribili se consideriamo il rapporto fra nascite e decessi: indicatore che ha appena raggiunto il valore peggiore di sempre. Dieci anni fa, su “Le Monde”, il sociologo Henri Mendras scrisse che, di questo passo, la popolazione dello Stivale si sarebbe ridotta da 60 a 40 milioni nel 2050.
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Giannuli: accordi sottobanco nel dopo-voto senza vincitori
Renzi il grande sconfitto, il redivivo Berlusconi in netto vantaggio, i 5 Stelle sotto il 30%. Con ancora un 35% di indecisi alla vigilia del voto può succedere di tutto, premette Aldo Giannuli: ogni previsione non può che essere assai aleatoria. Ma intanto, al netto di sorprese e oscillazioni fisiologiche, la tendenza elettorale sembra delinearsi: all’affermazione numerica del centrodestra, con l’incognita politica della Lega di Salvini (che ha in lista Borghi e Bagnai, frontalmente critici verso l’Ue) corrisponderebbe il crollo annunciato del Pd renziano, senza peraltro che i grillini guidati da Di Maio riescano a sfondare, imponendosi come forza di governo. Poi ci sarebbero risultati meno scontati: «Sbaglierò, ma mi sento di scommettere sul fatto che Bonino e “Potere al Popolo” faranno entrambi il 3%, con la prospettiva di superare il 4%», a spese del Pd e di “Liberi e Uguali”, probabilmente costretti sotto il 5%. Giannuli accredita CasaPound di almeno un 1%, senza contare gli altri gruppi minori, i fuori-coalizione, «nessuno dei quali, ragionevolmente, farà il 3%». Messe insieme, però, le tante liste-contro «potrebbero sfiorare l’8-9%: il che sarebbe un segnale molto interessante», specie se sommato all’ipotetica valanga degli astensionisti, dati attorno al 37% secondo le ultime rilevazioni circolate prima del silenzio pre-elettorale.
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“Non fidatevi delle elezioni, comanda il Pontifex Maximus”
Fascismo e antifascismo: il ritorno della violenza politica in campagna elettorale? Diciamo che puzza un po’ di strategia della tensione. Io all’epoca vivevo negli ambienti che si occupavano di queste cose: conoscevo le persone che si occupavano di organizzarla, la strategia della tensione. Quindi sento puzza di bruciato (diciamo “di bruciaticcio”: certo non siamo a quelli livelli là). Però è come se qualcuno volesse dire: guardate che razza di disordini vengono fuori, teniamoci la tranquillità e non andiamo verso il nuovo, se no si scatenano delle forze strane. Io però non le vedo, le sorprese in arrivo. Come si fa a capire qual è il gioco dei grandi poteri? Lo si capisce dopo che l’hanno fatto, il gioco. Quali possono essere, le sorprese, in questo momento? La più grossa sorpresa sarebbe se il Pd rimanesse al potere – da solo, quantomeno. Un’ipotesi molto probabile è che facciano un bell’inciucione mascherato, mantenendo un personaggio come Gentiloni a capo di un “governo di responsabilità” per rispondere all’emergenza (altrimenti ecco “i mercati, lo spread”). E chi più dell’apparentemente mite Gentiloni potrebbe assicurarlo? Ma non è detto che sarà così, e secondo me non dipende tanto dal risultato elettorale. Io non mi fido, del risultato elettorale. Non mi sono mai fidato: brogli, broglietti…Impicci e imbrogli si facevano talmente bene al tempo del pentapartito, quando al ministero degli interni si lavorava con la penna, e figuriamoci adesso che si lavora coi computer. Quindi mi aspetto di tutto. Che invece di un inciucione, o del successo della destra, venga fuori il cosiddetto risultato a sorpresa dei 5 Stelle, potrebbe non essere per niente una sorpresa, dal punto di vista di certi poteri. Quali? Quelli che hanno costruito il 5 Stelle, ovviamente. E chi sono, questi poteri? Gli stessi che stanno dietro a Renzi, dietro alla Bonino. Gli stessi gruppi che, per dominare gli elettori, gli creano contenitori apparentemente diversi (ma che in realtà sono gli stessi). Il problema è un altro, e mi dà un po’ di sospetto: per quale motivo è stato fatto questo enorme sforzo, negli ultimi mesi, per accreditare un Di Maio? E’ un democristiano, non è un 5 Stelle originario. E lo si è fatto diventare sempre più democristiano, con tinte massonico-reazionarie molto vicine alla finanza, alla Trilateral. Ho visto la nomina di Fioramonti come possibile ministro dello sviluppo economico: un uomo che ha lavorato per Rockefeller, per i Rothschild, che scrive su un sito vicino a Soros. C’è un avvicinamento forte alla Chiesa, all’Europa, alla Nato. Che sorpresa sarebbe, un successo di Di Maio? Ci ritroveremmo – travestiti da grillini – sempre gli stessi poteri. Nell’inconsapevolezza di tutti.Il paese è stato diviso in guelfi e ghibellini, la gente si illude che ci sia qualcosa di nuovo, e invece siamo ai tempi di Garibaldi e del Gattopardo. Le manovre dei grandi poteri, uno se le può immaginare, ma il risultato lo vede dopo. Noi non sappiamo se ci sono già delle “truppe” disposte ad allearsi coi 5 Stelle, per esempio, però certi poteri le possono muovere. Oppure: che ne sappiamo se non è già pronto un inciucio? O se invece la manovra sarà di tipo “trumpiano”, cioè: “Rimettiamo Berlusconi in sella”? Questo lo sapremo solo dopo. Una cosa è certa: è tutta la stessa banda, divisa in un paio di “piramidi”, ma sono sempre quelli. Berlusconi “ridicolo”? Però è funzionale. Una parte degli elettori, è vero, è colpita dalla sua goffaggine. Ma non faceva ridere anche Mussolini, se non fosse stato una maschera tragica? Com’è possibile che gli italiani dessero credito a uno che si presentava così, che parlava in quel modo? Eppure è successo. Una parte degli italiani dorme di brutto e si fa prendere da strane passioni, ma queste sono le condizioni della psiche dai popoli: da una parte quelli che usano una psiche più arretrata ed egoica, come quella della destra, ma ancora peggio – secondo me – sono quelli che adoperano i buoni sentimenti delle persone, inventandosi sempre nuovi contenitori per prenderle in giro.La sovragestione internazionale che si accanisce sull’Italia? Sfatiamo l’idea che noi saremmo pizza e mandolino. E’ quasi un understatement voluto, questo “non contare” dell’Italia, questo essere un paesetto poverello. Non è così. Il buon Steiner, che se ne intendeva, diceva: l’Italia, dal punto di vista della storia umana, traccia le strade. Come a dire: le cose cominciano in Italia. Basta guardare il Rinascimento, e prima ancora l’Impero Romano. Ed è ancora così. Noi sottostimiamo dei poteri, per esempio quelli all’interno della Chiesa cattolica. Sottostimiamo il potere di certi gruppi italiani. Tra i gruppi oscuri che dominano il mondo tutti pensano agli americani, agli inglesi, ai francesi… Se dovessi salire, direi che la direzione strategica transnazionale di tanti elementi di strategie oscure è in buona parte ancora a Roma – certo non nelle facce che noi conosciamo, che sono ridicole o miserande. So che è strano parlarne, sembrano fantasie quasi ufologiche, ma ci sono gruppi molto particolari, che in qualche modo derivano direttamente dall’Impero Romano.Una cosa ho imparato, in tanti anni: “Se lo conosci, non conta niente”. Se sai il nome di qualcuno, che è sui giornali, è una persona che non conta praticamente nulla: è solo un burattino messo lì dal potere per fare da specchietto per le allodole. Il livello di cui si parla di più, anche nella letteratura complottistica, è quello del Bilderberg, delle massonerie. Al massimo ci si spinge fino agli Illuminati: si vedono queste strane piramidi, di cui però mancano sempre i pezzi principali. Già a livello di massonerie e ordini religiosi ci sono gruppi che li infiltrano, e non sono noti. Ogni tanto emerge qualcuno, ma noi non sappiamo che fa parte di questi gruppi. Sono gruppi transnazionali, legati a ritualità di un certo tipo: hanno bisogno anche di supporti oscuri, non necessariamente “umani”, che però traspaiono anche da certi delitti rituali, che servono a tenere in piedi dei gruppi che non sono noti, eppure lavorano per creare forme-pensiero. Gli stessi gruppi, con le medesime caratteristiche di anonimato, erano presenti anche all’interno dell’Impero Romano. Nella storia romana c’è l’evidente traccia di fortissime ritualità: tutto era innanzitutto spirituale – e solo dopo materiale (economico, guerresco, politico, giudiziario). Tutto era dominato dal Campidoglio: la testa dell’impero era tutta templi, dominata dalla figura del Pontifex Maximus, che già allora aveva le scarpe rosse e, come simbolo, due chiavi incrociate. Ancora oggi, quel potere – non per forza incarnato dal Papa di turno – pretende di essere superiore ai poteri politici e finanziari.(Fausto Carotenuto, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti nella diretta web-radio “Border Nights” del 27 febbraio 2018. Già analista politico dei servizi segreti italiani e dell’intelligence Nato, Carotenuto è animatore del network “Coscienze in Rete” dedicato allo sviluppo spirituale. In chiave spiritualistica è anche il saggio “Il mistero della situazione internazionale”, pubblicato nel 2005 da Uno Editori).Fascismo e antifascismo: il ritorno della violenza politica in campagna elettorale? Diciamo che puzza un po’ di strategia della tensione. Io all’epoca vivevo negli ambienti che si occupavano di queste cose: conoscevo le persone che si occupavano di organizzarla, la strategia della tensione. Quindi sento puzza di bruciato (diciamo “di bruciaticcio”: certo non siamo a quelli livelli là). Però è come se qualcuno volesse dire: guardate che razza di disordini vengono fuori, teniamoci la tranquillità e non andiamo verso il nuovo, se no si scatenano delle forze strane. Io però non le vedo, le sorprese in arrivo. Come si fa a capire qual è il gioco dei grandi poteri? Lo si capisce dopo che l’hanno fatto, il gioco. Quali possono essere, le sorprese, in questo momento? La più grossa sorpresa sarebbe se il Pd rimanesse al potere – da solo, quantomeno. Un’ipotesi molto probabile è che facciano un bell’inciucione mascherato, mantenendo un personaggio come Gentiloni a capo di un “governo di responsabilità” per rispondere all’emergenza (altrimenti ecco “i mercati, lo spread”). E chi più dell’apparentemente mite Gentiloni potrebbe assicurarlo? Ma non è detto che sarà così, e secondo me non dipende tanto dal risultato elettorale. Io non mi fido, del risultato elettorale. Non mi sono mai fidato: brogli, broglietti…
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Magaldi: potessimo “votare” per Olof Palme, cioè per l’Italia
Votare per Olof Palme, il 4 marzo? Un sogno impossibile: il leader svedese è stato assassinato 32 anni fa, mentre era primo ministro, alla vigilia della sua probabile elezione all’Onu come segretario generale. Se fosse ancora qui, probabilmente, gli italiani avrebbero ben altri candidati da scegliere, alle elezioni. E tra Bruxelles, Berlino e Francoforte siederebbe tutt’altro genere di politici e tecnocrati. Per questo, idealmente, Gioele Magaldi “vota” per Palme, cui il Movimento Roosevelt dedicherà un convegno in primavera, a Milano: «Il leader socialdemocratico svedese era probabilmente il più grande ostacolo alla costruzione di questa Europa matrigna, tecnocratica, economicistica e antidemocratica, che ha condannato l’Italia a 25 anni di declino». Lo conferma il triste spettacolo dell’offerta elettorale, con programmi-burla e nomi più che grigi, da Tajani a Gentiloni, già pronti per il probabilissimo inciucio che ci attende. Di Maio? Idem: «Invece di avanzare un’alternativa politica rispetto all’andazzo degli ultimi anni, la squadra di ministri tecnici che ha presentato sembra davvero il governo Monti senza Monti: la montagna ha partorito il topolino, per usare un’espressione di “Dagospia”».Non lasciatevi ingannare dalle apparenze: quello che ci aspetta è solo «una grande palude», sostiene Magaldi, a colloquio con David Gramiccioli di “Colors Radio”. «Nel mondo che Berlusconi auspicherebbe, cioè con una centralità di Forza Italia dopo il voto del 4 marzo», il presidente del Parlamento Europeo «sarebbe la carta perfetta, perché gli consentirebbe di avere un suo uomo gradito ai salotti e agli organi istituzionali europei». In fondo, Antonio Tajani «è il Gentiloni del centrodestra: non dà troppo disturbo e sarebbe perfetto per non suscitare particolari avversioni da parte di nessuno. E’ percepito come un moderato, senza infamia né lode. Ma per vederlo a Palazzo Chigi dovrebbe vincere il centrodestra, con Forza Italia in vantaggio sulla Lega: condizioni non facilissime da realizzarsi». Di fatto, «Tajani è un candidato ecumenico che può piacere a tanti, come si fa finta che possa piacere Gentiloni». Ma in realtà, dichiara Magaldi, «sono personalità diafane, prive di un reale spessore, non in grado di imprimere una qualche direzione: sono terminali di chi sta loro dietro: lo è stato Gentiloni in rapporto a Renzi, anche se adesso Gentiloni sembra vivere di vita propria».In più, Tajani è ritenuto un valido “maggiordomo”, adatto a difendere il Cavaliere da eventuali colpi provenienti da Bruxelles: «Berlusconi è traumatizzato da quello che accadde nel 2011, cioè dall’intervento di poteri massonici molto forti, che a suo tempo lo hanno defenestrato con le buone e con le cattive». E’ ancora traumatizzato, l’uomo di Arcore, «dalla delegittimazione che poteri forti e fortissimi gli hanno imposto». Secondo Magaldi, autore del bestseller “Massoni” (Chiarelettere) che svela il ruolo della supermassoneria sovranazionale nel massimo potere mondiale, «oligarchie massoniche internazionali stanno valutando la possibilità di completare questa rilegittimazione di Berlusconi nel quadro di un governo di neo-solidarietà nazionale. A questo – aggiunge – sono funzionali anche le vicende di violenza politica, gli accenni di scontri tra neofascisti e antifascisti squadristici, che ci ricordano gli anni di piombo». C’è un clima strano, avverte Magaldi: da un lato si sostiene che bisogna «accompagnare la presunta crescita che sarebbe iniziata (ma che non c’è)», e dall’altro, sotto sotto, Pd e Forza Italia si strizzano l’occhio accampando «ragioni di argine rispetto al populismo, che – dicono – potrebbe diventare feroce, sfociando in violenza aperta».Anche per questo, da tempo, lo stesso Berlusconi «cerca di riconquistare una qualche forma di credibilità, o di addirittura di avallare l’idea che sia meglio lui, in fondo, di quei “guastafeste teppistoidi” del Movimento 5 Stelle, che sono i nuovi “barbari” nella neo-narrazione berlusconiana». In realtà non ci sono barbari, sottolinea Magaldi, e Tajani «sta solo facendo il suo compitino». Purtroppo i politici italiani sono talmente ininfluenti che non sono stati capaci nemmeno di assicurare a Milano la briciola dell’Ema, l’Agenzia Europea del Farmaco: «E’ un’Italia che pesa pochissimo, eppure ha in Tajani un alto rappresentante in sede europea: se non è in grado di fare granché per l’Italia lì, figuriamoci da primo ministro». Ma niente paura: «Non credo che ci saranno le condizioni per cui Tajani possa ricevere l’incarico da Mattarella, né credo che l’incarico sarà offerto a Di Maio». Delusione 5 Stelle: «E’ indice di trasparenza la decisione di presentare in anticipo la lista di ministri in pectore, ma perché reclutare solo tecnici? Professori, magistrati e militari dovrebbero fare il loro mestiere, non i ministri. Non c’era personale politico adeguato? Che la società civile sia meglio della società politica è un’idea antidemocratica, sdoganata da Berlusconi».Per Magaldi, il destino che ci attende è ancora una volta quello delle larghe intese: «Una prospettiva esiziale, per il popolo italiano. Non abbiamo bisogno di ulteriori governicchi come quelli di Monti, Letta, Renzi e Gentiloni, che hanno semplicemente accompagnato la decadenza dell’Italia in nome di presunti obiettivi superiori, guidati dalla mano autorevole degli “illuminati” reggitori di quest’Europa matrigna». Liste elettorali alla mano, «tutto dovrebbe continuare come prima». Cioè malissimo, per l’Italia. «Da qualche decennio c’è chi lavora in modo verminoso, proprio come vermi che rosicchino dall’interno, per rendere le istituzioni democratiche imbelli e anche poco gradite ai cittadini», ribadisce Magaldi. «Tutti capiscono che queste istituzioni ripiegate su se stesse sono in realtà un’élite reazionaria, che ci ha proiettato in un incubo post-democratico. Il modello Palme? Serve anche per arginare questo tumore». Il Movimento Roosevelt ha dato il suo “endorsement” a pochi, selezionati candidati: come Pino Cabras a Paolo Margari (5 Stelle), Simone Orlandini (Lega), Felice Besostri e Chiara Mariotti (“Liberi e Uguali”). «Poi ci sono altri candidati a noi vicini: una volta in Parlamento – dice Magaldi – vigileranno per impedire manovre antidemocratiche». Indicazioni generali di voto, tranne che per i candidati “amici”? «Scheda bianca o nulla, oppure astensionismo». Sperando di poter, domani, “votare” per Olof Palme.Votare per Olof Palme, il 4 marzo? Un sogno impossibile: il leader svedese è stato assassinato 32 anni fa, mentre era primo ministro, alla vigilia della sua probabile elezione all’Onu come segretario generale. Se fosse ancora qui, probabilmente, gli italiani avrebbero ben altri candidati da scegliere, alle elezioni. E tra Bruxelles, Berlino e Francoforte siederebbe tutt’altro genere di politici e tecnocrati. Per questo, idealmente, Gioele Magaldi “vota” per Palme, cui il Movimento Roosevelt dedicherà un convegno in primavera, a Milano: «Il leader socialdemocratico svedese era probabilmente il più grande ostacolo alla costruzione di questa Europa matrigna, tecnocratica, economicistica e antidemocratica, che ha condannato l’Italia a 25 anni di declino». Lo conferma il triste spettacolo dell’offerta elettorale, con programmi-burla e nomi più che grigi, da Tajani a Gentiloni, già pronti per il probabilissimo inciucio che ci attende. Di Maio? Idem: «Invece di avanzare un’alternativa politica rispetto all’andazzo degli ultimi anni, la squadra di ministri tecnici che ha presentato sembra davvero il governo Monti senza Monti: la montagna ha partorito il topolino, per usare un’espressione di “Dagospia”».
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Credito ai poveri, e nacque il banchiere più grande al mondo
C’era una volta un uomo. Era un uomo vero, di quelli d’un tempo, e sarebbe divenuto il banchiere più grande del mondo. Uno di quegli uomini che dicevano “non voglio diventare troppo ricco, perché nessun ricco possiede la ricchezza, ma ne è posseduto”. All’epoca – si era in California, nell’America dei primi del Novecento – le banche davano soldi solo alle imprese già affermate. Nessuno dava credito alle piccole imprese. Quell’uomo decise di aprire la sua banca, ma non aveva una sede. Rilevò allora da una signora che voleva ritirarsi in pensione il contratto di affitto di un bar, in un incrocio, per 1.250 dollari. Non aveva clienti, e così iniziò un modo di fare banca diversa da tutte le altre dell’epoca. Si mise a girare per le strade, offrendo piccoli prestiti a chi voleva aprire un capannone, un piccolo ristorante, un esercizio commerciale. Nei primi del Novecento, era impossibile in America avere credito dalle banche, se eri una micro-impresa: vi era una regola per la quale non si davano prestiti inferiori ai 200 dollari. In pratica, per le somme minori ci si doveva rivolgere agli usurai. Quell’uomo iniziò a finanziare piccole cose, dando prestiti a partire da 25 dollari. Divenne famoso per la sua nuova cultura di banca.Io per finanziare un uomo – era solito dire – voglio guardarlo negli occhi e vedere i calli sulle mani. A proposito del fatto che oggi tanto si parla di riforma delle banche popolari, ricordo che quell’uomo volle per la sua banca un azionariato diffuso, un azionariato popolare. Si occupò personalmente di andare a proporre le azioni a gente che non era mai stata in una banca: fornai, lattai, droghieri, ristoratori, idraulici, barbieri. Oggi si parla di austerity, di termini inglesi come “leverage” (il rapporto tra capitale e prestito), di rigore. Ricordo che anche allora si dicevano le stesse cose: in due mesi aveva raccolto 70.000 dollari, ma ne aveva impiegati 90.000 e i suoi soci erano preoccupati. Come faremo? – strillavano. Bisogna avere fiducia nella gente – rispondeva lui agli altri. La gente la ripagò, la sua fiducia. Cominciò ad andare nella banca che permetteva loro di finanziare una bottega, di avere un reddito dignitoso, di comprare una casa, di metter su famiglia, di mandare i figli a scuola. In un anno, quei 70.000 dollari divennero 700.000, e la banca continuava a crescere e a dare fiducia.Nel 1906 a San Francisco avvenne un fatto terribile. Il terremoto distrusse la città e la gente si aggirava disperata per le strade, avendo perso tutto, casa e lavoro. Quell’uomo, mentre gli strozzini si aggiravano per le strade, andò sul molo della città, mise un tavolaccio di legno appoggiato su due barili, in mezzo alla folla dei disperati, ci salì sopra ed espose un cartello, con il titolo “Banca di (X), aperto ai clienti” (il nome della “X” ve lo dirò alla fine di questa storia). Resta il fatto che quell’uomo mise un sottotitolo che aveva lui stesso dipinto sul cartello quella notte: “Prestiti come prima, più di prima”. Quell’uomo si chiamava Peter, e stava realizzando il suo sogno di aprire una banca per i piccoli imprenditori, i diseredati, gli emigranti. La “banca” venne assalita da persone che avevano idee per ricostruire la città e lui prestava soldi con il suo metodo, guardando le persone negli occhi e osservando i calli sulle mani. Segnava i crediti su un quadernetto, annotando nomi e cifre. Girava con un carretto ed elargiva prestiti sulla fiducia, senza garanzia, a persone che non avevano potuto andare a scuola e che per lo più firmavano con una croce. Li valutava fidandosi della loro parola e del loro onore. Lui dava fiducia a quelli che avevano delle idee, dei progetti, non a quelli che avevano dei soldi o proprietà da dare in garanzia.I suoi consiglieri gli dicevano che era un pazzo, che sarebbe finito in rovina. Invece, successe una cosa che nessuno si sarebbe aspettato. Quei piccoli imprenditori tornarono da lui, portando tanti altri amici, gente che toglieva i propri pochi depositi dalle altre banche e li andava a investire da Peter, l’uomo col carrettino. Pochi depositi, ma erano milioni di persone. Tutti gli immigrati della California, i nuovi piccoli imprenditori, vennero presto a conoscere la storia dell’uomo col carrettino e il nome di Peter divenne in breve mito, e da mito leggenda. Successe che l’uomo che dava fiducia al prossimo ricevette fiducia dal prossimo e i suoi conti crebbero, perché tutti volevano portare i propri risparmi alla banca di Peter. La sua politica era diversa da quella di tutte le banche dell’epoca ed era volta a dare soldi ai piccoli, agli artigiani, ai commercianti, agli agricoltori, ai piccoli imprenditori. La banca di Peter negli anni crebbe in tutta la California, aprendo filiali a San Francisco, a Los Angeles, fino ad attraversare l’immensa giovane nazione ed arrivare, nel 1919, a New York. Otto anni dopo, quella banca cambiò nome, e divenne la Bank of America.All’epoca, i consiglieri della banca proposero un premio al suo fondatore, di addirittura 50.000 dollari. L’uomo, che aveva già guadagnato nella sua carriera quasi mezzo milione di dollari, restando fedele al suo detto di quando, da giovane, aveva deciso di creare una banca, per evitare di “essere posseduto dalla ricchezza” rifiutò il premio, dicendo che chiunque desiderasse avere più di 500.000 dollari doveva farsi vedere da un dottore. La smania di denaro è una brutta cosa – disse una volta – io non ho mai avuto quel problema. Detto da uno che a sette anni aveva visto il padre ucciso dopo un litigio per un dollaro, c’era da credergli. Infatti, fece devolvere più volte vari premi alla ricerca scientifica. Oggi le banche aborrono progetti innovativi e la finanza moderna pretenderebbe che non si investa in progetti originali e non consolidati, senza patrimoni dell’imprenditore e adeguate garanzie. Pensate allora a cosa doveva voler dire, all’epoca, finanziare una cosa sconosciuta e incredibile che si chiamava cinematografo: follia, per i suoi colleghi. Peter, a differenza di tutti gli altri banchieri, prestò i suoi soldi a un geniale innovatore, consentendo nel 1921 a tutto il mondo di conoscere “Il Monello”, il meraviglioso film di Charlie Chaplin.Anni più tardi, finanziò Walt Disney, che gli parlava di finanziare un’altra incredibile rivoluzione tecnologica e cioè i cartoni animati. Il mondo conobbe così la favola di “Biancaneve e i sette nani.” Ancora, finanziò un visionario siciliano, Francesco Rosario Capra, rimasto senza lavoro per la crisi del ’29, rivelando così al mondo il genio del celeberrimo regista Frank Russel Capra. Così, mentre gli esperti di finanza insegnavano l’importanza di adottare regole restrittive, Peter finanziava i piccoli imprenditori guardandoli negli occhi e alla fine, tirando i conti, si scoprì che il 96% dei prestiti della banca erano stati rimborsati, senza alcuna garanzia. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, la banchetta nata in un bar, proseguita su un carrettino, che ora si chiamava Bank of America, superò per depositi la First National Bank e la Chase Manhattan Bank, le due più grandi banche di New York, diventando così la più importante banca del mondo. Dopo la fine della guerra, Peter volle che la Bank of America si impegnasse in prima persona nel piano Marshall, cioè nel gigantesco piano di ricostruzione che ha consentito anche al nostro paese di ripartire, finanziando così, indirettamente, milioni di nostri piccoli imprenditori.Quando, nell’ottobre del 1945, lasciò la presidenza della banca, lasciò i cassetti aperti, affermando che “né lui, né la sua banca, avevano nulla da nascondere”. Quando morì, quattro anni più tardi, dall’inventario dei suoi beni si scoprì che aveva mantenuto la sua parola, e pur essendo stato il banchiere della banca più grande del mondo, il suo patrimonio ammontava esattamente a soli 489.278 dollari, meno del mezzo milione per cui, secondo lui, uno sarebbe dovuto farsi vedere da uno psichiatra. Può sembrare una favola, ma è storia vera. L’ho raccontata perché oggi, se mi guardo intorno, io non vedo una situazione abissalmente diversa dal disastro di San Francisco del 1906 o dalla crisi del ’29. Mentre i politici parlano di riforma della legge elettorale, le imprese chiudono ogni giorno, la gente è a spasso, molti restano senza lavoro e senza speranza. Allora, esistevano uomini di banca come Peter. Oggi i piccoli imprenditori sono disperati. Le banche ripetono il mantra appreso da docenti, banchieri e politici che parlano in lingua inglese, chiedono garanzie, e si sente a ogni angolo la parola “austerity”. Gli anglosassoni ci vengono a insegnare come si fa il mestiere di banchiere e i tedeschi ci insegnano il rigore. Ora, io avrei un sogno. Vorrei che in una nostra città, una qualunque, tra le macerie della nostra economia, un banchiere italiano, un politico italiano, uno statista, prendesse un tavolaccio, lo mettesse in mezzo a una strada e poi ci salisse sopra.Vorrei che ci posasse sopra un cartello con una scritta a mano in cui si leggesse: “Da oggi, prestiti all’economia, come prima, più di prima”. Sottotitolo: “Colleghi, l’austerity ve la potete mettere in quel posto”. E poi, vorrei che quest’uomo cominciasse a ridisegnare le regole del gioco della finanza mondiale, per insegnare a tutti che noi italiani non abbiamo bisogno di lezioni da nessuno, sul come si fa a fare il mestiere del banchiere. Il vero banchiere non chiede le garanzie, ma guarda i calli sulle mani. Questo, sarebbe il mio sogno. Perché sul cartello che quell’uomo aveva scritto di suo pugno, su quel tavolo in mezzo alla strada, c’era il nome della sua banca: Bank of Italy. Questo era il nome originario di quella che sarebbe divenuta, molti anni dopo, la più grande banca del mondo: la Bank of America. Il suo fondatore, l’uomo che guardava gli altri negli occhi e finanziava guardando i calli delle mani, l’uomo che si alzò in piedi insegnando al mondo a rialzarsi in piedi, l’uomo che insegnò a tutti che fare banca non significa chiedere regole, ma dare fiducia, non era un anglosassone. Peter era il secondo nome di Amedeo Giannini, in cerca di fortuna nell’America di fine ottocento, figlio di poveri migranti dell’entroterra ligure. C’era una volta un banchiere. Era un uomo vero. Era un italiano.(Valerio Malvezzi, “L’incredibile storia del banchiere più grande del mondo”, dal sito “Win The Bank”, 2018).C’era una volta un uomo. Era un uomo vero, di quelli d’un tempo, e sarebbe divenuto il banchiere più grande del mondo. Uno di quegli uomini che dicevano “non voglio diventare troppo ricco, perché nessun ricco possiede la ricchezza, ma ne è posseduto”. All’epoca – si era in California, nell’America dei primi del Novecento – le banche davano soldi solo alle imprese già affermate. Nessuno dava credito alle piccole imprese. Quell’uomo decise di aprire la sua banca, ma non aveva una sede. Rilevò allora da una signora che voleva ritirarsi in pensione il contratto di affitto di un bar, in un incrocio, per 1.250 dollari. Non aveva clienti, e così iniziò un modo di fare banca diversa da tutte le altre dell’epoca. Si mise a girare per le strade, offrendo piccoli prestiti a chi voleva aprire un capannone, un piccolo ristorante, un esercizio commerciale. Nei primi del Novecento, era impossibile in America avere credito dalle banche, se eri una micro-impresa: vi era una regola per la quale non si davano prestiti inferiori ai 200 dollari. In pratica, per le somme minori ci si doveva rivolgere agli usurai. Quell’uomo iniziò a finanziare piccole cose, dando prestiti a partire da 25 dollari. Divenne famoso per la sua nuova cultura di banca.
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Se Mattarella incarica Di Maio, l’ex antisistema in cravatta
Un “governo di scopo”, della durata di sei mesi o al massimo un anno, dopo che le elezioni avranno “asfaltato” Renzi, mettendo fine alla faida con gli ex-Pd. Esecutivo presieduto da Luigi Di Maio? Perfettamente possibile, secondo uno storico esponente della sinistra moderata italiana, Peppino Caldarola, già direttore de “L’Unità”. «A differenza di Napolitano, Mattarella non farebbe una battaglia frontale contro i 5 Stelle. E’ un presidente molto politico, ma non interventista sulla realtà; da buon democristiano, preferisce l’inclusione allo scontro». Includere, ovvero: «Ricondurre al buon senso politico un leader giovane, così antisistema da essere già incravattato e pronto per l’incarico. Una strategia che potrebbe indurre anche altre forze a dare l’appoggio». E’ un’ipotesi da day-after, che Caldarola disegna per “Il Sussidiario”. Renzi? Non farà nessun “passo indietro” se il Pd dovesse perdere: dirlo ora «sarebbe dichiararsi sconfitto prima della partita». Ma stavolta il suo destino sembra segnato: «Se perdesse in modo grave, con un consenso lontano dal 25% e vicino al 20, a quel punto il tema del ritiro glielo porrebbero i suoi amici di partito». Tradotto: «Con il Pd al 20%, persino il più codardo porrebbe il problema della sostituzione».«Se il risultato fosse tragico – aggiunge Caldarola – molti andrebbero da Veltroni a dirgli: Walter, salvaci tu, e magari torna dai fratelli separati». In altre parole, «Renzi non avrà una seconda chance». Tutti i sondaggi concordano: il Movimento 5 Stelle sarà il primo partito. «E non sarà un voto di protesta», dichiara Caldarola a Federico Ferraù. «L’elettorato investe sul Movimento 5 stelle perché lo vuole al governo. Vale anche per il Mezzogiorno, dove il M5S otterrà la maggioranza dei voti; quei voti, volenti o no, daranno a Di Maio un mandato preciso. Il mandato potrebbe essere eseguito bene o male, ma questo è un altro discorso». E Berlusconi? Oggi è più forte o più debole rispetto al passato? «E’ più debole», secondo Caldarola. «La sua forza in passato è stata di riuscire a istituzionalizzare due forze politiche escluse dal sistema, prima il vecchio Msi e poi la Lega di Bossi. Ma oggi Berlusconi non è più in grado di trasformare la Lega di Salvini in qualcosa d’altro». Per ora il derby sembra destinato a vincerlo il Cavaliere: «Ho l’impressione che Salvini abbia già rastrellato tutto il consenso possibile», sostiene Caldarola. «La maggioranza degli italiani sta con il centrodestra, ma non sono sicuro che voglia essere portata dove vuole Salvini».Infatti Berlusconi è in coalizione con Meloni e Salvini, ma confida in Renzi. «Sì, perché il sogno di entrambi è di essere autosufficienti nella relazione comune. Solo che, se lo dichiarassero, perderebbero voti. Da qui l’ostinazione sfacciata con cui respingono a parole ogni tipo di accordo post-voto». Quale potrebbe essere l’auspicio di Mattarella? «Quello di una situazione parlamentare che possa consentirgli di fare un governo con tutti, ma con un premier di sua assoluta fiducia», immagina Caldarola. L’uomo abbastanza “mattarelliano” da guidare il prossimo “governo di scopo” potrebbe essere «uno della vecchia guardia, come Giuliano Amato», o magari lo stesso Gentiloni, nel caso il partito di Renzi non finisse demolito dal voto. «Certo, se il Pd fosse sconfitto, Gentiloni avrebbe un handicap politico non da poco». In ogni caso, sarebbe un esecutivo di corto respiro. «Non credo a un governo di lunga durata nemmeno nell’ipotesi di una vittoria della coalizione di centrodestra: sorgerebbero conflitti tali da portarlo subito alla crisi». Nemmeno un “Renzusconi” durerebbe oltre i 12 mesi. In altre parole: nessuna delle opzioni elettorali sul tavolo è in grado dare all’Italia le risposte strategiche di cui il paese, vessato dall’austerity europea, ha un disperato bisogno.Un “governo di scopo”, della durata di sei mesi o al massimo un anno, dopo che le elezioni avranno “asfaltato” Renzi, mettendo fine alla faida con gli ex-Pd. Esecutivo presieduto da Luigi Di Maio? Perfettamente possibile, secondo uno storico esponente della sinistra moderata italiana, Peppino Caldarola, già direttore de “L’Unità”. «A differenza di Napolitano, Mattarella non farebbe una battaglia frontale contro i 5 Stelle. E’ un presidente molto politico, ma non interventista sulla realtà; da buon democristiano, preferisce l’inclusione allo scontro». Includere, ovvero: «Ricondurre al buon senso politico un leader giovane, così antisistema da essere già incravattato e pronto per l’incarico. Una strategia che potrebbe indurre anche altre forze a dare l’appoggio». E’ un’ipotesi da day-after, che Caldarola disegna per “Il Sussidiario”. Renzi? Non farà nessun “passo indietro” se il Pd dovesse perdere: dirlo ora «sarebbe dichiararsi sconfitto prima della partita». Ma stavolta il suo destino sembra segnato: «Se perdesse in modo grave, con un consenso lontano dal 25% e vicino al 20, a quel punto il tema del ritiro glielo porrebbero i suoi amici di partito». Tradotto: «Con il Pd al 20%, persino il più codardo porrebbe il problema della sostituzione».
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Elezioni-farsa in un paese invaso, dal Piano Marshall all’Ue
«Siamo un paese occupato. E in un paese occupato, le elezioni non sono soltanto inutili, sono una farsa». Proprio per questo, infatti, «non c’è un solo partito o sedicente tale che si presenti alle elezioni raccontandovi la verità». Su “Come Don Chisciotte”, Francesco Mazzuoli è esplicito: al netto della propaganda, «le elezioni avvengono in un paese occupato militarmente da più di settanta anni». Le basi militari Usa ufficialmente dislocate in Italia sono 59 e, «secondo gli stessi americani, la condiscendenza del governo italiano nei loro confronti è senza riserve». La cosa non deve destare meraviglia, aggiunge Mazzoni: «Il servilismo da noi è ereditario». La tesi: prima, il paese (sconfitto, nella Seconda Guerra Mondiale) è stato “comprato” coi miliardi del Piano Marshall, e poi è stato declassato al rango di sub-colonia, nell’Unione Europea “imperiale” e anti-russa, affidata alla Germania. Mazzuoli ricorda che, a guerra non ancora conclusa, nel libro “Lettere dall’Italia perduta” (Sellerio) lo storico Gioacchino Volpe «scriveva amaramente alla moglie che l’Italia si avviava a diventare un paese irrilevante, una grande Grecia». Volpe sognava un futuro «in cui i giovani si sarebbero ribellati al loro destino di bagnini». Per Mazzuoli «parole profetiche col senno di poi, ma di semplice buon senso per chi non si fosse venduto alla propaganda dei vincitori».Il mito della “liberazione” già imperversava in un paese bombardato, «di straccioni in ginocchio con il piattino dell’elemosina in bocca», scrive Mazzuoli dell’Italia dell’immediato dopoguerra: un paese «indebitato con la carta straccia delle Am-lire, e comprato a saldo stralcio con i soldi del Piano Marshall: come non avere davanti agli occhi lo squallido spettacolo di De Gasperi, ritornato dal viaggio in Usa sventolando il nostro nuovo vessillo, l’assegno con il quale era stata appena comprata la fedeltà italiana?». Basterebbe dare un’occhiata al libro che Cossiga licenziò nei suoi ultimi anni, dal titolo emblematico, “Fotti il potere”, per comprendere che in Italia non si è mai mossa foglia che lo Zio Sam non volesse, «a partire dal condizionamento delle elezioni del 1948, operazione che costituisce uno dei primi grandi successi della Cia, creata soltanto un anno prima». Venne poi il “miracolo italiano”, all’interno della più generale prosperità dell’Europa occidentale: «Benessere – si badi bene – voluto dai padroni americani per disporre di nuovi mercati e allontanare le sirene della propaganda social-comunista». Finita l’onda lunga del consumismo industriale, mentre negli Stati Uniti la componente finanziaria «acquisiva sempre più rilevanza e spingeva per un diverso modello di sfruttamento economico dei paesi occupati», anche attorno all’Italia «cominciò a stringersi il cappio insaponato dell’europeismo».Non fu il parto spontaneo di pacifisti ispirati da alti valori umani di collaborazione tra i popoli: come mostrato dallo storico Joshua Paul, il disegno europeista «altro non è che un progetto americano, teso a tenere sotto il proprio tallone l’Europa occidentale e impedire che una potenza antagonista possa mai ergersi a minacciare la supremazia americana in quest’area geopolitica cruciale». Secondo Mazzuoli, lo dimostra anche lo sforzo prodotto dal cinema: con il famoso film “Vacanze Romane”, «Hollywood riuscì a trasformare una commediola sentimentale in un pretesto per parlare della bontà e necessità della cooperazione tra i popoli europei». La pellicola è degli anni ‘50, e proprio nel 1957 Roma fu scelta come sede dello storico accordo fondativo della Cee. Poi, a fine anni ‘80, il crollo dell’Urss «fornì l’occasione per dare una vertiginosa accelerazione al progetto europeista, con la riunificazione tedesca», inutilmente osteggiata da Andreotti («Amo così tanto la Germania preferisco averne due»). Pietra tombale: il famigerato Trattato di Maastricht «che ci avviava, nel silenzio dei media, verso le nostre magnifiche sorti e regressive».Il progetto, continua Mazzuoli, è stato costruito dagli strateghi americani attorno alla Germania, conferendole «un esorbitante vantaggio al fine di tenerla saldamente legata al carro atlantico e di distoglierla da tentazioni di liaisons con la Russia, esiziali per gli interessi geopolitici a stelle e strisce». In questo quadro, «l’euro nasce appositamente per conferire alla Germania uno straordinario vantaggio economico: ed è per questa ragione che non può essere smantellato». Ecco perché l’appello No-Euro «è soltanto un argomento demagogico per raccogliere consenso». Coincidenze? Avvicinandosi alle elezioni, l’uscita dalla moneta unica è «sparita magicamente, e all’unisono, da tutti i programmi partitici». Salvini? Ha dichiarato che «la Nato non si discute». Di Maio? E’ volato a Washington «a giurare fedeltà al padrone». Dopo anni di propaganda, convegni e pubblicazioni come il libriccino “Basta euro”, «al momento di fare sul serio e di proporsi come potenziale forza di governo, la Lega ci presenta come soluzione alla morte del paese, l’emissione dei “mini bot”, perché – udite – non violano i trattati. Ci rendiamo conto di quale dichiarazione di sudditanza, di impotenza, di servilismo e di mancanza di coraggio è contenuta in questa proposta da piattino in bocca?».Nessuno di questi “statisti” che oggi chiedono il voto degli italiani oserà mai svelare come stanno davvero le cose: «C’è infatti una tragica verità, che nessun politico vi dirà mai». Ovvero: «L’unificazione europea prevede il sacrificio dell’Italia, la colonia più servile, la più indifesa, per motivi storici e antropologici», scrive Mazzuoli. «Chi si opponeva a questo progetto di marginalizzazione del paese (Moro, Craxi, parte della Dc) è stato eliminato con Tangentopoli e il paese è stato immolato agli interessi americani e dei loro alleati privilegiati», cioè «in primis la Germania e subito dopo la Francia». Finti alleati, che il nostro paese «lo divorano a brani, grazie allo zelante collaborazionismo della nostra classe dirigente, che quando non è venduta è perché non trova acquirenti». Siamo ancora in piedi, conclude Mazzuoli, solo grazie alla ricchezza reale che ci è rimasta. E adesso «attendiamo fiduciosi l’ultima aggressione al succulento boccone del nostro risparmio», che ancora regge il sistema-Italia, «assieme alle pensioni e alle case di proprietà (i soprammobili sono già al Monte dei pegni)». Il Belpaese? «Un territorio». L’Italia «non è mai stata una nazione e non è più nemmeno uno Stato». La minaccia più grave e immediata? «Oltre il 30% di disoccupazione effettiva». Questa è la storia, «il resto è propaganda».«Siamo un paese occupato. E in un paese occupato, le elezioni non sono soltanto inutili, sono una farsa». Proprio per questo, infatti, «non c’è un solo partito o sedicente tale che si presenti alle elezioni raccontandovi la verità». Su “Come Don Chisciotte”, Francesco Mazzuoli è esplicito: al netto della propaganda, «le elezioni avvengono in un paese occupato militarmente da più di settanta anni». Le basi militari Usa ufficialmente dislocate in Italia sono 59 e, «secondo gli stessi americani, la condiscendenza del governo italiano nei loro confronti è senza riserve». La cosa non deve destare meraviglia, aggiunge Mazzoni: «Il servilismo da noi è ereditario». La tesi: prima, il paese (sconfitto, nella Seconda Guerra Mondiale) è stato “comprato” coi miliardi del Piano Marshall, e poi è stato declassato al rango di sub-colonia, nell’Unione Europea “imperiale” e anti-russa, affidata alla Germania. Mazzuoli ricorda che, a guerra non ancora conclusa, nel libro “Lettere dall’Italia perduta” (Sellerio) lo storico Gioacchino Volpe «scriveva amaramente alla moglie che l’Italia si avviava a diventare un paese irrilevante, una grande Grecia». Volpe sognava un futuro «in cui i giovani si sarebbero ribellati al loro destino di bagnini». Per Mazzuoli «parole profetiche col senno di poi, ma di semplice buon senso per chi non si fosse venduto alla propaganda dei vincitori».
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Calise: morti i partiti, solo promesse-bufala e leader zombie
«Il modello è ancora quello della democrazia del leader, ma i leader non ci sono più». Parola di Mauro Calise, politologo e docente universitario a Napoli, nonché editorialista del “Mattino”. «Di Maio non può sostituire Grillo e si regge soltanto sul suo controllo del server, Renzi è in caduta verticale di leadership, Berlusconi è una penosa riedizione di se stesso». Quanto a Salvini, il segretario leghista «sgomita per conquistare nuovo spazio, ma ha ormai esaurito quello disponibile». Di fatto, «di nessuno di loro ci si aspetta che possa diventare sul serio capo del governo». Gli stessi programmi contano poco, «ma questo deriva dal fatto che sono assenti le leadership che hanno fatto da catalizzatore nel passato: penso a Grillo nel 2013, a Renzi prima di andare al governo». Ieri, il leader riusciva a «sfondare nella melassa comunicativa e nell’overflow di informazioni», dice Calise, intervistato da Federico Ferraù per il “Sussidiario”. I partiti oggi sono in tilt: «La capacità di comunicare è sempre più legata a una capacità di leadership forte, ma se questa viene meno, il meccanismo si inceppa e tutto appare piatto». Svaniscono anche i messaggi forti: i programmi, percepiti come poco credibili, non interessano a nessuno.Per Calise, resta solo uno scontro di messaggi finti-forti ma non convincenti: «Le false promesse e le bufale non sono credute, non perché sono tali, ma perché non sono credibili i leader». L’idea di governabilità è stata sconfitta, aggiunge il politologo, e al suo posto non se n’è trovata un’altra. Che cosa vedremo? «Un governo di risulta, appoggiato in buona parte da parlamentari in libera uscita». Intanto si moltiplicano gli appelli al “voto utile”, lanciati da partiti allarmati dall’astensionismo. «Siamo in una fase storica in cui si sono definitivamente destrutturati i grandi partiti», un guaio con risvolti antropologici: agli italiani con basso livello di istruzione e socializzazione «sanno probabilmente tutto di Higuain o di “Amici”, ma poco o nulla di come si vota o della Flat Tax». L’interesse e la passione politica, continua Calise, «non nascono dalla testa dei politici di professione, ma dalle viscere della società». I partiti? «Sono stati i canali che hanno portato le masse nella politica e nello Stato». Attenzione: «La democratizzazione del potere, che non nasce democratico ma verticale e di parte, è avvenuta grazie ai partiti. Ma i tempi sono cambiati e la forza delle fratture sociali che hanno alimentato le battaglie dei partiti si è esaurita. La politica si è liquefatta, e la rappresentanza anche».Che democrazia avremo? Diversa e più fragile. Ma non saremo i soli: «Basta guardarsi intorno per capire che si trema un po’ dappertutto. La Francia si è inventata Macron, che è andato al potere con il 23% dei consensi; oggi forse sono ancora meno, ma nessuno per quattro anni gli toglierà l’Eliseo. La Germania ha la “sfiducia costruttiva”. Noi abbiamo un assetto istituzionale e di governo molto più debole che nelle altre democrazie avanzate». Cosa ci manca? «Un governo che abbia una qualche autonomia costituzionale degna di questo nome», afferma Calise. Un deserto di urla. «Cosa mi preoccupa di più? L’invasivo ricorso all’etica: il grido all’onestà, la caccia allo scontrino, l’epurazione di chi non è conforme», sostiene il politologo. «Quando l’etica diventa un’arma di governo, fa più paura di tutto il resto. Perché l’imperativo etico dell’onestà riscuote tanto consenso? Perché è rimasta la cosa più semplice da dire».«Il modello è ancora quello della democrazia del leader, ma i leader non ci sono più». Parola di Mauro Calise, politologo e docente universitario a Napoli, nonché editorialista del “Mattino”. «Di Maio non può sostituire Grillo e si regge soltanto sul suo controllo del server, Renzi è in caduta verticale di leadership, Berlusconi è una penosa riedizione di se stesso». Quanto a Salvini, il segretario leghista «sgomita per conquistare nuovo spazio, ma ha ormai esaurito quello disponibile». Di fatto, «di nessuno di loro ci si aspetta che possa diventare sul serio capo del governo». Gli stessi programmi contano poco, «ma questo deriva dal fatto che sono assenti le leadership che hanno fatto da catalizzatore nel passato: penso a Grillo nel 2013, a Renzi prima di andare al governo». Ieri, il leader riusciva a «sfondare nella melassa comunicativa e nell’overflow di informazioni», dice Calise, intervistato da Federico Ferraù per il “Sussidiario”. I partiti oggi sono in tilt: «La capacità di comunicare è sempre più legata a una capacità di leadership forte, ma se questa viene meno, il meccanismo si inceppa e tutto appare piatto». Svaniscono anche i messaggi forti: i programmi, percepiti come poco credibili, non interessano a nessuno.
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L’Italia domani: il sovranista Salvini e l’europeista Di Maio
Il Movimento 5 Stelle finirà sopra il 28%? Il Pd chiuderà sotto il 20%? Il centrodestra otterrà la maggioranza assoluta o solo quella relativa? E chi finirà in testa, la Lega o Forza Italia? Difficile fare previsioni, ma alcune tendenze mi sembrano chiare: mentre nel 2013 l’unico partito che riusciva a portare in piazza migliaia di italiani era il Movimento 5 Stelle, oggi a mostrare questa capacità è stata anche la Lega di Salvini, che in queste settimane ha tenuto comizi affollatissimi dappertutto. La folla in piazza Duomo a Milano dimostra che Salvini gode di un consenso senza precedenti: nessun partito storico oggi può vantare questa capacità di mobilitazione, sostiene Marcello Foa sul “Giornale”. Il Movimento 5 Stelle? E’ in piena metamorfosi: dai “vaffa” di Grillo agli abiti grigi di Di Maio, «da movimento di rottura a partito che vuole accreditarsi con le istituzioni italiane, europee e persino con gli un tempo disprezzati banchieri di Londra». La retorica della protesta contro la casta è la stessa, ma la realtà dei programmi e delle finalità è un’altra: «Verosimilmente la maggior parte degli attivisti non si è resa conto dell’evoluzione; gli ultimi scandali non hanno scalfito l’immagine del movimento e questo dimostra che la loro fede è salda e impermeabile a tutto. I 5 Stelle sono in corsa grazie alla fiducia dei “vecchi” simpatizzanti, domani lo saranno soprattutto grazie a quella dei nuovi sostenitori di area progressista».Allungando lo sguardo, secondo Foa, non è difficile immaginare un’Italia “post Forza Italia” e “post Pd”. «Diciamolo: Forza Italia al 15-17% rappresenta un successo inspettato ma di brevissimo periodo, perché il partito si regge sul richiamo del leader storico, che, però, ha 81 anni, e dietro di lui c’è il vuoto. Come vuoto è anche il futuro del Pd: le devastazioni di Renzi lasceranno tracce profonde e il Partito democratico rischia di fare la (brutta) fine di tutti i socialisti europei, ridotto a una forza di circostanza, complementare», scrive Foa. Renzi sostituito dal Movimento 5 Stelle in versione “macroniana”? «Sopresi? Non dovreste. Leggendo in controluce le mosse di Di Maio, è evidente come egli punti, dissimulando abilmente le intenzioni, a un partito sempre meno populista e sempre più progressista e trasversale, inevitabilmente gradito all’establishment. Molto diverso da quello delle origini (e forse per questo Beppe Grillo si è allontanato) ma altrettanto forte elettoralmente, perché capace di intercettare il pubblico disilluso della sinistra moderata». Altrettanto chiaro il disegno di Salvini, «che evolve verso un partito sovranista e davvero nazionale, autorevole, teso ad occupare tutto il centrodestra e dunque ad assorbire gran parte del pubblico di Forza Italia post-Berlusconi. Un’altra svolta storica a cui nessuno, pochi anni fa, avrebbe creduto».Secondo Foa si profila insomma «un’altra Italia, polarizzata non più fra Forza Italia e Pd, ma tra la Lega e il Movimento 5 Stelle, dunque fra una nuova destra sovranista moderata e una nuova sorprendente sinistra europeista». Con buona pace di Berlusconi e di Renzi, «ma anche di chi crede ancora nella vecchia Lega Nord e in un movimento che fino a ieri era davvero grillino e ora è un’altra cosa». Certo, Foa sa benissimo che «da qualche anno le elezioni si decidono allo sprint finale, nell’ultima settimana, confidando negli umori del cosiddetto “elettore liquido”, ovvero quella parte dell’elettorato che è decisa ad andare alle urne ma non è motivata da convinzioni profonde». Molti comunque ormai hanno deciso: «E’ significativo che i sondaggi da settimane registrino oscillazioni minime». In ogni caso, «saranno proprio gli elettori “liquidi” a determinare le grandi svolte di queste elezioni». Un elettorato distratto, che vota «in maniera istintiva e subliminale», convinto «dalla personalità del leader politico, più che dalle sue idee». In fondo, però, Foa scommette su uno scenario basato su attori e ruoli nuovi, o comunque aggiornati: il sovranismo di Salvini, ostile all’attuale gestione Ue, e il moderatismo “politicamente corretto” di Di Maio, in linea con Bruxelles e con l’establishment, adatto ad assorbire gradualmente i delusi del centrosinistra.Il Movimento 5 Stelle finirà sopra il 28%? Il Pd chiuderà sotto il 20%? Il centrodestra otterrà la maggioranza assoluta o solo quella relativa? E chi finirà in testa, la Lega o Forza Italia? «Difficile fare previsioni, ma alcune tendenze mi sembrano chiare: mentre nel 2013 l’unico partito che riusciva a portare in piazza migliaia di italiani era il Movimento 5 Stelle, oggi a mostrare questa capacità è stata anche la Lega di Salvini, che in queste settimane ha tenuto comizi affollatissimi dappertutto». La folla in piazza Duomo a Milano dimostra che Salvini gode di un consenso senza precedenti: nessun partito storico oggi può vantare questa capacità di mobilitazione, sostiene Marcello Foa sul “Giornale”. Il Movimento 5 Stelle? E’ in piena metamorfosi: dai “vaffa” di Grillo agli abiti grigi di Di Maio, «da movimento di rottura a partito che vuole accreditarsi con le istituzioni italiane, europee e persino con gli un tempo disprezzati banchieri di Londra». La retorica della protesta contro la casta è la stessa, ma la realtà dei programmi e delle finalità è un’altra: «Verosimilmente la maggior parte degli attivisti non si è resa conto dell’evoluzione; gli ultimi scandali non hanno scalfito l’immagine del movimento e questo dimostra che la loro fede è salda e impermeabile a tutto. I 5 Stelle sono in corsa grazie alla fiducia dei “vecchi” simpatizzanti, domani lo saranno soprattutto grazie a quella dei nuovi sostenitori di area progressista».
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Il vero guaio dei 5 Stelle? Il programma: sciatto e destrorso
«Io non mi fido di me stesso. Non ho mai fatto nessuna scorrettezza nelle rare occasioni in cui ho gestito briciole infinitesimali di denaro dello Stato (questo posso dirlo con serenità). Ma come mi comporterei di fronte a una tangente di decine di milioni? Spero che saprei resistere, ma come posso saperlo di sicuro?». La sincerità, innanzitutto: perché presentarsi come i “superman dell’onestà”, per poi rischiare la figuraccia di fronte allo scivolone della prima mela marcia? Da Aldo Giannuli, un consiglio ai 5 Stelle: meno ciance su aspetti davvero irrilevanti della politica, e più impegno sulla sostanza. Ovvero: il programma, «sciatto e destrorso» e le liste «da incubo». Una sonora lezione, quella dello scandalo dei mancati versamenti, che in realtà non sono un reato: nessuna appropriazione indebita di denaro pubblico. Certo, «c’è l’aspetto sgradevolissimo del bonifico poi revocato, fatto solo per esibire la fotocopia, che denota un animus incline alla frode». Un sotterfugio, che però tradisce solo «una regola interna al movimento, non una legge dello Stato». Che poi la stragrande maggioranza dei grillini siano stati ai patti, ai giornali non interessa: «Quel che conta è poter dire che sono tutti uguali: perché, se tutti sono colpevoli, nessuno è colpevole. “Così fan tutti”. Il che è come mettere sullo stesso piano un ragazzino che ha falsificato la firma del padre su una giustificazione e quello che ha fatto una rapina in banca con il mitra».E a proposito di banche: «Il Pd non penserà di risolvere tutto scaricando su Bankitalia e Consob, vero? Certo è che se i guai giudiziari dei renziani fossero come la questione dei rimborsi dei 5 Stelle, si bacerebbero i gomiti», scrive Giannuli nel suo bog. « Ma questo ceffone in pieno viso, i pentastellati se lo meritano e può fargli bene: così magari imparano che fare la giusta battaglia per l’onestà nella gestione del denaro pubblico non significa fare questa grottesca esibizione di onestà per cui “noi siamo i più onesti del reame e gli altri sono tutti merde”. Anche perché, sin qui non hanno avuto occasione di governare e non sappiamo come si comporterebbero». Non ci indurre in tentazione, recita la preghiera: «La melma della corruzione non si risolve promuovendo un ceto politico sedicente più onesto, ma evitando che si formino troppe tentazioni». E questo «lo si fa con i controlli preventivi». I 5 Stelle? «Hanno mostrato di essere inadeguati: hanno gonfiato i petti in una grottesca esibizione di onestà, di spirito francescano, di eroico senso del sacrificio, ma non hanno proposto niente di efficace nel contrasto alla corruzione». Un appello diretto: «Cari amici, non è necessario che siate perfetti, ci basta che siate umani e mediamente corretti, che di questi tempi è già molto».Qualcuno li ha voluti colpire, alla vigilia delle elezioni: ovvio. «Però, cari amici, ve la siete andata a cercare», scrive Giannuli. «I controlli che Di Maio va facendo ora andavano fatti a suo tempo e, al massimo, un mese prima di fare le liste. E’ da imbecilli matricolati non aspettarsi che gli altri stiano con il fucile spianato per beccarti». Per fortuna, aggiunge il politologo, «la gente ha una sua intelligenza e non credo che questa vicenda peserà più di tanto sul risultato elettorale». Non è questo irritante episodio che danneggerà granché il M5S, quanto «altre cose più serie come il programma sciatto e destrorso, le liste da incubo che hanno fatto dopo aver promesso il “controllo di qualità” (e meno male che hanno fatto questo controllo, perché sennò ci trovavamo Messina Denaro in lista!)». E poi, aggiunge Giannuli, c’è da capire «che impatto avrà la freddezza di Grillo, la rinuncia di Di Battista, il mutamento del simbolo, la pessima e illegittima riforma statutaria, la scissione di Borrelli e le critiche di Colomban». Si vedrà il 5 marzo. «Per ora, il M5S ha il problema di “uscire vivo” da questa campagna elettorale (cioè non scendere sotto il 25%)». Poi, dopo le elezioni, «occorrerà aprire una profonda riflessione su tutto: leadership, modello organizzativo, linea politica, stile di lavoro».«Io non mi fido di me stesso. Non ho mai fatto nessuna scorrettezza nelle rare occasioni in cui ho gestito briciole infinitesimali di denaro dello Stato (questo posso dirlo con serenità). Ma come mi comporterei di fronte a una tangente di decine di milioni? Spero che saprei resistere, ma come posso saperlo di sicuro?». La sincerità, innanzitutto: perché presentarsi come i “superman dell’onestà”, per poi rischiare la figuraccia di fronte allo scivolone della prima mela marcia? Da Aldo Giannuli, un consiglio ai 5 Stelle: meno ciance su aspetti davvero irrilevanti della politica, e più impegno sulla sostanza. Ovvero: il programma, «sciatto e destrorso» e le liste «da incubo». Una sonora lezione, quella dello scandalo dei mancati versamenti, che in realtà non sono un reato: nessuna appropriazione indebita di denaro pubblico. Certo, «c’è l’aspetto sgradevolissimo del bonifico poi revocato, fatto solo per esibire la fotocopia, che denota un animus incline alla frode». Un sotterfugio, che però tradisce solo «una regola interna al movimento, non una legge dello Stato». Che poi la stragrande maggioranza dei grillini siano stati ai patti, ai giornali non interessa: «Quel che conta è poter dire che sono tutti uguali: perché, se tutti sono colpevoli, nessuno è colpevole. “Così fan tutti”. Il che è come mettere sullo stesso piano un ragazzino che ha falsificato la firma del padre su una giustificazione e quello che ha fatto una rapina in banca con il mitra».
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Di Maio, Ciocca e la decrescita infelice dell’Italia in svendita
Nonostante ben 5 anni di esperienza nelle istituzioni e di evidenze empiriche il M5S come proposta “di punta” ha ancora oggi quella sui vitalizi immediatamente “fagocitata” dalla protesta come “Dio Marketing” vuole. Facendo credere al cittadino medio “conti qualcosa”, lo si è portato a inveire contro questioni secondarie ma comprese da tutti e volutamente distratto. E’ stato portato a credere che 70 milioni di euro di vitalizi (quanto potrebbe costare il cartellino di Alex Sandro della Juventus) siano più odiosi delle decine e decine di miliardi che lo Stato annualmente paga a pochi soggetti della finanza internazionale. Una speculazione parassitaria (cioè ottenuta senza dietro un “lavoro”), imposta ai nostri contribuenti mediante leggine da abolire presenti tanto nell’Italia pre moneta unica, quanto in quella post moneta unica; nel secondo contesto la situazione è divenuta critica perché causante perdita di competitività e debito estero. Trasformando quindi la materia “economia” in un reality, il M5S ha potuto compiere un’opera di trasformismo senza precedenti, proponendo per il relativo ministero Pier Luigi Ciocca senza essere praticamente notato. Chi è Ciocca?Per capirlo partiamo dalla Germania: dal dopoguerra in poi i tedeschi hanno percorso una strada di costante “austerity sostenibile”, mantenendo i salari bassi rispetto ai profitti delle imprese (“quota salari”). Invece di alimentare politiche di domanda interna spesso poco etiche (e di aumento dei prezzi), i teutonici hanno conquistato fette di mercato estero incamerando ricchezza: in tal modo si sono ritrovati un salario reale molto più alto senza deprezzare o svalutare la propria moneta. L’Italia, tuttavia, riusciva ad essere altamente competitiva grazie ai cambi flessibili e ad una struttura produttiva in parte differente. Quando l’Italia sull’onda emotiva di Mani Pulite (…) chiese di far parte della moneta unica,la Germania, che per 50 anni era stata “austera”, chiese al nostro paese di pagare un dazio di altrettanta “sobrietà” immediatamente: competizione al ribasso dei diritti e dei salari mediante alta disoccupazione (ed ingresso di manodopera a basso costo dall’Africa), taglio dei servizi anche essenziali, totale separazione della moneta rispetto all’economia, distruzione delle economie locali. Per ottenere tale risultato serviva come “precursone” un valore di ingresso (nell’euro) marco/lira che non rispecchiasse il reale rapporto di forza tra le due economie (1 marco = 1.200 lire circa) ma ipervalutasse la nostra valuta (mettendo così in difficolta la nostra bilancia commerciale, prodromo di tutte le crisi economiche, con tutti i sacrifici annessi).Ad accordarsi per un valore di 1 marco = 990 lire furono proprio Prodi, Ciampi, Draghi e… Ciocca! Per legittimare questo rapporto “drogato”, nei mesi precedenti la decisione, ci avevano pensato i mercati finanziari “drogando” il rapporto cioè vendendo appositamente marchi e comprando lire. Una volta compreso il contributo storico di Ciocca per il proprio paese, quello che va rimarcato è che il M5S è riuscito a proporre un simile prospetto senza essere notato dall’opinione pubblica. Per fare un esempio eloquente, se i pentastellati avessero cercato un ex di Forza Italia per quel ministero (senza responsabilità sulla crisi rispetto ai summenzionati) ci sarebbero state le barricate. Secondo la stessa logica tocca sentire un Prodi (cui affidammo il futuro dei nostri figli e nipoti) dichiarare «abbiamo svalutato la lira sul marco del 600% rispetto a quando ero uno studente universitario», confondendo moneta ed economia sempre profittando della totale ignoranza (in materia) del cittadino medio. In questo contesto quindi ha buon gioco chi riesce a far passare inosservate, insieme a figure come Ciocca, le pericolose carenze di un programma economico confusionario ed impraticabile.Alcuni media hanno espresso preoccupazione per l’estrema fragilità interna del M5S, una fragilità che, secondo loro, si andrebbe a ripercuotere sul paese una volta al governo; altri hanno ravvisato nella ricetta M5S numerosi copia incolla eseguiti da programmi di altre forze politiche e da Wikipedia (inquietanti indizi di incompetenza) ma nessuno si è cimentato nell’analisi della proposta economica. A prima vista parrebbe che a dettare la linea economica sia sempre Beppe Grillo visto il suo “innamoramento” per il default, eppure non credo che stiano così le cose: inizialmente fu la “decrescita felice”, una teoria rudimentale, di pochi capitoletti, che durante la stagnazione ci costerebbe il default; successivamente fu il turno del default stesso, auspicato da Grillo; poi fu la volta del referendum sull’euro che avrebbe portato sempre al fallimento; adesso è il turno di questa proposta che favorirebbe una speculazione internazionale senza precedenti con “scenari greci” (cioè il dimezzamento dei livelli pensionistici) o addirittura “argentini”, cioè il… default! Come noto, se si escludono le persone che hanno conti all’estero, il default comporta l’immediata evaporazione di tutti i risparmi degli italiani: una crisi debitoria in Italia a qualche soggetto estero conviene sempre…Per uscire dalle recessioni, secondo l’approccio keynesiano, è opportuno “fare deficit” per incrementare la domanda aggregata (acquisto di beni e servizi da parte dei cittadini) dando lavoro, infrastrutture, detassando, ecc. In questo modo tornano a circolare danari, l’economia riparte, i contribuenti aumentano di numero e con essi le entrate dello Stato che vanno a ripianare non solo il nuovo deficit ma anche a ridurre lo stock debitorio. In altre parole si va ad incidere sul denominatore del rapporto debito/Pil incrementandolo, e non sul numeratore (cercare di ridurlo significa fare austerità). Purtroppo l’economia non è una materia da affrontare in modo virtuale bensì chirurgico, considerando in primo luogo in che contesto ci si muove: al minimo errore si rischia una macelleria sociale senza precedenti. Su un piano strettamente economico, nell’ambito dell’Eurozona, se espandiamo la domanda aggregata ed i partner europei non fanno altrettanto, la conseguenza è il peggioramento dei conti verso l’estero e della bilancia commerciale, a causa dell’impennata dell’import rispetto all’export con probabile crisi debitoria (di tipo economico).Il candidato premier pentastellato pare quindi mettere il carro davanti ai buoi visto che i principali partner europei optano senza titubanze verso dinamiche ultra-competitivie e marcatamente mercantiliste. Di Maio, insistendo sullo sforamento del parametro del 3%, denota che a sfuggirgli è pure un importante dettaglio: “fare deficit” non significa erogare beni e servizi aggiuntivi rimanendo scoperti, ma vuol dire ottenere un prestito da un investitore (sotto forma di Bot, Btp, ecc) per poterli pagare. Successivamente lo Stato, per evitare il fallimento, è obbligato a saldare il debito col creditore quando egli chieda indietro i soldi o alla scadenza prestabilita del prestito con interessi annessi. Se uno Stato paventa la violazione di regole comunitarie, perde credibilità e diviene costosissimo per esso ottenere finanziamenti, visto che una simile prospettiva può comportare dinamiche punitive da parte di numerosi soggetti finanziari (compresi gli Stati creditori). Di Maio è corso ai ripari evidenziando come anche Francia e Spagna in passato abbiano disatteso il 3% ma non ha tenuto conto del fatto che questi Stati possiedono un debito pubblico minore del nostro. Poco importa ai partner dell’Eurozona che il concetto di debito pubblico sia emotivamente enfatizzato e confuso con il debito estero.Un altro punto estremamente critico del candidato premier è dare per scontato che i propri interventi siano “ad altissimo moltiplicatore” e che in brevissimo tempo comportino una crescita del Pil tale da ottenere maggiori entrate fiscali (utili ad onorare le scadenze con vecchi e nuovi creditori e quindi ad evitare il default). Al netto del fatto che le dinamiche di questo tipo sono estremamente imprevedibili, il moltiplicatore si esprime in tutta la sua forza quando il danaro “gira”, cioè quando proviene da capitali fino ad allora giacenti e finisce nelle tasche di chi consuma fino all’ultimo euro di stipendio per poter vivere. Se va ad accumularsi nei forzieri delle multinazionali che stanno dietro larga parte della Green Economy, della Virtual Economy e delle infrastrutture, l’effetto è contrario (al netto del fatto che se sono capitali esteri la moneta “emigra” peggiorando ancor più lo stato delle cose). In altre parole, è lecito attendersi che i licenziamenti presenti nel piano Cottarelli e gli investimenti nei settori auspicati da Di Maio e dal suo staff economico, comportino una riduzione degli effetti del moltilicatore nel breve/medio periodo (e con essa una riduzione dei livelli occupazionali, proprio secondo Keynes!), una contrazione del Pil, minori entrate e tagli ai servizi e alle infrastrutture che nelle intenzioni si vorrebbero potenziare.Per quanto eticamente auspicabile, la “moralizzazione” della spesa pubblica nel breve può comportare al massimo un incremento della soddisfazione dei cittadini che, se si rivolgono a un fannullone, non ottengono un servizio pronto e decente. Solo nel medio-lungo periodo una burocrazia efficiente, un paese sicuro e ricco di infrastrutture possono attrarre investimenti sensibili ma finché ciò non avviene, di effetti moltiplicatori “nemmeno l’ombra”, quindi non si hanno maggiori entrate mentre i creditori, aumentati di numero, pretendono subito il pagamento delle scadenze pena il fallimento dello Stato e questo contesto innesca fenomeni speculativi. Non saper “moltiplicare” l’economia e prospettare la violazione di norme comunitarie (perdita di credibilità) è il viatico certo per ritrovarci con il cappio al collo delle scadenze verso i creditori. Quando uno Stato è nell’urgenza di ottenere finanziamenti, i potenziali “prestatori” (detti “investitori” ma anche detti “speculatori”) chiedono interessi sempre più alti (speculazione/spread), il paese sotto attacco finisce per avvitarsi nei debiti e per onorare scadenze sempre più pressanti ed evitare il default è costretto a svendere assets strategici a prezzi di saldo (con ulteriore desertificazione dell’economia), di norma proprio ai soggetti che hanno compiuto questa aggressione. E’ l’azione della tipica “finanza volatile” con sede a Londra che non comporta un incremento dell’economia reale (industrie, lavoro) bensì emorragia di benessere verso l’estero e deflazione salariale. In questo caso la crisi debitoria ha tratti più finanziari che economici e di nuovo il M5S pare incamminato in quella direzione.Di Maio è reduce da incontri con non ben definiti “investitori” a porte chiuse quando in gioco c’è l’interesse nazionale: perché questo gap in termini di trasparenza proprio quando la posta in gioco è così alta? Ricordo che nel 1992 il governo italiano optò per l’uscita dallo Sme e consapevole che la grande svalutazione che ne sarebbe seguita avrebbe comportato un pari sconto sui “gioielli di Stato”, sul panfilo Britannia, si accordò con soggetti esteri per la svendita degli stessi. A completare un quadro di estrema incertezza la salita agli onori della cronaca di Fioramonti come responsabile della politica economica pentastellata, per i legami (da lui smentiti) con lo speculatore internazionale Soros, con i Rockefeller, i Rothschild ed Anspen Institute. Egli insegna economia in Sud Africa ma è laureato in scienze politiche (quindi non è un economista) ed è un teorico della della “decrescita felice”. Superfluo rimarcare come tale teoria non scopra niente (è lapalissiano che gli sprechi vadano ridotti e che il Pil non sia un indice della felicità ma economico) ma viene percepita da creditori e partner europei (che spesso coincidono) come indizio di approssimazione e come indice di un potenziale disimpegno sul lato dei conti pubblici da parte degli “italiani”. Insomma, più che del “Moltiplicatore di Di Maio” e di un clima alla Mani Pulite 2.0 (utile a difendere la Religione della Moneta Unica) questo paese necessita di maggiore lealtà nei confronti di chi non “mastica” economia: volendo esprimere un giudizio nazional-popolare, si dichiari chiaramente che dal punto di vista della “crisi” il problema del nostro paese non sono tanto i “corrotti”, che evidenze scientifiche mostrano pesare tra un 5% e un 10% alla voce “debito”, ma i “venduti” (a soggetti esteri) che hanno approvato una Maastricht irriformabile.(Marco Giannini, “Di Maio e la decrescita (infelice) dell’Italia in svendita”, riflessione pubblicata su “Libreidee” il 27 febbraio 2018).Nonostante ben 5 anni di esperienza nelle istituzioni e di evidenze empiriche il M5S come proposta “di punta” ha ancora oggi quella sui vitalizi immediatamente “fagocitata” dalla protesta come “Dio Marketing” vuole. Facendo credere al cittadino medio “conti qualcosa”, lo si è portato a inveire contro questioni secondarie ma comprese da tutti e volutamente distratto. E’ stato portato a credere che 70 milioni di euro di vitalizi (quanto potrebbe costare il cartellino di Alex Sandro della Juventus) siano più odiosi delle decine e decine di miliardi che lo Stato annualmente paga a pochi soggetti della finanza internazionale. Una speculazione parassitaria (cioè ottenuta senza dietro un “lavoro”), imposta ai nostri contribuenti mediante leggine da abolire presenti tanto nell’Italia pre moneta unica, quanto in quella post moneta unica; nel secondo contesto la situazione è divenuta critica perché causante perdita di competitività e debito estero. Trasformando quindi la materia “economia” in un reality, il M5S ha potuto compiere un’opera di trasformismo senza precedenti, proponendo per il relativo ministero Pier Luigi Ciocca senza essere praticamente notato. Chi è Ciocca?
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Scie chimiche: “A Malpensa tutti lo sanno ma nessuno parla”
Aerei fantasma che spengono il Transponder e spariscono dai radar passivi delle torri di controllo. Voli civili che di colpo, varcato lo spazio aereo italiano, vengono configurati come voli militari. E ancora: velivoli che da qualche anno vengono caricati in modo anomalo, con i bagagli non più nelle stive di coda. Ma soprattutto: aerei che, una volta a terra, perdono liquidi strani, da misteriosi tubicini, appena il loro contenuto si scongela. Scie chimiche? Ebbene sì. Ne parla, in una clamorosa video-denuncia, un operatore aeroportuale di Milano-Malpensa. Si chiama Enrico Gianini, e sa che le sue dichiarazioni potrebbero costargli il posto di lavoro. E’ addetto al carico e scarico dei bagagli sugli aerei di linea. Si è convinto che i jet emettano scie chimiche, probabilmente miscelando acqua “addizionata” con cristalli minerali. Accusa: tutti sanno, a Malpensa. «Piloti, controllori di volo, meccanici. Persino la polizia aeroportuale». Tutti sanno, ma nessuno parla. Dice: ci sono di mezzo i servizi segreti, si rischia grosso. Premette: «Voglio fare un appunto a chi vedrà questo video e vorrà portarmi in tribunale. Noi lavoriamo 8 ore al giorno sotto quegli aerei. Siamo immersi in un bagno chimico, non sappiamo neanche di che cosa si tratta». Avverte: «Se qualcuno viene fuori con qualsiasi minaccia giuridica, io vi metterò in condizioni di dover spiegare, a tutti gli aeroportuali e al popolo italiano, come mai i vostri aerei sversano sostanze chimiche sul piazzale senza permesso. Non mi interessa il cielo: basta solo il piazzale».