Intercettazioni, no al bavaglio: ci faremo arrestare
Pronti ad andare anche in prigione, pur di non sottostare al «grande bavaglio alla stampa» che tra due settimane il Senato licenzierà, col disegno di legge Alfano sulle intercettazioni telefoniche. «Da un giorno all’altro sui giornali, sulle tv e sul web, non sarà più possibile raccontare le malefatte delle classi dirigenti di un Paese in cui la corruzione, secondo la Banca Mondiale e la Corte dei Conti, costa ai contribuenti più di 50 miliardi di euro l’anno», scrive Peter Gomez sul “Fatto Quotidiano”, annunciando la “disobbedienza civile” del giornale: «Noi violeremo quella legge, a costo di finire in carcere».
Nel giugno scorso, ricorda Gomez, il testo del decreto è stato modificato per consentire che almeno il riassunto delle ordinanze di custodia cautelare e degli atti non più coperti da segreto possa essere dato alle stampe. «In questo modo, per lo meno, si potrà scrivere che chi non c’è più non è vittima di un sequestro o di una lupara bianca, ma che è finito in galera perché accusato di qualche reato», scrive Gomez, «ma se il cronista dovesse citare qualche frase tratta testualmente da quei documenti, o peggio ancora, le trascrizioni delle intercettazioni, sarà punito. E la punizione, durissima, scatterà persino se in pagina dovessero finire i semplici riassunti dei colloqui telefonici».
La legge è categorica: anche se le intercettazioni fossero riportate, come accade nel 90%, in ordinanze di custodia o di sequestro, «il giornalista deve far finta che non esistano». Gomez ricorda casi celebri come quello dei Furbetti del Quartierino, «in cui gli italiani scoprirono che l’ex governatore di Bankitalia Antonio Fazio non era un arbitro imparziale proprio leggendo le intercettazioni», o quello dell’ex braccio destro di Guido Bertolaso, Angelo Balducci: «Tutta l’inchiesta si basa su intercettazioni che, per i pm, dimostrano come l’alto funzionario favorisse alcune imprese legate a doppio filo alla politica. Non c’è un solo testimone. Non c’è una sola gola profonda. Quindi non c’è niente che possa essere riassunto e raccontato».
Gomez ricorda di essersi «già impegnato con molti altri colleghi a disobbedire a queste norme», perché «la notizia, se è tale, viene prima di tutto». E aggiunge: «La prospettiva di pagare forti sanzioni pecuniarie per raccontare che, subito dopo il terremoto de L’Aquila, due imprenditori già ridevano pensando agli affari futuri, non ci spaventa. Faremo una colletta. E non ci spaventa nemmeno il rischio di finire in carcere». Chi infatti pubblica intercettazioni non trascritte perché considerate non penalmente rilevanti (ma importanti politicamente o moralmente) verrà punito con la reclusione fino a tre anni.
Da una parte, continua Gomez, l’autore dello scoop dovrà finire davanti all’ordine dei giornalisti. Dall’altra, a pagare (fino a circa mezzo milione di euro) sarà il suo editore. Conseguenza: se “Il Giornale” si ritrova in mano, come è accaduto nel 2006, l’intercettazione non trascritta in cui Piero Fassino dice a Giovanni Consorte «allora siamo padroni di una banca» la pubblicherà (giustamente) sempre. Anche perché Fassino è un avversario della ricchissima famiglia Berlusconi, disposta a pagare qualsiasi cifra, dice Gomez, e lo stesso potrebbe fare “Libero” di proprietà dei facoltosi Angelucci o, a parti invertite, “Repubblica”. «Insomma chi se lo può permettere farà scrivere, quando conviene, articoli solo contro i “nemici” politici o economici e considererà la multa come una investimento».
Secondo Gomez, «il giornalismo si trasformerà così definitivamente in una guerra per bande in cui i contenuti dei giornali non vengono decisi dai direttori, ma dagli editori». Diverso il caso de “Il Fatto Quotidiano”, il giornale diretto da Travaglio e Padellaro, su cui Gomez scrive. Il “Fatto” disobbedirà alla legge, annuncia Gomez: «Quando avremo una notizia importante sarà disubbidienza civile. Di fronte alla censura violeremo la legge e lo diremo. Per poi ricorrere alla Corte Costituzionale e alla Corte europea dei diritti dell’uomo».
Nel 2007 Strasburgo ha infatti condannato la Francia per violazione della libertà di espressione, ricorda Gomez. E a Parigi due giornalisti erano stati puniti per aver scritto un libro in cui si raccontava il sistema di intercettazioni illegali messo in piedi dall’ex presidente Mitterand. Per la corte avevano sì violato il segreto istruttorio, ma vista la portata della notizia l’interesse dei cittadini a sapere era da considerare preminente.
E qualcosa di analogo accade nel 1971 negli Usa, quando due giornali pubblicarono documenti coperti da segreto di Stato che dimostravano come il celebre incidente del Tonchino in seguito al quale, di fatto, comiciò la guerra del Vietnam fosse un falso: allora la Corte Suprema disse che avevano tutto il diritto di farlo. Perché, spiegò l’ottuagenario giudice Hugo Black, «la stampa (dal punto di vista dei Padri fondatori) deve servire ai governati non ai governanti. Il potere del governo di censurare la stampa è stato abolito perché la stampa rimanesse per sempre libera di censurare il governo» (info: www.ilfattoquotidiano.it).