Affari e Finmeccanica: ecco perché l’India trattiene i marò
Non è possibile che un incidente come quello di cui sono stati protagonisti i due marò del San Marco, colpevoli o innocenti che siano, possa portare a una crisi così clamorosa nei rapporti fra Italia e India. Lo sostiene Davide Giacalone, editorialista di “Libero”, secondo cui i due militari sarebbero soltanto due sfortunate pedine di un gioco molto più grande, fatto di affari legati alle commesse di un’azienda strategica, Finmeccanica. Mazzette promesse e poi non versate? Al di là delle clamorose “tifoserie” che il caso ha letteralmente scatenato, secondo Giacalone «si dimostra che le autorità indiane non ce l’hanno con i due militari, ma con l’Italia», e che la contesa «non è esclusivamente su una competenza e una procedura penale, ma sugli interessi dei due Paesi». I due soldati sono accusati d’omicidio: «E noi dovremmo credere che si concede la licenza a due presunti omicidi, dopo il pagamento di una cauzione (826 mila euro) non destinata a garantire la libertà fino al processo, ma il ritorno a casa per le feste natalizie?».
Questo, aggiunge Giacalone nel suo blog, è divenuto lo scontro fra due Paesi. E, in questa chiave, scrive, «credo che l’Italia stia continuando a commettere errori», anche nel ricevere i due militari: col capo di Stato maggiore della marina all’aeroporto, il ministro degli esteri «sicuro dell’esito positivo» e finora sempre smentito dai fatti, fino alla convocazione al Quirinale. «Tutto spettacolarizzato, laddove sarebbe stata saggia la discrezione: sembra che siano tornati due cittadini finiti nelle grinfie dei nemici o, peggio, di un popolo incivile, che li detiene illegittimamente», scrive Giacalone. Tanto festeggiare, aggiunge l’editorialista, finisce con l’avere tre significati: l’Italia s’identifica con i suoi due militari, che considera innocenti, mentre l’India si sta comportando male. «Ed è proprio quest’ultima cosa a uscirne esaltata mentre, forse, l’intenzione era quella di sottolineare le prime due». Pessima gestione della
crisi, dunque, fin dall’inizio.
Se questi sono gli errori di parte italiana, continua Giacalone, perché l’India ha assunto una posizione così rigida? «Mettiamo che abbiano ragione loro, che i due militari siano colpevoli di non avere applicato correttamente il protocollo e che, quindi, abbiano ammazzato indebitamente dei pescatori. Brutta storia, ovviamente, ma non così grave. A maneggiare le armi, può capitare. Accusatemi di cinismo, se credete – aggiunge Giacalone – ma è capitato anche a militari stranieri in Italia». E’ ragionevole che le autorità del Paese colpito si risentano, ma se i rapporti fra i due Stati sono buoni non faranno altro che consegnare i presunti colpevoli nelle mani dell’autorità altrui: così si salvano i buoni rapporti e la pretesa punitiva, poi si dimentica. «Se qui le cose vanno all’opposto è perché manca la premessa: i buoni rapporti». Già, perché i rapporti sono pessimi? «Ecco il punto delicato: forse per come un’impresa dello Stato italiano ha condotto i propri affari, Finmeccanica».
«Non sto dicendo che è di quella società la “colpa”», precisa Giacalone, che allude «al lato oscuro di uno scontro noto come tale, ma sottaciuto». Qualcosa non ha funzionato, conclude l’editorialista di “Libero”. «E siccome è difficile che reazioni di questo tipo siano provocate da inadempienze relative al contratto scritto, è facile che riguardino la sua parte non scritta». Quello che a volte viene chiamato “tangenti”? «Senza ipocrisie: in tutto il mondo si fanno affari pagando extracosti o consulenze, alias mazzette, specie nel settore militare». In questo settore «il moralismo è fuori di luogo, ma se trovi un Paese inferocito, come l’India si mostra con noi, tocca al governo stabilire chi, come e perché non ha funzionato».
Per Giacalone, Finmeccanica è stata abbandonata, ma non decapitata e rinnovata: «Voci ricattatorie corrono per ogni dove, il capo del governo italiano assiste inerte alla non ammissione dei vertici Finmeccanica agli incontri internazionali». Finmeccanica e governo hanno divorziato, scrive Giacalone. «E questo è grave, perché il governo è l’azionista, nonché il titolare della politica estera». E i due marò? «Forse hanno sbagliato, o forse no, non lo so. So che sono due pedine». Li hanno spediti in Italia per Natale, dove sono stati ricevuti «come avessero vinto una guerra». Quanto all’esito finale, Giacalone non si illude: «Ho più fiducia nel giudice indiano che nella lucidità politica e diplomatica che, fin qui, s’è vista».
Il riduzionismo economico è ormai sepolto sotto le macerie del Muro di Berlino.
Tanto i piloti americani del Cermis, tanto i caschi blu indiani stupratori in Congo, giudicati in patria se la sono cavata con pene ridicole. Se invece si cade in mano all’altro paese, allora sono guai. E qui non si tratta né di alleati (non certo alla pari) nella Nato, né di peacekeeper per sedare una guerra civile, ma di una missione internazionale con cui l’India c’entra ben poco, visto che addirittura doveva svolgersi al Corno d’Africa sull’altro lato dell’Oceano Indiano. Se davanti all’India erano in transito, dovevano non usare le armi, e magari per prudenza tenerle nel bagagliaio.
La giurisdizione è molto più complessa di quanto sembri, si veda http://www.diritto.net, http://www.questionegiustizia.it, http://www.zetablue.it, http://www.micheledisalvo.com ecc.
L’Italia è stata condannata dalla Corte di Strasburgo sia per la lentezza dei processi che per le condizioni disumane delle carceri. Perciò delocalizziamo la giustizia in India, augurandoci che nessuno finisca come Cucchi