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Galloni: agenzia di rating italiana, e salta il ricatto-spread
Il ministro Giovanni Tria bene ha fatto a tirare dritto, nonostante le critiche sul Def di Europa, Bankitalia e Fmi. Anche perché, se il governo abbassasse il tiro, si indebolirebbe da ogni punto di vista. A Roma diciamo: chi si fa pecora, il lupo se la magna. Bisogna partire dal principio. Questo governo nasce, anche per merito del presidente della Repubblica, con un compromesso: non si può continuare con le vecchie politiche economiche, ma non si può arrivare all’uscita dall’euro. Questo è il solco: si resta in Europa e nell’euro, ma considerando quella che è la situazione italiana. Noi abbiamo enormi ricchezze non valorizzate: archeologiche, artistiche, lavorative, tecnologiche. E di contro, abbiamo 10 milioni di poveri assoluti, 20 milioni di poveri relativi, 4 milioni di imprese alla canna del gas, 3 milioni di disoccupati ufficiali. Bruxelles ci chiede di continuare con le politiche che hanno creato questa situazione. Noi cosa dovremmo fare? In queste condizioni non è che si può stare a pensare agli zero virgola. Se Bruxelles si scatena perché finora l’Italia non aveva mai alzato la testa, è un problema di Bruxelles.L’Italia fa bene a tirar dritto e a continuare sul solco di quel compromesso di cui dicevamo. Anche se, paradossalmente, con più coraggio, con una manovra ancora più espansiva, si avrebbe un effetto sul Pil più marcato e quindi un’effettiva riduzione del debito. Avremmo anche una movimentazione pesante di centinaia di migliaia di posizioni lavorative aggiuntive. Ma per fare questo bisogna risolvere due questioni. Oltre all’Europa c’è il prolema dei mercati. Bisogna fare in modo che le nostre banche non siano spiazzate da un cattivo rating. Il vero problema non è lo spread, ma il rating. Se ci abbassassero ancora di rating, potrebbe accadere che le stesse banche non abbiano alcun interesse a mantenere titoli italiani o non lo possano addirittura fare. Una soluzione? Dobbiamo immediatamente attrezzarci con un’agenzia di rating nostra e con un accordo con le grandi banche. Se non si fanno queste due cose è come voler andare ad affrontare i carri armati a mani nude o con le fionde. Ci vogliono invece i bazooka. Il governo deve immediatamente pensare a predisporre delle difese preventive affinché lo spread non influisca troppo sui tassi d’interesse delle nuove emissioni.Dunque, un’agenzia di rating italiana. Poi, se ci accordiamo con altri grandi paesi è ancora meglio. L’importante sono i criteri: questa agenzia dev’essere fatta da professionisti seri, non quelli che fanno parte delle agenzie statunitensi, che consigliavano ai loro clienti dieci minuti prima del crollo dei titoli di acquistarli, come capitato con Lehman Brothers. Servono professionisti bravi che spieghino in base a cosa danno il rating. Da quando esiste la macroeconomia, il rating di un paese dipende dalle sue capacità di esportare e di sostituire importazioni. In pratica, dipende dalla capacità di avere una bilancia commerciale sostenibile. Siccome l’Italia da questo punto di vista sta andando bene, stiamo esportando: siamo la terza potenza mondiale, in quanto a diversificazione merceologica dell’export. E inoltre stiamo sostituendo moltissime importazioni. Non vedo perché dobbiamo avere dei fondamentali negativi. Dovremmo avere anche noi le tre “A”.(Nino Galloni, dichiarazioni rilasciate a Carmine Gazzanni per l’intervista “Un’agenzia italiana di rating per far saltare il ricatto dello spread. L’Italia tiri dritto, basta pensare allo zero virgola”, pubblicata da “La Notizia” l’11 ottobre 2018. Insigne economista post-keynesiano e presidente del Centro Studi Monetari, Galloni è vicepresidente del Movimento Roosevelt).Il ministro Giovanni Tria bene ha fatto a tirare dritto, nonostante le critiche sul Def di Europa, Bankitalia e Fmi. Anche perché, se il governo abbassasse il tiro, si indebolirebbe da ogni punto di vista. A Roma diciamo: chi si fa pecora, il lupo se la magna. Bisogna partire dal principio. Questo governo nasce, anche per merito del presidente della Repubblica, con un compromesso: non si può continuare con le vecchie politiche economiche, ma non si può arrivare all’uscita dall’euro. Questo è il solco: si resta in Europa e nell’euro, ma considerando quella che è la situazione italiana. Noi abbiamo enormi ricchezze non valorizzate: archeologiche, artistiche, lavorative, tecnologiche. E di contro, abbiamo 10 milioni di poveri assoluti, 20 milioni di poveri relativi, 4 milioni di imprese alla canna del gas, 3 milioni di disoccupati ufficiali. Bruxelles ci chiede di continuare con le politiche che hanno creato questa situazione. Noi cosa dovremmo fare? In queste condizioni non è che si può stare a pensare agli zero virgola. Se Bruxelles si scatena perché finora l’Italia non aveva mai alzato la testa, è un problema di Bruxelles.
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Ci servono veri statisti, per abbattere il Muro di Bruxelles
Ma davvero tra sei mesi quest’Europa non ci sarà più, come hanno detto sia Di Maio che Salvini? Se è vera la previsione o la profezia dei due vice-premier, uniti contro il Nemico comune europeo, il 2019 accadrà qualcosa di simile al 1989: trent’anni fa cadde il Muro di Berlino, e poi crollò il comunismo. Trent’anni dopo cadrà il Muro di Bruxelles che separa i popoli dall’Europa, il potere dai cittadini, e cadrà l’eurarchia con tutti gli eurocrati. La spallata decisiva, pensano entrambi, sarà il voto di primavera sul Parlamento Europeo che ridisegnerà radicalmente i rapporti di forza e di rappresentanza. L’onda sovranista e populista è in effetti crescente in tutta Europa e sicuramente scombussolerà il Parlamento Europeo e i suoi gruppi prevalenti, socialisti, popolari e liberali. Ma avrà un impatto tale da scardinare la Commissione Europea, da conquistare la maggioranza assoluta dei seggi – o trovare alleati per farlo – e incidere poi sugli organismi sovranazionali non direttamente emanati dal Parlamento Europeo? Poi la Banca centrale europea, la Troika, e a cascata Il Fondo Monetario, le agenzie di rating, Davos…Il dubbio ci sembra più che legittimo, al di là dei desideri o delle speranze di ciascuno. La forza populista, grosso modo, potrà conquistare in Europa fino a un terzo degli elettori votanti, oltre il buco nero dell’astensionimo. Basterà una forza del genere per liquidare definitivamente l’attuale establishment europeo? E si tratterà poi di forze realmente componibili, omogenee, in grado di allearsi? L’ipotesi più probabile, invece, è che per evitare la paralisi, globalisti e sovranisti dovranno arrivare a un compromesso, a una pace armata, cioè a un armistizio, o dividersi ambiti e territori. Dal punto di vista dei grillini sarei particolarmente cauto con le profezie di vittoria e di sventura, anche perché se Salvini ha sponde reali in Francia, nel nord Europa e nell’est europeo, dovute a consonanze tematiche, a partire dall’Europa delle nazioni e dal tema dei migranti – oltre che in Russia e negli Stati Uniti – non altrettanto può dirsi del Movimento 5 stelle che resta un fenomeno italiano. E’ più facile pensare a un’alleanza delle forze sovraniste, nazionalpopuliste, piuttosto che a un’alleanza populista-radicale di tipo grillino.Dal punto di vista politico, gli avversari dei populisti sono tutti azzoppati e governano nei loro paesi in alleanze precarie, eterogenee di centro-destra-sinistra, guidando forze di minoranza: dalla Germania alla Spagna, dalla Francia a molti altri paesi. La leader politica dell’Eurozona, Angela Merkel, è in vistosa caduta ormai da tempo. E molti movimenti in ascesa, nonostante si definiscano liberali, aderiscano ai popolari o siano perfino alleati di governo con forze dell’establishment, rientrano piuttosto nel filone nazional-conservatore o sovranista-populista. Il centravanti dell’eurarchia oggi è Macron, che gode di un consenso ultra-minoritario nel suo paese, largamente impopolare in patria e assai inviso in molti paesi europei, a cominciare dall’Italia, per le sue evidenti e sleali contraddizioni: fa l’europeista global ma cura poi gli interessi francesi, predica sull’immigrazione e poi chiude l’accoglienza. L’anno scorso l’Europa intera, e l’intero quadro politico francese – giscardiani, gollisti, socialisti – scese al suo fianco per impedire che vincesse Marine Le Pen. Ha goduto di un sostegno politico, eurocratico e mediatico assoluto. Ciò nonostante la sua credibilità e i suoi consensi sono costantemente in calo, clamorosamente minoritari in Francia. Il contrario di Trump, che è sotto attacco permanente ma registra grandi risultati concreti, soprattutto sul piano economico e occupazionale e mantiene vasto consenso popolare, nonostante il suo stile colorito e discutibile.Il nemico da battere in Europa avrà la faccia di Macron più che di Juncker o di Moscovici. È il prototipo dell’eurocrate. Liberista e progressista, global ma senza rinunciare all’arroganza francese, fabbricato in provetta, figlio di maternità surrogata, adottato dalla famiglia allargata di progressisti, tecnocrati e moderati, testimonial di una Francia politically correct, gay e nera, global e antifascista, Macron è il testimonial di questa Unione pseudoeuropea. Intanto aspettiamoci, in questi mesi ogni colpo basso dall’Europa e dai suoi sicari, interni e internazionali, per far cadere o inguaiare i populisti. Spread e non solo, è una guerra e lorsignori capiscono che qui in Italia si giocano una partita che vale per l’Europa. Ma lo scenario che si apre è inquietante, tra sovranità tramontate e sovranità alternative non ancora sorte o minate. Al declino inglorioso dei vecchi partiti, si unisce il rischio aggiuntivo di un cortocircuito del populismo. Restiamo coi piedi per terra, ancorati alla realtà, e guardiamo dall’altra parte: si può davvero pensare che leader come Di Maio e compagnia possano essere gli statisti alternativi a cui affidare le sorti dell’Europa? Si può seriamente caricare su spalle così piccole e inadeguate una responsabilità così grande, come fondare, ridisegnare e guidare la nuova Europa? Uagliù, nun pazziamo, avrebbe detto Padre Pio.(Marcello Veneziani, “Il Muro di Bruxelles”, da “Il Tempo” del 9 ottobre 2018, articolo ripreso sul blog di Veneziani).Ma davvero tra sei mesi quest’Europa non ci sarà più, come hanno detto sia Di Maio che Salvini? Se è vera la previsione o la profezia dei due vice-premier, uniti contro il Nemico comune europeo, il 2019 accadrà qualcosa di simile al 1989: trent’anni fa cadde il Muro di Berlino, e poi crollò il comunismo. Trent’anni dopo cadrà il Muro di Bruxelles che separa i popoli dall’Europa, il potere dai cittadini, e cadrà l’eurarchia con tutti gli eurocrati. La spallata decisiva, pensano entrambi, sarà il voto di primavera sul Parlamento Europeo che ridisegnerà radicalmente i rapporti di forza e di rappresentanza. L’onda sovranista e populista è in effetti crescente in tutta Europa e sicuramente scombussolerà il Parlamento Europeo e i suoi gruppi prevalenti, socialisti, popolari e liberali. Ma avrà un impatto tale da scardinare la Commissione Europea, da conquistare la maggioranza assoluta dei seggi – o trovare alleati per farlo – e incidere poi sugli organismi sovranazionali non direttamente emanati dal Parlamento Europeo? Poi la Banca centrale europea, la Troika, e a cascata Il Fondo Monetario, le agenzie di rating, Davos…
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Magaldi: New Deal, grande Savona. Ma alzi il deficit al 10%
Ma la sinistra non era quella parte politica che un tempo si batteva per far avere più soldi alle fasce deboli della popolazione? Da che pulpito predicano, oggi, gli smarriti replicanti post-renziani alla Martina, che sparano sul governo gialloverde per il misero 2,4% di deficit inserito nel Def per il 2019? C’è posto per un qualche pensiero politico, nel cervello piatto di costoro? Rischia di ripetersi, Gioele Magaldi, come chiunque provi a demistificare la desolante narrazione del mainstream, di fronte allo strano spettacolo di un governo che ha contro il potere che conta. Non tutto, certo: ma se Jp Morgan non si unisce allo strepito allarmistico dell’establishment euro-italiano (giornali, Quirinale, Bankitalia, Ue e Bce), sostenendo che la manovra gialloverde non è poi da buttare (anche noi stiamo facendo “deficit spending”, conferma Steve Mnuchin, segretario al Tesoro dell’amministrazione Trump) non significa che “l’America” o “la massoneria internazionale finanziaria” giochino nella stessa squadra del governo Conte. Semmai, avverte Magaldi, la sfida – più che mai attuale – è un’altra: spetta a noi, ai cittadini e alla politica, tornare a “mettere in riga” quella finanza neoliberista che ha smesso di servire l’economia facendo solo speculazione a spese di interi paesi, potendo contare in Europa su «potenti supermassoni come Draghi e servizievoli paramassoni come Mattarella».Tutt’altra musica, per fortuna, è stata quella suonata – in Senato – da quel Paolo Savona al quale, per via del veto imposto da Draghi, il presidente della Repubblica ha impedito di rivestire il ruolo di ministro dell’economia. Nonostante ciò, dopo aver lui stesso indicato Giovanni Tria per quel dicastero, Savona (oggi agli affari europei) appare il vero regista della manovra finanziaria gialloverde. Per ben due volte, sottolinea Magaldi (in web-streaming su YouTube con Marco Moiso e poi con Fabio Frabetti di “Border Nights”), Savona ha citato «l’archetipo rooseveltiano del New Deal», nominando sia il presidente americano Franklin Delano Roosevelt che il suo economista di riferimento, il britannico John Maynard Keynes (per inciso, massoni progressisti entrambi). La formula? Espandere la spesa pubblica, a deficit, per creare piena occupazione. Storia: l’America uscì dalla Grande Depressione e divenne la prima superpotenza del pianeta. Un modello tradotto in Europa, successivamente, prima con il Piano Marshall – che cambiò volto al continente, guidandone la resurrezione nel dopoguerra – e poi con il welfare più avanzato al mondo, di fatto “inventato” dal teorico inglese William Beveridge, massone progressista come lo stesso George Marshall.Autore del bestseller “Massoni”, che rivela le trame delle Ur-Lodges neo-aristocratiche che hanno progettato l’attuale globalizzazione, non è per fare il “gioco delle figurine” che Magaldi cita spesso – in modo puntiglioso – l’identità massonica di tanti grandi del Novecento (da Nelson Mandela a Martin Luther King, da Olof Palme a Yitzhak Rabin). Quel che gli preme è denunciare pubblicamente la «ignobile campagna massonofobica strisciante», reiterata oggi dall’inaudita iniziativa di Claudio Fava, che ha imposto ai massoni dell’assemblea regionale siciliana di svelare pubblicamente la loro appartenenza, come se solo gli aderenti alle logge (e non ad altre associazioni) fossero in dovere di rinunciare alla privacy garantita dalla Costituzione. Una volta di più, il presidente del Movimento Roosevelt sottolinea il ruolo avanguardistico svolto dalla massoneria che contribuì ad abbattere l’Ancien Régime “fabbricando” lo Stato democratico e la democrazia fondata sul suffragio universale. Se poi un’altra massoneria (apolide, mercenaria e rinnegata) ha agito in modo reazionario e neo-feudale, il primo a denunciarla, nero su bianco, è stato proprio Magaldi, nel silenzio imbarazzato dei politici italiani – compreso Renzi, «che bussò invano a quella supermassoneria e oggi ripiega su una seconda vita, rassegnandosi al ruolo di conferenziere a gettone».E’ lo stesso Renzi che critica il reddito di cittadinanza dopo aver sparso a pioggia i suoi famosi 80 euro alla vigilia delle elezioni. E’ il Renzi incorreggibile, dice Magaldi, che probabilmente non sarebbe neppure “morto”, al referendum del 2016, se solo avesse inserito – tra i quesiti – anche l’abrogazione del pareggio di bilancio. Un gesto indispensabile, a maggior ragione oggi, nel momento in cui Paolo Savona – da economista e da statista – evoca apertamente il New Deal, cioè il coraggio del “deficit spending” per rimettere in piedi l’economia, tenendo conto che la spesa pubblica fa crescere il Pil, alleggerendo il peso del debito pubblico. Sono i “fondamentali” di Keynes, che nessun Cottarelli è mai riuscito a smentire. Ripartire da quelli, insiste Magaldi, è la via maestra: non solo per restituire dignità all’Italia, anche per estendere la sovranità democratica al resto d’Europa e del mondo, tutelando anche i diritti altrui, onde evitare un replay “sovranista” della Pace di Westfalia del 1648 (che pose fine alla Guerra dei Trent’anni, senza però impegnare minimanente i contraenti a lavorare per il benessere dei sudditi). E in attesa che il Pd esca dal coma, magari riconoscendo come “di sinistra” la politica gialloverde («meglio di niente, il reddito di cittadinanza, per chi non ha ancora un lavoro»), il messaggio per il governo Conte è esplicito: «Perché limitarsi al 2,4% di deficit, quando con più coraggio – per esempio, un 10% di spesa pubblica – l’economia italiana potrebbe volare?».Ma la sinistra non era quella parte politica che un tempo si batteva per far avere più soldi alle fasce deboli della popolazione? Da che pulpito predicano, oggi, gli smarriti replicanti post-renziani alla Martina, che sparano sul governo gialloverde per il misero 2,4% di deficit inserito nel Def per il 2019? C’è posto per un qualche pensiero politico, nel cervello piatto di costoro? Rischia di ripetersi, Gioele Magaldi, come chiunque provi a demistificare la desolante narrazione del mainstream, di fronte allo strano spettacolo di un governo che ha contro il potere che conta. Non tutto, certo: ma se Jp Morgan non si unisce allo strepito allarmistico dell’establishment euro-italiano (giornali, Quirinale, Bankitalia, Ue e Bce), sostenendo che la manovra gialloverde non è poi da buttare (anche noi stiamo facendo “deficit spending”, conferma Steve Mnuchin, segretario al Tesoro dell’amministrazione Trump) non significa che “l’America” o “la massoneria internazionale finanziaria” giochino nella stessa squadra del governo Conte. Semmai, avverte Magaldi, la sfida – più che mai attuale – è un’altra: spetta a noi, ai cittadini e alla politica, tornare a “mettere in riga” quella finanza neoliberista che ha smesso di servire l’economia facendo solo speculazione a spese di interi paesi, potendo contare in Europa su «potenti supermassoni come Draghi e servizievoli paramassoni come Mattarella».
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Orrore indicibile: la polizia ritrova 123 bambini scomparsi
Rapiti e poi “parcheggiati”, in attesa di essere massacrati. La polizia di Detroit li ha ritrovati tutti insieme: 123 bambini. Erano «in un grave stato di denutrizione e di sofferenza psicologica», scrive l’“Huffington Post”. Tuttavia, «dagli accertamenti svolti non sembrerebbe che siano stati vittime di violenze sessuali». Gli agenti hanno impiegato molte ore per rintracciare le loro famiglie e riconsegnare i piccoli, sequestrati nei giorni precedenti. Secondo il “New York Post”, gli inquitenti stavano indagando «su una rete di rapimenti di minori che poi venivano coinvolti in traffici sessuali». Quello che sorprende, di queste notizie – osserva Paolo Franceschetti – è che vengono date di sfuggita: «Poche righe, liquidate come se si trattasse di una notizia del tipo “Belen ha un nuovo fidanzato”. Il sindaco di Riace, reo di aver favorito (non si sa poi se vero o no) l’immigrazione clandestina, ce lo rifilano su tutti i giornali e in tutte le salse». E i bambini scomparsi, invece? E i nomi delle persone arrestate o coinvolte nella vicenda? In America, aggiunge Franceschetti, scompare un numero incredibile di minori. «Le pareti di autogrill e supermercati sono spesso tappezzate dalle foto e di persone scomparse nel nulla, da un momento all’altro, come se niente fosse».I piccoli appena ritrovati a Detroit? «Destinati ad essere impiegati nel mercato del sesso, ma anche degli organi e dei riti satanici». Se da noi scompaiono ogni anno senza essere ritrovati centinaia di minori, in altri paesi europei la situazione è ancora peggiore: solo in Francia, quest’anno, i bambini spariti sono 1.238. Che fine fanno? Sul blog “Petali di Loto”, Franceschetti – avvocato, indagatore dei misteri italiani come quello del Mostro di Firenze – punta il dito contro il satanismo e le potentissime organizzazioni pedofile: nel mondo di calcola che ogni anno scompaiano circa 100.000 bambini. Un caso particolarmente doloroso riguarda i bambini figli di extracomunitari non registrati ufficialmente, e quelli che vengono “comprati” già da prima della nascita: «Si paga una coppia in difficoltà affinché faccia nascere un bambino e lo consegni all’organizzazione che lo richiede; è il modo più sicuro; non lascia alcuna traccia del delitto commesso e il bimbo scompare nel nulla e mai comparirà neanche nelle statistiche». Il loro destino? «Molti finiscono nel traffico di organi». Alcuni vengono utilizzati per i “giochi di morte” filmati negli abominevoli “snuff movies”, altri ancora diventeranno super-soldati, psicologicamente “riprogrammati”.Ma il posto d’onore, nella strage silenziosa dei piccoli, è occupato proprio dalle reti pedofile: «Sono organizzate a livello internazionale e coperte da capi di Stato», sostiene Franceschetti: in alcuni casi, a tirare le fila di questa realtà sono proprio i soggetti istituzionali che dovrebbero invece tutelare la sicurezza dei bambini. Franceschetti allude a magistrati, autorità di polizia, funzionari dell’Onu. «Molte delle organizzazioni antipedofilia e dei centri che accolgono i bambini abbandonati, poi, non sono altro che trappole ben congegnate per accalappiare i malcapitati che cercano aiuto». Le prove? «Ce ne sono a bizzeffe, ma il quadro – sostiene Franceschetti – va ricostruito come un immenso puzzle». Fece epoca il caso del serial killer belga Marc Dutroux, ribattezzato “il mostro di Marcinelle”. Una storia dell’orrore, rievocata nel libro “Tutti manipolati”, pubblicato da “Stampa Alternativa” e scritto da un coraggioso gendarme belga, Marc Toussaint, che aveva partecipato alle indagini per poi esserne estromesso perché “troppo ligio al dovere”. Tentarono anche di farlo fuori, provocandogli un incidente in moto. Il libro, documentato e basato sugli atti dell’inchiesta, racconta di come nel caso Dutroux furono coinvolti cardinali, ministri, e addirittura il Re del Belgio, Alberto II.Nel 1996 scomparve una bambina belga, Laetitia. Le indagini individuarono il rapitore: Dutroux. Il pedofilo aveva ucciso almeno sei bambine, ma ci vollero otto anni prima di giungere al processo. Nel frattempo, due bambine erano state rinchiuse in casa Dutroux, «ma i depistaggi della gendarmeria e della magistratura fecero sì che le bambine non venissero trovate durante le perquisizioni». La scoperta avvenne fuori tempo massimo: le piccole erano già morte. L’inchiesta, ricorda Franceschetti, portò ad individuare come mandanti personaggi di altissimo livello, che arrivavano fino al coinvolgimento personale del sovrano belga. L’organizzazione era dedita a “snuff movies” e ad attività come «il gioco del gatto e del topo, che a quanto pare è una costante di queste organizzazioni». Ma giornalisti e inquirenti che seguivano il caso persero la vita: «Incidenti e suicidi, ovviamente». E così, «tutto venne messo a tacere dalla magistratura e dalla gendermeria».Dall’Europa agli Usa: un ex agente segreto ha salvato dagli abusi e dal controllo mentale una delle vittime di queste organizzazioni, Cathy O’Brien. Dopo essere sfuggiti più volte alla morte, lo 007 e la ragazza sono riusciti a scrivere due libri: “Accesso negato alla verità” (Macro edizioni) e “Trance-formation of America”. In quest’ultimo, spiega Franceschetti, si narra di come l’organizzazione che abusava la donna facesse capo addirittura al presidente degli Stati Uniti, George W. Bush. «Si narra dei legami di Bush e Clinton con i signori della droga, si narra dei legami con le organizzazioni pedofile e con quelle sataniche». In particolare si evidenziano i legami di Bush e Clinton con il “Tempio di Seth”, che è «la più potente organizzazione satanista ramificata a livello internazionale». La fondò Michael Aquino, un ex ufficiale dell’esercito statunitense molto amico di Bush. «Stupri, omicidi, pedofilia, droga, satanismo… tutto narrato nero su bianco, con nomi e cognomi».Stati Uniti, Europa e anche Africa: tempo fa, aggiunge Franceschetti, in Ciad vennero arrestate per pedofilia e commercio di esseri umani alcune persone – appartenenenti all’organizzazione “L’Arca di Zoe” – che stavano portando in Francia 103 bambini. «Che fine dovessero fare quei bambini non si sa», ma l’allora presidente Sarkozy andò personalmente a trattare la liberazione degli arrestati per riportarli in patria. Gli operatori fermati avevano dichiarato che i bambini erano orfani provenienti dal Darfur. «Poi si è scoperto che erano figli di famiglie del Ciad, e i genitori erano ancora viventi». Da notare che “L’Arca di Zoe” «era sotto inchiesta anche in Francia, sospettata di trafficare in bambini per scopi tutt’altro che leciti». Non che da noi non esistano, retroscena analoghi: anzi, «in Italia inchieste così eclatanti non sono neanche mai iniziate». O meglio: quelle avviate «non sono state divulgate», sostiene Franceschetti: «Nel 2006 venne arrestato un avvocato romano, Alberto Gallo, per pedofilia. I giornali riporteranno la notizia come se si trattasse di un pedofilo isolato, ma in realtà faceva parte di un’organizzazione internazionale». Lo stesso Dutroux, in Belgio, era solo una pedina di queste potenti reti senza frontiere.Nel suo romanzo “La Loggia degli Innocenti”, il commisario Michele Giuttari – fermato a un passo dall’aver risolto il giallo del Mostro di Firenze – descrive un’organizzazione pedofila che fa capo al procuratore fiorentino, a cui (nella fiction) dà un nome non casuale: Alberto Gallo. «In altre parole, Giuttari lega chiaramente l’ex procuratore di Firenze Piero Luigi Vigna alla rete pedofila che era sotto inchiesta in quel periodo». E il nome della “loggia” allude chiaramente all’Ospedale degli Innocenti, «storico palazzo fiorentino dove da secoli è ospitato un centro che tutela i minori abbandonati». Un puzzle infinito, che coinvolgerebbe capi di Stato e ministri, teste coronate, ma anche «militari, magistratura e forze dell’ordine», senza contare i cardinali che negli Usa sono oggi al centro di un clamoroso scandalo, con migliaia di minori abusati. Il guaio, dice Franceschetti, è che il fenomeno “pedofilia internazionale” (con la variante del satanismo) è costantemente negato da quelli che sono «i massimi garanti del sistema in cui viviamo», alcuni dei quali poi finiscono in televisione, consultati come “esperti”. Franceschetti ricorda le parole che gli rivolse il figlio di un boss della ’ndrangheta: «Da noi c’è più legalità e giustizia. In Calabria e in Sicilia i bambini non si toccano; da voi al Nord, invece sì».Quella che può sembrare una follia oggi può assumere un terribile significato. La gente comune, dice Franceschetti, non si stupisce più di tanto se scopre che i vertici della politica hanno contatti organici con la mafia, ma non potrebbe tollerare lo spettacolo dell’altro orrore – quello perpetrato ai danni dei minori scomparsi. «Siamo disposti ad accettare che si scatenino guerre da milioni di morti in Iraq, Afghanistan, in Africa. In fondo, quelli sono negri. Che ce ne importa? Basta che non ci tolgano la partita di calcio della domenica. Ma probabilmente – aggiunge Franceschetti – se si venisse a sapere la verità sui bambini scomparsi, nessuno potrebbe reggere ad un simile shock. E allora sì, forse qualcuno comincerebbe a capire che il mondo in cui viviamo non funziona esattamente come i giornali e i mass media in genere ce lo descrivono». Ecco perché, probabilmente, quella realtà resta avvolta in tanta, misteriosa segretezza. E se la polizia ritrova 123 bambini in un colpo solo, i media archiviano la notizia “en passant”, senza scavare per capire cosa si nasconde dietro quell’enormità.Rapiti e poi “parcheggiati”, in attesa di essere massacrati. La polizia di Detroit li ha ritrovati tutti insieme: 123 bambini. Erano «in un grave stato di denutrizione e di sofferenza psicologica», scrive l’“Huffington Post”. Tuttavia, «dagli accertamenti svolti non sembrerebbe che siano stati vittime di violenze sessuali». Gli agenti hanno impiegato molte ore per rintracciare le loro famiglie e riconsegnare i piccoli, sequestrati nei giorni precedenti. Secondo il “New York Post”, gli inquirenti stavano indagando «su una rete di rapimenti di minori che poi venivano coinvolti in traffici sessuali». Quello che sorprende, di queste notizie – osserva Paolo Franceschetti – è che vengono date di sfuggita: «Poche righe, liquidate come se si trattasse di una notizia del tipo “Belen ha un nuovo fidanzato”. Il sindaco di Riace, reo di aver favorito (non si sa poi se vero o no) l’immigrazione clandestina, ce lo rifilano su tutti i giornali e in tutte le salse». E i bambini scomparsi, invece? E i nomi delle persone arrestate o coinvolte nella vicenda? In America, aggiunge Franceschetti, scompare un numero incredibile di minori. «Le pareti di autogrill e supermercati sono spesso tappezzate dalle foto e di persone scomparse nel nulla, da un momento all’altro, come se niente fosse».
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Bifarini: tutti schiavi della finanza, grazie a politici traditori
«Di tutti i modi per organizzare l’attività bancaria, il peggiore è quello che abbiamo oggi» (Sir Mervyn King, ex governatore della Banca d’Inghilterra). Una delle trasformazioni più inumane del sistema capitalistico industriale, fondato originariamente sull’industria manifatturiera e più in generale sulla produzione, è quella del capitalismo finanziario, in cui il potere è concentrato in pochi grandi istituti di credito. Le banche hanno cessato il loro ruolo di supporto e di credito allo sviluppo, preferendo investire in prodotti finanziari dai quali viene generato altro capitale, in un sistema autoreferenziale in cui i profitti nascono dalla speculazione, senza passare attraverso il lavoro e la produzione. In modo graduale, ma anche repentino, il sistema capitalistico ha spostato l’asse dall’economia reale a quella finanziaria e, ancora peggio, alla speculazione che ne deriva, tanto da essere stato ribattezzato “finanzcapitalismo” o “capitalismo ultrafinanziario”. Orientato alla massimizzazione del profitto ricavato dal denaro stesso, in esso la ricchezza non passa attraverso la produzione di beni o servizi, né è previsto un piano di redistribuzione tra lavoratori e consumatori, ma solo l’accentramento nelle mani di pochi, pochissimi.Da sempre strumento di supporto dell’economia capitalistica, con l’avvento del neoliberismo la finanza si è tramutata da servitore a padrone dell’economia mondiale, fagocitandola e riproducendosi a ritmi vertiginosi. A partire dal 1980 l’ammontare degli attivi generati dal sistema finanziario ha superato il valore del Pil dell’intero pianeta. Da allora la corsa della finanza al profitto è diventata così veloce da quintuplicare per massa di attivo l’economia reale nel giro di un trentennio. Sotto la presidenza Bill Clinton, sono state introdotte due pietre miliari per completare la deregolamentazione del sistema finanziario neoliberista. Con l’abolizione del Glass-Steagall Act – introdotto da Roosevelt l’anno successivo alla crisi del ’29 – è stata eliminata la separazione tra banche d’affari e d’investimenti, che così hanno riconquistato concentrazioni di potere economico. In contemporanea, l’Organizzazione mondiale per il commercio (Wto) ha dato il via libera alla compravendita di prodotti fuori Borsa con la cancellazione delle precedenti norme, considerate restrittive, sul controllo dei derivati.Ogni giorno nascono nuove tipologie di derivati sempre più sofisticati e complessi, che possono essere scambiati “over the counter”, ossia fuori dalle Borse. Essendo titoli “transitori” non rispondono all’obbligo di essere registrati nel bilancio bancario e sfuggono alle normative del settore. Sfruttando le falle del sistema, da esso stesso generate, i grandi gruppi finanziari hanno creato una miriade di società indipendenti cui trasferiscono fuori bilancio grossi capitali, che in tal modo divengono invisibili. Tali strumenti hanno le stesse caratteristiche della moneta: sono rivendibili più volte, facilmente monetizzabili e scambiabili senza detenere il possesso del loro sottostante. Così i derivati, messi in circolazione in enormi quantitativi dalle banche, sono divenuti una nuova forma di moneta circolante, che sfugge alle analisi e rende problematici e inefficaci gli interventi di politica monetaria. E’ il mondo della finanza-ombra, quel vasto mercato parallelo, nato tra le trame del sistema bancario internazionale, che ha reso mastodontica e fuori controllo la mole dei prodotti finanziari circolanti.Una grossa fetta di questi prodotti finanziari ha per sottostante forme di debito, come ad esempio le ipoteche sulla casa. Con un meccanismo perverso, in cui il denaro viene creato attraverso il debito, si realizza una forma di speculazione assoluta che niente ha a che vedere con la creazione di valore, ma piuttosto con la sua distruzione. E’ evidente che un sistema economico basato sulla speculazione sganciata dalla produzione e fondata sul debito, sia pubblico che privato, sia insostenibile. Il paradosso del finanzcapitalismo è che trova nel caos e nella povertà il suo humus ideale, poiché proprio la speculazione sui debiti e sulle sofferenze ne è la linfa vitale. Il suo funzionamento è regolato da meccanismi complessi, artificiosi, che si basano sull’applicazione di modelli della fisica e della cibernetica: nulla di più lontano dall’economia reale! I maggiori responsabili dell’affermarsi di questo sistema distorto e criminale sono i politici, venuti meno al loro compito di tutelare le fasce deboli e di assicurare il benessere sociale. L’intero sistema socio-economico liberista è ormai concepito per servire la finanza.(Ilaria Bifarini, “Finanzcapitalismo: schiavi del debito”, dal blog della Bifarini del 10 ottobre 2018).«Di tutti i modi per organizzare l’attività bancaria, il peggiore è quello che abbiamo oggi» (Sir Mervyn King, ex governatore della Banca d’Inghilterra). Una delle trasformazioni più inumane del sistema capitalistico industriale, fondato originariamente sull’industria manifatturiera e più in generale sulla produzione, è quella del capitalismo finanziario, in cui il potere è concentrato in pochi grandi istituti di credito. Le banche hanno cessato il loro ruolo di supporto e di credito allo sviluppo, preferendo investire in prodotti finanziari dai quali viene generato altro capitale, in un sistema autoreferenziale in cui i profitti nascono dalla speculazione, senza passare attraverso il lavoro e la produzione. In modo graduale, ma anche repentino, il sistema capitalistico ha spostato l’asse dall’economia reale a quella finanziaria e, ancora peggio, alla speculazione che ne deriva, tanto da essere stato ribattezzato “finanzcapitalismo” o “capitalismo ultrafinanziario”. Orientato alla massimizzazione del profitto ricavato dal denaro stesso, in esso la ricchezza non passa attraverso la produzione di beni o servizi, né è previsto un piano di redistribuzione tra lavoratori e consumatori, ma solo l’accentramento nelle mani di pochi, pochissimi.
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“Chi sbaglia paghi, ma non sparate su giudici e carabinieri”
La condanna definitiva all’ergastolo per Massimo Bossetti, sul caso Yara Gambirasio? Direi che “ingiustizia è fatta”, nel senso che il rifiuto di esaminare certe prove, prima della sentenza di primo grado, la dice lunga sul tipo di qualità di questa risposta processuale. C’è anche il rifiuto di considerare le nuove prove: sono emerse soltanto in sede di appello, e solo per l’imperizia e la superficialità delle indagini. Io non sono convinto della colpevolezza di Bossetti. Tutto questo serve a coprire altre responsabilità? Non sono in grado di certificarlo, ma sicuramente ne ho il sospetto. O meglio, più che di “coperture”, parlerei di depistaggio: probabilmente è stata depistata l’indagine. Continuamente, in questo processo, sono successe cose gravi. Altrettanto grave il tentativo di depistaggio, da parte dei carabinieri, delle indagini sull’uccisione di Stefano Cucchi. Credo che sia un caso esemplare di giustizia depistata. La qualità media dei magistrati italiani, beninteso, è ottima. Poi ci sono casi in cui la qualità non è ottima, e c’è anche un ego, una volontà di protagonismo particolare, per cui il magistrato si presta a cadere in errore, incaponendosi nella sua convinzione – magari in buona fede, senza accorgersi di essere stato depistato. Però la fisiologia dell’errore esiste in tutti i meccamismi umani. L’errore non è un’anomalia: la percentuale di errori è una normalità, una fisiologia.Gli esseri umani sbagliano un certo numero di cose che fanno – che siano avvocati, magistrati, geometri, architetti o cuochi, non cambia. E’ assolutamente normale: la gente non si deve scandalizzare, deve sapere che gli uomini sbagliano. Il problema è quando, dietro l’errore, per una scarsa qualità dell’approccio alla situazione, c’è il fatto di non volersi accorgere (o di non riuscire ad accorgersi) di esser stati anche indotti, in errore. Noi però vogliamo le cose perfette: non accettiamo che l’errore sia anche un aspetto fisiologico delle cose che facciamo. Come diceva Luca Pacioli, nel suo meraviglioso “De Divina Proportione” illustrato da Leonardo: sovente, gli errori sono più importanti delle cose “juste”, perché la maggior parte delle cose “juste” nascono proprio dagli errori. Dato che la maggior parte dei magistrati è un buona fede, anche quando vengono depistati, si deve parlare per lo più di “errore”. Solo che, una volta che sono partiti e sono convinti dell’accusa, non si fermano più. Generalmente, lì prevale l’ego. Quella dei magistrati in cattiva fede è una percentuale irrisoria. Il loro è un lavoro per certi aspetti duro, che ti mette continuamente a confronto con la sofferenza: quindi è uno di quei mestieri che migliorano l’essere umano (non lo peggiorano).Chi li induce in errore, invece, è un altro tipo di persona: è il vero criminale. Non sempre le azioni di despistaggio vedono la complicità di chi svolge le indagini. Le azioni di depistaggio sono sofisticate, e vengono sempre dall’esterno. Fa eccezione il caso Cucchi, dove c’era un’autodifesa corporativistica dell’Arma, che è stata un danno drammatico per l’Arma dei carabinieri stessa. L’Arma deri carabinieri non è un organo d’indagine comune. Ha una storia, una rilevanza sociale e una connessione gerarchica fino a poco tempo fa molto particolare, diversa da quella degli altri organi di polizia e dell’esercito. E questo suo nascere a metà strada tra l’esercito e la polizia, tra funzione interna e funzione esterna, questo suo rispondere direttamente alla presidenza della Repubblica (i carabinieri sono gli unici a giurare fedeltà al presidente della Repubblica, oltre che allo Stato e alla Costituzione), ovviamente può produrre anche difese politiche corporativistiche di quest’Arma, che per noi è un punto d’orgoglio.Nei carabinieri, lo spirito di corpo è qualcosa di particolare. E nel caso Cucchi ha prodotto qualcosa di estremamente negativo, oserei dire quasi criminale, per cui bisognerebbe che l’indagine futura risalisse anche alla catena gerarchica per vedere quanti erano al corrente di quello che si stava facendo, incluso il maresciallo che probabilmente verrà accusato di responsabilità nell’aver fatto sparire la nota di servizio del carabiniere che poi si è ravveduto e ha parlato. E quanti altri, nella catena gerarchica, erano al corrente della sparizione di quella nota? Questo va fatto nell’interesse dei carabinieri, e per l’amore che io personalmente, in quanto italiano, porto all’Arma dei carabinieri. Perché, oltre a essere danneggiato il povero Cucchi, insieme alla sua famiglia (alla quale nessuno di noi può negare solidarietà, unendosi al suo dolore), è molto danneggiata anche l’Arma dei carabinieri – che questo danno non se lo merita. L’accaduto pregiudica la dignità dell’Arma, e noi dobbiamo tutelarla da questo pregiudizio. La stessa Arma dei carabinieri deve fare pulizia, per riscattare il proprio onore.Certo, ci sono anche casi come la morte di Marco Pantani o quella di David Rossi a Siena, nella sede centrale del Monte dei Paschi: la contaminazione della scena del crimine è possibile solo con la complicità di chi svolge le indagini. Ma ci sono manipolazioni e depistaggi che non prevedono la complicità di chi indaga: prevedono solo la “fessaggine” occasionale, da parte degli inquirenti. Le cose umane si ripetono sempre secondo gli stessi schemi. Che succedano nell’Arma dei carabinieri, nella Guardia di Finanza o nei paracadutisti (dove ci sono tanti suicidi) è solo una contingenza. Il meccanismo è sempre lo stesso: puntiamo al dito e non guardiamo la luna. Le cose umane hanno le loro complicazioni e complessità, i loro problemi. Questo lo sappiamo, però diamo la colpa ai contesti, anziché alle persone. Io non do la colpa alla Cgil, se si scopre che un sindacalista ruba. Non do la colpa alla massoneria se si scopre che un massone non fa il massone. Quella è una malattia molto italica, oserei dire “italiota”, che non ho mai condiviso. Sono condanne per schemi, per categorie, che generano odio diffuso. Non le ho mai condivise, nei confronti di nessuno.Quando la gente si è scagliata contro il comunismo, additando i Gulag russi, ho sempre detto: guardate che l’ideale del comunismo non era quello, che semmai era l’effetto di un regime che si è trasformato, deviato a corrotto nei tempi, anche in funzione dell’accerchiamento capitalistico che aveva subito. Le dinamiche sociali e politiche, e anche quelle della giustizia, sono complesse: non possono essere giudicate con l’accetta, separando il bene e il male (che sono connessi, intrecciati). E le situazioni complicate richiedono analisi accurate: non tanto per assolvere qualcuno o condannare qualcun altro, ma per evitare di ripetere sempre gli stessi errori. Come spiegare l’attuale rabbia generalizzata nell’opinione pubblica? Ha avuto successo lo schema del potere, che ti dice questo: tu esisti se hai un nemico. Se non hai un nemico, non esisti. Lo schema del potere ti spinge a impegnare tutte le tue energie, le tue risorse e le tue possibilità a distruggere il nemico, anziché a costruire te stesso o ad aiutare i tuoi amici. In questa maniera, il potere si è evitato di essere combattuto. Perché, in realtà, combattere il potere (nella versione che Francesco Saba Sardi presenta come dominio) non significa distruggere dei nemici. Se tu perdi le tue energie nel cercare di distruggere qualcuno o qualcosa, in realtà quelle energie sono tolte da quello che dovrebbe essere il verbo della nostra vita, che è il costruire.L’esempio classico è la massoneria: dovrebbe essere sempre rivolta al costruire (lo dice il suo stesso nome), e invece – nonostante la sua origine e la sua tradizione – da un certo punto in poi si è impegnata a distruggere. E’ una deviazione profonda, che è dipesa dal fatto che il potere si è difeso da tutte quelle energie positive della società che potessero metterne in discussione il monopolio e la gerarchia, il suo schema generale. Oggi noi abbiamo una restrizione dei diritti civili, non un allargamento. Dato che uno, solo perché arrestato (non importa per quale motivo) viene subito bollato come criminale, tutto viene di conseguenza. In Italia c’è uno scarsissimo rispetto per chi viene privato della libertà, da parte dello Stato. Abbiamo avuto casi eclatanti di detenuti che non hanno potuto ricoversarsi in ospedale, perché la durezza del loro regime carcerario non veniva recepita dalla sensibilità dei giudici, al punto da predisporre le cure. Ci sono alcuni magistrati che hanno agito anche per fini politici o per fini personali, ad esempio per fare carriera, ma è sbagliato dire che la magistratura agisce per fini politici. Commettiamo sempre lo stesso errore. Le responsabilità sono sempre personali. Responsabili sono le persone, non le categorie.La categoria dei magistrati è l’unica che non risponde dei propri errori? Questo è un altro aspetto, ma non risolve il problema dell’errore, che in una certa percentuale è sempre fisiologico. La responsabilità dell’errore non è il problema dell’errore: non è che, se un medico sbaglia e uccide il paziente, col risarcimento si risolve il problema. E’ impensabile abolire la possibilità di errore. Si può invece fare il modo che l’errore sia residuale: una quota talmente minima, che i danni siano sopportabili. Certamente, il meccanismo delle responsabilità sugli errori giudiziari, in Italia, io non lo condivido. Ma questo non vale solo per la magistratura, vale anche per gli organi che indagano, per il modo in cui vengono fatte le indagini. E dato che in un processo poi intervengono dai 16 ai 20 magistrati, nel caso di una sentenza sbagliata non si sa mai chi ha commesso l’errore fondamentale. Perché formalmente mettiamo in piedi delle garanzie, ma in realtà le togliamo. Facciamo tribunali del riesame, tribunali della libertà, e poi non si sa chi sbaglia. Io farei una legge per cui il procuratore della Repubblica può fare quello che vuole: arrestare, intercettare, indagare. Ma se sbaglia, paga. Perché la responsabilità è sua. E se mi mette in galera, deve processarmi entro 60 giorni: devono fare presto, se toccano le libertà costituzionali.Li responsabilizzeri di più, i magistrati, con la deterrenza della sanzione contro di loro, proprio perché sono convinto che la maggior parte di loro rappresenti un orgoglio di questo paese, non una vergogna. Impegnare 16 magistrati per processare una persona mi sembra uno sproprosito: un primo magistrato ti arresta, un giudice istruttore lo autorizza, il Tribunale del Riesame (tre soggetti) valuta il caso, poi c’è il processo di primo grado (altri tre soggetti), poi c’è il processo d’appello (idem). Quanti magistrati intervengono? Tutti personaggi che potrebbero essere tranquillamente recuperati all’efficienza del processo: recuperando 10-12 magistrati alle funzioni dirette del processo, si smaltierebbe tutto l’arretrato in un solo anno. Ovviamente i magistrati devono avere più mezzi. Ho conosciuto magistrati che si pagavano da soli le fotocopie. Quelli di Bari si sono dovuti pagare una serie di cose, perché il loro tribunale è crollante. Noi da un lato li attacchiamo, e dall’altro non gli diamo i mezzi? Non si può ragionare così. E’ come accusare i maestri del crollo delle scuole. Innanzitutto devi mettere la gente in condizione di lavorare bene – cosa che, nei confronti dei magistrati, in Italia non viene fatta. Poi li si vuole criminalizzare quando commettono errori? Ma non funziona così, il mondo.(Gianfranco Carpeoro, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti nella diretta web-streaning su YouTube “Carpeoro Racconta” del 14 ottobre 2018).Massimo Bossetti all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio? «Ingiustizia è fatta: non sono per niente convinto della colpevolezza di Bossetti», vittima di indagini «superficiali». Per non parlare del caso di Stefano Cucchi, massacrato di botte dai carabinieri che l’avevano arrestato. Uno scandalo, che «pregiudica la dignità dell’Arma, che dobbiamo tutelare da questo pregiudizio». In altre parole: «La stessa Arma dei carabinieri deve fare pulizia, per riscattare il proprio onore». Lo afferma Gianfranco Carpeoro, in diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. Avvocato di lungo corso (vero nome, Pecoraro), Carpeoro – saggista e attento osservatore dell’attualità italiana – insiste però su un punto: guai se ci scandalizziamo se la giustizia sbaglia una sentenza, come sul caso di Yara: errare è umano, l’errore è fisiologico. Idem se criminalizziamo l’intera Arma dei carabinieri per colpa dei militari che hanno picchiato Stefano Cucchi provocandone la morte, come confessato da un commilitone, l’appuntato Riccardo Casamassima, a nove anni di distanza dalla tragedia. Si finisce per condannare ingiustamente l’intera categoria – magistrati, carabinieri – quando invece si dovrebbe pretendere che a pagare per i propri errori siano le singole persone che sbagliano: inclusi i magistrati, «spesso ottimi, ma costretti a lavorare in condizioni difficili».
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Antiche civiltà pre-umane sulla Terra. La scienza: possibile
Sebbene a prima vista la mia disciplina, la paleontologia dei vertebrati, possa apparire totalmente fuori tema per un Carnevale collegato ad un progetto come quello Seti (Search for Extra-Terrestrial Intelligence), esistono delle intriganti similitudini tra questi due ambiti di ricerca, la cui esplorazione e comparazione può portare spunti e punti di vista alternativi, potenzialmente fecondi. L’osservazione dello spazio è accomunata all’indagine paleontologica dal fatto che la distanza sia una misura del tempo. Così come i segnali elettromagnetici provenienti dal cosmo sono tanto più antichi quanto più distante è la loro sorgente, così in paleontologia la posizione di un fossile indica un’età più antica tanto più il fossile è posto in profondità nella serie stratigrafica. L’interconnessione tra posizione nello spazio e distanza nel tempo dei fenomeni osservati dalle due discipline rende quindi la mente del paleontologo e quella dell’astronomo ugualmente predisposte a pensare in modo “quadrimensionale”, a concepire spazio e tempo non come variabili indipendenti, ma come manifestazioni di un unico fenomeno. Il progetto Seti è rivolto alle immensità extraterrestri alla ricerca di segnali, tracce che, per quanto flebili, siano evidenza di forme di vita intelligenti. In questo, il progetto Seti è convergente all’attività del paleontologo, che sonda le profondità geologiche alla ricerca di evidenze, per quanto flebili e frammentarie possano essere, della vita del remoto passato.Evoluzione dell’intelligenza nel Tempo Profondo, un analogo dello Spazio Profondo? Alla luce di queste convergenze interdisciplinari, non così scontate o banali come forse potrebbero apparire al profano, mi propongo di offire il mio punto di vista paleontologico come “analogo” a quello del ricercatore coinvolto nel progetto Seti. Parto da una provocazione. In base alle formulazioni più pessimiste della equazione di Drake, esiste solo un pianeta nel quale forme di vita intelligenti sono comparse, la Terra. Nei fatti, esso è finora il solo dal quale abbiamo evidenze di vita, di qualunque forma o complessità. Nonostante esso sia l’unico (e quindi migliore) caso noto, noi non abbiamo una stima precisa di quante volte, in quante forme ed in quali contesti, la vita intelligente sia comparsa sulla Terra. Noi conosciamo un singolo caso di specie intelligente (intesa qui come autocosciente, dotata di linguaggio articolato, pensiero simbolico e tecnologia trasmessa culturalmente) comparsa sulla Terra, Homo Sapiens. Ma fu il solo episodio? Questo unico caso è, purtroppo, il peggiore esempio possibile dal quale tentare di ricavare qualche principio generale sulle proprietà e i fattori che concorrono alla comparsa dell’intelligenza su un pianeta, dato che il soggetto osservante e l’oggetto osservato si fondono in un’unica creatura che, come nel peggiore incubo scaturito dalle peggiori aberrazioni del Principio di Indeterminazione, distorce in modo imprevedibile la nostra percezione del fenomeno.L’esempio più lampante di quanto la nostra autoreferenziale percezione della condizione umana abbia influenzato e distorto il modo di valutare criticamente il fenomeno dell’evoluzione dell’intelligenza in un pianeta è dato proprio dalla quasi totale mancanza di ipotesi o modelli che abbiano anche solo abozzato una possibile evoluzione di altri, dell’intelligenza non-umana, sulla Terra. A parte rari casi, che menzionerò sotto, quasi nessuno si è mai posto la domanda se l’intelligenza (capace di produrre linguaggio simbolico, cultura, tecnologia) sia mai comparsa qui, sulla Terra, prima di Homo Sapiens. Lo sciovinismo antropocentrico è talmente viscerale in Homo Sapiens, che egli non ha (quasi) mai ipotizzato che questo pianeta, sul quale arroga ed esercita un indiscusso diritto di proprietà, possa aver ospitato prima di lui altre intelligenze, altre civiltà, altre forme di vita capaci di produrre qualcosa di analogo a ciò che il progetto Seti sta cercando nello spazio esterno.Eppure, la vita, intesa come aggregati complessi di molecole organiche autoreplicanti e capaci di svolgere attività metabolica, esiste sulla Terra da almeno 3 miliardi e mezzo di anni (35.000 volte la durata dell’intera specie umana e oltre 3 milioni di volte la durata dell’intera civiltà post-paleolitica), mentre la vita pluricellulare dotata di sistema nervoso esiste da almeno 600 milioni di anni (6.000 volte la durata dell’intera specie umana): possibile che l’evoluzione dell’intelligenza sia un evento così altamente improbabile, contingente e accessorio da essersi verificata solamente in noi? Quanto è realistico abbandondare il nostro sciovinistico dogma dell’unicità dell’intelligenza umana sulla Terra, e ipotizzare che anche altre specie, non-umane, abbiano raggiunto quello stadio evolutivo qui, sul “nostro” pianeta? Questa domanda è, nella scala del Tempo Profondo, il tempo nel quale operano i paleontologi, l’equivalente della domanda alla base del Seti, sebbene nel secondo caso sia applicata allo Spazio Profondo.Estendiamo la provocazione, e chiediamoci se sulla Terra siano esistite altre forme di vita intelligente, forse persino civiltà avanzate, nel vastissimo passato remoto precedente la comparsa della nostra specie. Per meglio comprendere se questa domanda sia lecita oppure una fantasia gratuita, confrontate la durata dell’attuale civiltà tecnologica umana post-neolitica, circa 6.000 anni, con i 600 milioni di anni di esistenza della vita complessa (un misero centomillesimo) e provate a stimare quanto di tutto ciò che Homo Sapiens ha prodotto sarà ancora “evidente” sulla superficie terrestre tra 100 milioni di anni – nell’ipotesi che la nostra specie si estingua oggi. In pochi decenni, tutti i satelliti artificiali umani in orbita ricadrebbero verso terra, disintegrandosi nell’atmosfera. In pochi secoli, tutto ciò che fu creato dall’uomo e che esiste sulla superficie terrestre sarebbe ricoperto dal rapido ritorno della vegetazione selvatica in quei luoghi che l’uomo aveva trasformato in città, strade, aree coltivate. La capacità delle radici in crescita delle piante di disgregare anche la roccia, figurarsi materiali come asfalto o cemento, non dà molte speranze di persistenza a buona parte dei nostri manufatti, apparentemente molto tenaci, di restare intatti dopo che le piante si fossero riprese possesso delle terre emerse.Nel giro di alcuni millenni, al più qualche milione di anni, l’erosione, gli agenti atmosferici, le future fasi glaciali, il sollevamento dei mari, la deriva dei continenti, il sollevamento di nuove catene montuose, tutto ciò distruggerebbe qualsiasi struttura superficiale (manufatti, strade, edifici, porti) non ancora distrutta dall’espansione della vegetazione. Buona parte dei monili di materiale resistente alla corrosione sarebbe dilavato dalle acque, trasportato in mare dai fiumi, dalle alluvioni e dalla lenta subsidenza dei suoli, e nel giro di qualche milione di anni si accumularebbe sul fondo dei mari, formando una stratificazione che, progressivamente sepolta sotto strati successivi, e compattata dalla loro pressione, si trasformerebbe in roccia. Nei successivi milioni di anni, il ritorno totale della Natura come unica signora della Terra cancellerebbe la quasi totalità delle prove della nostra passata esistenza. Forse qualcosa persisterebbe sepolta sotto i fondali oceanici, ma sarebbe condannata ad un lento dissolvimento, sotto le inesorabili pressioni prodotte dai movimenti della crosta terrestre. L’unica testimonianza della nostra esistenza, quindi, sarebbe quel sottile strato di carbonio e metalli pesanti, vestigio della nostra tecnologia, accumulatosi sul fondale oceanico ed eventualmente riemerso come parte marginale di qualche catena montuosa.Pertanto, se questo è l’inevitabile destino delle ultime tracce della civiltà umana, perché non dovrebbe essere già tutto avvenuto per una specie precedente la nostra, della quale, appunto, ogni traccia è andata distrutta al di fuori di qualche sottile strato sedimentario? Se l’intero ciclo dell’esistenza di una civiltà, la sua estinzione e la quasi totale distruzione naturale di ogni sua manifestazione scampata all’estinzione, si compie in qualche milione di anni, non esiste obiezione logica per cui il vastissimo passato geologico della Terra non possa contenere al suo interno dozzine di episodi come quello appena narrato. Ciò è coerente con la stima data dai paleontologi che solamente una frazione ridotta di tutte le specie comparse sulla Terra ha lasciato tracce fossili: se, come tutti concordano, le specie intelligenti sono una ridottissima frazione nel totale delle specie comparse, appare chiaro che è altamente improbabile che esse ricadano nella ridotta frazione che si manifesterà sotto forma di fossili. Improbabile, ma non impossibile.Pertanto, un possibile indizio dell’esistenza di una civiltà non-umana sulla Terra potrebbe essere un sottile strato la cui composizione chimica anomala (dovuta ad un eccesso di carbonio e metalli pesanti) potrebbe indicare l’accumulo dei residui di una qualche specie tecnologicamente avanzata. Lo scenario ipotetico che vi ho appena illustrato fu sviluppato, indipendentemente uno dall’altro, da due autori, John C. McLoughlin (1984) e Mike Magee (1993), come ipotesi fantascientifica per spiegare le anomalie geologiche e paleontologiche presenti nel famoso “limite K-T”, il livello geologico che segna la fine dell’era Mesozoica e la grande estinzione dei dinosauri: secondo questi autori, una specie intelligente di dinosauro, vissuta 65 milioni di anni fa, fu la causa della grande estinzione e della propria autodistruzione, secondo modalità e tempi non tanto diversi da quelli con cui oggi Homo Sapiens sta alterando, in modo forse irreparabile, la biosfera ed il clima.Aldilà della plausibilità di questo scenario, notare che sia io che i miei due predecessori siamo caduti, quasi incosciamente, nello sciovinismo autoreferenziale ed antropocentrico che avevo criticato all’inizio, proponendo un’ipotesi plasmata sulla nostra condizione umana. In realtà, non è detto che tutte le specie intelligenti siano portate a sviluppare la metallurgia, l’allevamento intensivo o un massiccio sfruttamento delle risorse naturali, come siamo soliti fare noi, e quindi potrebbero non lasciare una traccia stratigrafica così evidente della loro presenza sul pianeta del passato. In alternativa, come imposteremmo un “Seti”, qui inteso come “Search for Extinct Terrestrial Intelligence”, e che lezioni potrebbe darci in appoggio al suo più famoso fratello maggiore, rivolto allo spazio esterno? La prima domanda da porsi è se sia possibile ridurre la gamma dei candidati al ruolo di “extinct-terrestrials”: quali linee evolutive animali potrebbero essere le più plausibili candidate? L’osservazione delle specie viventi al giorno d’oggi, ci mostra almeno 3 linee evolutive che mostrano (almeno in forma incipiente) le potenzialità per evolvere un’intelligenza avanzata. Il primo passo sarebbe quindi di cercare tra i rappresentanti estinti di quelle linee evolutive dei potenziali candidati.(Andrea Cau, estratto da “Search for Extinct Terrestrial Intelligence”, intervento pubblicato il 15 agosto 2012 sul blog “Theropoda” a cura dello stesso Cau, paleontologo dei vertebrati).Sebbene a prima vista la mia disciplina, la paleontologia dei vertebrati, possa apparire totalmente fuori tema per un Carnevale collegato ad un progetto come quello Seti (Search for Extra-Terrestrial Intelligence), esistono delle intriganti similitudini tra questi due ambiti di ricerca, la cui esplorazione e comparazione può portare spunti e punti di vista alternativi, potenzialmente fecondi. L’osservazione dello spazio è accomunata all’indagine paleontologica dal fatto che la distanza sia una misura del tempo. Così come i segnali elettromagnetici provenienti dal cosmo sono tanto più antichi quanto più distante è la loro sorgente, così in paleontologia la posizione di un fossile indica un’età più antica tanto più il fossile è posto in profondità nella serie stratigrafica. L’interconnessione tra posizione nello spazio e distanza nel tempo dei fenomeni osservati dalle due discipline rende quindi la mente del paleontologo e quella dell’astronomo ugualmente predisposte a pensare in modo “quadrimensionale”, a concepire spazio e tempo non come variabili indipendenti, ma come manifestazioni di un unico fenomeno. Il progetto Seti è rivolto alle immensità extraterrestri alla ricerca di segnali, tracce che, per quanto flebili, siano evidenza di forme di vita intelligenti. In questo, il progetto Seti è convergente all’attività del paleontologo, che sonda le profondità geologiche alla ricerca di evidenze, per quanto flebili e frammentarie possano essere, della vita del remoto passato.
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E’ andata a casa con il negro, la troia. Al rogo pure Vasco?
Chissà cosa direbbe oggi la cosiddetta società civile se un Tiziano Ferro qualunque o Laura Pausini usassero lo stesso frasario di Vasco Rossi nella sua celebre canzone “Colpa d’Alfredo”: «L’ho vista uscire mano nella mano con quell’africano che non parla neanche bene l’italiano». Urlava così, Vasco Rossi, al live Modena Park del 2017. E i giovani di oggi – italiani bianchi, neri, omosessuali, eterosessuali, cattolici, musulmani e atei – erano sotto il palco a braccia tese verso il loro idolo, pronti a cantare a squarciagola col Blasco e a spellarsi le mani dagli applausi. Nessuno ha pensato che ad un certo punto Vasco dice che «è andata a casa con il negro, la troia»: roba che se ti provi a scriverla oggi su Facebook il sistema ti banna fino all’età della pensione (cioè per sempre). E’ il politicamente corretto, bellezza. Peccato che il moralismo mainstream il razzismo non solo non lo distrugga affatto, ma che addirittura lo crei. In che senso, il politicamente corretto crea razzismo?Leggiamo su Wikipedia (sì, lo so, abbiate pazienza) che «l’espressione “politicamente corretto” designa una linea di opinione e un atteggiamento sociale di estrema attenzione al rispetto generale, soprattutto nel rifuggire l’offesa verso determinate categorie di persone. L’opinione, comunque espressa, che voglia aspirare alla correttezza politica dovrà perciò apparire chiaramente libera, nella forma e nella sostanza, da ogni tipo di pregiudizio razziale etnico, religioso, ecc». Qui siamo alle semplici definizioni online, e a prima vista sembra tutto ok. Assolutamente condivisibile. Però a ben pensarci, anche nella mera definizione, c’è qualcosa che stride, dato che si parla di pregiudizio, cioè di un giudizio espresso verso una persona o una categoria di persone prima di conoscerle. Già in questo assunto c’è qualcosa che non torna. Se in ufficio volessi dire che quell’ascensore è troppo stretto per la sedia a rotelle del mio amico disabile, non lo potrei oggi fare perchè il politicamente corrretto vuole l’espressione “diversamente abile”. Anzi, meglio sarebbe non dire proprio niente: l’ideale sarebbe far riferimento a un amico impossibilitato a salire in ascensore a causa della sua sedia a rotelle. Punto.Il che, però, non aiuta alla piena comprensione dei miei interlocutori, perchè potrebbe trattarsi di una situazione momentanea (un amico che ha appena subito un intervento chirurgico e che starà sulla sedia a rotelle per qualche giorno, ad esempio). Mentre io, nel far riferimento all’handicap, chiarisco meglio con la parola “disabile” o “handicappato”: cosa c’entra il pregiudizio? Non è forse vero che l’amico cui faccio riferimento si trova in una situazione di menomazione fisica? Nel caso del razzismo, i danni del politicamente corretto sono ancora più evidenti. Se, ad esempio, un passante di origine subsahariana assiste a un incidente stradale, e la polizia che sta eseguendo i rilievi chiede se ci sono dei testimoni, gli interessati si possono trovare in imbarazzo a dire: «Sì, un negro ha visto tutto» (ma anche solo un “nero”, o persino un “signore di colore”). Il politicamente corretto impone che si dica “un signore”, ma questo impedisce in gran parte la comprensione, e impedirebbe persino ai poliziotti di rintracciare il testimone, se egli si trovasse tra una folla di curiosi “bianchi” che assistono alla scena dopo l’intervento della polizia.Il razzismo nasce oggi quando, obbligati dal linguaggio imposto, noi contraddiciamo l’evidenza empirica (un nero per il senso della vista è nero, un disabile è disabile, ecc. ecc.). Da qui la necessità – vietata socialmente – di marcare la distinzione si rafforza a livello inconscio. In altri termini se, di fronte a persone di colore devo stare attento a come parlo, questo finisce per rimarcare, inconsciamente, che quelle persone sono diverse. Nella canzone di Vasco, noi ragazzini degli anni Ottanta ci riconoscevamo perché, chi più chi meno, tutti soffrivavamo di un certo provincialismo. Ne facevamo parte, ma non lo amavamo. Vasco cantava in modo arrabbiato e triste le delusioni d’amore e la superficialità dei coetanei (in questo caso, di una coetanea) che apprezzavano solo chi aveva un determinato stile di vita (la bella macchina). C’entrava un beato beeep il fatto che l’antagonista fosse “nero”; ehm, anzi no, “di colore”, anzi no, “afroitaliano”. Urca: che ho detto? “Un signore”.Secondo il filosofo e psicologo sloveno Slavoj Zizek, se qui in Occidente volessimo davvero sconfiggere il razzismo, il primo passo sarebbe farla finita con questo processo politicamente corretto di auto-colpevolizzazione. L’Occidente ha una tendenza a colpevolizzarsi: dopo essere stati i dominatori del terzo mondo, oggi possiamo ancora esserne i padri moralisti. Se un paese del terzo mondo si macchia di terribili crimini, non è mai pienamente sua responsabilità: sta soltanto imitando quello che faceva il padrone coloniale, ecc. La logica del politicamente corretto attiva quei meccanismi che possiamo chiamare di “sensibilità delegata”, spesso secondo questa linea di argomentazione: «Non mi urtano i discorsi sessisti o razzisti o di odio, o chi si prende gioco delle minoranze, ma io parlo a nome di quelli che potrebbero essere offesi da quelle parole».Il punto di vista è quindi quello di questi “altri” che, viene dato per scontato, sono così ingenui e indifesi da aver bisogno di protezione perché non capiscono l’ironia o non sono in condizione di rispondere agli attacchi. Detto in modo ancora diverso, secondo Zizek noi abbiamo maturato una sensibilità da preti e la proiettiamo su un “altro” ingenuo, producendo così una sua infantilizzazione. Il che è come dire che ci riteniamo ancora superiori e che dobbiamo proteggere i nostri concittadini, amici, compagni, mogli, mariti, figli adottivi e non adottivi, colleghi di lavoro che, magari, sono neri perchè da soli non ce la farebbero. E perchè non ce la farebbero? Perché non sono bianchi.(Massimo Bordin, “E’ andata a casa con il negro, la troia”, dal blog “Micidial” del 4 ottobre 2018).Chissà cosa direbbe oggi la cosiddetta società civile se un Tiziano Ferro qualunque o Laura Pausini usassero lo stesso frasario di Vasco Rossi nella sua celebre canzone “Colpa d’Alfredo”: «L’ho vista uscire mano nella mano con quell’africano che non parla neanche bene l’italiano». Urlava così, Vasco Rossi, al live Modena Park del 2017. E i giovani di oggi – italiani bianchi, neri, omosessuali, eterosessuali, cattolici, musulmani e atei – erano sotto il palco a braccia tese verso il loro idolo, pronti a cantare a squarciagola col Blasco e a spellarsi le mani dagli applausi. Nessuno ha pensato che ad un certo punto Vasco dice che «è andata a casa con il negro, la troia»: roba che se ti provi a scriverla oggi su Facebook il sistema ti banna fino all’età della pensione (cioè per sempre). E’ il politicamente corretto, bellezza. Peccato che il moralismo mainstream il razzismo non solo non lo distrugga affatto, ma che addirittura lo crei. In che senso, il politicamente corretto crea razzismo?
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L’inganno della Croce: storia di una religione “inventata”
Si legge questo libro (“L’inganno della Croce”, di Laura Fezia) e ci si chiede: come non concordare? O, quanto meno, come non cominciare a dubitare seriamente? I contenuti sono accurati, frutto di una ricerca che rispetta le regole di quella scienza che si definisce storiografia: tecnica di composizione di opere storiche, fondata sull’interpretazione critica e sulla rielaborazione scientifico-letteraria dei fatti. Questo libro affronta e narra una serie di vicende che della storia hanno fatto scempio; una successione di atti, decisioni, affermazioni, imposizioni che nulla hanno avuto – e hanno – a che vedere con il desiderio di verità così pomposamente proclamato. L’autrice inizia a ripercorrere qui – e promette di proseguire – la nascita e l’affermazione di una istituzione che si perpetua con lo scopo precipuo di nutrire se stessa, il suo potere, la sua ricchezza, fondandoli in modo pretestuoso su basi che di storico hanno poco o nulla. La falsità creata e posta come base per la creazione di quello che appare come il più duraturo ed efficace sistema di potere mai elaborato e imposto: santaromanachiesa, come la definisce Laura Fezia.Bene fa l’autrice a ricordare che il cardinale Paul Marcinkus, braccio destro di Giovanni Paolo II, per rispondere a una domanda sulla sua disinvolta gestione, affermò candidamente: «La Chiesa non si può mandare avanti con le Avemarie!». Evviva la sincerità! Ma noi ci chiediamo: la Chiesa non dovrebbe essere la prima ad affidarsi in via esclusiva alla Provvidenza. A quella stessa provvidenza che viene spesso ricordata ai poveri e ai sofferenti per far sì che vivano nella speranza di un paradiso in cui trascorreranno la loro eternità con quel dio che la Chiesa stessa ha inventato? Perché i poveri e i sofferenti devono supplire con le Avemarie mentre la Chiesa provvede molto più opportunamente ed efficacemente a sostentare se stessa con la ricchezza? L’autrice evidenzia chiaramente che qualcosa non torna: «Questa non è che una delle contraddizioni talmente evidenti che dovrebbero saltare all’occhio di chiunque, ma i cattolici praticanti e convinti, indottrinati da un’abile, martellante propaganda subliminale, oggi come un tempo preferiscono fingere di non vedere e non sapere, ostinandosi a identificare fede e Chiesa».Il dominio sulle coscienze nasce da invenzioni che in una sorta di fabula vengono congegnate e concatenate le une alle altre, appunto come anelli di una catena che imprigiona inesorabilmente chi non vuole, o spesso non può, pensare e agire in conformità a quella autonomia che la nostra struttura intellettuale (presunto dono del presunto dio) consente o consentirebbe, qualora la si volesse esercitare. Le falsità sono tante e Laura Fezia le riporta, evidenzia e sottolinea, con quella determinazione ed efficace capacità di penetrazione analitica che le riconosciamo da sempre. Ci ricorda ad esempio che «di certo, gli evangelisti che ci presenta l’agiografia non sono mai esistiti. L’esigenza di attribuire gli scritti del Nuovo Testamento ad autori precisi, nacque dopo la metà del II secolo, per conferire loro maggiore attendibilità: si andarono allora a pescare dei nomi tra quelli presenti nelle lettere di Paolo e nei Vangeli, si fabbricarono dei falsi, affermando, per esempio, che il Matteo e il Giovanni che erano stati testimoni oculari della vita e della morte di Gesù ne avevano poi compilato personalmente la storia».Tra le tante altre “bufale” – un temine che l’autrice usa nella sua sincera ed efficacissima schiettezza – contenute nei vangeli e che l’autrice esamina con grande capacità di indagine, c’è la prima, fondamento di tutte: «La Fabula Christi che fu inventata scientemente, da quella parte del popolo ebraico che, staccandosi dall’ossessione messianica, ormai chiaramente fallimentare fin dai tempi di Yahweh e Mosè, decise di cambiare registro e sperimentare un altro sistema per liberarsi dalla schiavitù». Una situazione che nasce da lontano, dalla straordinaria “invenzione” del concetto di peccato originale che consentì alla Chiesa di «governare indisturbata le coscienze delle sue pecorelle, sempre più prigioniere di un recinto eretto in maniera tanto astuta da renderle grate al pastore e inconsapevoli della loro schiavitù». Una disamina storica attenta, precisa, documentata ed efficace proprio perché non cede alla facile tentazione del sensazionalismo ma intende portare all’attenzione del lettore una situazione di fatto, evidente e per ciò stesso straordinariamente liberatoria. Questo libro infatti non è esclusivamente destrutturante, non ha lo scopo precipuo di abbattere, se non nella misura in cui questo è necessario, nella certezza che il nuovo può nascere solo dove le catene del vecchio vengono annullate.Dichiara esplicitamente Laura Fezia: «Lo scopo del mio lavoro non è quello di distruggere la fede, che rispetto almeno fino a quando non pretende di condizionare le mie libere scelte, ma di spezzare il perverso binomio che la lega indissolubilmente a un’istituzione che ne ha fatto una velenosa pozione con la quale intorpidire le coscienze». Chi rimane legato all’idea di un dio che è stato palesemente inventato si preclude la possibilità di accedere alla ipotetica e agognata conoscenza del “vero”. Con questa convinzione, con questo fine assolutamente positivo e liberatorio va letto – direi anche studiato e poi in seguito magari periodicamente consultato – questo libro, che è scritto per chi vuole avere elementi per riflettere in modo autonomo, nella convinzione che, in assenza e nella difficoltà di conseguire la verità assoluta, la riconquista della verità storica rende liberi almeno dalle palesi falsità su cui si basa la stessa struttura socio-culturale in cui vive l’Occidente.(Mauro Biglino, “L’inganno della Croce”, dal blog di Biglino del 24 settembre 2018. Il libro: Laura Fezia, “L’inganno della Croce. Come la Chiesa cattolica ha inventato se stessa attraverso menzogne, artifizi e falsi documenti”, UnoEditori – Libri Eretici, 262 pagine, euro 14,90).Si legge questo libro (“L’inganno della Croce”, di Laura Fezia) e ci si chiede: come non concordare? O, quanto meno, come non cominciare a dubitare seriamente? I contenuti sono accurati, frutto di una ricerca che rispetta le regole di quella scienza che si definisce storiografia: tecnica di composizione di opere storiche, fondata sull’interpretazione critica e sulla rielaborazione scientifico-letteraria dei fatti. Questo libro affronta e narra una serie di vicende che della storia hanno fatto scempio; una successione di atti, decisioni, affermazioni, imposizioni che nulla hanno avuto – e hanno – a che vedere con il desiderio di verità così pomposamente proclamato. L’autrice inizia a ripercorrere qui – e promette di proseguire – la nascita e l’affermazione di una istituzione che si perpetua con lo scopo precipuo di nutrire se stessa, il suo potere, la sua ricchezza, fondandoli in modo pretestuoso su basi che di storico hanno poco o nulla. La falsità creata e posta come base per la creazione di quello che appare come il più duraturo ed efficace sistema di potere mai elaborato e imposto: santaromanachiesa, come la definisce Laura Fezia.
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Della Luna: finanziare a deficit 20 anni di futuro, o è la fine
Dove porta la legge finanziaria sovranista? Per i prossimi 25 anni la produttività (efficienza produttiva) italiana è prevista in costante declino; il che implica il passaggio dell’Italia al Terzo Mondo (molto prima di 25 anni), perché l’Italia continuerà a perdere competitività, quindi a dover ridurre i salari e le prestazioni sociali per compensare tale perdita, non potendo lasciar svalutare la sua moneta dato che l’euro blocca l’aggiustamento fisiologico dei cambi. Continueranno il calo della domanda interna, la crescita delle insolvenze, il calo e/o lo scadimento dell’occupazione, la fuga di aziende, capitali e cervelli, il take-over da parte dei capitali stranieri. Per uscire da questa linea di declino, l’Italia dovrebbe fare investimenti infrastrutturali di lungo termine, cioè almeno ventennali, e idonei a far risalire la produttività: ricerca, tecnologie, ammodernamento, formazione del personale, infrastrutture, sistemazione idrogeologica. Ma per fare tali investimenti si dovrebbe vincere la resistenza e i vincoli europei, che sono stati formulati proprio per mantenere l’Italia (e gli altri paesi poco efficienti) in uno stato di crisi e involuzione controllate permanenti, onde poterne rastrellare fino al fondo le risorse finanziarie, aziendali, professionali per trasferirle in Germania e Francia (questo è il piano della cosiddetta integrazione europea).E bisognerebbe vincerli non solo per il prossimo anno né per un anno alla volta né per tre alla volta, bensì per un programma di almeno vent’anni, concordato e accettato con Bruxelles. Con un programma ventennale di investimenti, gli imprenditori privati, potendo contare su lunghi e grossi appalti pubblici, investiranno i loro soldi in attrezzature e assunzioni, facendo partire un grande circolo virtuoso ed espansivo anche di domanda interna. Il permesso per finanziare un tale piano è alquanto difficile da conseguire, perché gli interessi e il piano europeisti sono nel senso che l’Italia debba continuare il suo declino e la cessione di aziende, capitali, professionisti ai paesi egemoni; e i garanti interni di questo piano europeista – Quirinale, magistrati interventisti (anche nella Corte Costituzionale), apparati ministeriali, mass media – sono già stati mobilitati, e dovranno organizzare qualcosa per fermare l’attuale governo tra qui e le elezioni europee, cioè prima che i partiti sovranisti possano vincere. Per fermare un governo sostenuto dal 62% degli italiani, e con moltissimi osservatori già contro-mobilitati per denunciare ogni tentativo di nuovo golpe ordito sia dall’interno che dall’estero. Una bella partita.Ma quand’anche si riesca a varare un programma ventennale di investimenti, vuoi attraverso una vittoria sovranista alle imminenti elezioni europee, vuoi attraverso una modificazione negoziata dei trattati, vuoi attraverso l’uscita dall’euro e il recupero della sovranità monetaria che consenta una spesa pubblica mediante un’emissione di debito protetto dalla garanzia di acquisto da parte della banca centrale italiana, resterà da vedere se il sistema-paese Italia sia o non sia capace di fare tali investimenti in modo efficace, ossia tale da aumentare adeguatamente la produttività, anziché ancora una volta all’italiana, peggiorando le cose. L’esperienza ormai settantennale con investimenti di analogo scopo nel Mezzogiorno è in senso negativo, così come l’esperienza della ricostruzione dopo i recenti terremoti, nonostante tutte le promesse e garanzie di stretta sorveglianza: gli investimenti sono stati inefficaci perché mal progettati, eseguiti disorganicamente, diretti principalmente da scopi clientelari e con metodi criminali.Anche coloro che promettevano che “l’Europa” e l’euro, con le loro regole, avrebbero risanato il sistema-paese Italia, liberandolo dai suoi vizi storici e rendendolo efficiente attraverso vincoli e pressioni dall’esterno, sono stati smentiti: dapprima, l’introduzione dell’euro, con la possibilità per il settore pubblico di finanziarsi a tassi bassi, ha aumentato la spesa clientelare e parassitaria, quindi l’indebitamento pubblico; con la crisi del 2007-2008, essendo venuti meno gli spazi e i fondi per progetti di crescita e prospettandosi invece un lungo, indefinito declino, politici e amministratori si sono ancor più dedicati alla lotta per spartirsi le decrescenti risorse e alla collaborazione con le operazioni di rastrellamento suddette, senza interesse per l’efficacia della spesa stessa. E’ da questa condizione che deve cercare di ripartire l’attuale governo. Se il sistema-paese Italia ancora una volta risulterà incapace di investire produttivamente le risorse di cui dispone, sarà giustificato il piano Funk, ossia il suddetto piano “europeista” di trasferimento forzato delle medesime risorse da essa ai paesi che le sanno mettere a frutto, come unico piano atto a costruire un’Europa unitaria e ben funzionante, sia pur col sacrificio dei popoli inferiori in quanto ad efficienza.Questo ovviamente vale su scala macro, mentre su scala individuale, coen soluzione al problema-Italia, si confermerebbe l’indicazione dell’emigrazione di chiunque abbia capacità e risorse valorizzabili all’estero. Qualora si arrivi alla rottura con la Bce, raccomando al governo di considerare quanto segue per il nuovo assetto monetario da dare al paese. Dato che la sua inefficienza è dovuta a ragioni storiche inveterate e consolidate di clientelismo, nepotismo, parassitismo, inseriti nei meccanismi di consenso politico, e che tali cause sono eliminabili solo nelle fantasie degli imbonitori, dei velleitari e degli utopisti, l’Italia avrebbe bisogno, per vivere al meglio secondo le sue reali possibilità e con i suoi difetti: di uscire dall’euro ritornando alla sovranità monetaria; di ritornare al libero aggiustamento dei cambi (ossia alla svalutazione competitiva); di dotarsi di una banca centrale com’era prima del 1981, che assicuri l’acquisto del debito pubblico e bassi tassi di interesse, così che lo Stato possa immettere soldi (con gli investimenti a deficit) nell’economia reale anziché toglierli (con gli avanzi primari): infatti l’Italia, come ogni motore vecchio, per funzionare e non grippare ha bisogno di abbondante olio perché ne brucia molto.(Marco Della Luna, “Deficit di bilancio e deficit di efficienza”, dal blog di Della Luna del 30 settembre 2018).Dove porta la legge finanziaria sovranista? Per i prossimi 25 anni la produttività (efficienza produttiva) italiana è prevista in costante declino; il che implica il passaggio dell’Italia al Terzo Mondo (molto prima di 25 anni), perché l’Italia continuerà a perdere competitività, quindi a dover ridurre i salari e le prestazioni sociali per compensare tale perdita, non potendo lasciar svalutare la sua moneta dato che l’euro blocca l’aggiustamento fisiologico dei cambi. Continueranno il calo della domanda interna, la crescita delle insolvenze, il calo e/o lo scadimento dell’occupazione, la fuga di aziende, capitali e cervelli, il take-over da parte dei capitali stranieri. Per uscire da questa linea di declino, l’Italia dovrebbe fare investimenti infrastrutturali di lungo termine, cioè almeno ventennali, e idonei a far risalire la produttività: ricerca, tecnologie, ammodernamento, formazione del personale, infrastrutture, sistemazione idrogeologica. Ma per fare tali investimenti si dovrebbe vincere la resistenza e i vincoli europei, che sono stati formulati proprio per mantenere l’Italia (e gli altri paesi poco efficienti) in uno stato di crisi e involuzione controllate permanenti, onde poterne rastrellare fino al fondo le risorse finanziarie, aziendali, professionali per trasferirle in Germania e Francia (questo è il piano della cosiddetta integrazione europea).
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D’Attorre: folle rigore Ue, ma a dirlo sono solo i gialloverdi
In questi giorni ho ricevuto osservazioni anche da persone e compagni che stimo, i quali mi dicono che è sbagliato esprimere sostegno alla scelta del governo di non rispettare il Fiscal Compact e di impegnare più risorse, perché questo impedirebbe poi di esprimere una critica di merito ai contenuti del Def della legge di bilancio. Ecco, a quanti mi hanno rivolto questa osservazione dico che, a mio giudizio, hanno colto l’aspetto decisivo, ma lo hanno esattamente capovolto rispetto al compito politico che abbiamo. Se il 4 marzo segna uno spartiacque, se davvero vogliamo fare i conti con le istanze che gli elettori hanno espresso (anzitutto tantissimi ex elettori di sinistra), se non vogliamo definitivamente chiuderci nel recinto identitario di una sinistra “benpensante” che considera interamente irrecuperabili i quasi due terzi degli elettori che oggi manifestano sostegno al governo, una cosa non possiamo fare: dire che qualcosa è sbagliato solo perché lo fa un governo di cui siamo oppositori.Allora, se conveniamo che una delle ragioni fondamentali della catastrofica sconfitta della sinistra in tutte le sue articolazioni (Pd, LeU, Pap) è stata l’incapacità di trasmettere un messaggio chiaro e coerente sull’insostenibilità economica e democratica degli attuali vincoli europei, il primo passo da compiere è assumere un atteggiamento che su questo tema renda evidente la discontinuità la comprensione della lezione del 4 marzo. Se è così, la precondizione necessaria affinché la critica agli aspetti sbagliati della politica economica del governo torni ad apparire minimamente credibile ai ceti medi e popolari che ci hanno voltato le spalle, è quello di collocarsi dalla parte giusta rispetto allo scontro in atto. E la parte giusta non è quella di Dombrovskis, di Moscovici, di Juncker e di una Commissione Europea ormai priva di qualsiasi credibilità e autorevolezza, dopo quello che ha combinato sulla Grecia e dopo che da anni consente alla Francia di ignorare le regole sul deficit e alla Germania quelle (ancora più importanti) sul surplus commerciale.Solo se renderemo inequivocabilmente chiaro che noi non saremo mai più dalla parte del Fiscal Compact, del pareggio di bilancio, della favola dell’austerità espansiva, di un’applicazione del regole europee insieme ottusa e discriminatoria, le critiche che dobbiamo fare alla manovra del governo sul fisco, sui rischi di ulteriori tagli a sanità e istruzione pubblica, sul troppo debole rilancio degli investimenti, sulla previsione di nuove privatizzazioni avranno il tono della sincerità e dell’onestà intellettuale. Per essere chiari, la partita politica si può riaprire e si può tornare a contendere il voto popolare alla destra solo se ci mettiamo dal lato del cambiamento, non della restaurazione. L’illusione che basti gridare (peraltro non si capisce da quale pulpito…) alla cialtroneria e all’incompetenza dei nuovi governanti per riconquistare la fiducia degli italiani, per favore, lasciamola a Renzi.(Alfredo D’Attorre, riflessioni su Europa, Pd e “gialloverdi”, riprese sul gruppo Facebook del Movimento Roosevelt. Giovane storico della filosofia e già parlamentare “bersaniano” del Pd, D’Attorre alle ultime elezioni era candidato con “Liberi e Uguali” in Calabria).In questi giorni ho ricevuto osservazioni anche da persone e compagni che stimo, i quali mi dicono che è sbagliato esprimere sostegno alla scelta del governo di non rispettare il Fiscal Compact e di impegnare più risorse, perché questo impedirebbe poi di esprimere una critica di merito ai contenuti del Def della legge di bilancio. Ecco, a quanti mi hanno rivolto questa osservazione dico che, a mio giudizio, hanno colto l’aspetto decisivo, ma lo hanno esattamente capovolto rispetto al compito politico che abbiamo. Se il 4 marzo segna uno spartiacque, se davvero vogliamo fare i conti con le istanze che gli elettori hanno espresso (anzitutto tantissimi ex elettori di sinistra), se non vogliamo definitivamente chiuderci nel recinto identitario di una sinistra “benpensante” che considera interamente irrecuperabili i quasi due terzi degli elettori che oggi manifestano sostegno al governo, una cosa non possiamo fare: dire che qualcosa è sbagliato solo perché lo fa un governo di cui siamo oppositori.
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Franceschetti: sono gli ‘amici del popolo’ a tradire il popolo
Vuoi vedere che, alla fine, saranno proprio gli “amici del popolo” a varare le leggi peggiori, inguaiando gli italiani? «Non me ne stupirei, se andasse a finire proprio così», dice Paolo Franceschetti, noto per aver indagato – come avvocato e poi come ricercatore indipendente – su alcuni dei più atroci delitti irrisolti della storia italiana, a partire da quelli del Mostro di Firenze. La sua tesi: omicidi rituali, commessi da personaggi insospettabili e altolocati. Stragi utili, in ogni caso, alla “sovragestione” occulta del potere: il killer imprendibile è perfetto per tenere in ansia la popolazione, salvo poi presentare all’opinione pubblica un capro espiatorio invariabilmente modesto, senza cultura, proveniente dai ceti popolari. Come dire: è giusto che il popolo patisca ingiustizie, dato che i suoi esponenti (quelli che finiscono in prima pagina) sono rozzi e brutali. Una lettura psico-politica che ha reso Franceschetti estremamente diffidente, rispetto all’offerta elettorale italiana: paradossalmente, proprio la fiducia che Lega e 5 Stelle riscuotono presso gli elettori rendono questi due partiti il vettore ideale, per chi volesse manipolarli, spingendoli a tradire, ancora una volta, le aspettattive di una società messa alla frusta dal rigore imposto dai poteri che sovrastano l’Unione Europea.«Riconosco che Lega e 5 Stelle sono portatori di un rinnovamento valido, sulla carta, e quindi spero sinceramente di sbagliarmi – premette Franceschetti, ai microfoni di “Border Nights” – nel momento in cui esprimo il timore che anche questo governo possa rivelarsi un sostanziale inganno». Le paure di Franceschetti sono storicamente motivate: «Ho sempre votato a sinistra, ma poi ho scoperto che proprio la sinistra, di cui il popolo di fidava, è stata incaricata di attuare le leggi più impopolari». E’ storia: la progressiva contrazione dei diritti del lavoro, la flessibilità universale presentata come inevitabile, le grandi privatizzazioni che hanno sabotato l’economia nazionale italiana. «Dove poi la sinistra non è bastata sono arrivati i cosiddetti “tecnici” a finire il lavoro». Eclatante il caso Monti: pareggio di bilancio in Costituzione, Fiscal Compact, legge Fornero sulle pensioni. Tracollo del Pil, crollo del potenziale industriale, svendita generale del paese. Da qui la protesta recente sotto la bandiera del “sovranismo” leghista, alleatosi con il movimentismo dei pentastellati, fino all’inedito esito del governo “gialloverde”, che – sulla carta – sta provando a sfidare il potere europeo, nonostante l’assedio ostile cui è sottoposto da parte dei grandi media.Campanello d’allarme, l’ultima dichiarazione di Paolo Savona: se tracima lo spread, saremo costretti a rivedere il Def, piegando la testa. Si delinea un bivio: possibili elezioni anticipate, con “chiamata alle armi” per mobilitare gli elettori contro Bruxelles, in alternativa alla più mesta delle ritirate (la rinuncia al 2,4% di deficit per finanziare reddito di cittadinanza, Flat Tax e pensioni più dignitose). «Vorrei tanto potermi fidare dei “gialloverdi” – dice Franceschetti – ma sono costretto a prendere nota, ad esempio, di quanto sta avvenendo sul fronte dei vaccini: lungi dall’abrogare la legge Lorenzin sull’obbligo vaccinale, si sta elaborando una nuova proposta di legge che prevederebbe vaccinazioni obbligatorie anche per gli adulti». Se così fosse – aggiunge Franceschetti – il governo Conte farebbe persino peggio dell’esecutivo Gentiloni. Il che è paradossale, ma non così inconsueto: sarebbe uno spettacolo al quale il pubblico italiano è stato abituato. E cioè: niente di meglio che gli “amici del popolo”, per rifilare al popolo le peggiori leggi, dettate dal vero potere. «Teniamo presente che a comandare sono poteri economici e finanziari: l’Europa dipende dalla Bce, che non è sottoposta ad alcun controllo democratico». Come credere che due partiti, Lega e 5 Stelle, possano (e vogliano davvero) rovesciare un dominio così schiacciante?Vuoi vedere che, alla fine, saranno proprio gli “amici del popolo” a varare le leggi peggiori, inguaiando gli italiani? «Non me ne stupirei, se andasse a finire proprio così», dice Paolo Franceschetti, noto per aver indagato – come avvocato e poi come ricercatore indipendente – su alcuni dei più atroci delitti irrisolti della storia italiana, a partire da quelli del Mostro di Firenze. La sua tesi: omicidi rituali, commessi da personaggi insospettabili e altolocati. Stragi utili, in ogni caso, alla “sovragestione” occulta del potere: il killer imprendibile è perfetto per tenere in ansia la popolazione, salvo poi presentare all’opinione pubblica un capro espiatorio invariabilmente modesto, senza cultura, proveniente dai ceti popolari. Come dire: è giusto che il popolo patisca ingiustizie, dato che i suoi esponenti (quelli che finiscono in prima pagina) sono rozzi e brutali. Una lettura psico-politica che ha reso Franceschetti estremamente diffidente, rispetto all’offerta elettorale italiana: paradossalmente, proprio la fiducia che Lega e 5 Stelle riscuotono presso gli elettori fa di questi due partiti il vettore ideale, per chi volesse manipolarli, spingendoli a tradire, ancora una volta, le aspettative di una società messa alla frusta dal rigore imposto dai poteri che sovrastano l’Unione Europea.