Crisi Usa? Cina e Iran: basta dollari, meglio il baratto
Scritto il 29/7/11 • nella Categoria:
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Mentre gli Usa rischiano il default, la bancarotta “tecnica” che – se non verrà innalzata la possibilità di indebitamento – impedirebbe al governo federale di poter pagare ad esempio stipendi pubblici e pensioni di guerra, s’è scoperto che Cina e Iran stanno studiando un nuovo sistema, in realtà antichissimo, per scambiarsi beni senza ricorrere al denaro: il baratto. Uno scambio alla pari: la Cina importerebbe il petrolio di Teheran insieme ad altre materie prime, come il cromo; in cambio, Pechino offrirebbe all’Iran i manufatti della propria industria, in piena espansione. Paradossale, nell’era della finanzia globale? No, se a far paura è proprio l’inaffidabilità della moneta commerciale: il dollaro.
Cina e India, che importano un terzo del petrolio iraniano, si ritrovano nell’impossibilità di pagare le forniture, a causa delle sanzioni Usa che impediscono a Teheran di effettuare transazioni in dollari. Pechino e Delhi hanno così accumulato un rilevante debito con l’Iran: 35 miliardi di dollari, come osserva Domenico Moro sul blog “Marx21”. Non potendo accettare pagamenti in yuan – la moneta cinese non è convertibile – l’Iran aveva anche rispolverato l’idea di installare sull’isola di Kish una borsa del petrolio, in cui gli scambi avvenissero con altre valute, come l’euro; soluzione scartata, se è vero che Cina e Iran ora pensano di ricorrere al più semplice degli scambi: il baratto.
«Mentre l’India non esporta granché in Iran, l’interscambio tra Cina e Iran è stato nel 2010 di 29,3 miliardi di dollari (+40% rispetto all’anno precedente)», spiega Moro. «La Cina può quindi “barattare” con il petrolio i vari manufatti che produce ed esporta in Iran». Fra l’altro, Pechino è coinvolta in molteplici progetti per la realizzazione di infrastrutture in territorio iraniano. Una vicenda davvero paradossale insiste Moro: «Nell’epoca del massimo sviluppo del mercato e, quindi, dello scambio valutario che ne è necessario strumento, si deve tornare a un meccanismo farraginoso, da tempo di guerra». Inoltre, questa soluzione “forzata” è dovuta «al dominio finanziario che gli Usa continuano ad esercitare, sebbene, come dimostrano le loro vicende economiche, non siano in grado di poggiarlo su altro che su una forza militare tanto preponderante quanto sempre più onerosa».
I problemi Usa non derivano solo da uno scontro tra repubblicani e democratici, riflesso in realtà dell’incapacità di Washington nell’affrontare l’indebitamento crescente: in apparenza il debito è al 100% del Pil, ma in realtà – come puntualizzano il “Sole 24 Ore” e l’“Economist” – è almeno al 140%, se vi includiamo, come si fa in Europa, non solo il debito degli Stati centrali ma anche quello delle amministrazioni locali. L’economia ha smesso di crescere e aggrava la piaga della disoccupazione, mentre l’immensa spesa militare non fa che aumentare di anno in anno.
«L’instabilità del dollaro, in combinazione con l’immissione da parte della Fed di una enorme liquidità nel tentativo di puntellare l’economia e la finanza Usa – scrive Moro – ha generato instabilità a livello mondiale, di cui sono stati indicatori la continua altalena dei prezzi delle materie prime e le tensioni fra i creditori mondiali Usa, Cina in primis, timorosi di veder evaporare il valore dei Treasury Bill Usa in loro possesso». Il temutissimo default Usa amplificherebbe questa instabilità a livelli difficilmente sostenibili: «Ma il paradosso più grande – aggiunge Moro – è che una valuta indebolita e senza una economia con le spalle sufficientemente larghe continui a dettare legge negli scambi internazionali, producendo in questo modo altra instabilità».
Anche la vicenda dell’euro va vista in questo quadro, se è vero che ancora una volta le agenzie di rating (tutte anglosassoni, due Usa e una britannica) sono state capaci di vanificare gli effetti “rialzisti” sulle Borse europee delle misure “lacrime e sangue” predisposte come soluzione dai governi dell’euro-zona. Un’area che non solo ha un debito sovrano inferiore a quello degli Usa (“ solo” l’85% del Pil) ma ha anche una bilancia dei conti correnti in attivo di 21,2 miliardi di dollari, a fronte di un passivo Usa di ben 470,2 miliardi (2010, statistiche Oecd). I mercati internazionali – scrive ancora Moro – non sono affatto “liberi”, ma rappresentano al contrario il terreno della forza di grandi monopoli economici e politici (info: Megachip).
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