Alpinista del cielo: l’impresa di Geo Chávez diventa canzone
Scritto il 26/10/11 • nella Categoria:
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“Era andato lontano da pioniere lassù, sorridendo nel vento tra le nuvole blu”: cent’anni dopo, la voce intenerita di Giorgio Conte accarezza il volo cosmonautico di un ragazzo franco-peruviano del 1887, l’alpinista del cielo decollato per salutare l’infanzia del nuovo mondo, quando il cosmo alpino si fermava ancora ai duemila metri di quota del Sempione. Orizzonte acuminato, da sorvolare a bordo di «trabiccoli che facevano salti di pulce, più simili a insetti volanti che ai moderni mezzi di volo transoceanico», dice lo scrittore Carlo Grande, ora nei panni di paroliere, autore del brano che sfolgora per intensità e bellezza nell’ultimo album del fratello di Paolo Conte, celebrando l’impresa vittoriosa e sfortunata del ragazzo-libellula, “Geò”, il primo che osò scavalcare le Alpi.
Viene subito in mente il leggendario leopardo evocato da Hemingway nelle “Nevi del Kilimangiaro”, emblema di una sfida universale che sa di avventura: riecheggia l’istinto eterno di Ulisse, primo antenato di ogni esploratore, mentre la dolcezza di Giorgio Conte s’inoltra in una sorta di struggente archeologia interiore color milonga, dove risuona il passo di valzer di “Via del Campo” insieme all’eredità di altre meraviglie della migliore canzone italiana. “Non sono che l’anima di un pesce con le ali, volato via dal mare per annusar le stelle”, cantava Fossati nel 1992, sulla scia del grande Charles Lindbergh, protagonista della storica trasvolata atlantica del 1927. “Difficile non è nuotare contro la corrente, ma salire nel cielo e non trovarci niente”: forse l’avrà pensato anche Jorge Antonio Chávez Dartnell, quel 23 settembre di tanti anni prima – era solo il 1910 – quando riuscì ad avere la meglio sui furiosi venti svizzeri di Briga fino a raggiungere il valico da cui poi puntare sul versante italiano, con la sua libellula di legno sospinta da un motore minuscolo come quello di uno scooter e la minima attrezzatura di bordo: un barometro, una bussola e un tachimetro.
“Geo” Chávez aveva solo 27 anni. «Mia madre mi raccontava sempre che, il giorno in cui ero nato, era morto un eroe», ricorda Vittorio Foa. Neo-ingegnere appassionato di volo e detentore del record mondiale di altitudine – i 2652 metri del cielo parigino di Issy – il giovane Chávez riuscì a compiere il suo “miracolo” alpino in meno di un’ora, planando su Domodossola: un’impresa «dalle difficoltà tecniche enormi per i pionieristici aerei dell’epoca», spiega Carlo Grande su “La Stampa” rievocando quell’avventura che emozionò il mondo. Basti pensare che, fino a pochi mesi prima, quelle “trappole volanti” «riuscivano a staccarsi solo qualche centinaio di metri da terra», affrontando virate che «richiedevano sforzi titanici: il raggio di curvatura era amplissimo e si agiva sugli alettoni grazie a tiranti impugnati dalla “carlinga”, a forza di braccia». Era come vogare, nell’aria, appesi a un telaio fragilissimo: come fecero i fratelli Wilbur e Orville Wright nel 1903 e, tre anni dopo, il francese Alberto Santos Dumont che riuscì a volare per duecento metri, sollevandosi dal terreno per 21 secondi ad appena quindici metri d’altezza.
Nessuno aveva mai osato affrontare la catena alpina: lo fece “Geo” Chávez, raccogliendo la sfida lanciata dal segretario generale del Touring Club Italiano Arturo Mercanti, appoggiato dal “Corriere della Sera” e dai più bei nomi dell’aristocrazia e dell’imprenditoria lombarda, in piena Belle Époque. In palio, insieme alle centomila lire da spartire tra i primi tre classificati, c’era un sogno: il passaggio delle montagne da parte di una macchina «più pesante dell’aria». Alla fine dell’estate 1910, dunque, un ragazzo ambizioso e romantico sale su un Blériot XI – una specie di libellula con ruote da bicicletta – per cercare, come diceva lui, «l’ascensore per scalare il cielo». Racconta Carlo Grande: «È il 23 settembre: per 45 minuti Chávez lotta nelle terribili correnti di alta quota, poche centinaia di metri sopra roccioni, forre e foreste, scavalcando paesini dove la gente accorre a salutarlo, nei prati, dai balconi, sui campanili».
L’impressionante spaccatura tra le montagne che appare dal “campo di slancio” di Briga, il canyon nel quale Geo Chávez andò a infilarsi rimanendo quasi in balia di gole e vortici di vento, rende l’esatta misura del suo coraggio e della sua temerarietà. L’aereo venne seguito passo passo da giornalisti di tutto il mondo, da Frantz Reichlin del “Figaro” al principe degli inviati del “Corsera”, Luigi Barzini, che scrisse decine di articoli, restando vicino a Geo fino all’ultimo, dopo il drammatico atterraggio sui prati di Domodossola: ad appena una ventina di metri da terra, le ali – logorate dai «colpi di maglio» del vento – cedettero e si ripiegarono sopra la carlinga, «come ali di una libellula». «È terribile, ho visto il brutto muso dell’inferno», dirà Chávez dopo lo schianto e durante l’agonia a Domodossola, durata quattro giorni e raccontata dai giornali in edizioni straordinarie.
Eppure, Geo non aveva ferite mortali, scrive Ferruccio De Bortoli nell’introduzione al libro di Luciano Martini “Geo Chávez. Il primo trasvolatore delle Alpi” (Tararà). Era un ragazzo robusto, giovane, allenato come un atleta. Invece muore, il 27 settembre 1910, alle 2,55 del pomeriggio: «Non sappiamo esattamente perché». Mistero, che prolunga nel tempo la leggenda subito cantata, in versi, da Giovanni Pascoli, grande ammiratore dei primi temerari trasvolatori: “Cercano tra i venti randagi, in mezzo alle selvaggie strette, su scrosciar di valanghe e di torrenti”. Due mesi dopo lo schianto del giovane pioniere dell’aria, il poeta scrive: “Cade, con la sua grande anima sola, sempre salendo. Ed ora sì, che vola!”. Immagine che, a distanza di cent’anni, Carlo Grande e Giorgio Conte citano e traducono (“Vieni Geò, scendi dal cielo, adesso il tuo volo comincia davvero”), in un brano-capolavoro nel quale voce, musica e parole si fondono alla perfezione e decollano insieme, sorvolando una prateria poetica fatta di pietà dolente: “Scavalcava le creste in volo planare, alpinista nell’aria in volo planare…”.
“Geò” è un’autentica gemma nel disco “Come quando fuori piove”, appena uscito, di cui Giorgio Conte è letteralmente felice: «E’ un album pieno zeppo di effetti speciali: c’è il richiamo del cinghiale in amore, ci sono i carillon, il canto del gallo, il fruscio delle spazzole ed il rumore di due scatole di chiodi, un’armonica a bocca suonata da uno che non la sa suonare». Suoni naturali: il richiamo della quaglia e il verso della civetta, il rumore della selce che mola la falce. «E’ un album fatto come volevo io, in casa mia, con le mie chitarre e con il mio pianoforte (non proprio di gran marca), con i suoi rumorosissimi pedali. Dodici mie canzoni ed una di Paolo, “Monticone”, stupenda e commovente». Canzoni, scrive Bruno Gambarotta, in cui «ritroviamo la leggerezza, la sorridente accettazione dei casi della vita, in personaggi e in storie dove non c’è tragedia, finitudine, dove la sconfitta è temporanea e riscattata da un sorriso». O, nel caso di “Geò” Chávez, dal sogno felice di un volo infinito.
«Arriba, siempre arriba», sono state le ultime parole del giovane “alpinista del cielo”: in alto, sempre più in alto. Il testamento di una storia che racconta l’adolescenza ingenua di un’Europa visionaria, che ancora non sapeva che – di lì a poco – si sarebbe schiantata nel fango e nel sangue della Grande Guerra. Storia che tornerà a vivere anche nelle immagini del documentario che sta preparando Fredo Valla, sceneggiatore con Giorgio Diritti del film “Il vento fa il suo giro”. Un sodalizio creativo, ora esteso anche a Giorgio Conte e allo stesso Carlo Grande, esploratore dei vasti silenzi himalayani de “La cavalcata selvaggia” (Ponte alle Grazie, 2004) e cantore degli spazi alpini rarefatti e scolpiti nella roccia che domina la lettura di “Terre alte. Il libro della montagna” (2008). Raffinata letteratura d’alta quota, dopo il grande successo del premiatissimo romanzo storico del 2002, “La via dei lupi”, ambientato tra valle di Susa e val Varaita sulle orme della solitaria resistenza di François de Bardonneche, il signore occitano che osò ribellarsi alla prepotenza del potere prendendo il sentiero dei monti, le stesse montagne dove oggi si arrocca la resistenza civile dei valsusini contro la Tav Torino-Lione.
C’è un destino che commuove sempre, nel paesaggio dell’anima che dilaga lungo la frontiera d’aria delle “terre alte”, dalle Alpi alla vetta africana del Kilimangiaro, la “casa di Dio” a 5890 metri di quota dove Hemingway “avvista” «la carcassa stecchita e congelata di un leopardo»: nessuno ha saputo spiegare che cosa cercasse, a quell’altitudine, dice lo scrittore americano, al termine di un viaggio febbrile tra le visioni di un altro, drammatico sorvolo. Montagna e cielo, tra le amate nubi: il posto giusto per entrare nella leggenda, come il “piccolo principe” Saint-Exupéry. Un cuore in volo, anche quello di Geo Chávez, “mentre il vento sull’ali furioso picchiava, come un pazzo gran colpi di mazza picchiava”. La voce di Giorgio Conte tradisce un tremito mentre scruta da vicino il sorriso del ragazzo-libellula, decifrato per noi dalle parole di Carlo Grande: “Che coraggio il ragazzo seduto lassù, nell’aria gelata seduto lassù”, dove insieme a quelle «ali di libellula» scomparve per sempre, nel 1910, una parte della nostra innocenza.
(Giorgio Cattaneo, Libre)
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