Archivio del Tag ‘unione bancaria’
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Tentazione: usare l’emergenza per un golpe, incluso il Mes
Il coronavirus sembra non volerne sapere dei modelli matematici fatti apposta per ingabbiarlo: le cifre crescono, e così assistiamo a una moltiplicazione dell’incertezza, mentre si consuma il balletto quotidiano dell’indecisione del governo. Attenti: il momento è propizio per instaurare uno “stato d’eccezione”. Lo afferma il professor Alessandro Mangia, ordinario di diritto costituzionale alla Cattolica di Milano, intervistato da Federico Ferraù sul “Sussidiario“. «L’emergenza – spiega Mangia – consente di fare infinite cose che in condizioni normali non si potrebbero fare», dalla nomina di un “commissario al coronavirus” fino alla firma del Mes, passando per l’introduzione forzata del wireless 5G. Esistono precedenti: all’indomani del terremoto di Messina del 1908, lo Stato neo-unitario inventò l’istituzione del decreto-legge. «La disciplina dell’emergenza si è sviluppata simultaneamente in tutta Europa, e se n’è fatto ampio uso durante e soprattutto subito dopo la Prima Guerra Mondiale: basti pensare a una calamità come l’influenza spagnola, che uccise soltanto in Italia quasi 400.000 persone». Un giurista come Santi Romano diceva che l’emergenza è una fonte del diritto: «Vale sicuramente per il coronavirus. Pensiamo al decreto-legge 6/2020 appena varato dal governo e ad altro che potrebbe arrivare».
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Carotenuto: Brexit, tedeschi e francesi le prossime vittime
Sembra quasi che i laburisti abbiano perso di proposito, con un Jeremy Corbyn antipatico e troppo “rosso” per i gusti inglesi. Ora la Brexit sembra senza più ostacoli, a questo punto. Come la prenderà, questa Europa? Vuol fare uno Stato totalizzante, che controlla tutto tramite le lobby finanziarie. E’ un’Europa che si è rafforzata molto, perché il governo italiano è diventato uno dei più filo-europeisti che esistano. Io non sono contrario all’Europa: ma ad un’Europa fatta bene, democratica, che badi alle libertà e agli ideali, non a un’Europa della finanza e dei poteri oscuri. Contrariamente a quello che dicono i media, per il peggiore europeismo è un sollievo, che l’Inghilterra se ne vada. Perché sono decenni che la Gran Bretagna frena, sul processo di integrazione europea. Per gli stessi motivi che l’hanno condotta alla Brexit: perché non vuole perdere indipendenza, perché non vuole vedere la propria regina sottoposta a un funzionario tedesco (o francese, o italiano), perché ha i suoi mercati, perché non ha voluto rinunciare alla sterlina, perché ha uno Stato sociale piuttosto civile. Tutte queste spinte – un po’ sane, un po’ egostiche e nazionaliste – hanno sempre frenato l’integrazione europea: in tutte le riunioni le inglesi frenavano.Adesso sta per partire un progetto di integrazione europea molto più forte: l’unione bancaria, il Mes, un bilancio europeo che sposta le risorse dagli Stati a Bruxelles, il progetto di esercito comune e di servizi segreti comuni, di politica estera comune. Un processo di integrazione che si vuole spingere moltissimo, e il momento è favorevole data l’attuale posizione di Germania, Francia e Italia. Molti però credono che il gioco principale sia tra le nazioni: francesi, tedeschi, italiani, inglesi. Invece, il gioco principale è condotto dalle grandi forze transnazionali, “anti-coscienza”, che hanno i loro uomini infilati nei posti di potere di tutti i paesi. Uomini che sono più fedeli alle lobby e ai poteri transnazionali che al proprio popolo (e l’Italia ne ha un esempio evidentissimo). Il processo di integrazione, quindi, oggi ha di fronte grandi ostacoli, di cui non si parla mai. Per integrare gli Stati in un’entità grande come l’Europa occorre abbassare un po’ il livello di vita dei più ricchi, per innalzare quello dei più poveri. E a chi bisogna abbassare le penne? Ai tedeschi e ai francesi: alle popolazioni, alle strutture economiche e amministrative (non parlo dei capi, che sono già abbondantemente venduti al potere).Quindi cosa bisogna fare? Bisogna eliminare quelle resistenze. Alla Costituzione Europea hanno resistito i francesi: non s’è fatta, perché hanno votato contro. Ma queste sono cose che nel futuro dell’integrazione europea non sono più ammissibili. I tedeschi, che non vogliono spartire le loro ricchezze col resto d’Europa, non saranno più condivisibili. Adesso, francesi e tedeschi vengono usati come clava contro gli altri paesi, un po’ riottosi. Ma il vero ostacolo all’integrazione saranno loro: la Francia non vuole certo rinunciare alla propria politica estera, ai suoi servizi segreti, al suo apparato finanziario, al suo modo di governare e succhiare risorse col neocolonialismo in Africa. La Germania non vuole rinunciare al proprio benessere, alla grande industria, al controllo finanziario. Quindi, in qualche modo, le forze dell’integrazione europea transnazionale dovranno indurre Francia e Germania a più miti consigli, nei prossimi anni. Come lo faranno? Come hanno sempre fatto: sceglieranno se farlo finanziariamente, facendo saltare banche a ripetizione (e questa volta, magari, invece di salvarle potrebbero metterle in difficoltà: e quindi quel Mes, che sembra fatto contro i paesi poveri, potrebbe essere un meccanismo che, opportunamente usato, potrebbe indurre Germania e Francia a rinunciare a molte loro prerogative).Tutto ci viene raccontato un po’ storto, per nascondere gli obiettivi veri. Vedremo: è un grande gioco, in cui però le vittime siamo noi. Per contro, più vediamo che le cose vanno nel senso sbagliato (la formazione di uno Stato oligarchico, in preda alle lobby e alle multinazionali), più questo genererà il risveglio delle coscienze, nella parte di popolazione che non dorme – che è tanta: non è la maggioranza, ma c’è. Quindi, il risveglio di coscienza si alimenta non più fidandosi dei grandi poteri e dei partiti principali (che sono tutti nelle mani di questi poteri), ma affidandosi al lavoro che noi – come individui, come associazioni, come gruppi locali – possiamo fare, in modo orizzontale, là dove siamo. Più loro rafforzano il livello verticale, più noi dobbiamo lavorare per rafforzare il livello orizzontale. E il cielo ci aiuterà.(Fausto Carotenuto, dichiarazioni contenute nel video-intervento “La Brexit va bene agli inglesi, ma anche all’Unione Europea”, pubblicato su YouTube il 13 dicembre 2019).Sembra quasi che i laburisti abbiano perso di proposito, con un Jeremy Corbyn antipatico e troppo “rosso” per i gusti inglesi. Ora la Brexit sembra senza più ostacoli, a questo punto. Come la prenderà, questa Europa? Vuol fare uno Stato totalizzante, che controlla tutto tramite le lobby finanziarie. E’ un’Europa che si è rafforzata molto, perché il governo italiano è diventato uno dei più filo-europeisti che esistano. Io non sono contrario all’Europa: ma ad un’Europa fatta bene, democratica, che badi alle libertà e agli ideali, non a un’Europa della finanza e dei poteri oscuri. Contrariamente a quello che dicono i media, per il peggiore europeismo è un sollievo, che l’Inghilterra se ne vada. Perché sono decenni che la Gran Bretagna frena, sul processo di integrazione europea. Per gli stessi motivi che l’hanno condotta alla Brexit: perché non vuole perdere indipendenza, perché non vuole vedere la propria regina sottoposta a un funzionario tedesco (o francese, o italiano), perché ha i suoi mercati, perché non ha voluto rinunciare alla sterlina, perché ha uno Stato sociale piuttosto civile. Tutte queste spinte – un po’ sane, un po’ egoistiche e nazionaliste – hanno sempre frenato l’integrazione europea: in tutte le riunioni le inglesi frenavano.
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Crosetto: Mes, rischio-catastrofe. Savona: ve l’avevo detto
Un documento inviato a tutti i ministri da Paolo Savona, oggi presidente Consob ma allora titolare degli Affari Ue, metteva in guardia il governo dai rischi delle modifiche del Mes. Quel documento, “Una politeia per un’Europa diversa”, aveva spaventato molto il mondo politico e finanziario dell’Unione, ma aveva centrato il punto: «La proposta in discussione di creare un fondo europeo per gli interventi, comunque lo si chiami – metteva nero su bianco Savona, come ricorda il “Messaggero” – oltre a disporre di risorse insufficienti, ha il duplice difetto di riproporre la parametrizzazione degli interventi, invece di valutare caso per caso secondo una visione politica comune. Essa inoltre ripropone i difetti della condizionalità restrittiva per la politica fiscale dei paesi che a esso ricorreranno, rendendo il meccanismo rigido nell’applicazione e con effetti deflazionistici». Traduzione: il Mes avrebbe peggiorato, e non risolto i problemi degli Stati costretti a ricorrervi. «Se c’è fretta di chiudere sul Mes, è un segnale drammatico». Guido Crosetto, ospite di “Omnibus” su “La7″, suggerisce qualcosa che tutti, fino a oggi, hanno sottovalutato o semplicemente nascosto, scrive “Libero”: il pressing dell’Unione europea sull’Italia per approvare la riforma del Fondo Salva-Stati potrebbe nascondere la preoccupazione di un imminente crac finanziario.«Temo che vogliano chiudere sul trattato – spiega il fondatore di Fratelli d’Italia, oggi ex parlamentare – perché la situazione delle banche tedesche e olandesi, a rischio crac, sia molto grave». Il riferimento è soprattutto a DeutscheBank e KommerzBank, i due colossi tedeschi a rischio collasso. «E guardate bene», avverte Crosetto: «Se saltano le banche avremo uno tsunami in confronto al quale la crisi del 2008 sarà nulla. E a pagare, come sempre, saranno i paesi più deboli, come l’Italia». Nel testo del rinnovato Mes, aggiunge “Libero”, è rimasta la valutazione della sostenibilità dei debiti e della capacità dello Stato che chiede un prestito di poterlo restituire. Ed è un punto che difficilmente sarà oggetto di negoziazione ulteriore. Al premier Giuseppe Conte e al ministro dell’economia Roberto Gualtieri, spiega il “Messaggero”, rimane la carta della modifica degli allegati, per correggere parzialmente un tiro destinato a fare malissimo all’Italia. Perché la ristrutturazione del debito (che renderebbe carta straccia i titoli di Stato, in mano soprattutto ai risparmiatori italiani) è ancora in piedi. E anzi, resta un caposaldo del Meccanismo Europeo di Stabilità.Nel frattempo, lo scandalo-Mes sta facendo franare il governo giallorosso: secondo Augusto Minzolini, autore di un report dietro le quinte pubblicato dal “Giornale”, Renzi avrebbe promesso a Salvini di staccare la spina al Conte-bis, in cambio di un eventuale accordo con la Lega per il varo di una legge elettorale proporzionale. Dal canto suo, il “Corriere della Sera” parla di imminenti diserzioni tra i 5 Stelle. E scrive: «Fonti leghiste assicurano che già quattro senatori hanno accettato il trasbordo nella Lega e altri starebbero per cedere». Voci che fanno il paio con chi, nel Movimento, parla insistentemente di scissione. Nei guai Conte, accusato di aver ceduto (in segreto) alle pressioni europee sul Mes. Lui smentisce, ovviamente. «Peccato che poi, implicitamente, riconosca come sia stato costretto a una brusca frenata sul negoziato che, diversamente – scrive “Libero” – sarebbe già andato in porto come suggerito maldestramente dal ministro dell’economia Roberto Gualtieri in commissione, parlando di “trattato già firmato e inemendabile”». Conte, infatti, ora parla di “rinvio possibile” e di un ok al Mes “vincolato” alla riforma dell’unione bancaria a marzo.Un documento inviato a tutti i ministri da Paolo Savona, oggi presidente Consob ma allora titolare degli affari Ue, metteva in guardia il governo dai rischi delle modifiche del Mes. Quel documento, “Una politeia per un’Europa diversa”, aveva spaventato molto il mondo politico e finanziario dell’Unione, ma aveva centrato il punto: «La proposta in discussione di creare un fondo europeo per gli interventi, comunque lo si chiami – metteva nero su bianco Savona, come ricorda il “Messaggero” – oltre a disporre di risorse insufficienti, ha il duplice difetto di riproporre la parametrizzazione degli interventi, invece di valutare caso per caso secondo una visione politica comune. Essa inoltre ripropone i difetti della condizionalità restrittiva per la politica fiscale dei paesi che a esso ricorreranno, rendendo il meccanismo rigido nell’applicazione e con effetti deflazionistici». Traduzione: il Mes avrebbe peggiorato, e non risolto i problemi degli Stati costretti a ricorrervi. «Se c’è fretta di chiudere sul Mes, è un segnale drammatico». Guido Crosetto, ospite di “Omnibus” su “La7″, suggerisce qualcosa che tutti, fino a oggi, hanno sottovalutato o semplicemente nascosto, scrive “Libero“: il pressing dell’Unione europea sull’Italia per approvare la riforma del Fondo salva-Stati potrebbe nascondere la preoccupazione di un imminente crac finanziario.
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Carotenuto: inquietante Conte-bis, è in guerra contro di noi
Dobbiamo tornare a parlare di Conte come il successore di Andreotti: pur essendo un tipo molto diverso, è il portatore dello stesso enorme potere curiale di cui beneficiava Andreotti. Un personaggio così importante è diventato anche presidente del Consiglio di un secondo governo, con un equilibrio politico completamente differente dal precedente. Com’è che un personaggio portatore di un potere così importante si occupa anche di questo governo? Di dirigerlo e di controllarlo, per conto del suo potere. E cos’è, questo nuovo governo? E’ un governo pericolosissimo: per la libertà, per la sovranità, per le nostre coscienze e anche per le nostre tasche. I governi precedenti erano meglio? No, erano sempre governi fatti principalmente da burattini dei poteri che contano, nel mondo. Tutti i partiti italiani, in questo momento, sono burattini di quei poteri, anche se fingono di non esserlo. Quello precedente era un governo “bau-bau”, serviva a protestare contro il sistema in modo da raccogliere la protesta antisistema (che è crescente), ma poi doveva anche “andare a male” per dimostrare che questo sovranismo non ce la fa, che è becero, in modo da creare – per reazione – un raggruppamento che fosse maggioritario, in questo Parlamento. E questo ha funzionato.Quindi si è riusciti a mettere insieme 5 Stelle e Pd, che prima – con tutti i loro elettorati – non sarebbero mai stati insieme. Quindi, la mossa di far fare a Salvini il “bau-bau” è servita. Ma lo stesso vale in tutto il mondo. Berlusconi ha fatto il “bau-bau” precedentemente, Trump lo sta facendo in questo momento. Ogni tanto, quando comincia a deteriorarsi un certo potere fortemente collegato ai grandi poteri di manipolazione, quando cioè gli uomini bravi a fare gli interessi del potere cominciano a non essere più accettabili per i cittadini (che hanno capito chi sono) allora bisogna sostituirli, perché il potere ha bisogno del consenso della gente. E allora si inventano nuovi partiti di destra e di sinistra, nuovi partiti fintamente libertari come il Movimento 5 Stelle, o fintamente al servizio del popolo come la Lega. Ma questi, prima o poi, servono solamente per fare una manovra che riporti le cose nelle mani dei più efficienti uomini del potere, che poi sono quelli dei vecchi schemi (in questo caso, gli uomini del Pd). Le posizioni più importanti di questo governo sono state tutte date a esponenti del vecchio potere, che ormai era indigesto. E gli uomini nuovi (come Di Maio) servono a fare da copertura, ma non contano niente – anche perché in effetti non sono capaci di fare niente, non hanno mai fatto niente.Quelli efficientisi invece li hanno messi nelle posizione di rilievo. Al ministero dell’economia hanno messo un funzionario europeo molto efficace, uno di quelli che hanno lavorato al Mes, al Trattato di Lisbona, al Patto di Stabilità: uno di quelli che sanno come si incastra e come si schiavizza la gente. E poi Gentiloni: un uomo della curia romana, molto vicino a Mattarella e agli stessi ambienti da cui, guarda un po’, viene Conte. E quest’uomo è diventato ministro europeo dell’economia. E un altro uomo di ambienti curiali, giornalista, David Sassoli, è diventato presidente del Parlamento Europeo. Una formazione molto forte: in questo momento, questo governo è molto forte in Europa. I suoi uomini (tipo Prodi, Ciampi, Monti: lo stesso tipo di persone, derivanti dallo stesso potere) adesso sono diventati tra i più potenti, tra Italia ed Europa. Ma questo governo, che è stato possibile creare solo dopo aver fatto fare a Salvini il “bau-bau”, è un governo molto pericoloso, più forte del normale. Ha dentro persone più abili (come il ministro dell’economia Gualtieri), più connesse al potere vero, finanziario, ai poteri oscuri, e quindi più capaci di portare avanti l’agenda mondialisa verticalizzatrice (l’agenda anti-coscienza, come la chiamiamo noi da tempo).Questo è quindi un governo “da guerra”: è come aver messo su una forza armata, capace non solo di portare avanti con molta più forza l’agenda europea, ma forse di fare qualcosa in più. Con questo governo, l’agenda che già c’era prenderà fiato: questo governo applicherà molte cose che prima non si applicavano. Anche perché questo governo rafforza enormemente il fronte verticalizzante dei paesi europei che sono connessi ai poteri finanziari. E adesso, anche in Europa, c’è una maggioranza di governi fortemente capaci di portare avanti l’agenda peggiore, accentratrice. E l’Italia dà un contributo incredibile, con questo improvviso cambiamento di posizione. Quindi, tutti di dossier europei che sono in campo verranno applicati con molta più forza, senza esitazioni. Quali? Uno dei più importanti è questo: si sta discutendo il bilancio europeo dal 2021 al 2027. Come dovranno contribuirvi, gli Stati? E cosa si farà, di questo bilancio europeo? Le previsioni non sono simpatiche. Ci sarà un trasferimento di fondi dagli Stati all’Europa, e l’Europa si occuperà di molte più cose, senza più passare dagli Stati.E questo velocizzerà il processo di verticalizzazione e accentramento: più speditamente di farà l’Unione Bancaria, si procederà verso una politica estera comune più forte, verso un esercito comune, verso una polizia comune, verso servizi segreti comuni. Tutti passi finora fatti in maniera non molto forte. Questo tipo di governo Ue lo può fare in modo assai più deciso. Può dare più fondi ai Meccanismo Europeo di Stabilità, rafforzare il Fiscal Compact, realizzare più facilmente il Ceta, far entrare più facilmente gli Ogm e toglierci i contanti. Tantissime sono le cose che questa formazione “da guerra”, pericolosissima, può fare; cose che prima erano più difficili da realizzare. Però non c’è solo questo. Non per dare una cattiva notizia, ma questa formazione è talmente forte, sia un Europa che in Italia, che potrebbe anche essere sfruttata per fare qualche deciso passo in più verso la verticalizzazione e la schiavizzazione. Come si fanno, in genere, questi passi? Scatenando delle crisi. Però bisogna avere governi capaci di sfruttarle: e adesso ci sono.Crisi come l’11 Settembre, che ha portato un cambiamento – voluto – delle strategie, a livello mondiale, grazie alla strategia della tensione del falso attentato alle Torri Gemelle. Oppure il conflitto con l’Islam, creato apposta da forze occidentali: potremmo vedere una ripresa del terrorismo. Potremmo vedere un’azione strana, qualche paese che esplode nel Mediterraneo o nel Medio Oriente. Potremmo vedere qualche paese che va fortemente in crisi economica, perché no? Potrebbe essere qualcosa che ci riguarda da vicino – spero non direttamente anche l’Italia, visto che a Bruxelles avremo un ministro dell’economia italiano e a Roma un governo molto forte in senso europeista. Mi aspetto quindi la possibilità che questo governo “da guerra”, da battaglia, che lavora per conto dei poteri oscuri, possa essere adoperato per gestire un ulteriore passo di schiavizzazione, a seguito della creazione di qualche momento di tensione (e alla strategia della tensione ci hanno abituati). Mentre faranno questo, chiaramente, ci terranno ancora nella famosa tenaglia: emergenze, stress, mancanza di lavoro, tasse, penuria di soldi, e dall’altra parte divertimenti, il frivolo, l’effimero. Obiettivo: fare in modo che le nostre coscienze non si risveglino, e siano di fronte o al dramma o al calcio e alla televisione.Coscienze da una parte impaurite e dall’altra addormentate: questo continuerà, naturalmente, mentre loro attueranno un’agenda sempre più pericolosa. Del resto, l’umanità si sveglia solo attraverso il dolore. Vuol dire che tassi di dolore crescenti aiuteranno l’umanità a un ulteriore risveglio, come è successo finora. A seguito di guerre, stragi e olocausti, l’umanità si è svegliata sempre un po’ di più. Adesso non può più essere comandata a bacchetta, va manopolata: democrazia e libertà devono essere mantenute, in qualche modo, perché la gente reagisce. La gente è cresciuta, nei secoli, attraverso il dolore, lasciando il campo parzialmente libero alle forze oscure. Speriamo che non duri, questo governo. Se invece dovesse durare, apprestiamoci a ricevere cattive notizie. Che però genereranno risvegli: se questo accade è perché siamo in grado di farvi fronte, e di uscirne spiritualmente vincitori.(Fausto Carotenuto, “Un governo pericolosissimo”, video-intervento su YouTube ripreso da “Coscienze in Rete” il 21 novembre 2019, dove si sottolinea la nefasta azione del Conte-bis che emerge dai retroscena sul Mes).Dobbiamo tornare a parlare di Conte come il successore di Andreotti: pur essendo un tipo molto diverso, è il portatore dello stesso enorme potere curiale di cui beneficiava Andreotti. Un personaggio così importante è diventato anche presidente del Consiglio di un secondo governo, con un equilibrio politico completamente differente dal precedente. Com’è che un personaggio portatore di un potere così importante si occupa anche di questo governo? Di dirigerlo e di controllarlo, per conto del suo potere. E cos’è, questo nuovo governo? E’ un governo pericolosissimo: per la libertà, per la sovranità, per le nostre coscienze e anche per le nostre tasche. I governi precedenti erano meglio? No, erano sempre governi fatti principalmente da burattini dei poteri che contano, nel mondo. Tutti i partiti italiani, in questo momento, sono burattini di quei poteri, anche se fingono di non esserlo. Quello precedente era un governo “bau-bau”, serviva a protestare contro il sistema in modo da raccogliere la protesta antisistema (che è crescente), ma poi doveva anche “andare a male” per dimostrare che questo sovranismo non ce la fa, che è becero, in modo da creare – per reazione – un raggruppamento che fosse maggioritario, in questo Parlamento. E questo ha funzionato.
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Carotenuto: ho paura, chi pilota il Conte-2 è capace di tutto
«Spero sinceramente che duri poco, perché di questo governo c’è da aver paura: il Conte-bis è un esecutivo pericolosissimo». Lo afferma Fausto Carotenuto, già analista strategico dei servizi segreti, autore di una singolare ritratto di Giuseppe Conte: «E’ sorretto dallo stesso potentissimo network vaticano che gestiva lo strapotere di Andreotti, a cominciare dal cardinale Achille Silvestrini». Ora siamo nei guai, dice Carotenuto in un video su YouTube, perché a Conte si aggiungono personaggi temibili come l’euro-tecnocrate Roberto Gualtieri, che Bruxelles ha fatto sistemare direttamente al ministero dell’economia. Senza contare Paolo Gentiloni, come Conte in strettissimi rapporti col Vaticano, ora promosso alla Commissione Ue, e lo stesso David Sassoli, eletto presidente del Parlamento Europeo. Gentiloni e Sassoli, ovvero: il Pd, i grandi media, il Vaticano e l’europeismo oligarchico. Questo significa che l’Italia, dopo l’effimera sbornia gialloverde, è oggi una cinghia di trasmissione perfetta per il super-potere europeo: «Aspettiamoci di tutto», dice Carotenuto, perché i signori dell’eurocrazia, magari in cambio di qualche piccola concessione sul bilancio, «potranno prendere decisioni inimmaginabili e terribili, per tutti noi».
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Stiglitz: ma all’Italia conviene lasciare l’euro, ecco come
Qual è il modo migliore per lasciare l’euro? Questa domanda è riaffiorata dopo che in Italia è salito al potere un governo euroscettico. Sì, i ministri chiave si sono formalmente impegnati a mantenere la valuta comune, ma quegli impegni non sono immutabili. Devono essere considerati nel contesto del più ampio potere di contrattazione italiano: il nuovo governo vuole chiarire che non si tratta solo di un parvenu. Preferirebbe rimanere all’interno dell’Eurozona, ma pretende dei cambiamenti. I nuovi leader italiani hanno ragione a dire che l’Eurozona ha un forte bisogno di riforme. L’euro è viziato sin dal suo concepimento. Per paesi come l’Italia, ha eliminato due meccanismi chiave di regolazione: il controllo dei tassi di interesse e di cambio. E invece di mettere qualcosa al loro posto, ha introdotto strette restrizioni su debiti e deficit – ulteriori ostacoli alla ripresa economica. Il risultato per la zona euro è stato una crescita più lenta, soprattutto per i paesi più deboli al proprio interno. L’euro avrebbe dovuto inaugurare una maggiore prosperità, che a propria volta avrebbe portato ad un rinnovato impegno per una maggior integrazione europea. Ha fatto esattamente il contrario – aumentare le divisioni all’interno dell’Ue, in particolare tra paesi creditori e debitori.Le divisioni risultanti hanno inoltre reso più difficile la risoluzione di altri problemi, in particolare la crisi migratoria, per la quale le norme europee impongono un onere ingiusto ai paesi in prima linea, come Grecia e Italia. Questi sono anche i paesi debitori, già afflitti da difficoltà economiche. Non c’è da stupirsi si ribellino. Cosa bisogna fare è ben noto. Il problema è che la Germania non vuole farlo. L’Eurozona ha da tempo riconosciuto la necessità di un’unione bancaria. Berlino insiste però nel rinviare la riforma chiave – una comune assicurazione sui depositi – che ridurrebbe la fuga di capitali dai paesi deboli: quest’ultima è uno dei fattori chiave che spiega la profondità del declino dei paesi in crisi. Le politiche economiche interne della Germania aggravano i problemi della zona euro. La principale sfida economica affrontata dai paesi in un’unione monetaria è l’incapacità di adeguare i tassi di cambio disallineati. Nell’Eurozona, l’onere dell’adeguamento è attualmente imposto ai paesi debitori, che già soffrono di bassi crescita e redditi. Se la Germania avesse una politica fiscale e salariale più espansiva, parte della pressione verrebbe tolta da questi paesi.Se la Germania non è disposta ad intraprendere i passi necessari per migliorare l’unione monetaria, dovrebbe fare la cosa migliore: lasciare l’Eurozona. Come detto da Soros, dovrebbe o guidare l’area o andarsene. Con la Germania (e forse altri paesi dell’Europa settentrionale) fuori dall’unione monetaria, il valore dell’euro si ridurrebbe e le esportazioni dell’Italia e di altri paesi dell’Europa meridionale aumenterebbero. La principale fonte di disallineamento sparirebbe. Allo stesso tempo, l’aumento del tasso di cambio tedesco farebbe molto per curare uno degli aspetti più destabilizzanti dell’economia globale: lo squilibrio commerciale a favore di Berlino. Il guaio, naturalmente, è che la Germania non vuole intraprendere nessuna delle due strade. Ciò lascia i cittadini di paesi come Grecia ed Italia con una scelta che non dovrebbero esser costretti a fare: tra l’appartenenza all’Eurozona e la prosperità economica. Un timido e inesperto governo greco ha scelto di rimanere nell’unione monetaria. Il risultato è stato stagnazione. Nel 2015 il Pil del paese era crollato del 25% rispetto al livello pre-crisi. Da allora, si è appena mosso.L’Italia ha l’opportunità di fare una scelta diversa. In assenza di riforme significative, i benefici di lasciare l’euro sono chiari e considerevoli. Un cambio più basso le consentirebbe maggiori esportazioni. I turisti troverebbero il paese una destinazione ancor più attraente. Tutto ciò stimolerebbe la domanda e aumenterebbe le entrate del governo. La crescita aumenterebbe e l’alto tasso di disoccupazione (11,2%, con il 33,1% di disoccupazione giovanile) diminuirebbe. Ci sono, naturalmente, molte altre ragioni per il malessere italico, e queste saranno tutt’al più parzialmente risolte lasciando l’euro. Governi come quelli di Trump o di Berlusconi – dominato da corrotti cercatori di rendite, senza comprensione delle vere basi della crescita sostenibile a lungo termine – non forniscono la leadership politica necessaria per una crescita forte e sostenibile. Allo stesso tempo, tuttavia, la crescita lenta ed iniqua che l’Italia ha vissuto come risultato dell’euro fornisce terreno fertile a partiti populisti. Ci sarebbero anche ulteriori vantaggi politici. Un’Italia più prospera avrebbe maggiori probabilità di cooperare in altri settori chiave in cui l’Europa ha bisogno di lavorare insieme: migrazione, una forza di difesa europea, sanzioni contro la Russia, politica commerciale.Le politiche commerciali o migratorie producono benefici per l’intero paese, ma ci sarebbero anche dei perdenti – e i vincoli fiscali imposti dalla zona euro hanno reso quasi impossibile fornire una tutela adeguata a chi perde. Un’Italia al di fuori dell’Eurozona sarebbe in una posizione migliore per condividere i benefici delle proprie politiche internazionali, mitigando al contempo il dolore ad esse associato. La sfida, ovviamente, sarà trovare un modo per lasciare la zona euro in modo da minimizzare i costi economici e politici. Una massiccia ristrutturazione del debito, fatta con particolare attenzione alle conseguenze per le istituzioni finanziarie nazionali, è essenziale. Senza di essa, l’onere del debito denominato in euro salirebbe, controbilanciando forse gran parte dei potenziali guadagni. Tali ristrutturazioni sono una parte fisiologica di grandi svalutazioni. A volte viene fatto di nascosto – come quando gli Usa abbandonarono il gold standard. A volte apertamente, come in Islanda ed Argentina. Tali ristrutturazioni del debito dovrebbero però essere viste come un rischio intrinseco dell’investimento transnazionale, una delle ragioni per le quali le obbligazioni “straniere” spesso danno un premio per il rischio.Da un punto di vista economico, la cosa più semplice da fare sarebbe che le entità italiane (governi, aziende e privati) semplicemente ridenominino i debiti dall’euro alla nuova lira. A causa però di complessità giuridiche all’interno dell’Ue, e degli obblighi internazionali del paese, potrebbe essere preferibile adottare una super-legge sul fallimento, sul modello del Chapter 11 americano. Questa permette un rapido ricorso alla ristrutturazione del debito a qualsiasi entità per la quale la nuova valuta presenta gravi problemi economici. Le leggi sulla bancarotta restano un’area di competenza di ciascuno degli Stati nazionali dell’Ue. L’Italia potrebbe persino scegliere di non annunciare che sta per lasciare l’euro. Potrebbe semplicemente emettere, ad esempio, titoli di Stato, che dovrebbero essere accettati come pagamento per qualsiasi obbligo di debito in euro. Una diminuzione del valore di queste obbligazioni equivarrebbe a una svalutazione. Ciò allo stesso tempo ripristinerebbe l’efficacia della politica monetaria italiana: cambiamenti nella politica della banca centrale inciderebbero sul valore delle obbligazioni.Si leverebbe naturalmente un polverone da parte degli altri membri. Introdurre una moneta parallela, ancorché in modo informale, violerebbe quasi certamente le regole della zona euro e sarebbe certamente contro il suo spirito. In questo modo però l’Italia lascerebbe decidere gli altri membri se espellerla. Roma potrebbe scommettere sul fatto che i membri più irritabili dell’Unione non compieranno mai un’azione così forte, che confermerebbe la sfilacciamento della zona euro. L’Italia avrebbe allora ottenuto due risultati con una sola mossa: rimarrebbe parte dell’Eurozona ma avrebbe compiuto una svalutazione. E se dovesse perdere la scommessa, l’onere politico dell’aver lasciato la zona euro cadrebbe ancor più chiaramente sui suoi “partner”. Sarebbero loro ad aver fatto la scelta finale. La Grecia si è arresa ad esser strangolata dalla Bce. Ma non doveva. Atene era infatti già ben avviata nella creazione di un sistema (un meccanismo di pagamento elettronico sotto la nuova dracma) che avrebbe facilitato una transizione dall’Eurozona. I progressi tecnologici degli ultimi tre anni rendono la creazione di sistemi di moneta elettronica sempre più semplice ed efficace. Se l’Italia decidesse di usarne uno, non dovrebbe nemmeno affrontare le difficoltà di stampare nuova valuta. Potrebbe anche alleviare il dolore della propria dipartita coordinando l’uscita con altri paesi in posizione simile.Il variegato gruppo di paesi che ora forma l’Eurozona è ben lungi da quella che gli economisti chiamano un’area valutaria ottimale. Ci sono troppe diversità, per farlo funzionare occorrono migliori assetti istituzionali, di quelli del tipo su cui la Germania ha posto il veto. Una zona meridionale sarebbe molto più vicina ad un’area valutaria ottimale. Ed anche se è difficile organizzare un’uscita coordinata in un breve periodo di tempo, se l’Italia dovesse avere successo, altri paesi quasi sicuramente seguiranno. Non bisogna ovviamente sottovalutare i costi di una grande svalutazione. Qualsiasi grande cambiamento in un prezzo-chiave in un’economia è una perturbazione significativa. Il prezzo del cambio estero è, ovviamente, fondamentale in qualsiasi economia aperta. Ha un effetto-domino sui prezzi di tutti i beni e servizi. Alcune – forse molte – aziende falliranno. Alcuni – forse molti – privati vedranno i propri redditi reali abbassarsi. È però altrettanto importante non sottovalutare i costi dell’attuale malessere italiano. Se la sua economia, nei 20 anni dalla creazione dell’euro, fosse cresciuta al tasso della zona euro nel suo insieme, il suo Pil sarebbe stato più alto del 18%.Il costo della disoccupazione persistente, specialmente tra i giovani, è enorme. I giovani tra i 20 e i 30 anni dovrebbero affinare le proprie abilità nella formazione sul posto di lavoro. Invece sono a casa oziosi, molti di loro a sviluppare un risentimento verso le élite e le istituzioni che incolpano per la propria situazione. La conseguente mancanza di formazione del capitale umano ridurrà la produttività anche per gli anni a venire. In un mondo ideale, l’Italia non dovrebbe essere costretta a lasciare l’Eurozona. L’Europa potrebbe riformare l’unione valutaria e fornire una migliore protezione a chi è danneggiato dal commercio e dalla migrazione. In assenza però di un cambio di direzione da parte dell’Ue nel suo insieme, l’Italia deve ricordare che ha un’alternativa alla stagnazione economica e che ci sono modi per lasciare la zona euro in cui i benefici probabilmente supererebbero i costi. Se il nuovo governo dovesse pilotare con successo tale uscita, l’Italia starebbe meglio. E così il resto d’Europa.(Joseph Stiglitz, “L’Italia ha ragione a voler lasciare l’euro”, da “Politico.Eu” del 25 giugno 2018, post tradotto fa Hmg per “Come Don Chisciotte”).Qual è il modo migliore per lasciare l’euro? Questa domanda è riaffiorata dopo che in Italia è salito al potere un governo euroscettico. Sì, i ministri chiave si sono formalmente impegnati a mantenere la valuta comune, ma quegli impegni non sono immutabili. Devono essere considerati nel contesto del più ampio potere di contrattazione italiano: il nuovo governo vuole chiarire che non si tratta solo di un parvenu. Preferirebbe rimanere all’interno dell’Eurozona, ma pretende dei cambiamenti. I nuovi leader italiani hanno ragione a dire che l’Eurozona ha un forte bisogno di riforme. L’euro è viziato sin dal suo concepimento. Per paesi come l’Italia, ha eliminato due meccanismi chiave di regolazione: il controllo dei tassi di interesse e di cambio. E invece di mettere qualcosa al loro posto, ha introdotto strette restrizioni su debiti e deficit – ulteriori ostacoli alla ripresa economica. Il risultato per la zona euro è stato una crescita più lenta, soprattutto per i paesi più deboli al proprio interno. L’euro avrebbe dovuto inaugurare una maggiore prosperità, che a propria volta avrebbe portato ad un rinnovato impegno per una maggior integrazione europea. Ha fatto esattamente il contrario – aumentare le divisioni all’interno dell’Ue, in particolare tra paesi creditori e debitori.
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Vietato volare, l’Ue presenta già il conto a Salvini e Di Maio
Reddito di cittadinanza e meno tasse per tutti? Di Maio e Salvini provano a mettersi a correre: entrambi sostengono che il Def, il Documento di economia e finanza che andrà varato entro un mese, sarà l’occasione per lanciare urbi et orbi il loro messaggio. «In realtà, è dubbio che lo possano fare e le loro affermazioni ancora una volta sembrano più da campagna elettorale permanente», avverte Stefano Cingolani sul “Sussidiario”: non solo il Def viene ancora preparato da Padoan, ma conterrà proiezioni al buio: «Nessuno può sapere oggi chi governerà e come verrà impostata in autunno la legge di bilancio». Difficile che 5 Stelle o Lega esprimano un ministro dell’economia nelle prossime settimane, o abbiano il mandato di trattare con Padoan la futura finanziaria. E intanto l’Ue imbriglia gli italiani: il primo obiettivo del 2019, ricorda Cingolani, sarà trovare le risorse per evitare un aumento dell’Iva, delle accise, delle imposte dirette, cioè le clausole di salvaguardia imposte da Bruxelles per i paesi che non rispettano la regola di riduzione del debito. «Secondo le stime, si va da un minimo di 12 fino a ben oltre i 20 miliardi di euro; un amaro boccone da far digerire agli elettori speranzosi di pagare meno e ottenere di più dal prossimo governo».Le scadenze europee sono molteplici e tutte ravvicinate, annota Cingolani: di qui al Consiglio Europeo di giugno c’è il completamento dell’Unione Bancaria istituendo la garanzia depositi, poi il futuro Fondo Monetario Europeo, la riforma della Convenzione di Dublino sugli immigrati, il bilancio pluriennale dopo il 2020 che porta con sé i fondi strutturali che il Sud ha utilizzato solo per il 4%. «Nei prossimi 18 mesi, il nuovo governo dovrà mercanteggiare le seguenti nomine: presidente della Bce dopo l’uscita di Mario Draghi nell’autunno 2019, due terzi del consiglio esecutivo della Bce (ci sarà un rappresentante italiano, e chi?); il presidente della Commissione Ue; il presidente del Consiglio Europeo e, dulcis in fundo, il commissario italiano dopo l’uscita di Federica Mogherini». Domanda: «Che cosa potrà ottenere un paese che non crede più nell’euro, rifiuta il bail-in, i parametri di Maastricht e la responsabilità di bilancio o che vuole respingere gli immigrati non solo verso l’Africa, ma verso il nord e l’est dell’Europa?».Secondo Cingolani, né Di Maio né Salvini sono in grado di colmare il fossato tra Roma e Bruxelles: «La loro linea è sempre stata accusare l’austerità per i mali italiani, sfuggendo alla verifica dei fatti: dal 2013 al 2017 il saldo primario tra entrate e spese pubbliche corretto per gli effetti del ciclo economico in Spagna è passato dall’1,2% del Pil a meno 0,6%, quello dell’Italia dal 4,3% a sotto il 2%. La politica fiscale, dunque, è stata relativamente espansiva, ma nello stesso periodo la Spagna è cresciuta complessivamente dell’11,2%, l’Italia del 3,5%. Su queste basi sarà difficile trovare una solidarietà latina». E’ vero che l’Ue ha concesso a Renzi più flessibilità, e anche adesso sembra disposta a dare all’Italia un margine di tempo, visto che la Germania ha impiegato cinque mesi prima di formare una nuova grande coalizione. «Tuttavia la situazione politica italiana è molto più simile a quella spagnola». In più, il rischio di nuove elezioni (anch’esse inconcludenti, se resta la staessa legge elettorale) è molto forte. E Mario Draghi ha già acceso i riflettori sui rischi di una prolungata instabilità politica.«Sarà davvero difficile, insomma, incidere subito sulla qualità della vita degli italiani, come promette Di Maio con evidente immaginazione». Il Def rischia di essere un appuntamento impossibile per saggiare la nuova politica economica, «anche perché dovrà tener conto della stretta, sia pur prudente e progressiva, della politica monetaria, già annunciata da Draghi». Oggi, continua Cingolani, non è possibile sapere quanto costerà il debito pubblico alla fine di quest’anno e soprattutto nel prossimo, perché non conosciamo di quanto saliranno i tassi d’interesse. «Dal 2012, quando Draghi ha impresso la svolta espansiva, il servizio del debito è sceso da 83 a 60 miliardi di euro l’anno, una cifra che è comunque superiore a quanto si è speso per la scuola. In 20 anni sono stati pagati per interessi 1.700 miliardi di euro (cifra superiore all’intero prodotto lordo annuo); 760 miliardi negli ultimi dieci anni in cui i tassi sono scesi. Quasi un euro su venti di ricchezza annua prodotta serve a pagare i creditori italiani o esteri, riducendo le risorse pubbliche per consumi e investimenti». Più il tempo passa, aggiunge Cingolani, più crescono le aspettative (e con esse le eventuali delusioni). Facile profezia: «L’onda che prima ha spazzato gli equilibri della Seconda Repubblica è destinata a spostarsi dalla politica all’economia, alle imprese, alle banche, ai manager pubblici e privati, ai patron, verso quel 10% che possiede metà della ricchezza».Non è un caso che tanti esponenti del mondo industriale e finanziario si siano lanciati sui carri dei vincitori (sul Carroccio soprattutto al Nord e sul carro dei 5 Stelle nel Mezzogiorno). «Dovremo attenderci un innalzamento della conflittualità sociale, non governata dai sindacati confederali», ormai indeboliti. Sono centinaia le vertenze industriali già aperte al ministero dello sviluppo, e altre ne arriveranno. «Ma le promesse talvolta mirabolanti distribuite a man bassa durante la campagna elettorale hanno suscitato attese che in qualche modo andranno soddisfatte, almeno in parte. Non si può cavalcare la frustrazione dei precari senza poi trovare nuovi posti di lavoro. Il M5S li vuole pagati da tutti i contribuenti, la Lega spera nella ricaduta del taglio fiscale, solo che lo Stato non ha mezzi sufficienti e le imprese possono espandersi (segnali chiari già ci sono nel Nord-Est) solo quando avranno recuperato produttività, altrimenti la riduzione delle tasse si trasformerà in aumento dei risparmi, ma non in investimenti espansivi creatori di occupazione». Se poi quest’anno passerà tra manovre politiche includenti, «rinviando tutto alla primavera 2019, magari con un “election day” insieme con le elezioni europee, lo tsunami dello scontento continuerà a crescere». L’incertezza economica e il malcontento sociale daranno a Salvini e Di Maio il tempo di cui hanno bisogno, per dare la spallata decisiva?Reddito di cittadinanza e meno tasse per tutti? Di Maio e Salvini provano a mettersi a correre: entrambi sostengono che il Def, il Documento di economia e finanza che andrà varato entro un mese, sarà l’occasione per lanciare urbi et orbi il loro messaggio. «In realtà, è dubbio che lo possano fare e le loro affermazioni ancora una volta sembrano più da campagna elettorale permanente», avverte Stefano Cingolani sul “Sussidiario”: non solo il Def viene ancora preparato da Padoan, ma conterrà proiezioni al buio: «Nessuno può sapere oggi chi governerà e come verrà impostata in autunno la legge di bilancio». Difficile che 5 Stelle o Lega esprimano un ministro dell’economia nelle prossime settimane, o abbiano il mandato di trattare con Padoan la futura finanziaria. E intanto l’Ue imbriglia gli italiani: il primo obiettivo del 2019, ricorda Cingolani, sarà trovare le risorse per evitare un aumento dell’Iva, delle accise, delle imposte dirette, cioè le clausole di salvaguardia imposte da Bruxelles per i paesi che non rispettano la regola di riduzione del debito. «Secondo le stime, si va da un minimo di 12 fino a ben oltre i 20 miliardi di euro; un amaro boccone da far digerire agli elettori speranzosi di pagare meno e ottenere di più dal prossimo governo».
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Giacché: l’Europa ha un nemico, si chiama Unione Europea
Se l’Europa vira a destra è per precise responsabilità della sinistra, che è stata in buona parte corresponsabile delle politiche neoliberali (mi riferisco in particolare ai partiti socialisti/socialdemocratici) e dove non lo è stata, non ha saputo affrontare le radici della crisi e mettere davvero in discussione l’assetto dell’Europa di Maastricht. Il crollo (annunciato) della Spd e la vittoria dell’estrema destra dell’Afd sono stati predominanti del voto tedesco. Aggiungo il crollo della Cdu e della Csu, le due forze che sostenevano Angela Merkel. Non si tratta di un dettaglio: la frana riguarda entrambi i partiti che un tempo determinavano la politica tedesca. Il voto sancisce la fine della socialdemocrazia europea come l’abbiamo conosciuta, confermando un trend già visto in opera in Grecia, in Francia, in Spagna, in Olanda – e che credo sarà confermato in Italia. Ma più in generale quella delle “famiglie” politiche tradizionali un tempo egemoni a livello europeo: la popolare/cristiano-democratica e quella socialdemocratica. Credo che il Pd perderà la centralità politica; tenterà di mantenerla al prezzo di un’ulteriore deriva a destra, ma senza successo.L’operazione politica che ha dato vita al Pd si rivela per quello che era: un’operazione trasformistica priva di respiro. Oggi è il bersaglio di tutti coloro che ritengono socialmente regressiva ed economicamente sbagliata la politica seguita dal 2011 in poi. Mi riesce difficile dar loro torto. In Germania, malgrado la vittoria di Merkel, dal voto si evincerebbe una crisi di sistema? Oggi viene letto tutto in termini di instabilità, ma non credo che sia la lettura corretta: semplicemente, l’elettorato ha votato contro la gestione di questi partiti nei 10 anni che ci separano dall’inizio della Grande Recessione. Può essere sorprendente che questo avvenga anche in un paese come la Germania, che è considerato da molti il vero vincitore di questa crisi. Ma il punto è che non tutta la Germania ha vinto, anzi. Proviamo a dirlo in “economese”. La Germania in questi anni ha coerentemente praticato una politica mercantilistica, basata sulle esportazioni, sacrificando la domanda interna e gli investimenti. La capacità esportativa tedesca si è avvalsa per un verso della costruzione di una rete di subfornitori con manodopera a basso prezzo nei paesi dell’Est (che perlopiù non hanno adottato l’euro, e quindi hanno potuto beneficiare di svalutazioni rispetto ad esso), per l’altro di una vera e propria compressione dei salari.I salari tedeschi, nei settori esposti alla concorrenza internazionale, sono scesi in termini reali, tra il 1999 e il 2008, di qualcosa come il 9% (sono dati forniti da Bofinger, uno degli esperti economici che assistono il governo tedesco). Con l’Agenda 2010 del socialdemocratico Schröder sono stati precarizzati i rapporti di lavoro (i minijobs), riducendo al contempo fortemente le indennità di disoccupazione. Nel frattempo, le tasse alle imprese e alla parte più ricca dei cittadini venivano diminuite. Ecco spiegata l’ampliarsi della disuguaglianza, e anche il mistero di una Germania che “va bene”, ma in cui tanti cittadini sono scontenti. E votano di conseguenza. Il tema dell’immigrazione ha fatto da detonatore a un disagio sociale presente già da tempo. All’Est le sue motivazioni si possono sintetizzare in due dati: una disoccupazione doppia che all’Ovest, e stipendi inferiori di un quarto. Si tratta di una situazione che affonda le sue radici nelle modalità dell’unificazione tedesca, e in particolare – come ho spiegato anni fa nel mio libro sull’unificazione, “Anschluss” – in un’unione monetaria affrettata e realizzata con un tasso di cambio assurdo (parità tra marco ovest e marco est nonostante che il tasso di cambio reale fosse all’epoca di 1 a 4,4), che ha distrutto l’economia della ex Germania Est.A questo punto tutti gli asset industriali dell’Est furono svenduti attraverso la Treuhandanstalt (curiosamente riproposta come modello durante questa crisi, da Juncker e da altri, alla Grecia). Il risultato furono milioni di disoccupati, emigrazione di massa e la distruzione dell’industria dell’Est. Una distruzione cui non hanno potuto porre rimedio i massicci trasferimenti statali successivi: molto semplicemente, al di là di poche isole felici, l’Est del Paese non è a tutt’oggi autosufficiente. Alternative für Deutschland prende i voti delle classi popolari e dei ceti meno abbienti? L’Afd non vince soltanto all’Est, ma anche in zone certamente tutt’altro che povere come la Baviera, dove la motivazione anti-immigrati è senz’altro prevalente. La Linke, la sinistra radicale tedesca, ha preso quasi il 10 per cento. Il vento di protesta si muove anche a sinistra? La Linke prende mezzo milione di voti dalla Spd, ma cede poco meno alla Afd. In questi numeri sta scritto tutto quanto ci è necessario sapere, e quanto del resto confermano le evidenze sulle zone di maggiore radicamento della Linke stessa: che guadagna voti all’Ovest ma li perde ad Est; che conquista consensi nei quartieri della borghesia riflessiva, ma li perde nelle zone operaie.Non ha pagato la linea sull’immigrazione (“refugees welcome” non è una politica), e questo ha neutralizzato il fatto (importante) che una parte dell’elettorato deluso dalla Grosse Koalition si è rivolto a sinistra, preferendo la Linke alla Spd. A questo proposito va detto che all’interno della stessa Linke chi aveva avanzato idee sensate sulla necessità di un’immigrazione regolata (Sahra Wagenknecht) è stata attaccata violentemente: i risultati si sono visti nelle elezioni. E la Francia? Era a un bivio: accodarsi all’Agenda 2010 della Germania e proseguire sulla linea dell’austerity o far cambiare marcia all’Europa opponendosi al dominio della locomotiva tedesca. Macron ha imboccato la prima strada, in questa direzione vanno senza alcun dubbio le (cosiddette) riforme del lavoro annunciate. È una pessima notizia per la Francia e per l’Europa. Se Macron riuscirà a realizzare queste misure proseguirà e si rafforzerà la tendenza alla deflazione salariale e alla compressione della domanda interna in Europa.L’Europa a due velocità ha imboccato un vicolo cieco, e il vento populista ha terreno fertile? Direi che più importante della velocità qui è la direzione: che è quella sbagliata. Si è troppo spesso confuso l’internazionalismo con l’europeismo, e l’Europa con l’Unione Europea. Per contro, si è data troppo poca importanza al tema della democrazia e a quello, connesso, della sovranità popolare: la verità è che l’Europa di Maastricht è profondamente antidemocratica. Lo è per essenza, e non per accidente. È un’architettura disegnata nel periodo trionfale del neoliberismo, quello immediatamente successivo al crollo dell’Urss. Il suo impianto non è soltanto antisocialista, ma antikeynesiano. Quando Tietmeyer (presidente della Bundesbank) nel 1998 si compiacque per il fatto che i politici europei, spogliandosi della sovranità monetaria – conferita a un’unica banca centrale indipendente – avevano avuto la saggezza di sostituire il “plebiscito quotidiano dei mercati” al “plebiscito delle urne”, sapeva cosa diceva. Per di più durante la crisi, una classe politica e tecnocratica assai poco lungimirante ha deciso di dare un ulteriore giro di vite a questa macchina neoliberale con il Fiscal Compact. Quel Fiscal Compact che oggi si vorrebbe includere nei Trattati. Faccio fatica a trovare un’idea più miope e regressiva.Come uscirne? Capendo fino in fondo che l’assetto attuale dell’Unione Europea è il problema, e non la soluzione. Sinceramente non sono ottimista. Mi sembra che la consapevolezza dei problemi a livello politico sia assolutamente inadeguata. Si continua a perdere tempo con problemi nella migliore delle ipotesi secondari, non si ha alcuna strategia, e quindi si soggiace a quelle altrui. È quello che emerge dall’esame di tutti i principali dossier degli ultimi anni: dall’Unione bancaria al problema dell’immigrazione, alla politica energetica. Non conosco un solo caso in cui la soluzione adottata non sia stata svantaggiosa per il nostro paese, e favorevole ad altri. L’Italia dovrebbe maggiormente battere i pugni sul tavolo a Bruxelles? Non si tratta soltanto né soprattutto di incapacità negoziale, che sarebbe comunque sconfortante. C’è un pregiudizio ideologico: ogni passo avanti dell’integrazione europea è considerato positivo a priori. E c’è la convinzione – contraria a ogni evidenza – che solo il “vincolo esterno” ci possa salvare. Quasi che, per qualche tara genetica, fossimo incapaci di governarci da soli. In genere la storia non è stata tenera nei confronti delle classi dirigenti e dei popoli dominati da questo tipo di convinzioni.(Vladimiro Giacché, dichiarazioni rilasciate a Giacomo Russo Spena per l’intervista “In Germania ha vinto la protesta e l’Ue è irriformabile, come non capirlo?”, pubblicata su “Micromega” il 28 settembre 2017. Eminente economista, Giacché è presidente del centro studi Europa Ricerche).Se l’Europa vira a destra è per precise responsabilità della sinistra, che è stata in buona parte corresponsabile delle politiche neoliberali (mi riferisco in particolare ai partiti socialisti/socialdemocratici) e dove non lo è stata, non ha saputo affrontare le radici della crisi e mettere davvero in discussione l’assetto dell’Europa di Maastricht. Il crollo (annunciato) della Spd e la vittoria dell’estrema destra dell’Afd sono stati predominanti del voto tedesco. Aggiungo il crollo della Cdu e della Csu, le due forze che sostenevano Angela Merkel. Non si tratta di un dettaglio: la frana riguarda entrambi i partiti che un tempo determinavano la politica tedesca. Il voto sancisce la fine della socialdemocrazia europea come l’abbiamo conosciuta, confermando un trend già visto in opera in Grecia, in Francia, in Spagna, in Olanda – e che credo sarà confermato in Italia. Ma più in generale quella delle “famiglie” politiche tradizionali un tempo egemoni a livello europeo: la popolare/cristiano-democratica e quella socialdemocratica. Credo che il Pd perderà la centralità politica; tenterà di mantenerla al prezzo di un’ulteriore deriva a destra, ma senza successo.
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Banchieri marci e oligarchi, la vera Bad Company è l’Ue
Nella Barcellona mercantile e marinara del 1300 un banchiere che avesse fatto fallimento compromettendo i risparmi di chi si fosse a lui affidato, sarebbe stato decapitato in piazza. Da quel feroce mondo medioevale, ove chi speculava sul danaro veniva considerato usuraio e tollerato solo se apportava grandi ricchezze alle comunità, molto progresso si è fatto. Oggi le banche falliscono, ma i banchieri, che godono di un disistima presso l’opinione pubblica superiore a quella medioevale, non pagano mai, in tutta Europa non uno di loro è in prigione. Il salvataggio delle due banche venete fallite con soldi pubblici che daranno profitti privati, benedetto dalle autorità della Unione Europea, è un esempio del regime finanziario che oggi ci comanda. Dopo il fallimento di Lehman Brothers nel 2008 negli Stati Uniti, che diede il via alla grande crisi mondiale che tra alti e bassi ancora continua, tutte le istituzioni politiche ed economiche, la Unione Europea in primo luogo, decisero che per fermare il contagio bisognava salvare ad ogni costo le banche dal fallimento.Secondo il precedente capo della Commissione Europea, Barroso, ben 4.000 miliardi di danaro pubblico in tutta Europa furono spesi per salvare le banche. Questa denuncia non ha avuto alcun seguito nella politica europea e neppure il suo estensore se ne é sentito toccato, visto che ora opera in Goldman Sachs. Una valanga di soldi dei cittadini europei ha difeso e rafforzato il potere dei banchieri, ma non un solo istituto di credito è stato assunto in mano pubblica per questo. La Germania, sempre ultra rigorista verso i paesi del Sud, ha speso 247 miliardi solo per salvare le sue banche locali. Alla fine la crisi bancaria globale nella Unione Europea fu scongiurata e come ringraziamento un finanziere britannico, prima della Brexit a cui ovviamente era contrario, affermò: l’economia è ripartita ed è ora che noi banchieri la si finisca di sentirci in colpa. Salvato il sistema coi soldi dei cittadini, cioè coi tagli allo stato sociale, alla sanità, alle pensioni, all’istruzione, l’Unione Europea decise che era giunto il momento di essere davvero per il libero mercato.È quindi stata varata l’Unione Bancaria, da noi ovviamente presentata come un altro passo verso i meravigliosi Stati Uniti d’Europa. L’unione bancaria, come il Fiscal Compact e altre sconcezze, in realtà era solo una ulteriore sottrazione di sovranità economica agli Stati, a favore delle banche, della burocrazia europea e naturalmente del potere del solo Stato diverso da tutti gli altri, la Germania. Ai governanti e ai politici italiani, da Monti, a Letta, a Renzi, che hanno gestito l’adesione dell’Italia alla unione bancaria, secondo me una causa per danni andrebbe fatta. Infatti quella decisione, invece che mettere in sicurezza il sistema bancario del nostro paese, lo ha esposto a tutte le tempeste. Il succo del nuovo trattato era proibire i salvataggi di stato delle banche, cui finora tutti i paesi più ricchi d’Europa erano ricorsi. Dal 2016, le banche in crisi avrebbero dovuto essere salvate con i soldi dei loro azionisti e dei loro correntisti, per deposti superiori a 100.000 euro. Non so come si traduca in tedesco “chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato”, ma il concetto è quello. In inglese, la lingua che si usa sempre per fregarci, invece tutto questo è stato definito: passare dal “bail out” al “bail in”.Ovviamente la chiusura dell’ombrello di Stato, usato in tutta Europa, ha accelerato le sofferenze delle banche gia in difficoltà, ed in Italia abbiamo avuto il crollo prima delle banche toscane, legate al Pd e poi di quelle venete legate storicamente al centrodestra. Un fallimento bipartizan. Il primo fallimento, quello toscano, è stato affrontato proprio con il bail in e ha provocato una catastrofe economica e sociale. Per questo, al crollo delle banche venete tutto il potere governativo italiano ed europeo ha deciso di reagire in altro modo. È il metodo europeo della cavia, usato brutalmente sulla Grecia e calibrato più prudentemente sugli altri paesi Piigs. Si sperimenta una misura brutale e poi si aggiusta la dose tenendo conto delle vittime e soprattutto delle ribellioni provocate. Così per le banche venete gli aiuti di Stato, fieramente avversati dalla Ue quando si tratti di chiudere fabbriche e tagliare servizi, sono stati subito approvati dai vertici europei. Lo strumento trovato per salvare l’ipocrisia e favorire gli affari è, anche qui c’è l’inglese, la “bad company”. Letteralmente la cattiva impresa, quella sulla quale vengon scaricati, debiti, costi, personale in esubero, in modo che la nuova impresa che rileva l’attività, la “new company”, parta solo con il miglior cuore del carciofo.L’uso della bad company in Italia non è nuovo. In Alitalia il governo Berlusconi la adoperò per permettere alla crema della imprenditoria italiana di salvare la compagnia aerea, con i risultati che abbiamo visto e pagato. Il top manager modello per Renzi, Marchionne, fece lo stesso alla Fiat di Pomigliano. Da un lato la bad company che aveva come unica ragione sociale la cassa integrazione per migliaia di operai, dall’altro la newco dove venivano selezionati uno per uno coloro che avrebbero ripreso a lavorare in condizioni durissime. La bad company è diventata il modello italiano di gestione di crisi e ristrutturazioni, da ultimo in Ilva, ed è quindi stato adottato anche per le banche venete. Non c’è strumento migliore per socializzare le perdite e privatizzare i profitti. Lo Stato si è accollato tutti i costi e gli esuberi delle banche fallite, Banca Intesa ne ha rilevato le attività al prezzo di 1 euro, naturalmente a condizione di ricevere finanziamenti e garanzie adeguate. Che potrebbero arrivare fino a 17 miliardi, con un costo virtuale medio di 440 euro per ognuno dei 38 milioni e mezzi di contribuenti. Il titolo Intesa è volato in Borsa.La banca Santander di Spagna ha protestato per questo salvataggio, perché in condizioni analoghe essa aveva dovuto rilevare anche tutte le passività, senza scaricarle su una bad company, dell’istituto di credito che salvava, ma La Ue ha risposto che in Italia era tutto regolare. Sono diventati più buoni? No le ragioni del sì europeo all’intervento pubblico italiano sono tre. La prima è che lo Stato paga, ma il privato guadagna. Se le banche venete fossero state nazionalizzate, allora sì che la Unione Europea sarebbe insorta gridando alla violazione del libero mercato. L’importante è che lo Stato, coi soldi dei cittadini, non aiuti se stesso e i cittadini che pagano, poi si può fare tutto. In secondo luogo si può sospettare che Banca Intesa, che usufruisce del salvataggio, sia in tali buoni rapporti con la finanza internazionale, magari anche con quella tedesca, da far presagire nuovi più vasti affari europei.In terzo luogo c’è la certezza che il governo italiano, per ottenere il via libera al salvataggio delle banche, abbia promesso alla Ue un bel po’ di massacro sociale e privatizzazioni, da realizzare con la prossima finanziaria. Che dovrebbe procedere a tagli e svendite di servizi e beni pubblici per una cifra superiore ai 20 miliardi stanziati per le banche. Così i conti tornano e del resto la logica è sempre la stessa: si prendono in ostaggio i lavoratori, i risparmiatori, i cittadini colpiti dalle crisi e poi, per salvarli, si autorizzano le speculazioni più sfacciate. Nonostante ciò che urla la propaganda di regime, l’alternativa reale non è salvataggi pubblici o libero mercato. La scelta vera è tra spendere il danaro pubblico a favore del profitto privato e della finanza, oppure per la proprietà pubblica e i cittadini. A quest’ultima scelta si oppone oggi pesantemente l’Unione Europea, la più grande bad company di cui è necessario liberarsi.(Giorgio Cremaschi, “La bad company è l’Unione Europea”, da “Micromega” del 4 luglio 2017).Nella Barcellona mercantile e marinara del 1300 un banchiere che avesse fatto fallimento compromettendo i risparmi di chi si fosse a lui affidato, sarebbe stato decapitato in piazza. Da quel feroce mondo medioevale, ove chi speculava sul danaro veniva considerato usuraio e tollerato solo se apportava grandi ricchezze alle comunità, molto progresso si è fatto. Oggi le banche falliscono, ma i banchieri, che godono di un disistima presso l’opinione pubblica superiore a quella medioevale, non pagano mai, in tutta Europa non uno di loro è in prigione. Il salvataggio delle due banche venete fallite con soldi pubblici che daranno profitti privati, benedetto dalle autorità della Unione Europea, è un esempio del regime finanziario che oggi ci comanda. Dopo il fallimento di Lehman Brothers nel 2008 negli Stati Uniti, che diede il via alla grande crisi mondiale che tra alti e bassi ancora continua, tutte le istituzioni politiche ed economiche, la Unione Europea in primo luogo, decisero che per fermare il contagio bisognava salvare ad ogni costo le banche dal fallimento.
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Attacco alle banche, per commissariare l’Italia entro il 2017
La Germania tenta il colpo grosso: commissariare l’Italia entro il 2017. Come? Imponendo alle banche di disporre di capitali aggiuntivi (che non possiedono) per poter garantire i titoli di Stato, cioè la linfa del bilancio. Dall’europarlamento di Bruxelles, Marco Zanni denuncia una grave minaccia di cui nessuno ha ancora parlato: il tentativo di commissariamento di Roma entro il 2017 da parte della Germania, nascosto in un emendamento all’articolo 507 del Regolamento sui requisiti patrimoniali delle banche. «È necessario diffondere il più possibile questa nuova minaccia, ancora una volta nascosta nelle pieghe di una incomprensibile burocrazia nata specificamente per mascherare ai cittadini le tecniche di controllo delle democrazie del sud Europa», afferma Claudio Messora su “ByoBlu”. «Di fatto è un tentativo che denunciammo già dal 2014 – dice Zanni – da quando ho iniziato ad occuparmi di regolazione bancaria a livello europeo e di tutto quel pacchetto regolamentare che noi in Italia – purtroppo a nostro discapito – abbiamo imparato a conoscere bene e che cade sotto il nome di “Unione Bancaria” o “Banking Union”». Unione Bancaria, ovvero quell’insieme di regole, per le banche dell’Eurozona, che si basa principalmente su tre pilastri: supervisione unica, “risoluzione del rischio” e assicurazione sui depositi.La supervisione unica delle grandi banche all’interno dell’Eurozona è affidata al “Single Supervisory Mechanism”, cioè «quel braccio della Bce che deve supervisionare la corretta applicazione delle regole e la corretta patrimonializzazione delle banche». Famigerato, poi il “Meccanismo di Risoluzione Unico”, «di cui fa parte la famosa regola del bail-in», di ci hanno fatto le spese i correntisti delle banche di Arezzo, Ferrara, Chieti. Manca ancora il “terzo pilastro”, cioè «un’assicurazione comune sui depositi di tutte le banche che cadono sotto questo cappello». Cosa sta accadendo dal 2014, da quando questo sistema sta entrando in vigore? «Queste regole sono state plasmate per distruggere il sistema bancario italiano e spingere il nostro paese a dover richiedere aiuto a istituzioni europee che – purtroppo – abbiamo imparato a conoscere bene», afferma Zanni. L’europarlamentare denuncia l’Omt della Bce: l’Outright Monetary Transactions è «la traduzione pratica di quel “whatever it takes” detto fin dal 2012 da Mario Draghi, cioè il fatto che la Bce farà di tutto per salvare l’euro». In più, incombe la richiesta di ricorrere all’“aiuto” del Mes, il Meccanismo Europeo di Stabilità, già denunciato (anche da Messora) «per la sua struttura criminale», che oggi «diventa una possibilità concreta per “mettere in sicurezza” il sistema bancario».«Quest’attacco all’Italia – continua Zanni – è partito attraverso questo insieme di regole che si chiama “Unione Bancaria”. E poche settimane fa è stato fatto un passettino in avanti per affossare ancora di più il sistema bancario italiano, per attaccare i titoli del nostro debito pubblico e costringere inevitabilmente il governo italiano a intraprendere due strade, che portano entrambe inevitabilmente al commissariamento da parte della Troika». Secondo Zanni, ci aspettano «l’attacco, la speculazione sul debito pubblico e quindi la richiesta di Omt, con conseguente arrivo della Troika», o in alternativa «il collasso inevitabile del sistema bancario italiano, con la richiesta di ricapitalizzazione del sistema tramite il Mes, quindi le condizionalità annesse e infine l’arrivo della Troika». Allarme rosso, per l’europarlamentare ex grillino: «Questo è quello che sta succedendo oggi all’interno delle istituzioni europee, nel più totale silenzio dei nostri media». Stampa e televisione «di questo non parlano, preferiscono disquisire di una fasulla diatriba tra Roma e Bruxelles sullo 0,2% del Pil, su questa manovra correttiva da 3-4 miliardi di euro. Qui invece sono in gioco decine di miliardi di euro».La Germania tenta il colpo grosso: commissariare l’Italia entro il 2017. Come? Imponendo alle banche di disporre di capitali aggiuntivi (che non possiedono) per poter garantire i titoli di Stato, cioè la linfa del bilancio. Dall’europarlamento di Bruxelles, Marco Zanni denuncia una grave minaccia di cui nessuno ha ancora parlato: il tentativo di commissariamento di Roma entro il 2017 da parte della Germania, nascosto in un emendamento all’articolo 507 del Regolamento sui requisiti patrimoniali delle banche. «È necessario diffondere il più possibile questa nuova minaccia, ancora una volta nascosta nelle pieghe di una incomprensibile burocrazia nata specificamente per mascherare ai cittadini le tecniche di controllo delle democrazie del sud Europa», afferma Claudio Messora su “ByoBlu”. «Di fatto è un tentativo che denunciammo già dal 2014 – dice Zanni – da quando ho iniziato ad occuparmi di regolazione bancaria a livello europeo e di tutto quel pacchetto regolamentare che noi in Italia – purtroppo a nostro discapito – abbiamo imparato a conoscere bene e che cade sotto il nome di “Unione Bancaria” o “Banking Union”». Unione Bancaria, ovvero quell’insieme di regole, per le banche dell’Eurozona, che si basa principalmente su tre pilastri: supervisione unica, “risoluzione del rischio” e assicurazione sui depositi.
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Macron, l’uomo dei Rothschild, non fermerà Marine Le Pen
Tra un po’ salterà fuori la verità sul finto “rottamatore” Emmanuel Macron, ex banchiere della Rothschild & Compagnie. E il 7 maggio, «Marine Le Pen avrà gioco facile a battere al secondo turno “le candidat du fric”, il candidato dei soldi», profetizza Federico Dezzani: «Come insegna la parabola di Matteo Renzi, il primo contatto di questi leader di cartapesta con l’elettorato in rivolta è spesso anche l’ultimo». Si surriscalda il clima politico in Europa, in attesa delle tornate elettorali che decideranno il futuro della moneta unica. Il punto di svolta saranno le presidenziali che si apriranno il 23 aprile in un paese «sempre meno “motore” dell’Unione Europea e sempre più europeriferia». L’elettorato è in rivolta, come già dimostrato dalle primarie del partito repubblicano vinte dal candidato “outsider”, il “filo-russo” François Fillon. «Per scongiurare un ballottaggio tra Fillon e la populista Marine le Pen, l’establishment è corso ai ripari, azzoppando il repubblicano con uno scandalo mediatico» e lanciando verso il ballottaggio il giovane Macron. Ma «la manovra si basa su un calcolo politico clamorosamente sbagliato», dato che Macron proviene dal gruppo Rothschild: i francesi non si lasceranno incantare.Mentre i falchi tedeschi attaccano Mario Draghi e il governatore della Bce ricorda “l’irrevocabilità” della moneta unica, ammettendo però implicitamente che la sua dissoluzione è nell’ordine delle cose, Angela Merkel ipotizza un’Europa a due velocità per liberarsi dal fardello dell’europeriferia. E il governo italiano («forse bluffando, forse alienato dalla realtà») plaude alle proposte di Berlino, come se l’euro-marco non avesse già relegato l’Italia ai margini dell’Europa. La situazione si fa incandescente, scrive Dezzani nel suo blog: «Messa di fronte al fallimento dell’euro come strumento politico per strappare gli Stati Uniti d’Europa (“nein” tedesco agli eurobond, all’unione bancaria, alla transfer-union), l’oligarchia euro-atlantica ha scelto di arroccarsi, difendendo strenuamente le posizioni dall’avanzata dei “populisti”, ossia dei partititi che catalizzano il malessere della società accumulato in sette anni di eurocrisi». L’apice della tensione sarà certamente toccato nelle elezioni transalpine, dove Marine Le Pen – vicinissima alla vittoria – potrà innescare la dissoluzione dell’Ue. La Francia è un paese-cardine dell’Unione, «è la seconda economia della moneta unica, nonché parte integrante del famigerato “motore franco-tedesco” (da tempo sbiellato)».Il successo dei “populisti” alle prossime presidenziali, dice Dezzani, sancirebbe automaticamente la fine dell’euro e delle istituzioni di Bruxelles, con buona pace delle pretese di irrevocabilità dell’euro ed i sogni di Angela Merkel di un’Europa a più velocità. «Il giorno dopo la vittoria dei populisti francesi, l’Unione Europea arriverebbe al capolinea, imboccando la strada della disgregazione, forse concordata, ma più probabilmente caotica». Da tempo la situazione sta precipitando, con «un capo dello Stato, François Hollande, tra i più impopolari della Quinta Repubblica», poi «un debito pubblico che è lievitato dal 60% al 100% del Pil da quando è stato adottato l’euro», nonché «una bilancia commerciale in cronico disavanzo e una disoccupazione record, pari al 10% della forza lavoro». Perché la Francia possa rimanere agganciata all’euro, «andrebbe anch’essa sottoposta alle dure ricette dell’austerità e della svalutazione interna». Ma la Francia non è l’Italia: «I cugini d’Oltralpe vantano una lunga storia di rivoluzioni e sono naturalmente inclini a ribellarsi se giudicano lo Stato troppo vessatorio. Lo hanno ricordato il piano di esuberi ad Air France, che per poco non è degenerato in un linciaggio dei dirigenti, e le proteste contro il “Jobs Act” francese», il pacchetto Loi Travail, che ha generato «mobilitazioni di massa di lavoratori e sindacati che hanno portato il paese ad un passo dalla paralisi».Dezzani spiega così l’offensiva terroristica (targata Isis) di cui è stata vittima la Francia: una vera e propria «strategia della tensione», nel tentativo di «sedare l’elettorato e soffocare le pulsioni populiste», rafforzando i «partiti di sistema». Dezzani sottolinea la progressione degli eventi: nell’autunno 2013 Hollande inanella un nuovo record di impopolarità; nella primavera 2014 Manuel Valls è nominato primo ministro; nel gennaio 2015 è inaugurata, con la strage di Charlie Hebdo, la lunga scia di attentati «gestita dalla Dgse», l’intelligence francese, «e dai servizi segreti atlantici (Mossad, Cia, Mi6)». Seguono la carneficina del Bataclan, la strage di Nizza e uno stillicidio di attentati minori con cadenza mensile: «Circa 200 persone muoiono nell’arco di due anni, ed è facile attendersi ancora qualche colpo di coda prima delle presidenziali». Sull’onda della strage di Parigi, è dichiarato lo stato d’emergenza (novembre 2015) e la serie quasi interrotta di attentati permette di protrarlo ad ogni scadenza: «Per la prima volta dalla guerra in Algeria, i francesi voteranno quindi in un contesto di limitazioni alle libertà personali».Ma se gli attentati servano a mobilitare 10.000 riservisti, a ripetere il mantra “la Francia è in guerra” e ad iniettare «effimere dosi di popolarità alla presidenza di Hollande», in realtà i consensi dei principali partiti d’establishment «si squagliano come neve al sole», se è vero che «a distanza di un mese dalla carneficina del Bataclan il Front National si impone come prima forza politica alle regionali del dicembre 2015 e si rafforza la certezza che il Fn conquisterà il ballottaggio alle presidenziali del 2017». Se nel 2002 finì al ballottaggio il fascistoide impresentabile Jean-Marie Le Pen, cosa che spinse anche i socialisti a votare per Jacques Chirac, oggi il Front National è però rappresentato dall’accattivante volto della figlia, Marine Le Pen. E, «complice la grande debolezza dei repubblicani (ancora convalescenti dalla presidenza di Nicolas Sarkozy) e la liquefazione dei socialisti, il partito è ben posizionato per raccogliere voti a destra (sicurezza, lotta all’immigrazione, gaullismo anti-Nato) ed a sinistra (difesa dell’industria nazionale, contrasto all’impoverimento post-euro, attacco ai soliti notabili parigini). Le probabilità di una vittoria del Front National aumentano settimana dopo settimana, concretizzando i peggiori incubi dell’establishment euro-atlantico: dopo Donald Trump alla Casa Bianca, Marine Le Pen all’Eliseo».Marine Le Pen sarebbe «favorevole all’Europa della Nazioni, all’uscita dall’euro ed al ritorno al franco, allo svincolamento della Francia dalla Nato (con il probabile avvallo di Donald Trump) ed a rapporti solidi e proficui con la Russia (da cui ha sinora ricevuto finanziamenti per la campagna elettorale)». Dopo Brexit e Trumo, la vittoria di Marine sarebbe «il colpo di grazia alla già traballante impalcatura Cee-Ue/Nato su cui basa da 70 anni il dominio angloamericano sul Vecchio Continente». Il potere è già corso ai ripari. Ma, puntando su Macron, secondo Dezzani sta sbagliando i suoi conti. Nell’arco di soli tre mesi, «l’oligarchia euro-atlantica ha mutato la strategia in base all’esito delle primarie, passando dall’iniziale scenario “Alain Juppé versus Marine Le Pen” a quello “Emmanuel Macron versus Marine Le Pen”, sacrificando nel mezzo il repubblicano François Fillon, reo di essere troppo filo-russo ed euro-tiepido: è stata una scelta non solo azzardata, ma quasi certamente anche errata, perché le probabilità di vittoria di Marine Le Pen, anziché diminuire come sperato, sono invece paradossalmente aumentate».Ebbene sì, madame Le Pen avrà l’onore di abbattere il Muro di Bruxelles. Convinzione che Dezzani ricava dalla ricostruzione delle manovre in corso in Francia per tentare di fermare la first lady del Front National. Punto di partenza, «l’impopolarità record di François Hollande e il conclamato sfaldamento del partito socialista», condannato all’esclusione dal ballottaggio. L’establishment punta dapprima sul navigato Alain Juppé, più volte ministro, europeista convinto, ostile a Putin. Ma ci sono ostacoli: «Il primo è Nicolas Sarkozy, la cui eliminazione politica è relativamente facile: è sufficiente rivangare i finanziamenti illeciti ricevuti durante la campagna elettorale del 2012 e l’ex-presidente è neutralizzato». Il secondo ostacolo è François Fillon, ultra-liberista ma indigesto all’élite: contrario al Trattato di Maastricht, critico sull’Ue e sulle sanzioni alla Russia. Ma i sondaggi (quelli veri) rivelano che nessuno di questi candidati può farcela, contro Marine Le Pen. Serve un nuovo personaggio, che sembri un outsider: Emmanuel Macron, 38 anni, già ministro dell’economia, fresco di dimissioni. Le probabilità di vittoria, scrive inizialmente “Le Monde”, sono esigue, perché Macron ha intenzione di correre senza l’appoggio di alcun partito tradizionale: il suo progetto è quello di “superare la sinistra e la destra”. «Già, però “Le Monde” dimentica che Macron dispone di qualche solida amicizia nel mondo della finanza: la banca Rothschild, dalle cui fila uscì a suo tempo il presidente Georges Pompidou».A testimonianza della ribellione che serpeggia tra l’elettorato, le primarie del centrodestra incoronano Fillon, che si impone su Juppé. «Considerato che i socialisti sono matematicamente estromessi dal ballottaggio, si figura quindi un singolare duello tra “les amis de Vladimir Poutine”, Fillon e Len Pen. Il colpo incassato dall’oligarchia euro-atlantica è molto duro, forse anche un po’ troppo, considerata la sua successiva mossa che sembra davvero poco lucida: segare le gambe a François Fillon, per portare al ballottaggio il suo “protégé” Emmanuel Macron». Contro Fillon «è scatenato il solito scandalo mediatico-giudiziario, incentrato sui compensi ricevuti dalla moglie, assunta come assistente parlamentare». Fillon denuncia pubblicamente il “colpo di Stato istituzionale” ai suoi danni, ma il battage della stampa martella senza sosta: «Benché non ci sia nulla d’illegale nella condotta di Fillon, sono forti le pressioni perché si ritiri dalla campagna elettorale. L’ex-primo ministro ha recentemente asserito di non voler gettare la spugna, ma è chiaro che la sua corsa verso l’Eliseo è stata gravemente compromessa, a vantaggio dell’astro nascente di queste ultime settimane, l’ex-banchiere Emmanuel Macron».Tra il 2008 ed 20126, Macron, «già pupillo di quel Jacques Attali che contribuì a scrivere il Trattato di Maastricht», ha lavorato infatti presso la Rothischild & Compagnie. «E ci sono pochi dubbi che dietro la sua fulminea ascesa si nasconda la solita oligarchia finanziaria liberal: quella che tira i fili dell’Unione Europea, quella che sogna il cambio di regime in Russia, quella che aveva scommesso tutto su Hillary Clinton, quella che ha portato Bergoglio al soglio pontificio». È così evidente il nesso tra Macron ed i circoli dell’alta finanza, continua Dezzani, che «gli osservatori, specie se italiani, non possono che sorridere, notando le incredibili analogie tra Macron e l’ex-premier Matteo Renzi, a sua volta espressione di Jp Morgan. Entrambi “rottamatori”, entrambi per il superamento della sinistra e della destra (vedi Partito della Nazione), entrambi “ultimo argine” contro i populismi, entrami “europeisti”, entrambi creati artificialmente in laboratorio, con l’auspicio che l’elettore voti “la novità” come compera un detersivo pubblicizzato in televisione. Il motto scelto da Macron per la campagna elettorale, “En marche!”, è addirittura quasi la traduzione de “l’Italia riparte” usato dallo sfortunato Renzi».Basta un mese scarso di campagna elettorale perché si imponga, sui media, il “fenomeno Macron”, «il giovane rottamatore che conquista i cuori e le menti degli elettori grazie ai social network, al sorriso accattivante, al superamento delle ideologie e alla retorica liberal». A cronometro, ai primi di febbraio, «escono (dietro suggerimento dei soliti noti) sondaggi sorprendenti. il sorpasso è avvenuto!». Sicché, il ballottaggio del 7 maggio non vedrà più fronteggiarsi i due filo-russi Fillon e Le Pen, ma l’europeista Macron e la populista Le Pen. E poi, perché fermarsi al ballottaggio? “Francia, sondaggio: Macron 65% al ballottaggio contro Le Pen. Fillon si scusa ma va avanti”, titola il “Sole 24 Ore” il 6 febbraio. «L’ex-banchiere della Rothschild & Compagnie ha già vinto, 65% contro 35! Et voilà! Il voto della prossima primavera è solo una formalità: anche la più grande minaccia per l’impalcatura euro-atlantica è stata scongiurata e l’establishment può tirare un sospiro di sollievo. Ma è davvero così?». Dezzani scommette di no: «Supponiamo che i sondaggi siano effettivamente corretti ed il “rottamatore” Macron conquisti il ballottaggio a discapito di François Fillon, dimezzato dagli scandali. La domanda da porsi è: la banca Rothschild, così facendo, ha ridotto le probabilità di una vittoria finale della populista Le Pen? La risposta è no». Anzi, le chance di una vittoria di Marine Le Pen al ballottaggio sono virtualmente in aumento.Per Dezzani, la strategia dell’oligarchia euro-atlantica sta sbagliando tutto, «ennesimo sintomo dell’incapacità delle élite di leggere la realtà: la stessa incapacità già riscontrata in Italia, dove l’enorme capitale politico di Matteo Renzi è stato dilapidato in soli tre anni, fino all’esaurimento totale con la sconfitta referendaria del 4 dicembre». In un ballottaggio tra François Fillon e Marine Len, giocato tutto alla destra dell’arena politica, il candidato repubblicano aveva (e forse ha) qualche possibilità di successo, perché «in grado di intercettare i voti dei socialisti e del centro, sommandoli a quelli dell’Ump/repubblicani». Con Fillon, «l’opinione pubblica avrebbe percepito il ballottaggio come una sfida tra due “outsider”, rendendo più difficile al Front National catalizzare il voto anti-sistema, divenuto sempre più importante in termini numerici». In un ballottaggio tra Macron e la Le Pen, invece, «tutto il bacino della destra francese, repubblicana, gollista e nazionalista (in sostanza i due principali partiti politici), confluisce verso il Front National, aprendo le porte dell’Eliseo a Marine Le Pen con una facilità persino maggiore che in duello con Fillon».Non solo: quel ballottaggio «si configurerebbe anche come una sfida tra “le candidat du fric” (il candidato dei soldi) e la populista, tra l’ex-banchiere dei Rothschild e la candidata che raccoglie i voti nelle periferie, tra i notabili di Parigi ed il resto della Francia. Poteva chiedere di meglio il Front National?». Aggiunge Dezzani: «Azzoppando Fillon e scommettendo tutto su Macron, la banca Rothschild & Compagnie ha in sostanza commesso un clamoroso errore politico, frutto di una valutazione completamente distorta della realtà: non c’era modo migliore che aprire le porte dell’Eliseo a Marine Le Pen che schierarle contro un ex-banchiere d’affari, discepolo di Jacques Attali, ministro dell’economia sotto la presidenza Hollande ed espressione del grande capitale internazionale». In più, «circolano voci di imminenti rivelazioni su Emmanuel Macron, compromettenti notizie sui suoi legami con l’alta finanza e/o con la lobby omosessuale: sarebbe, secondo alcune ricostruzioni, un tentativo della Russia di soccorrere il “proprio candidato”, quella Marine Le Pen che promette di liberare la Francia dal giogo dell’euro e della Nato». Morale: «Il Front National vincerà con alte probabilità le elezioni presidenziali, ma non dovrà sdebitarsi col Cremlino», perché «l’assist più prezioso» le è stato involontariamente fornito dai Rothschild e dal loro “candidat du fric”».Tra un po’ salterà fuori la verità sul finto “rottamatore” Emmanuel Macron, ex banchiere della Rothschild & Compagnie. E il 7 maggio, «Marine Le Pen avrà gioco facile a battere al secondo turno “le candidat du fric”, il candidato dei soldi», profetizza Federico Dezzani: «Come insegna la parabola di Matteo Renzi, il primo contatto di questi leader di cartapesta con l’elettorato in rivolta è spesso anche l’ultimo». Si surriscalda il clima politico in Europa, in attesa delle tornate elettorali che decideranno il futuro della moneta unica. Il punto di svolta saranno le presidenziali che si apriranno il 23 aprile in un paese «sempre meno “motore” dell’Unione Europea e sempre più europeriferia». L’elettorato è in rivolta, come già dimostrato dalle primarie del partito repubblicano vinte dal candidato “outsider”, il “filo-russo” François Fillon. «Per scongiurare un ballottaggio tra Fillon e la populista Marine le Pen, l’establishment è corso ai ripari, azzoppando il repubblicano con uno scandalo mediatico» e lanciando verso il ballottaggio il giovane Macron. Ma «la manovra si basa su un calcolo politico clamorosamente sbagliato», dato che Macron proviene dal gruppo Rothschild: i francesi non si lasceranno incantare.
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Euro-barbarie, Zanni: incostituzionale è l’Unione Europea
Se c’è qualcosa di “incostituzionale” è proprio l’Unione Europea. Si spera quindi che la frana dell’Eurozona diventi una valanga nel 2017, con elezioni che protrebbero “pensionare” i politici che finora hanno sostenuto l’euro-follia, da Parigi a Berlino. Non c’è mai stata cooperazione, ma solo una competizione giocata con armi illecite, alla quale sopravvivrà solo il più forte, la Germania. «Come è possibile – si domanda Marco Zanni – che istituzioni sovranazionali come quelle dell’Ue non siano dichiarate incostituzionali perché incompatibili con l’articolo 11 della nostra Costituzione, che delimita chiaramente i confini entro cui lo Stato italiano può partecipare a organizzazioni internazionali?». E infine: «Perché i nostri governi non rifiutano le distruttive e insensate regole europee quando queste creano pericolose asimmetrie e ledono i diritti fondamentali dei propri cittadini?». L’attuale classe politica italiana, e in particolare la sinistra, ha «svenduto il paese, i diritti dei cittadini e quelli dei lavoratori al capitale finanziario, che ha agito incontrollato nella distruzione di quanto di buono fatto in Europa dopo la tragedia della Seconda Guerra Mondiale». Ergo, «non potranno essere loro a portarci fuori dal baratro».Tuttavia, «è ormai chiaro che il castello di carta crollerà sotto la fragilità delle sue stesse fondamenta: il 2017 sarà un anno fondamentale, perché dopo la Brexit e Trump potranno esserci sorprese in Italia, Olanda, Francia e Germania», scrive Zanni nel suo blog. L’Eurozona non è riformabile e quindi collasserà, perché politicamente insostenibile, anche se «molti ancora non vogliono capirlo, perché interessati a mantenere questo stato di perenne agonia in cui aumentano le diseguaglianze tra i più ricchi (sempre meno e sempre più ricchi) e i poveri (sempre di più e sempre più poveri)». Una costruzione «tecnicamente e politicamente irriformabile», che quindi «imploderà sotto i colpi della sua stessa insostenibilità». L’obiettivo dell’Ue, esplicitato dal Trattato di Maastricht fondativo dell’euro: «Una restaurazione liberista che ha smontato a colpi di “crisi telecomandate” e “ce lo chiede l’Europa” lo stato sociale e le tutele dei lavoratori tipiche delle Costituzioni nazionali democratiche degli Stati della periferia europea, operando, attraverso anche una deregolamentazione finanziaria spinta alla follia, una redistribuzione dei redditi dal lavoro al capitale».In questo scenario, continua Zanni nel suo blog, la Germania è stata abile nell’imporre il suo modello di sviluppo socio-economico, l’ordoliberismo mercantilista, creando un set di regole asimmetriche per punire “le cicale del Sud Europa” che “si indebitano” e “vivono al di sopra delle proprie possibilità”. Maastricht, Patto di Stabilità, Fiscal Compact, unione bancaria, Six-Pack e Two-Pack. Stesso obiettivo: «Per curare le asimmetrie andavano puniti severamente gli Stati in deficit», dimenticando che, «se c’è un deficit da una parte, dall’altra c’è un surplus (il gioco è a somma zero)», e quindi «se c’è qualcuno che è tanto irresponsabile da essersi indebitato troppo, dall’altra parte c’è un creditore altrettanto irresponsabile che gli ha prestato i soldi». E invece, nell’Eurozona «le regole sono state costruite e interpretate sempre per far ricadere il peso degli aggiustamenti sugli Stati in deficit e sui loro cittadini». E se l’Ue ha provato timidamente a far notare che la colpa delle “asimmetrie” è anche dei creditori, «l’egemone Stato tedesco ha preso a schiaffi Bruxelles e ha ributtato violentemente la palla dall’altra parte, infischiandosene di quelle regole che invece con tanto zelo impone ai partner europei».In un sistema a cambi fissi come quello dell’Eurozona, continua Zanni, i differenziali d’inflazione tra gli Stati membri causano perdita di competitività, squilibri della bilancia commerciale e indebitamento estero, soprattutto nel settore privato dei paesi in deficit, non potendo aggiustare la situazione con il cambio. La Germania, paese in costante surplus commerciale e fiscale, dovrebbe inflazionare (quindi alzare la spesa pubblica e alzare il livello dei salari), mentre la periferia dovrebbe deflazionare, come sta facendo, al prezzo della distruzione della propria economia. Regole sempre asimmetriche: «La periferia è stata costretta a deflazionare, con austerità e contenimento dei salari, mentre la Germania se n’è infischiata delle regole e ha continuato a mantenere inflazione vicina allo zero, a registrare surplus fiscali di bilancio e ad aumentare il suo surplus commerciale, sfruttando il suo tasso di cambio reale pesantemente sottovalutato, come fatto notare anche dal Fondo Monetario Internazionale e dall’Ocse». Dopo il 2013, anche su sollecito dell’Italia, la Commissione Europea ha segnalato a Berlino il mancato rispetto delle regole da parte dei tedeschi, chiedendo alla Germania di aumentare la sua spesa pubblica e di alzare i salari, «ricevendo puntualmente la porta in faccia».Questa è l’essenza dell’Eurozona, sottolinea Zanni: «Un sistema asimmetrico, in cui i più forti interpretano le regole a loro favore, non le rispettano e in cui si creano vincitori e vinti a un prezzo altissimo, in barba a quella cooperazione socio-economica tra gli Stati membri scritta a chiare lettere nei Trattati». Bruxelles è appena tornata alla carica chiedendo alla Germania una sterzata per il 2017, ma la risposta di Wolfgang Schaeuble non è cambiata: Berlino si appella al pareggio di bilancio inserito in Costituzione, fornendo ai tedeschi un vantaggio competitivo che la Germania si è costruita «plasmando a suo favore le regole europee e soffocando gli Stati europei più minacciosi per la propria sopravvivenza e prosperità», Italia in primis. «Invece che rispettare i precetti della cooperazione socio-economica sancita nei trattati», i tedeschi «hanno preferito seguire la più semplice filosofia del “mors tua vita mea”. La Germania – aggiunge Zanni – se ne fregherà delle regole europee, farà registrare il quarto bilancio pubblico consecutivo in surplus e continuerà con la sua politica di ricatto e soppressione del vicino, anche a costo di danneggiare e soffocare i “cugini” europei».Dando per scontato che a farlo non saranno politici come Hollande e Merkel, chi dovrà gestire la transizione dovrà arrivare estremamente preparato, perché non sappiamo se sarà un processo soft o turbolento. Obiettivo: risollevare l’economia dei paesi devastati dalle politiche imposte dall’euro. Misure sovraniste, quindi. La prima, ovvia: il ripristino della flessibilità dei cambi con una valuta controllata dalla banca centrale nazionale. E in parallelo, una riforma di Bankitalia «che dovrà eliminarne l’indipendenza e il divieto di finanziamento del deficit pubblico, facendola tornare sotto l’egida pubblica e operare in sintonia con il Ministero del Tesoro per non lasciare in mano ai mercati finanziari il destino del nostro debito pubblico e la determinazione dei tassi d’interesse che paghiamo su di esso». Zanni evoca anche il ripristino del Glass-Stegall Act abolito da Bill Clinton, cioè «il ripristino della separazione tra banche d’affari e banche commerciali». Quindi, misure keynesiane: «Un massiccio piano di investimenti pubblici in ricerca e sviluppo, in riqualificazione energetica degli edifici, con la messa in sicurezza del patrimonio pubblico e del suolo contro il rischio sismico e le catastrofi ambientali, finanziato attraverso la monetizzazione del deficit da parte della banca centrale».Zanni propone anche più controlli sulla libera circolazione dei capitali e il ripristino di una stringente regolamentazione dei mercati finanziari, da riportare «a supporto dell’economia reale». Corollario: una imponente riforma sociale, che azzeri che “riforme” degli ultimi decenni. E cioè: «Il ripristino di tutte le tutele ai lavoratori e alle altre categorie di cittadini come previste dalla Costituzione italiana del 1948», perché «il lavoro deve rimanere un diritto costituzionalmente garantito». L’Europa? «Rapporti con i partner europei sulla base del rispetto reciproco e della cooperazione verso obiettivi comuni di prosperità, sempre però nel rispetto delle democrazie nazionali e dei precetti costituzionali». In altre parole, si tratterebbe di una rivoluzione copernicana. Attuata da quali forze politiche? Non è dato saperlo, per ora. Quella che Zanni auspica, in ogni caso, è una svolta epocale, necessaria per «ricostruire le macerie di un paese raso al suolo dall’adesione incondizionata al folle progetto» dell’Eurozona. «Ma la cosa più importante – aggiunge – sarà tener vivo nelle generazioni future il ricordo di queste scempio e delle cause che hanno portato alla più grande recessione economica della storia moderna».Se c’è qualcosa di “incostituzionale” è proprio l’Unione Europea. Si spera quindi che la frana dell’Eurozona diventi una valanga nel 2017, con elezioni che protrebbero “pensionare” i politici che finora hanno sostenuto l’euro-follia, da Parigi a Berlino. Non c’è mai stata cooperazione, ma solo una competizione giocata con armi illecite, alla quale sopravvivrà solo il più forte, la Germania. «Come è possibile – si domanda Marco Zanni, europarlamentare grillino – che istituzioni sovranazionali come quelle dell’Ue non siano dichiarate incostituzionali perché incompatibili con l’articolo 11 della nostra Costituzione, che delimita chiaramente i confini entro cui lo Stato italiano può partecipare a organizzazioni internazionali?». E infine: «Perché i nostri governi non rifiutano le distruttive e insensate regole europee quando queste creano pericolose asimmetrie e ledono i diritti fondamentali dei propri cittadini?». L’attuale classe politica italiana, e in particolare la sinistra, ha «svenduto il paese, i diritti dei cittadini e quelli dei lavoratori al capitale finanziario, che ha agito incontrollato nella distruzione di quanto di buono fatto in Europa dopo la tragedia della Seconda Guerra Mondiale». Ergo, «non potranno essere loro a portarci fuori dal baratro».