Libia, anche l’Italia firma l’ultimatum di guerra
Sette basi militari a disposizione, insieme ai velivoli tricolori in partenza per i cieli libici: intercettori Eurofighter, caccia F-16 e bombardieri Tornado. Missione: contribuire alla “no-fly zone” per impedire a Gheddafi di continuare a bombardare gli insorti e la popolazione che li sostiene. Di fatto: neutralizzare basi libiche, contraerea, radar e difesa missilistica. Sono le regole d’ingaggio della “guerra dell’Onu”, ultimatum scattato con l’ok del Consiglio di Sicurezza su pressione di Francia e Inghilterra – un passo indietro gli Usa, astenuta la Germania. Decisivo il silenzio-assenso di Russia e Cina, che hanno rinunciato al loro potere di veto aprendo la strada alla fine del regime di Gheddafi: un esito sul quale mette la propria firma anche l’Italia, “portaerei del Mediterraneo” e scomoda dirimpettaia del Colonnello, fino a ieri super-fornitore, grande amico e socio in affari.
Clamorosa la rapidità degli eventi, che in pochi mesi hanno sconvolto lo scenario: prima la Tunisia, poi l’Egitto. Crisi annunciate da tempo, da analisti inascoltati: la globalizzazione destabilizza il mondo e accresce la mobilità dei disperati, non più disposti a restare in eterno sudditi affamati dei raìs petroliferi “amici dell’Occidente”, affidabili partner nella “guerra al terrorismo”. E’ toccato al popolo scendere in piazza, ai ragazzi informati da Al Jazeera e da Internet: scappato a gambe levate Ben Alì, il presidente-dittatore “inventato” dall’Italia e protetto dalla Francia, la presidenza Obama si è fatta sentire nella crisi egiziana, schierandosi contro l’ex alleato di ferro Mubarak, che Bush aveva trasformato in spietato gendarme anti-palestinese. Poi è toccato al Golfo: allo Yemen, al Bahrein sciita e filo-iraniano, ora invaso dai carri armati dell’Arabia Saudita.
E mentre anche nella Siria dinastica della famiglia Assad scoppiano i primi scontri, al Palazzo di Vetro è arrivata l’atroce crisi della Libia di Gheddafi. Pochi si aspettavano che proprio il feroce regime di Tripoli potesse essere sfidato. Nel giro di qualche settimana il film dell’orrore ha proposto di tutto: la rivolta-lampo, le prime repressioni sanguinose con l’impiego di mercenari-killer reclutati nell’Africa nera, lo sbando e il quasi-sfacelo dell’esercito, l’assedio a Tripoli, le terribili minacce del dittatore sotto choc, l’isolamento internazionale (diplomatico, economico e giuridico, ma non ancora militare), quindi la rapidissima riconquista delle città dei rivoltosi: da Zawiya a Zuara alle porte della capitale, dagli snodi petroliferi di Ras Lanuf e Brega fino al contro-assedio di Bengasi, oggi capoluogo della Cirenaica ribelle e domani, forse, capitale di metà della nuova Libia.
Non possiamo lasciare inascoltato il grido di libertà che giunge dalle popolazioni arabe, dice commosso il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, battezzando di fatto il centocinquantenario dell’Unità d’Italia in una giornata assordata dal rombo degli aerei Nato diretti verso le basi italiane nel Mediterraneo. Non possiamo restare indifferenti, dice Napolitano, alla richiesta di aiuto di popolazioni martoriate dalla più feroce repressione: è in atto il Risorgimento arabo, che sarà decisivo per il futuro del mondo. Il capo dello Stato preannuncia «decisioni difficili», e il governo Berlusconi si adegua: se fino a ieri il Cavaliere elargiva baciamano al Colonnello, grande fornitore di petrolio e gas nonché socio strategico del made in Italy (da Finmeccanica all’impero bancario Unicredit), di colpo il Trattato Italia-Libia diventa carta straccia. E Roma, senza neppure un discorso ufficiale del premier, si affretta ad allinearsi con Parigi e Londra: pronti anche a bombardare Gheddafi, cioè il dittatore di cui l’Italia è stato il primo fornitore europeo di armamenti.
Il Pd si schiera col governo, interpretando la missione Onu in chiave umanitaria, per la protezione della popolazione libica oppressa dal sanguinario dittatore, mentre Vendola frena e raccomanda prudenza, Di Pietro non sottoscrive l’appello alle armi e la Lega Nord – clamorosamente – prende le distanze dal governo, preferendo l’astensionismo della Germania, che resta lontana dal Mediterraneo. Intanto Gheddafi offre l’ennesimo spettacolo: prima dichiara sprezzante che la comunità internazionale è impazzita, poi cambia idea e proclama il solenne rispetto del cessate il fuoco imposto dalle Nazioni Unite ma nel frattempo ne approfitta per avvicinare ulteriormente le sue forze a Bengasi e bombardare ancora la capitale della Cirenaica in attesa che Onu, Nato, Lega Araba e Unione Africana il 19 marzo decidano a Parigi la catena di comando dell’operazione militare.
Dal fronte contrario all’intervento spicca la posizione di Giulietto Chiesa, autore di un appello firmato tra gli altri anche da Massimo Fini e Alex Zanotelli, Angelo Del Boca e Maurizio Pallante: «Li conosciamo i bombardamenti “chirurgici”, che poi fanno strage anche di civili». L’obiettivo vero, sostiene Chiesa, è «consegnare la Libia a un partner affidabile in qualità di fornitore di materie prime energetiche». La risoluzione dell’Onu? «Un atto illegale». Ironia della sorte, aggiunge Chiesa, «toccherà di nuovo a Francia e Inghilterra il ruolo infausto che assunsero nella lontana crisi di Suez: allora agirono apertamente nel loro interesse», provando a invadere l’Egitto ribelle di Nasser, mentre oggi «fingono di farlo per “ragioni umanitarie”». Anche se ancora in mano a Gheddafi, la Libia resta «un paese sovrano». Dagli studi de La7, gli risponde il generale Fabio Mini, già a capo delle forze internazionali in Kosovo: «Da quando è stata decretata la “no-fly zone”, la sovranità della Libia è finita».
L’Italia dunque sottoscrive l’ultimatum di guerra. Il ricorso alle armi è vicinissimo: basterà il minimo pretesto per scatenare i bombardamenti contro le truppe di Gheddafi. Grande l’incertezza: le forze lealiste potrebbero abbandonare il dittatore – questo, secondo il generale Mini, il vero obiettivo della risoluzione Onu – oppure potremmo assistere a una guerriglia lunga, con esiti pericolosi, nella regione più strategica del mondo, che sta letteralmente prendendo fuoco. Più che della Libia, l’America è preoccupata dell’Arabia Saudita, il grande forziere petrolifero: questo spiega l’intervento saudita in Bahrein per prevenire “fughe” verso l’Iran. Si sta giocando una partita decisiva: da una parte l’Occidente in crisi, pronto a liquidare storici alleati pur di preservare l’accesso al petrolio, e dall’altra il desiderio di libertà che sta letteralmente esplodendo in tutta la Mezzaluna Araba, Libia compresa. Pari opportunità: questo chiedono i giovani arabi che hanno costretto il mondo ad accorgersi finalmente di loro.