Archivio del Tag ‘deflazione’
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Da Rold: solo rigore e diktat, è stata l’Ue a creare la Brexit
«Nebbia sulla Manica? Il continente è isolato». Gianlugi Da Rold cita la regina Vittoria per tratteggiare l’atteggiamento verso l’Europa mostrato storicamente dal Regno Unito, «la più radicata monarchia costituzionale e la più antica democrazia liberale del mondo, dove si vota con lo stesso metodo da quasi 300 anni». Sempre stata diffidente, Londra, prima «verso i francesi usciti dal giacobinismo e dal periodo di Napoleone», e poi «verso i tedeschi, anche per via di due guerre mondiali combattute spesso in modo isolato e in prima linea». Per Da Rold, già invitato del “Corriere della Sera” e poi direttore de “L’Indipendente”, l’euroscetticismo britannico è un retroterra culturale antico: l’idea dell’unità europea non ha mai veramente affascinato gli inglesi. «Non a caso le immagini più significative, prima della Comunità del carbone e dell’acciaio (la Ceca), fino ai Patti di Roma del 1957, e ancora fino a Maastricht e alla nascita dell’Unione Europea, con l’euro mai adottato nel Regno Unito, non hanno alcun inglese come autentico protagonista». Sfilarono tedeschi come Adenauer, italiani come De Gasperi, francesi come Robert Schuman. Più tardi, «uomini come Mitterrand e Kohl attraversano gli antichi campi di battaglia e i cimiteri di guerra stringendosi la mano». Gli inglesi? Sempre in seconda fila, o all’opposizione.Nel 1985, a Milano, insieme a Mitterrand e Kohl fu Craxi a mette in minoranza «una proposta, sul futuro piuttosto vago dell’Unione Europea, di Margaret Thatcher». Tutto questo, osserva Da Rold, spiega i retroscena delle difficoltà nei rapporti tra Unione Europea e Regno Unito. E spiega in parte il clamoroso successo di un personaggio come Boris Johnson, che ha appena umiliato il Labour di Jeremy Corbyn e messo in un angolo nazionalisti scozzesi e liberal-democratici, sanzionando il via libero definitivo alla Brexit, all’uscita della Gran Bretagna dall’Ue. Estrema mobilità politica: alla “pelosa morale” della regina Vittoria, scrive Da Rold, si opponeva il famoso Circolo di Bloomsbury, con personaggi formidabili come le sorelle Woolf, John Maynard Keynes, lo scrittore Litton Strachey. Senza contare «grandi ribelli solitari come Oscar Wilde». Nell’ultimo dopoguerra, quando il debito inglese ammontava al 200%, «il laburista gallese Aneurin Bevan non ci pensò un attimo a varare il servizio sanitario nazionale (cure dentarie incluse)», secondo la lezione di William Beveridge, che nel 1942 gettò le basi per il super-progressista welfare inglese sotto il governo del conservatore Winston Churchill. Non lo sapevano, i “giornaloni”, che la Gran Bretagna è capace di tutto? Per loro, «la Brexit è colpa solo di un popolo che non capisce».I media, aggiunge Da Rold, avrebbero dovuto ricordare che, quando la costituzione dell’Unione Europea entrò nella fase cruciale degli anni Novanta, ancora un grande storico anglo-americano, Robert Conquest, metteva sull’avviso gli inglesi dal cadere «nelle braccia» della burocrazia e tecnocrazia poco politica di Bruxelles, «dominata soprattutto da un asse franco-tedesco fastidioso e irritante per la tradizione politico-democratica inglese». Conquest, scrive Da Rold, contrapponeva a questa idea di Europa addirittura un’alleanza transatlantica che si allargava anche agli Stati del Pacifico di origine anglosassone. Storia: «Alla fine prevalse, dopo il fallimento del comunismo e la caduta del Muro di Berlino, l’idea di un’Europa unita e protagonista nel mondo». Buona idea, ma «mal gestita». È in quel momento che, sia da parte britannica ma anche da parte franco-tedesca – dice Da Rold – si sarebbero dovute superare le antiche diffidenze per trovare un terreno di comune collaborazione. Invece, ci sono stati quasi solo incidenti: prima la crisi finanziaria del 2008 (con l’Europa ingessata dall’euro) e poi il collasso della Grecia nel 2013 «hanno ricreato profonde diffidenze nel Regno Unito».È per questa ragione, continua l’analista, che nel 2015 venne rieletto a larga maggioranza David Cameron, leader conservatore che voleva ridiscutere il ruolo della Commissione Ue, contestando Jean-Claude Juncker. Fu Cameron a volere un mandato forte, e quindi il referendum, pur schierandosi per la permanenza del Regno Unito in Europa. Il resto è cronaca: i britannici rispsero con una bocciatura e la scelta di uscire dall’Ue. «Imprudente, Cameron? Probabilmente, ma anche comprensibile». E in ogni caso: assai più democratico dei vari “soloni” europeisti di Bruxelles, «noti da anni per l’austerità, la deflazione, la crescita asfittica e le contestazioni a cui sono sottoposti dai nuovi nazionalisti, oltre che da assetti geopolitici che altre grandi potenze cercano di definire, tagliando fuori proprio l’Europa». Prima sgomenti dopo il referendum perso da Cameron, i burocrati di Bruxelles hanno alzano la posta «con una serie di dichiarazioni anti-britanniche, spalleggiate da una stampa para-comica, soprattutto in Italia». Per il Regno Unito si sarebbe avvicinata una crisi devastante, una specie di Armageddon: una canzoncina intonata per tre anni.Mentre ci sono paesi europei in grande difficoltà – osserva invece Da Rold – la Gran Bretagna ha una sterlina che prima perde valore, favorendo però le esportazioni, poi cresce meno ma cresce e soprattutto mantiene una disoccupazione al 3%. «Per ora l’Armageddon non è arrivato, le profezie oscure dell’asse franco-tedesco non si sono avverate, mentre “frau Merkel” continua a perdere consensi a ogni elezione. E Emmanuel Macron, l’uomo nuovo della supposta “nuova grandeur”, non riesce in questi giorni neppure a uscire di casa per il blocco dei trasporti in Francia, in seguito alla riforma delle pensioni». Perché stupirsi, a questo punto, della valanga anti-europeista a favore di Boris Johnson? Il leader conervatore, latinista e storico, ha scritto “Il sogno di Roma”: come altri storici inglesi, sull’esempio dell’imperatore Augusto, considera che «i veri confini della civiltà» arrivano al Reno, mentre «all’Elba è meglio non arrivare». Opinioni ovviamente azzardate, chiosa Da Rold, per il tempo che viviamo: «Ma qualche autocritica, dalle rive dell’Elba e da Bruxelles, dovrebbe essere finalmente fatta. Sul serio, senza prese in giro di vario tipo, altrimenti la povera Europa affonda veramente».«Nebbia sulla Manica? Il continente è isolato». Gianlugi Da Rold cita la regina Vittoria per tratteggiare l’atteggiamento verso l’Europa mostrato storicamente dal Regno Unito, «la più radicata monarchia costituzionale e la più antica democrazia liberale del mondo, dove si vota con lo stesso metodo da quasi 300 anni». Sempre stata diffidente, Londra, prima «verso i francesi usciti dal giacobinismo e dal periodo di Napoleone», e poi «verso i tedeschi, anche per via di due guerre mondiali combattute spesso in modo isolato e in prima linea». Per Da Rold, già invitato del “Corriere della Sera” e poi direttore de “L’Indipendente”, l’euroscetticismo britannico è un retroterra culturale antico: l’idea dell’unità europea non ha mai veramente affascinato gli inglesi. «Non a caso le immagini più significative, prima della Comunità del carbone e dell’acciaio (la Ceca), fino ai Patti di Roma del 1957, e ancora fino a Maastricht e alla nascita dell’Unione Europea, con l’euro mai adottato nel Regno Unito, non hanno alcun inglese come autentico protagonista». Sfilarono tedeschi come Adenauer, italiani come De Gasperi, francesi come Robert Schuman. Più tardi, «uomini come Mitterrand e Kohl attraversano gli antichi campi di battaglia e i cimiteri di guerra stringendosi la mano». Gli inglesi? Sempre in seconda fila, o all’opposizione.
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Crosetto: Mes, rischio-catastrofe. Savona: ve l’avevo detto
Un documento inviato a tutti i ministri da Paolo Savona, oggi presidente Consob ma allora titolare degli Affari Ue, metteva in guardia il governo dai rischi delle modifiche del Mes. Quel documento, “Una politeia per un’Europa diversa”, aveva spaventato molto il mondo politico e finanziario dell’Unione, ma aveva centrato il punto: «La proposta in discussione di creare un fondo europeo per gli interventi, comunque lo si chiami – metteva nero su bianco Savona, come ricorda il “Messaggero” – oltre a disporre di risorse insufficienti, ha il duplice difetto di riproporre la parametrizzazione degli interventi, invece di valutare caso per caso secondo una visione politica comune. Essa inoltre ripropone i difetti della condizionalità restrittiva per la politica fiscale dei paesi che a esso ricorreranno, rendendo il meccanismo rigido nell’applicazione e con effetti deflazionistici». Traduzione: il Mes avrebbe peggiorato, e non risolto i problemi degli Stati costretti a ricorrervi. «Se c’è fretta di chiudere sul Mes, è un segnale drammatico». Guido Crosetto, ospite di “Omnibus” su “La7″, suggerisce qualcosa che tutti, fino a oggi, hanno sottovalutato o semplicemente nascosto, scrive “Libero”: il pressing dell’Unione europea sull’Italia per approvare la riforma del Fondo Salva-Stati potrebbe nascondere la preoccupazione di un imminente crac finanziario.«Temo che vogliano chiudere sul trattato – spiega il fondatore di Fratelli d’Italia, oggi ex parlamentare – perché la situazione delle banche tedesche e olandesi, a rischio crac, sia molto grave». Il riferimento è soprattutto a DeutscheBank e KommerzBank, i due colossi tedeschi a rischio collasso. «E guardate bene», avverte Crosetto: «Se saltano le banche avremo uno tsunami in confronto al quale la crisi del 2008 sarà nulla. E a pagare, come sempre, saranno i paesi più deboli, come l’Italia». Nel testo del rinnovato Mes, aggiunge “Libero”, è rimasta la valutazione della sostenibilità dei debiti e della capacità dello Stato che chiede un prestito di poterlo restituire. Ed è un punto che difficilmente sarà oggetto di negoziazione ulteriore. Al premier Giuseppe Conte e al ministro dell’economia Roberto Gualtieri, spiega il “Messaggero”, rimane la carta della modifica degli allegati, per correggere parzialmente un tiro destinato a fare malissimo all’Italia. Perché la ristrutturazione del debito (che renderebbe carta straccia i titoli di Stato, in mano soprattutto ai risparmiatori italiani) è ancora in piedi. E anzi, resta un caposaldo del Meccanismo Europeo di Stabilità.Nel frattempo, lo scandalo-Mes sta facendo franare il governo giallorosso: secondo Augusto Minzolini, autore di un report dietro le quinte pubblicato dal “Giornale”, Renzi avrebbe promesso a Salvini di staccare la spina al Conte-bis, in cambio di un eventuale accordo con la Lega per il varo di una legge elettorale proporzionale. Dal canto suo, il “Corriere della Sera” parla di imminenti diserzioni tra i 5 Stelle. E scrive: «Fonti leghiste assicurano che già quattro senatori hanno accettato il trasbordo nella Lega e altri starebbero per cedere». Voci che fanno il paio con chi, nel Movimento, parla insistentemente di scissione. Nei guai Conte, accusato di aver ceduto (in segreto) alle pressioni europee sul Mes. Lui smentisce, ovviamente. «Peccato che poi, implicitamente, riconosca come sia stato costretto a una brusca frenata sul negoziato che, diversamente – scrive “Libero” – sarebbe già andato in porto come suggerito maldestramente dal ministro dell’economia Roberto Gualtieri in commissione, parlando di “trattato già firmato e inemendabile”». Conte, infatti, ora parla di “rinvio possibile” e di un ok al Mes “vincolato” alla riforma dell’unione bancaria a marzo.Un documento inviato a tutti i ministri da Paolo Savona, oggi presidente Consob ma allora titolare degli affari Ue, metteva in guardia il governo dai rischi delle modifiche del Mes. Quel documento, “Una politeia per un’Europa diversa”, aveva spaventato molto il mondo politico e finanziario dell’Unione, ma aveva centrato il punto: «La proposta in discussione di creare un fondo europeo per gli interventi, comunque lo si chiami – metteva nero su bianco Savona, come ricorda il “Messaggero” – oltre a disporre di risorse insufficienti, ha il duplice difetto di riproporre la parametrizzazione degli interventi, invece di valutare caso per caso secondo una visione politica comune. Essa inoltre ripropone i difetti della condizionalità restrittiva per la politica fiscale dei paesi che a esso ricorreranno, rendendo il meccanismo rigido nell’applicazione e con effetti deflazionistici». Traduzione: il Mes avrebbe peggiorato, e non risolto i problemi degli Stati costretti a ricorrervi. «Se c’è fretta di chiudere sul Mes, è un segnale drammatico». Guido Crosetto, ospite di “Omnibus” su “La7″, suggerisce qualcosa che tutti, fino a oggi, hanno sottovalutato o semplicemente nascosto, scrive “Libero“: il pressing dell’Unione europea sull’Italia per approvare la riforma del Fondo salva-Stati potrebbe nascondere la preoccupazione di un imminente crac finanziario.
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Ilva, la tomba neoliberista: se tagli lo Stato uccidi il paese
Ilva e Alitalia, Fca in fuga insieme a Whirlpool ed Embraco. E poi altri mille “tavoli di crisi” che disegnano il tramonto del sistema industriale italiano. Chi si concentra solo sulle notizie del giorno (è colpa di chi ha messo in discussione lo “scudo legale”, non si cambiano le regole in corso d’opera, Arcelor Mittal voleva 5.000 esuberi e ha giocato sporco) è destinato a non capire cosa sta davvero succedendo, afferma Dante Barontini su “Contropiano”: «C’è un paese che sta affondando nella de-industrializzazione, senza peraltro avere mai costruito un modello di sviluppo alternativo». Le colpe, secondo il “giornale comunista online”, vanno equamente divise «tra una classe imprenditoriale di inqualificabile viltà e una classe politica, se si può, anche peggiore». Entrambe, infatti, «davanti alla costruzione europea che toglieva sovranità alle scelte economiche, hanno reagito fuggendo», ciascuno a modo suo: gli imprenditori «girando i loro profitti nella finanza speculativa», e i politici (nessuno escluso, da Berlusconi a Salvini) di fatto «accettando i diktat europei, spogliandosi di qualsiasi responsabilità e rifugiandosi nella bolla della “comunicazione”, ossia nella menzogna professionale».Da quasi trent’anni, dal Trattato di Maastricht in poi – ricorda Barontini – la “politica industriale” di tutti i governi è consistita in privatizzazioni e soldi a pioggia alle imprese. In sostanza: “regali industriali” – da Telecom a Italsider, ad Autostrade – accompagnati da generose “dazioni” liquide (sotto forma di decontribuzione, finanziamenti a fondo perduto, taglio del cuneo fiscale), «oltre che da politiche criminali sul lavoro», ovvero «precarietà contrattuale legalizzata, allungamento dell’età lavorativa, eliminazione delle tutele dei lavoratori, deflazione salariale», con la piena “complicità” di Cgil, Cisl e Uil. E tutto questo, «accettando sempre la tagliola del “divieto agli aiuti di Stato” imposta dall’Unione Europea». Di fatto, aggiunge Barontini, «sono state consegnate alle imprese le chiavi dello sviluppo o della morte del paese». Le imprese ovviamente hanno pensato ai loro affari, in una situazione di cortissimo respiro: «I “mercati” valutano le relazioni trimestrali, mica le prospettive strategiche». Rimosso a monte l’obiettivo sistemico (lo sviluppo del paese, il benessere diffuso, posti di lavoro e salari accettabili) non resta che il calcolo costi-benefici «tra costo del lavoro, incentivi a pioggia, efficienza delle infrastrutture, politiche fiscali nazionali».Inevitabile, secondo Barontini, che le imprese «decidessero per la morte, ponendo ogni volta il ricatto con modalità mafiose: o ci date mano libera o ce ne andiamo da un’altra parte». Amarezza: «C’erano una volta i lavoratori che si trasferivano là dove c’erano le industrie, con la valigia di cartone legata con lo spago. Oggi sono le imprese multinazionali a viaggiare, spostando linee di montaggio e casseforti gonfie di soldi». Globalizzazione selvaggia, delocalizzazioni facili: «Da questa condizione storica non si esce con misure una tantum, con un finanziamento in più e neanche con una “partecipazione pubblica” nei casi più disperati», sostiene “Contropiano”, segnalando che «dopo anni, è arrivato a chiederla – per la sola Ilva – persino il segretario della Cgil». Di fronte alla dimensione del disastro economico e sociale, per Barontini c’è bisogno di una visione e di una programmazione di lungo periodo: «C’è bisogno di decidere che cosa produrre e come farlo». Soprattutto: «C’è bisogno di investire in barba a qualsiasi “patto di stabilità europeo”, perché un paese di 60 milioni di persone non può accettare di finire nel baratro della storia solo per rispettare “regole” scritte per favorire altri sistemi industriali, altri paesi e altre multinazionali». Giusto nazionalizzare, ma non basta più: serve «una diversa visione del mondo e della produzione». In altre parole, «si tratta di prendere atto che il capitalismo neoliberista non funziona più e va superato prima che esploda», seminando (come sempre nella storia) «morte e distruzione».Ilva e Alitalia, Fca in fuga insieme a Whirlpool ed Embraco. E poi altri mille “tavoli di crisi” che disegnano il tramonto del sistema industriale italiano. Chi si concentra solo sulle notizie del giorno (è colpa di chi ha messo in discussione lo “scudo legale”, non si cambiano le regole in corso d’opera, Arcelor Mittal voleva 5.000 esuberi e ha giocato sporco) è destinato a non capire cosa sta davvero succedendo, afferma Dante Barontini su “Contropiano“: «C’è un paese che sta affondando nella de-industrializzazione, senza peraltro avere mai costruito un modello di sviluppo alternativo». Le colpe, secondo il “giornale comunista online”, vanno equamente divise «tra una classe imprenditoriale di inqualificabile viltà e una classe politica, se si può, anche peggiore». Entrambe, infatti, «davanti alla costruzione europea che toglieva sovranità alle scelte economiche, hanno reagito fuggendo», ciascuno a modo suo: gli imprenditori «girando i loro profitti nella finanza speculativa», e i politici (nessuno escluso, da Berlusconi a Salvini) di fatto «accettando i diktat europei, spogliandosi di qualsiasi responsabilità e rifugiandosi nella bolla della “comunicazione”, ossia nella menzogna professionale».
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L’evasore aiuta l’economia, le tasse non finanziano i servizi
L’Italia dal 1992 è in avanzo primario (a eccezione di un disavanzo dello 0,9% nel 2009). Questo significa che le entrate fiscali (tasse) sono superiori alla spesa pubblica (in soldoni, a noi cittadini torna indietro meno di quanto paghiamo). Al contrario di quanto racconta la vulgata ideologizzata “terrorista” e autorazzista del siamo vissuti al di sopra delle nostre possibilità, perciò, il nostro è un paese assai virtuoso da quasi 30 anni (nessuno al mondo ha fatto meglio nello stesso periodo). Fatta questa premessa passiamo ad analizzare le vere funzioni delle tasse (esse non servono infatti a pagare la spesa pubblica). Lo Stato impone tasse ai propri cittadini: 1. Per imporre la moneta a corso legale (obbligando di fatto i cittadini ad utilizzarla in quanto l’unica accettata per il pagamento, appunto, degli oneri fiscali); 2. Per controllare l’inflazione (tassando più o meno si riduce/aumenta la massa monetaria e si regolano i prezzi); 3. Per redistribuire la ricchezza. La spesa pubblica è fatta a monte del prelievo fiscale e si sostiene con l’emissione monetaria (fatta d’imperio e sovranamente dallo Stato, dal nulla). Prima si spende e si mette in circolazione la moneta, e solo poi si raccoglie tassando.
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Sapelli: patto segreto Vaticano-Cina, e Conte si è allineato
Via della Seta? Attenti alla Cina: l’asse Roma-Pechino indebolisce l’Italia, facendo perdere al Belpaese la protezione di Washington di fronte all’Ue a trazione franco-tedesca. Quello che pochi conoscono è il ruolo del Vaticano nella svolta filo-cinese del governo italiano. Lo afferma il professor Giulio Sapelli, economista e storico, acuto analista degli scenari geopolitici. Il 22 settembre 2018, scrive Sapelli sul “Sussidiario”, è stato firmato un accordo tra Santa Sede e Repubblica Popolare Cinese, «ancor oggi secretato e sconosciuto all’opinione pubblica». Altrettanto in ombra è la storia, travagliata, dei rapporti diplomatici tra l’Oltretevere e Pechino, interrottisi nel 1951 e riapertisi di fatto solo nel 2014, «giungendo a influenzare più profondamente di quanto non si pensi la stessa vicenda italico-governativa». L’accordo stipulato un anno fa, spiega Sapelli, si fonda sulla libertà del governo cinese di proporre i vescovi cattolici. In cambio, la Santa Sede potrà scegliere quelli che ritiene più idonei al ruolo pastorale. «L’autorità immensa di cui ancor oggi la Santa Sede e il Romano Pontefice godono nel mondo – osserva Sapelli – sono in tal modo sottoposti al rischio di porsi di fatto al servizio delle ambizioni egemoniche e quindi anche culturali cinesi». Oggi, peraltro, «la gerarchia pastorale di Hong Kong ha levato la sua voce contro l’accordo».Le implicazioni con il Conte-bis? Il cuore dell’intesa che ha dato vita all’attuale accordo “pastorale”, scrive Sapelli, non risiede solo nella Segreteria di Stato vaticana, ma anche nella struttura diretta per decenni dal cardinale Achille Silvestrini, prefetto delle Chiese Orientali e grande protettore di Giuseppe Conte. L’attuale premier «è stato una figura importante nell’azione di Villa Nazareth», annota Sapelli. E la sua presenza a Palazzo Chigi, prima alleato con la Lega e ora col Pd, «illumina di una luce molto interessante il profilo culturale sia del governo, sia della nuova politica “pastorale” vaticana». Alcuni hanno parlato di “nuovo cesaropapismo”. In realtà, sintetizza Sapelli, «il governo ha intrapreso una strada parallela in merito ai rapporti economici e geostrategici con la Cina». Questo è appunto l’oggetto del contendere con gli Usa, come ben dimostra la visita riservata del Segretario di Stato americano Mike Pompeo in Vaticano, «che ha avuto come oggetto proprio la questione cinese». Secondo Sapelli, anche in merito alla collocazione internazionale dell’Italia, «gli Usa non possono non essere preoccupati dello straordinario azzardo geostrategico compiuto prima dal governo Conte-1 e poi dalla sua replica», che ha lasciato invariati «i termini di un accordo che segna un pericoloso cambiamento della politica estera italiana».La stessa polemica in corso sui dazi, continua Sapelli, non è stata affrontata in modo serio e veritiero: è stato infatti sottaciuto che il conflitto sul commercio non è tra Italia e Usa, ma tra Stati Uniti e Ue. Una guerra iniziata nel 2004 con il ricorso degli Usa alla Wto per gli aiuti di Stato europei al progetto Airbus, che avrebbe danneggiando la Boeing e l’industria nordamericana (avionica e difesa, telecomunicazioni, elettronica). «Senza dimenticare il ruolo cruciale del “dieselgate” e delle pulsioni anti-industrialiste insite nel progetto della cosiddetta auto elettrica». Non a caso, aggiunge Sapelli, «il peso degli interessi francesi e del Regno Unito in Italia sta crescendo con una velocità imprevista, che non potrà non riflettersi sull’azione del governo». Dal Conte-bis, nessuno spiraglio per una ripresa economica: «L’Iva è certo un tema importante, ma se non è collegato a una politica di investimenti e di creazione di nuove imprese e di sostegno delle esistenti non può provocare né l’innovazione competitiva, né l’aumento del mercato interno», letteralmente indispensabile «per riavviare la crescita e sconfiggere la povertà in Italia». Rimediare con le privatizzazioni? Sarebbe un tragico suicidio. Sapelli cita Luigi Campiglio, economista in forza alla Pirelli: «Privatizzare le migliori imprese italiane, come raccomanda il Fondo Monetario Internazionale, non produrrebbe affatto conseguenze positive per la nostra economia».Il nostro principale problema, infatti, resta l’incremento della domanda interna: se crolla, vincono i prodotti d’importazione. Privatizzando, aggiunge Campiglio, «si darà qualche soldo allo Stato, ma le aziende che producono per la domanda interna diventano straniere», e quindi «l’Italia ne beneficerà soltanto in minima parte». Per Sapelli, la questione è molto chiara: «Senza tutte le politiche economiche ancora importanti per la creazione di occupazione sostenendo le imprese esistenti, in primo luogo le piccole, le artigiane e le medie, non si potrà uscire da questa depressione, che si profila molto pesante». Facili previsioni: «La deflazione secolare rischia di tramutarsi da stagnazione in recessione». Opporsi è possibile, secondo il professore, «solo facendo comprendere che la resilienza italiana è la sola via che oggi deve intraprendere tutta l’Europa, Germania e Francia in primis». Ovvero: se si pone al centro l’ampliamento del mercato interno, l’occupazione, la lotta alla povertà e alla disgregazione sociale, «l’interesse nazionale è l’interesse di tutta l’Europa, al di là delle differenze di produttività del lavoro, di innovazione e di collocazione nelle catene del valore».Al Conte-bis si richiede dunque «un cambiamento di rotta profondo, a cominciare dalla politica estera, riaffermando l’alleanza con gli Usa e respingendo l’idea che sia possibile una crescita europea riproponendo continuamente la divisione geostrategica e geoeconomica iniziata nel 2003 anche per difetto della politica unipolarista degli Usa, che condusse alla divisione tra Francia e Germania da un lato, e Stati Uniti dall’altro». Il guaio è che, per Sapelli, le prospettive del governo, soprattutto in politica estera, «non sono solo insufficienti, ma preoccupanti». Roma dovrebbe «sciogliere i legami dipendenti con la Cina, riaffermare l’interesse prevalente del Mediterraneo per difendere le nostre industrie energetiche e infine uscire dalla confusione sulla cosiddetta economia verde, che mortifica gli interessi industriali italiani (mentre l’industria italiana è la più sostenibile al mondo, non solo nel tessuto energetico e chimico)». Dalla politica estera si giunge alla politica industriale, «che non è solo nazionale, ma sempre continentale e mondiale per l’inserzione italiana nelle filiere industriali e dei servizi alle imprese nel mondo». Quello che molti italiani non sanno, però, è che a Palazzo Chigi siede un premier attentissimo alle indicazioni del Vaticano, che oggi ha stretto un patto strategico con la Cina, vero antagonista storico del nostro tradizionale riferimento, cioè gli Usa.Via della Seta? Attenti alla Cina: l’asse Roma-Pechino indebolisce l’Italia, facendo perdere al Belpaese la protezione di Washington di fronte all’Ue a trazione franco-tedesca. Quello che pochi conoscono è il ruolo del Vaticano nella svolta filo-cinese del governo italiano. Lo afferma il professor Giulio Sapelli, economista e storico, acuto analista degli scenari geopolitici. Il 22 settembre 2018, scrive Sapelli sul “Sussidiario”, è stato firmato un accordo tra Santa Sede e Repubblica Popolare Cinese, «ancor oggi secretato e sconosciuto all’opinione pubblica». Altrettanto in ombra è la storia, travagliata, dei rapporti diplomatici tra l’Oltretevere e Pechino, interrottisi nel 1951 e riapertisi di fatto solo nel 2014, «giungendo a influenzare più profondamente di quanto non si pensi la stessa vicenda italico-governativa». L’accordo stipulato un anno fa, spiega Sapelli, si fonda sulla libertà del governo cinese di proporre i vescovi cattolici. In cambio, la Santa Sede potrà scegliere quelli che ritiene più idonei al ruolo pastorale. «L’autorità immensa di cui ancor oggi la Santa Sede e il Romano Pontefice godono nel mondo – osserva Sapelli – sono in tal modo sottoposti al rischio di porsi di fatto al servizio delle ambizioni egemoniche e quindi anche culturali cinesi». Oggi, peraltro, «la gerarchia pastorale di Hong Kong ha levato la sua voce contro l’accordo».
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Sapelli: Ursula e Macron affondano l’Italia, complice Renzi
Luna di miele con l’Europa? Per nulla. Anzitutto, l’Europa è di nuovo un protettorato tedesco, che ha un formidabile alleato come la Francia. È il duopolio scritto nel Trattato di Aquisgrana. E il prossimo passo sarà che la Francia farà il trattato italo-francese, già scritto da Renzi sotto dettatura di Macron e sulla cui bozza non abbiamo ancora assistito ad alcun dibattito parlamentare, in base al quale la Francia si piglierà tutto. Basta vedere chi è la nuova commissaria all’industria militare, alla difesa e all’industria spaziale: la francese Goulard, che ha già lavorato con Monti e con Prodi. Però la partita è ancora aperta, perché gli italiani, durante il governo gialloverde, hanno concluso un accordo per il caccia Tempest inglese, che è un attacco al predominio franco-tedesco nell’industria degli armamenti. Non so se il Conte-2 terrà ancora duro su questo punto. La nuova Commissione Ue ci tratterà meglio? No, perché, Ursula von der Leyen non è solo la mamma di sette figli, di cui uno siriano adottato, ma è soprattutto la figlia del più grande intellettuale protestante, Ernst Albrecht, il primo segretario generale dell’Ue. Quindi è senz’altro europeista, ma è figlia di quel protestantesimo che ha visto nell’Europa la possibilità di riscattarsi dal nazismo. E’ una persona che prende sul serio l’ordoliberismo, di cui sono un convinto avversario.
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Cucù, i minibot-vudù: così la Germania disinforma i tedeschi
Ai suoi lettori tedeschi, il giornalista Daniel Eckert non racconta la verità. Il suo articolo appena pubblicato su “Die Wielt” non è che l’ultimo esempio di come l’opinione pubblica europea venga regolarmente disinformata, da cronisti che sono a loro volta disinformati oppure in malafede. «Il governo italiano gioca con il fuoco», avverte Eckert: «I politici della Lega di Matteo Salvini continuano a mettere sul tavolo l’idea di una moneta parallela». E spiega: «I minibot, ora resi possibili dal Parlamento, sono un primo passo in questa direzione». Aggiunge: «Portano un nome che suona in qualche modo carino: i minibot. Ma una volta diffusi, i loro effetti potrebbero non essere carini. Perché i minibot sono uno strumento finanziario con il quale il governo populista d’Italia potrebbe scardinare l’Eurozona». Secondo l’economista keynesiano Nino Galloni, è esattamente il contrario: qualsiasi forma di moneta parallela, compresi gli eventuali minibot, serve all’Italia proprio per tentare di restarci, nell’euro. Quella che Eckert evita di porsi è la domanda fondamentale: perché. Ovvero: perché l’Italia propone i minibot? La risposta, implicita, arriva alla fine dell’articolo (tradotto da “Voci dall’Estero”). E cioè: l’Italia non ha guadagnato nulla dall’Eurozona, anzi. Ma di nuovo: perché?Qui però si ferma il giornalismo, quello di Eckert e di tanti colleghi, anche italiani. Con un’aggravante: neppure stavolta “Die Welt” spiega ai connazionali che la Germania se la gode, in Eurozona, solo grazie a privilegi esclusivi: non rispetta le condizioni-capestro che invece impone agli altri. E’ lo stesso Galloni a riassumere il senso della “vacanza europea” della Germania. Primo: le piccole banche tedesche – solo loro – si permettono il lusso di non rispettare i vincoli del Trattato di Basilea. E quindi continuano di fatto a emettere credito (quindi moneta-debito) verso l’economia reale. Secondo: il governo di Berlino non include nel bilancio la colossale spesa previdenziale: il costo delle pensioni non pesa sul debito nominale dello Stato. Terzo: nel calcolo del debito pubblico non entra neppure l’ingentissima spesa pubblica dei Lander, le Regioni. Se aggiungessimo queste voci – ha ricordato sul “Giornale” un imprenditore italiano come Fabio Zoffi, da anni attivo a Monaco di Baviera – il debito pubblico reale della Germania risulterebbe il 280% del Pil, cioè più del doppio del tanto vituperato debito italiano, per il quale il Belpaese viene sistematicamente messo in croce dai signori di Bruxelles.Se Daniel Eckert chiarisse tutto questo, probabilmente i lettori di “Die Welt” capirebbero perché l’Italia – in affanno, per disperata carenza di liquidità – tenta di giocare anche la carta dei minibot. «Sbaglia, chi pensa che siano l’anticamera dell’uscita dall’euro», sostiene su “ByoBlu” un parlamentare come Pino Cabras, in quota ai 5 Stelle: le forme di moneta parallela servono proprio a rimanere aggrappati alla moneta unica. Acrobazie italiane? Certo, perché l’Italia non gode dei privilegi della Germania e neppure di quelli della Francia, ricorda ancora Galloni, citando il franco Cfa che Parigi impone a 14 ex colonie africane. «Quella è valuta a pieno titolo, perché circola in più paesi, mentre i minibot non avrebbero valore fuori dall’Italia». Mario Draghi teme che possano aggravare il debito pubblico? Galloni lo smentisce anche su questo: «Tecnicamente, sarebbero solo “titoli di pagamento”, a valere su debiti già maturati e contabilizzati dalla pubblica amministrazione». Se poi lo Stato li accettasse come pagamento delle tasse, potrebbero anche essere scambiati come moneta: «Ma sarebbero moneta parallela solo nazionale, senza corso legale fuori dall’Italia, e in più accettabile – come mezzo di pagamento – solo su base fiduciaria, cioè con la possibilità di non accettarla».In altre parole, riassume Galloni: «I minibot sono perfettamente legali, in quanto non violano nessuna delle condizioni richiamate da Draghi: sarebbero illegali se corrispondessero all’emissione di euro o se costituissero uno stock aggiuntivo di debito pubblico, e invece non sono né una cosa né l’altra». La rabbia di Draghi, aggiunge Galloni, deriva semmai dalla piena consapevolezza di non poter intervenire sul vero problema, cioè la distribuzione della liquidità. Infatti, la Bce si occupa solo dell’erogazione complessiva della massa monetaria: «Gli euro emessi da Francoforte finiscono largamente alla finanza anziché all’economia reale, settore di cui ormai fanno parte anche gli Stati, ridotti a elemosinare credito alle banche». Con due eccezioni, appunto: la Germania (cui è permesso di non rispettare le regole Ue) e la Francia, che a sua volta “respira” grazie al franco Cfa: «Si dirà che il Cfa non viola il Trattato di Lisbona perché quello delle ex colonie francesi è un circuito chiuso. Ma se è legale il franco Cfa – chiosa Galloni – allora sono “legalissimi” i minibot italiani, concepiti per tamponare la disperata “fame” di liquidità a cui la Bce non riesce a rimediare. E questo, Draghi lo sa benissimo».Non lo sanno, di sicuro, i lettori tedeschi “informati” da Eckert, allarmatissimo all’idea che Roma vari minibot di piccolo taglio (100 euro) come pagamento di aziende che attendono di essere saldate dallo Stato, e addirittura impiegabili anche per pagare le tasse (e quindi scambiabili, da un contribuente all’altro, come pagamento alternativo agli euro). «Da quel momento in poi, è solo un piccolo passo verso una valuta parallela», scrive Eckert, che evidentemente ignora la differenza fondamentale tra “valuta” (convertibile in oro, in euro o in divise estere) e “moneta parallela” (non convertibile, né spendibile fuori dal paese). Mai e poi mai, i minibot potrebbero essere “valuta parallela”. Eppure, scrive sempre Eckert, è esattamente «quello che potrebbe mirare a fare» quel mascalzone di Matteo Salvini, «leader della Lega di destra». La prova? «Il portavoce economico della Lega, Claudio Borghi, è un acceso sostenitore dei piccoli mostri fiscali». Fantastico: la Germania bara su tutto, dopo aver raso al suolo la Grecia e sabotato l’Italia, ma a produrre i “mostri” è il terribile Claudio Borghi, universalmente noto per essere di gran lunga il più mite e prudente tra gli economisti al lavoro per tentare di tamponare la voragine-Italia creata da questa Europa a trazione franco-tedesca, sfrontatamente autocelebratasi nell’inaudito Trattato di Aquisgrana (che fa a pezzi l’idea stessa di Unione Europea).«Come per gli altri paesi dell’unione monetaria, vale anche per l’Italia: la moneta a corso legale è solamente l’euro», strilla Daniel Eckert, sfoderando accenti criminologici contro gli incorreggibili italiani. Ma sbaglia, anche qui: in base all’articolo 128 del Trattato di Lisbona, l’euro è l’unica moneta a corso legale a livello di valuta (valida anche per l’estero), mentre lo stesso trattato non esclude affatto la creazione di monete parallele, anch’esse “a corso legale”, sebbene solo entro il territorio nazionale. «Se i minibot si diffondessero in tutta l’economia italiana e venissero passati di società in società e di cittadino in cittadino, lo Stato italiano potrebbe farsi il proprio denaro», aggiunge l’ineffabile Eckert, senza domandarsi – di nuovo – perché mai gli italiani dovrebbero ricorrere a questa mossa, che crea loro un sacco di guai diplomatici. «Nel corso del tempo – aggiunge – i nuovi coupon sarebbero negoziati sul mercato e quotati ad un prezzo (presumibilmente inferiore) rispetto all’euro». Per “Die Welt”, «sarebbe l’inizio della strisciante uscita dell’Italia dall’euro». Si possono scrivere stupidaggini di questo tipo, nel 2019, su un grande giornale europeo? Eccome. E succede in quasi tutti i giornali europei, grandi e piccini.Sempre in chiave criminologica, il “detective” Eckert consulta un super-tecnocrate come Thomas Mayer, capo-economista del “Flossbach von Storch Research Institute”. Con i minibot, sostiene Mayer, si può almeno «minacciare di lasciare gradualmente l’euro, se si è costretti dall’Ue a ridurre il deficit». Un altro “guru” interpellato da Eckert, il banchiere Erik Nielsen (capo-economista di Unicredit a Londra), chiarisce che i minibot «non sono l’inizio di una nuova valuta». Ma Eckert non si dà per vinto: «La confusa politica di comunicazione di Roma – scrive – ha contribuito a confondere l’idea potenzialmente significativa di cartolarizzare il debito pubblico, con la dottrina “voodoo” di una valuta parallela». Dopo il thriller, ecco l’horror: i lettori di “Die Welt” apprendono da Eckert che l’abominevole governo italiano pratica pure la stregoneria del voodoo. Aggiunge il giornalista tedesco, come monito: in Grecia, Yanis Varoufakis aveva seguito una strategia simile durante il suo breve mandato come ministro delle finanze. «Alla fine, tuttavia, non è riuscito a prevalere contro la Troika». E certo: Ue, Bce e Fmi hanno disintegrato Atene, riducendo la Grecia a paese del terzo mondo, coi bambini uccisi dall’assenza di medicine negli ospedali. Gran bel risultato.«La Commissione e altri paesi preferirebbero non minacciare una uscita dell’Italia», dice Thomas Mayer, secondo cui «Salvini ha carte migliori oggi, rispetto a Varoufakis nel 2015», riferendosi all’importanza dell’economia italiana rispetto a quella ellenica. L’Italia, riconosce infine lo stesso Eckert, è la terza economia più grande nell’Eurozona dopo Germania e Francia, ma «a differenza di altre economie», il Belpaese, pure membro fondatore della Comunità Europea del 1957, «non ha apparentemente beneficiato dell’appartenenza all’unione monetaria». Evviva. «Soprattutto dopo la crisi finanziaria – aggiunge Eckert – la debolezza degli europei del Sud è divenuta sempre più evidente: l’indice della Borsa di Milano oggi è allo stesso livello di dieci anni fa, e il Dax è più che raddoppiato nello stesso periodo. Mentre altre importanti economie europee possono indebitarsi a tassi d’interesse pari a zero o appena marginali – continua Eckert, sempre senza mai chiedersi il perché – i partecipanti al mercato dei capitali italiani richiedono il 2,6% per i titoli di Stato decennali». E la Grecia ridotta alla fame, che il giornalista definisce «agitata», ora «paga solo leggermente di più, il 2,8%».“Die Welt” ricorda che il debito italiano «è uno dei più alti del mondo», pari a oltre il 130% del Pil. «Secondo le normative dell’Ue, è consentito un massimo del 60%». Bravo Eckert: evita di ricordare che il debito nominale della Germania è attorno all’80% (quindi oltre la soglia Ue). Ma soprattutto: non sa, o finge di non sapere, che il debito pubblico tedesco – quello vero – è oltre il triplo della cifra dichiarata. Su queste basi omertose e omissive, reticenti e quindi disastrosamente fuorvianti, il “professor” Eckert – senza curarsi di informare davvero i lettori tedeschi – si permette di aggiungere che, visto il boom elettorale delle europee, in cui «i populisti di destra hanno raddoppiato la loro percentuale di voti», arrivando a superare il 34%, ora «l’uomo politico della Lega potrebbe impostare le eventuali elezioni anticipate come un voto sull’indipendenza del paese da Bruxelles». Anche qui: per quale motivo, tutto questo dovrebbe accadere? Ma niente da fare: alle domande, Eckert preferisce le risposte: «Da sola, la minaccia di una valuta parallela potrebbe destabilizzare l’Eurozona». Ah, questi italiani: pazzi criminali. «Con un debito totale di 2,3 trilioni di euro, Roma ha un enorme potenziale di minaccia». Brrr, che paura…Ai suoi lettori tedeschi, il giornalista Daniel Eckert non racconta la verità. Il suo articolo appena pubblicato su “Die Wielt” non è che l’ultimo esempio di come l’opinione pubblica europea venga regolarmente disinformata, da cronisti che sono a loro volta disinformati oppure in malafede. «Il governo italiano gioca con il fuoco», avverte Eckert: «I politici della Lega di Matteo Salvini continuano a mettere sul tavolo l’idea di una moneta parallela». E spiega: «I minibot, ora resi possibili dal Parlamento, sono un primo passo in questa direzione». Aggiunge: «Portano un nome che suona in qualche modo carino: i minibot. Ma una volta diffusi, i loro effetti potrebbero non essere carini. Perché i minibot sono uno strumento finanziario con il quale il governo populista d’Italia potrebbe scardinare l’Eurozona». Secondo l’economista keynesiano Nino Galloni, è esattamente il contrario: qualsiasi forma di moneta parallela, compresi gli eventuali minibot, serve all’Italia proprio per tentare di restarci, nell’euro. Quella che Eckert evita di porsi è la domanda fondamentale: perché. Ovvero: perché l’Italia propone i minibot? La risposta, implicita, arriva alla fine dell’articolo (tradotto da “Voci dall’Estero”). E cioè: l’Italia non ha guadagnato nulla dall’Eurozona, anzi. Ma di nuovo: perché?
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Sapelli: i giudici, Conte e gli omini-Lego comandati da fuori
«Perché a volte abbiamo la sensazione che chi comanda nel governo è Salvini?». «Se all’esterno o a voi stranieri richiama di più l’attenzione il ruolo o l’immagine di Salvini, che ha una grande capacità comunicativa, e credete che nel governo comandi lui, è una vostra illusione ottica. Alla guida del governo ci sono io. E Salvini, come Di Maio, è vicepresidente e leader di una delle due forze politiche». Giuseppe Conte ha risposto così alla domanda di “El País”. Chi comanda politicamente in Italia? Sì, politicamente e basta. Perché la grande innovazione dei sistemi poliarchici con alto gradiente di classi politiche eterodirette, com’è nel caso italico, è quella di autonomizzare sempre più fortemente le classi politiche medesime dalla società civile hegelianamente intesa. Per Hegel – e per Ferguson – la società civile costituisce lo spazio sociale di formazione della proprietà di qualsivoglia forma e dei mercati. Le classi politiche tradizionalmente intese mantenevano e mantengono con la società civile un rapporto costante, che è l’essenza del sistema poliarchico costruito dalle volizioni elettorali che si compongono in un parallelogramma di forze con la logica delle lobby e dei soft power che promanano dalla società civile.La politica economica ordoliberista (Fiscal Compact, deflazione, pilota automatico, debito come peccato irredimibile, distruzione dello Stato sociale) disgrega la società civile ed esalta il ruolo dell’eterodirezione delle classi politiche in qualche modo sempre presente in qualsivoglia sistema politico. La specificità italiana risiede nella frantumazione e debolezza della società civile, colpita dalla bassa dimensione dell’impresa in forma dominante e quindi con scarsissima capacità lobbistica, che tracima nell’aumento di potere delle classi politiche. Ma esse, le classi politiche, non hanno più potere proprio. Donde lo traggono, allora, se vogliono preformare in modo compulsivo, tramite la macchina parlamentare, la società secondo i loro fini? Non lo traggono solo dall’eterodirezione internazionale, com’è tipico del movimento pentastellato, ma altresì dalle vertebre statali rimaste attive.Nel caso italico, se si escludono le forze armate e i servizi segreti (tra i migliori al mondo e per questo estranei al gioco politico), l’unico potere vertebrato è quello giurisprudenziale, sempre più manifesto e attivo, soprattutto in prossimità delle prove elettorali. Pizzorno fu buon profeta, preconizzando lo strapotere compulsivo della magistratura come elemento attivo del parallelogramma delle forze poliarchiche. Accanto a esso vige il soft power internazionale. Nel governo italiano vi è a riguardo uno sbilanciamento delle forze. Il ruolo anglo-cinese è fortissimo e minaccia lo stesso profilo atlantico, che deve essere invece proprio del nostro storico interesse prevalente. Per questo l’intervista del premier Conte a “El País” è disarmante nella sua chiarezza. Esprime non il ruolo dominante di un mediatore, ma il certificato dello sbilanciamento del parallelogramma delle forze di ciò che rimane della società civile e il nuovo profilo delle forze politiche prevalentemente eterodirette. Ciò che rimane della società civile, ossia il lavoro dipendente e soprattutto le imprese piccole e medie, è sempre più escluso dall’azione di governo.Del resto, una classe politica peristaltica senza base sociale, ma con segmenti di relazione elettronica istantanea e volatile e molto limitata numericamente nei processi selettivi, non può condurre a termine nessun processo decisionale complesso. I gradi di libertà che questo segmento della classe politica eterodiretta una volta eletta detiene in misura rilevante (e questo è il dato democratico liberale che ancora pervade questo nuovo sistema del comando sociale italico) alimentano la fibrillazione continua di ciò che rimane del potere: nulla infatti si decide. L’altro segmento delle classi politiche con gradienti di eterodirezione assai minori, tanto al governo quanto all’opposizione, si trova incapace di esprimere un potere condizionante dinanzi all’attivismo eterodiretto. La follia shakespeariana domina così le italiche terre che son tornate al tempo dei goti, visigoti e longobardi. Dove sono i Boezio?«Perché a volte abbiamo la sensazione che chi comanda nel governo è Salvini?». «Se all’esterno o a voi stranieri richiama di più l’attenzione il ruolo o l’immagine di Salvini, che ha una grande capacità comunicativa, e credete che nel governo comandi lui, è una vostra illusione ottica. Alla guida del governo ci sono io. E Salvini, come Di Maio, è vicepresidente e leader di una delle due forze politiche». Giuseppe Conte ha risposto così alla domanda di “El País”. Chi comanda politicamente in Italia? Sì, politicamente e basta. Perché la grande innovazione dei sistemi poliarchici con alto gradiente di classi politiche eterodirette, com’è nel caso italico, è quella di autonomizzare sempre più fortemente le classi politiche medesime dalla società civile hegelianamente intesa. Per Hegel – e per Ferguson – la società civile costituisce lo spazio sociale di formazione della proprietà di qualsivoglia forma e dei mercati. Le classi politiche tradizionalmente intese mantenevano e mantengono con la società civile un rapporto costante, che è l’essenza del sistema poliarchico costruito dalle volizioni elettorali che si compongono in un parallelogramma di forze con la logica delle lobby e dei soft power che promanano dalla società civile.
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Giannini: ci crediate o no, il governo sta riparando l’Italia
Non sparate sul governo gialloverde: sta facendo molte più di quanto non si veda, specie sui grandi media (tutti schierati all’opposizione). Lo sostiene Marco Giannini, studioso di economia, un tempo vicino ai 5 Stelle. Sbagliano, giornali a televisioni, a descrivere l’azione dell’esecutivo come fallimentare: da una parte fanno leva sullo spread – che non misura l’economia ma solo la speculazione finanziaria, complice la Bce (ai tempi della lira, infatti, lo spread non esisteva) – e dall’altra scaricano lo smottamento industriale su una compagine in carica da meno di un anno. La produzione industriale ha perso il 5,5%: solo un cretino potrebbe non capire che un simile cedimento è dovuto a «questi 8 anni di lunga, controproducente e immotivata austerità», scrive Giannini, in una riflessione ripresa da “Come Don Chisciotte”. Rigore immotivato? Ma certo: perché l’Italia – ricorda Giannini – è in avanzo primario da anni. Cioè: lo Stato intasca, in termini di tasse, più di quanto non spenda, in servizi, per i cittadini. Il famoso debito pubblico? Colpa dei tassi d’interesse. Potrebbero essere normalizzati? Certo: «Servirebbero circa sette anni per “ripulire” il debito da questo aspetto critico», se solo la Bce «operasse come le normali banche centrali». Per contro, l’Italia ha partite correnti invidiabili (ottimo equilibrio import/export). E il governo? Ci crediate e no, insiste Giannini, sta lavorando sodo – checché ne dicano i media, legati a Pd e Forza Italia, spodestati nel 2018.I bersagli preferiti dalla stampa, osserva Giannini, sono Di Maio e Toninelli, “colpevoli” di aver scelto come alleato la Lega e non il Pd, sottomesso a Francia e Germania (secondo uno studio tedesco, il giochetto è già costato 73.000 euro a ogni italiano, in favore di tedeschi e olandesi). Giornali e Tv esaltano i dissidenti 5 Stelle appena si distinguono da Salvini sul tema migranti? C’è puzza di Soros, avverte Giannini. Attaccare Di Maio in quanto succube del leader leghista? Sarebbe stato meglio «attivare i neuroni per creare piani programmatici accattivanti», alle prime avvisaglie di flessione nei consensi. Il vicepremier grillino? «E’ stato un uomo leale con il suo alleato, non certo un suddito: e credo che gli italiani questo lo abbiano capito e apprezzato – dice Giannini – al di là del risultato delle regionali». Quanto al ministro delle infrastrutture, Toninelli «è descritto come un principiante, ma nessuno chiarisce il perché». Se la motivazione sono le gaffe commesse nelle interviste, Giannini ricorda la mitica Gelmini, col suo tunnel per neutrini dal Cern di Ginevra fino al Gran Sasso, per non parlare del “milione di posti di lavoro” di Berlusconi o del leggendario “Enrico stai sereno” rivolto da Renzi al povero Letta. In confronto, Toninelli è un campione di serietà e correttezza.Stiamo ai fatti, raccomanda Giannini: è assai più densa di quello che sembra, l’agenda gialloverde, pur inevitabilmente mediata dai compromessi indispensabili tra Lega e 5 Stelle. Esempio: il reddito di cittadinanza (pur in versione “magra”) è stato comunque approvato, con salario minimo di 5 euro l’ora (cifra bassissima per volere della Lega). «Un po’ poco per il centro-nord dato il costo della vita, forse sufficiente per evitare esclusione sociale per il centro-sud». Se non altro, «le aziende che assumono un soggetto che sta ricevendo il reddito ottengono un bonus fino a 18.000, visto che alleggeriscono lo sforzo profuso dallo Stato». Per Giannini in reddito di cittadinanza «è un provvedimento sacrosanto, una misura anti-ciclica presente non a caso in tutta l’Ue». Troppo misero e troppo normato? Il problema vera si chiama euro, sottolinea Giannini: «L’italiano non vuole la disoccupazione, vuole salari più alti, vuole meno tasse, vuole la crescita, vuole un Rdc più esteso e vuole però anche la moneta unica, che queste conquiste preclude». Come dire: nell’Eurozona, è impossibile pretendere di più. E gli altri partiti? «Pd, Forza Italia e Fratelli d’Italia promettono di abolire il Rdc qualora vincessero le elezioni». Ed è singolare che un sindacato come la Cgil «dopo anni di silenzio di fronte a esodati, austerity, tagli indiscriminati e deflazione salariale» oggi manifesti contrarietà a questo provvedimento «che, giusto o sbagliato, estende i diritti sociali e certo non li restringe».Vogliamo parlare di pensioni di cittadinanza? Se un cittadino ha un assegno inferiore ai 780 euro raggiungerà questo ammontare mensile a patto che abbia una Isee inferiore a 9.360 euro, un patrimonio mobiliare inferiore a 6.000 euro e un patrimonio immobiliare (esclusa la prima casa) inferiore a 30.000 euro. «Dai calcoli Inps sono circa 500.000 le persone interessate al provvedimento». La “Quota 100” era presente nei programmi delle due forze di governo: «E’ stata approvata insieme al reddito di cittadinanza e rappresenta un primo passo concreto per superare la legge Fornero», ricorda Giannini. E sono oltre 100.000 le domande già inviate: tutti «posti di lavoro che si liberano». Salvini voleva la Flat Tax universale? L’ha ottenuta almeno per le partite Iva: aliquota al 15% fino ai 65.000 mila euro. Poi c’è il decreto Inail, con taglio medio del 32% del costo del lavoro (valore: 1,8 miliardi). «Dalla lotta agli sprechi della burocrazia (compreso il numero delle leggi, da ridurre) e della abolizione completa dei finanziamenti all’editoria – aggiunge Giannini – Di Maio ha promesso una ulteriore riduzione del cuneo fiscale, in favore di aziende e lavoratori, e sgravi aggiuntivi per le imprese che assumono». Insomma, le formichine gialloverdi lavorano: è avviato l’iter per ridurre i parlamentari da 945 a 600.Quanto alle pensioni d’oro, chi riceve più di centomila euro l’anno dovrà cedere dal 10 al 20% come contributo di solidarietà. Gli stessi vitalizi dei parlamentari «vengono ricalcolati con il metodo contributivo con un taglio medio del 20%», e il ricavato «dovrebbe riversarsi in un fondo per le pensioni minime» (norma approvata col voto favorevole della sola maggioranza). Quanto alla geopolitica, Giannini apprezza la neutralità dei gialloverdi (specie 5 Stelle) sulla crisi del Venezuela, dove l’Eni ha forti interessi dopo gli accordi col governo Maduro (meglio non ripetere l’autogoal della Libia). Capitolo migranti: gli sbarchi sono calati del 95%. Salvini, leale coi grillini, non ha però espulso nessun clandestino. Tra le novità maggiori, di cui non si parla, secondo Giannini c’è il problema idrogeologico: 11 miliardi di euro in tre anni stanziati per la prevenzione e la messa in sicurezza del territorio. In altre parole, «finalmente usciamo dal medioevo». Volendo, si può parlare anche della legge anticorruzione, che «ha inasprito le pene per i reati di corruzione e ha modificato la prescrizione, rendendola meno “agevole”». Di fatto, «è stata aumentata la trasparenza su fondazioni e donazioni ai partiti».Nota dolente, il rapporto deficit-Pil: il governo ha ceduto a Bruxelles, calando dal 2,4 al 2,04%. Ma attenzione: Pd e Forza Italia avrebbero subito un semplice 0,8% senza battere ciglio. Siamo a un 2% pieno: «Il valore simbolico rappresentato da questo livello è importante – dice Giannini – sebbene non rappresenti la manovra espansiva di cui avremmo bisogno per uscire dalla crisi e per una efficace reindustrializzazione». I “paletti” di Bruxelles, come noto, vietano politiche di questo tipo. «Al contrario di ciò che viene detto dai media, sforando ci si indebita ma si permette all’economia di ripartire (e di rientrare dello sforamento con un surplus in sviluppo)». Purtroppo continua Giannini, la congiuntura mondiale – che vede anche la Germania col segno meno – si riflette sullo Stivale. L’analista già di area 5 Stelle cita anche il decreto sblocca-cantieri, che «renderà più trasparenti le gare d’appalto, semplificando la burocrazia che ne rallenta la realizzazione». Sta inoltre per essere attivato il Fondo Nazionale Innovazione, che rispetto ai precedenti 200 milioni destina un miliardo di euro all’anno per chi apre una startup.Sono infine stati stanziati 45 milioni in 3 anni per la blockchain, tecnologia che segnerà una rivoluzione paragonabile a Internet, «un database in cui verranno registrate transazioni di ogni tipo, che favorirà il flusso di informazioni dal commercio, alla medicina, dall’industria e alla finanza, riducendo la burocrazia». L’impressione generale, conclude Giannini, è che questo governo sia davvero un esecutivo “del fare” e che stia cercando coraggiosamente di impiegare le poche risorse a disposizione nel modo più “performante” e produttivo. «Assistendo ai molti dispositivi messi in gioco su trasparenza, semplificazione, riduzione del carico fiscale sulle imprese ed estensione dei diritti sociali – dice – mi sento di non rilevare un appiattimento sulla Lega da parte del M5S». Sembra tuttavia che questa falsa rappresentazione «sia dovuta in larga parte al frastuono da campagna elettorale di stampa e Tv», oltre che «all’enfatizzazione della questione migratoria rispetto alle questioni socio-economiche e giuslavoriste». Come dire: lasciamoli lavorare. Non hanno ancora risultati smaglianti da esibire, ma di problemi ne stanno risolvendo ogni giorno, e non pochi, grazie a una fatica che il più delle volte non affiora, sui soliti media.Non sparate sul governo gialloverde: sta facendo molte più di quanto non si veda, specie sui grandi media (tutti schierati all’opposizione). Lo sostiene l’antropologo Marco Giannini, studioso di economia, un tempo vicino ai 5 Stelle. Sbagliano, giornali a televisioni, a descrivere l’azione dell’esecutivo come fallimentare: da una parte fanno leva sullo spread – che non misura l’economia ma solo la speculazione finanziaria, complice la Bce (ai tempi della lira, infatti, lo spread non esisteva) – e dall’altra scaricano lo smottamento industriale su una compagine in carica da meno di un anno. La produzione industriale ha perso il 5,5%: solo un cretino potrebbe non capire che un simile cedimento è dovuto a «questi 8 anni di lunga, controproducente e immotivata austerità», scrive Giannini, in una riflessione ripresa da “Come Don Chisciotte”. Rigore immotivato? Ma certo: perché l’Italia – ricorda Giannini – è in avanzo primario da anni. Cioè: lo Stato intasca, in termini di tasse, più di quanto non spenda, in servizi, per i cittadini. Il famoso debito pubblico? Colpa dei tassi d’interesse. Potrebbero essere normalizzati? Certo: «Servirebbero circa sette anni per “ripulire” il debito da questo aspetto critico», se solo la Bce «operasse come le normali banche centrali». Per contro, l’Italia ha partite correnti invidiabili (ottimo equilibrio import/export). E il governo? Ci crediate e no, insiste Giannini, sta lavorando sodo – checché ne dicano i media, legati a Pd e Forza Italia, spodestati nel 2018.
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Tutti contro i 5 Stelle, eppure Di Maio sta limitando i danni
Marcucci (Pd) imputa il recente smottamento dell’industria italiana al reddito di cittadinanza che ancora deve entrare in vigore. Allo stesso tempo, come fanno anche molti altri del monopartito Pd-Fi, afferma che a causa dello spread gli italiani dilapidano soldi pubblici. In realtà se la Bce svolgesse il suo lavoro in modo efficace e non nazionalista (Aquisgrana) ma onesto, lo spread non dovrebbe proprio esistere, ma questo ai poveri cittadini non viene detto. Non viene detto nemmeno che quando Di Battista ha informato sul doping con cui la Francia riesce a resistere nella moneta unica (cioè lo sfruttamento dei paesi africani che ancora colonizza e che paghiamo anche noi italiani, economicamente e socialmente), lo spread si è impennato; e questo perché molto probabilmente soggetti finanziari francesi amici di “Didì” Macron hanno venduto titoli decennali italiani (magari comprandone di tedeschi). Una ritorsione quindi nazionalista, oltre che ovviamente di stampo speculativo. Sarebbe interessante che in questo splendido contesto di identità europea “spinelliana” (spero si colga l’ironia) nell’Europarlamento qualcuno si incaricasse di chiedere una indagine su come si sono mossi i capitali in questione.
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Galloni, euro-suicidio 2020. Paracadute: moneta parallela
Se tutto resta com’è, in Europa, entro il 2020 l’insostenibilità sociale diverrà assoluta, con esiti imprevedibili. Lo afferma l’economista post-keynesiano Nino Galloni, in un’analisi su “Scenari Economici” nella quale fotografa i possibili sviluppi: potremmo assistere a un accordo tra Stati per metter fine alla disastrosa Eurozona prima che la moneta unica imploda, oppure è possibile che sia proprio il maggior paese europeo, la Germania, a salutare la compagnia. Alternative? Una: attrezzarsi con moneta statale parallela per aggirare le forche caudine della finanza “privatizzata” che ricatta il sistema pubblico. Fuori discussione, in ogni caso, l’aggravarsi della crisi generale se perdurasse la situazione attuale. In caso di “invarianza”, dice Galloni, faremmo i conti – sempre di più – con l’insostenibile architettura dell’euro, introdotto per un modello economico orientato alla ricerca di competitività, con un obiettivo preciso: deflazione salariale e compressione della domanda interna, e quindi disoccupazione e precarizzazione del lavoro, pagato sempre meno. «Se si fosse voluta una maggiore competitività dei mercati – osserva Galloni – si sarebbe dovuto partire dalla convergenza tributaria, non dalla moneta unica».Siamo ai fondamentali della macroeconomia: se si punta tutto sull’export «anche a costo di sacrificare i salari e l’occupazione, vale a dire la domanda interna», non si può fingere di non sapere che «le esportazioni di un paese sono le importazioni di un altro». Quindi il modello scelto «presuppone l’esistenza di uno squilibrio, nella bilancia commerciale, che spinge sia all’aumento della remunerazione del capitale finanziario (per attirare capitali dall’estero, onde riallineare la bilancia dei pagamenti), sia a perseverare nella deflazione salariale e occupazionale». In questo modo, scrive Galloni, si ottiene un duplice effetto negativo sui conti pubblici, «dovuto all’aumento dei tassi di interesse sul debito pubblico e all’esigenza di aggravare la pressione fiscale sui ceti meno abbienti e più numerosi, già provati dalla deflazione». La società, dunque, «si divide tra una maggioranza che si impoverisce sempre più per effetto della deflazione, dell’aumento del carico tributario e del peggioramento dei servizi pubblici, e una minoranza che può scaricare sulla clientela i maggiori oneri, compresi gli stessi incrementi di tasse». Non deve stupire, quindi, se questa maggioranza cerchi di esprimere il proprio disagio nei vari modi possibili: dalle elezioni alle proteste di piazza, fino alla prospettiva della disobbedienza civile.Dentro l’attuale cornice dell’euro e dell’Unione Europea, ribadisce Galloni, lo scenario sociale «può esser definito solo come insostenibile in maniera assoluta». Sul fronte finanziario, benché i dati disponibili siano più che allarmanti, «il sistema internazionale appare ancora in grado di resistere». Motivo? «Non hanno limiti, le risorse monetarie producibili dalle banche centrali per gestire le incredibili tossicità debitorie create dai grandissimi intermediari: è sempre possibile “collateralizzare” un titolo, magari allungandone la scadenza, se la banca centrale lo accetta a garanzia in cambio di moneta a corso legale e a “costo zero”». L’attuale capitalismo ultra-finanziario ha superato la scarsità dei mezzi di pagamento, e la sua sostenibilità (relativa) si basa sul fatto che «l’immensa liquidità non arriva all’economia reale». Infatti, precisa Galloni, il credito bancario verso le aziende è bloccato dalle regole vigenti. Lo stesso credito, virtualmente illimitato, resta però ampiamente disponibile per le operazioni speculative, e così la giostra continua. Potrà essere fermata solo «da un cambiamento delle regole imposto dalla politica», e dall’atteggiamento delle banche centrali: nella seconda metà del 2019 la Bce dovrebbe allinearsi alla condotta più restrittiva della Fed (a meno che Trump non le faccia cambiare indirizzo, e sempre che la Germania confermi di voler chiudere i rubinetti della Bce, quando ne sarà alla guida).Nel frattempo, aggiunge Galloni, l’acuta insostenibilità sociale dell’Eurozona «sarà confermata dai necessarissimi – ma mancati – superamenti del paradigma capitalistico e di quello della scarsità». Nei comparti produttivi ad elevata redditività, infatti, la domanda di lavoro è decrescente: sempre meno addetti garantiranno i beni materiali e i servizi ad alto valore aggiunto di cui abbiamo bisogno. L’aumento dei profitti sarà consistente, ma inferiore all’effetto di riduzione del Pil dovuto al calo occupazionale, dove le retribuzioni possono essere più elevate, e sarà anche inferiore alla necessità di investimenti tecnologici. «La soluzione, almeno parziale, sarebbe la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, ma gli stessi percettori di profitti vi si oppongono perché ne percepiscono solo l’effetto reditributivo a loro avverso». In più «non ne percepiscono neanche l’effetto di insostenibilità sull’economia complessiva, sicché si può considerare storicamente esaurita la spinta sociale del capitalismo stesso».Morale: crescono solo i profitti, non l’occupazione e nemmeno il Pil. E resta scarsamente conveniente investire in tecnolgia, perché l’industria è meno redditizia della speculazione finanziaria. «Ciò vuol dire che, presto, lo Stato dovrà riprendere a fare investimenti non solo “strategici”, ma anche industriali». Invece, nei comparti dove l’occupazione deve crescere (servizi di cura delle persone, dell’ambiente, del patrimonio esistente) il paradigma capitalistico «non può essere applicato, perché il fatturato – che dipende dal reddito disponibile dei cittadini – è inferiore al costo (il lavoro necessario, appunto)». Che fare, dunque? Possibile che i membri dell’Ue si mettano d’accordo per riformare le regole, ovvero abbandonare – finalmente – il catastrofico euro? «Scenario molto teorico, visti gli interessi di chi ha continuato a prosperare alle spalle degli altri consociati». Unica speranza: la politica potrebbe «raggiungere la consapevolezza di un modello economico sostenibile, vale a dire caratterizzato dal comune obiettivo di sostituire importazioni», ovvero: favorire le economie locali, «restituendo alla crescita della domanda interna il suo fondamentale ruolo di traino». Le elezioni europee di fine maggio 2019 ci diranno qualcosa, in proposito. Ma per ora, ammette Galloni, questo scenario appare decisamente il più improbabile.Più realistico invece il terzo scenario: l’esplosione-implosione dell’euro-sistema. Una calamità, se l’evento fosse accidentale, per la quale – come già ipotizzato da Paolo Savona – sarebbe fondamentale «essersi dotati tempestivamente di un “Piano B” in grado di realizzare, in tempi e modi accettabili, un ritorno improvviso alla valuta nazionale». E se invece – quarto scenario – fosse un grande paese europeo a lasciare l’Eurozona? «Premesso che l’abbandono di Italia, Francia o Germania porterebbe quasi sicuramente al crollo dell’euro», scrive Galloni, se c’è uno Stato che potrebbe essere tentato dalla “fuga” è proprio la Germania: Berlino infatti «ha già capitalizzato tutti i vantaggi della situazione». E adesso «avrebbe più ragioni di guardare verso la Russia, soprattutto se l’Unione Europea dovesse continuare a manifestare una scarsa indipendenza internazionale dagli Usa». Ma gli Stati Uniti lo vorrebbero davvero, uno sfaldamento dell’Ue? O piuttosto, si domanda Galloni, temono un allargamento dell’Europa – ma non certo di questa Ue – alla Federazione Russa?Resta, in compenso, una soluzione alternativa: quella della moneta parallela. «Un qualsiasi tipo di abbandono dell’euro – ragiona Galloni – non porrebbe più problemi di quanti ne risolverebbe». Eppure, nell’opinione pubblica «prevale il disagio», di fronte all’ipotesi del ritorno alla valuta nazionale. «Vi sono, invece, molte buone ragioni per proporre una soluzione più pratica e di facile applicazione: vale a dire l’introduzione di una valuta parallela statale, a sola circolazione nazionale, non convertibile ma a corso legale, con cui sarebbe possile, soprattutto, pagare le tasse». La moneta parallela non è contemplata (e quindi, nemmeno proibita) dal Trattato di Lisbona – dove si parla, appunto, di banconote e non di “statonote”. «La competenza sottratta alle banche nazionali per essere attribuita alla Bce, infatti, riguarda la sola “moneta a debito”, non la sovranità monetaria dello Stato, che può essere o non essere esercitata per sola volontà amministrativo-politica interna».Il vantaggio di una simile soluzione? Presto detto: un’immissione di mezzi di pagamento “alternativi” per una quota non superiore al 3% del Pil basterebbe a finanziare spese pubbliche necessarie (come le assunzioni nella pubblica amministrazione) senza aggravare disavanzi o debito. Sarebbero risorse a costo zero: «Avrebbero lo stesso segno algebrico delle tasse e si sommerebbero ad esse, controbilanciando il livello della spesa». Riassumendo: l’intera impalcatura dell’Unione risulta in crisi. Le tensioni tra Italia e Francia (dall’affaire Gheddafi ai Gilet Gialli) sono persino più gravi degli eccessi del capitalismo ultrafinanziario internazionale, considerate le “luci” dei paesi emergenti come Cina e India. Quello che manca è la convergenza su un “programma minimo”. Cioè: meglio rinunciare alle parole d’ordine più nette, «giuste ma divisive» (“fuori dall’Unione, fuori dall’euro”). Secondo Galloni, conviene innanzitutto trovare un primo e fondamentale elemento di coagulo. Il paradigma capitalistico della scarsità è già in crisi. E può essere superato proprio «attraverso l’introduzione di una valuta parallela», capace di finanziare investienti e occupazione, ma «senza creare ulteriore debito».Se tutto resta com’è, in Europa, entro il 2020 l’insostenibilità sociale diverrà assoluta, con esiti imprevedibili. Lo afferma l’economista post-keynesiano Nino Galloni, in un’analisi su “Scenari Economici” nella quale fotografa i possibili sviluppi: potremmo assistere a un accordo tra Stati per metter fine alla disastrosa Eurozona prima che la moneta unica imploda, oppure è possibile che sia proprio il maggior paese europeo, la Germania, a salutare la compagnia. Alternative? Una: attrezzarsi con moneta statale parallela per aggirare le forche caudine della finanza “privatizzata” che ricatta il sistema pubblico. Fuori discussione, in ogni caso, l’aggravarsi della crisi generale se perdurasse la situazione attuale. In caso di “invarianza”, dice Galloni, faremmo i conti – sempre di più – con l’insostenibile architettura dell’euro, introdotto per un modello economico orientato alla ricerca di competitività, con un obiettivo preciso: deflazione salariale e compressione della domanda interna, e quindi disoccupazione e precarizzazione del lavoro, pagato sempre meno. «Se si fosse voluta una maggiore competitività dei mercati – osserva Galloni – si sarebbe dovuto partire dalla convergenza tributaria, non dalla moneta unica».
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Sapelli: solo gli Usa ci salvano dalla catastrofe euro-tedesca
Si avvicina una recessione di lungo periodo. Viene da lontano, certamente: in primis dalla Cina, che rimane solo una bomba demografica anziché produttiva. Ma viene anche da vicino: dall’Europa, che si sta dilacerando politicamente in una disgregazione sociale inedita per via della deflazione secolare che la mancanza di investimenti ha prodotto proprio a partire dalla Germania e dalle nazioni del Nord, dalla Lega Anseatica e dalla marca svedese, con i venti freddi di una gelata che sembra non aprirsi mai alla primavera. Lo scrive, sul “Sussidiario”, lo storico dell’economia Giulio Sapelli, attento osservatore dell’attualità. «Occorre alzare le dighe degli investimenti produttivi con l’azione delle imprese pubbliche e private», sostiene. «Occorre cambiare profondamente la politica economica europea». Bruxelles invece – impegnata nello scontro con Londra dopo la Brexit – non coglie l’urgenza di questo cambiamento di rotta. «Per comprendere la gravità di questa regressione culturale dobbiamo ritornare con la mente a un contesto non solo economico ma anche internazionale che un tempo era profondamente diverso da quello odierno, perché non aveva irrigidito i sistemi di cambio tra le monete e le regole commerciali e del debito pubblico, in quella gabbia d’acciaio che è oggi l’Eurozona».Sapelli ricorda il novembre del 1975, quando a Rambouillet, sotto l’attenta regia di Valéry Giscard d’Estaing, si celebrò il primo G6, ossia la riunione di capi di Stato e di governo di Francia, Germania Ovest e Gran Bretagna, Stati Uniti, Giappone e Italia. «Erano anni difficili, seguiti alla Guerra del Kippur dell’agosto 1973 con la crisi petrolifera e l’aumento del prezzo del greggio di ben quattro volte in sei mesi, e soprattutto con l’avvento di quella che allora si chiamava “stagflazione”, ossia una stagnazione con inflazione, tutto il contrario di quel che accade oggi». Giscard si accordò con Helmut Schmidt, «il più grande cancelliere tedesco dopo la Seconda Guerra Mondiale», per coordinare le maggiori cinque potenze dell’Occidente, più i nipponici. «La preoccupazione era immensa. I “trent’anni gloriosi” di crescita ininterrotta europea e mondiale, seguiti al 1945, pareva dovessero terminare. E questo colse tutti di sorpresa». Ma attenzione: furono proprio gli Stati Uniti, ricorda Sapelli, a imporre la partecipazione dell’Italia alla riunione di Rambouillet. «Solo la perseveranza di Aldo Moro, allora presidente del Consiglio, e del ministro degli esteri Mariano Rumor, consentirono all’Italia di partecipare a quel summit», aggirando l’Eliseo.«Quel vertice fu decisivo per il nostro paese – scrive Sapelli – perché da allora nessuno osò più escluderci dalle riunioni delle potenze mondiali in cui si decideva l’avvenire del mondo». Da quella riunione «scaturirono degli obiettivi profondamente diversi da quelli di oggi», cioè obiettivi «fondati su un impegno di cooperazione, tutti incentrati sull’economia reale: investimenti per ridurre la disoccupazione, controllo delle quantità monetarie eccedenti i target concordemente fissati dalle banche centrali per contenere l’inflazione, controllo, eliminazione e determinazione dei livelli di consumo energetico per far fronte all’aumento dei prezzi». Oggi, tutto è cambiato. Innanzitutto, come si è visto nel G7 svoltosi in Giappone, «il problema non è più l’inflazione, ma la deflazione che produce una stagnazione che può essere secolare». Ecco perché il pemier Shinzo Abe propone una politica di “deficit spending”, «rifiutando di aumentare le tasse nel suo paese», per contrastare non l’inflazione ma la terribile deflazione che condanna il Sol Levante, da un trentennio, alla non-crescita.E poi, continua Sapelli, è cambiato anche il contesto europeo: «L’equilibrio di potenza nel Vecchio Continente è stato completamente rovesciato a favore della Germania riunificata, che cresce grazie al surplus commerciale immenso che essa realizza imponendo a tutte le altre nazioni, attraverso le regole dei trattati europei, un regime di bassi salari e quindi di bassi costi dei beni intermedi che importa, così da realizzare i magnifici surplus di esportazione». Quarantotto anni dopo Rambouillet, osserva Sapelli, gli Usa sono ora in ritirata dall’Europa. «Ma hanno tuttavia ancora un disegno imperiale mondiale, anche se le divisioni profonde nel gruppo di comando delle disgregate élite nordamericane non lo rendono visibile come si dovrebbe, come tutto il mondo meriterebbe». Sapelli si attende dagli Stati Uniti «ciò che gli Usa ci diedero quarant’anni or sono, ossia la non esclusione dall’equilibrio di potenza mondiale fondato sull’alleanza transatlantica e quindi dai flussi del commercio mondiale». Ed è proprio questa perseveranza transatlantica, secondo Sapelli, la migliore risposta all’avvento della Brexit. «Di questo sono pochissimi in Italia ad avere contezza, a cominciare dagli imprenditori». Eppure, «comprendere tutto ciò è decisivo, perché solo il legame con gli Usa ci può salvare dal prossimo tsunami mondiale».Secondo l’economista, si addensano infatti le nubi e si alzano le maree di uno tsunami «molto più grande di quello del 2008». La causa? Sta «nella tendenza alla deflazione europea, che minaccia tutta l’economia mondiale e segnala la potenza distruttiva del nazionalismo economico tedesco». Ed evidenzia «l’utopia, altrettanto distruttiva, delle cure monetarie alla crisi». L’eccesso di finanza “perversa” (derivati, collateralizzazione del debito), non si sconfigge «con l’eccesso di emissione di moneta, come fa la Bce». Mario Draghi? «E’ prigioniero della sua formazione neoclassica». La moneta, a suo parere, può curare i mali della recessione imminente. È pur vero che sollecita le “riforme strutturali” dei governi, ma – per Sapelli – qui sta l’inganno: «Le riforme che sollecita favoriscono la crisi». In cosa consistono? «Alte tasse, riduzione dei debiti tout court, senza distinguere tra il debito che fa bene (investimenti pubblici per creare lavoro e quindi domanda interna), pervicace negazione di ogni intervento pubblico nell’economia, laddove non è sperpero parassitario, ma creazione di sana occupazione». In compenso, la Bce – che non muove un dito per gli Stati – annuncia di voler salvare grandi imprese, nei guai a causa delle loro spericolate speculazioni finanziarie.Se queste politiche verranno ancora una volta attuate, conclude Sapelli, non faranno altro che «aumentare l’enorme bolla di liquidità che gonfia le nuvole della tempesta». Sarebbe bello, dice, poter tornare a Rambouillet, «gettandosi alle spalle i tempi della finanza “evoluta” perché speculativa e devastante, e dell’Europa fondata sulla deflazione che non condivide sovranità ma la sottrae, in una guerra infinita tra le potenze continentali». È ora di tornare all’età della ragione, scandisce Sapelli: sarebbe la miglior risposta alla Brexit. A farci paura, aggiunge, dev’essere «la non consapevolezza della tragedia imminente», e non invece «il ritorno della storia al suo posto», ossia la fuoriuscita del Regno Unito «da un’Europa a cui quell’impero non ha mai guardato se non con preoccupazione per le potenze via via dominanti che potevano nei secoli minacciare il suo potere mondiale: la Spagna, la Francia e infine, ieri come oggi, la Germania». Aggiunge Sapelli: «Solo la pressione Usa protesa alla sconfitta dell’Urss costrinse il Regno Unito ad abbandonare l’Efta nel 1976 e a entrare con una clausola opzionale fondata sulla non adozione dell’euro all’Europa Unita. Ora l’Urss è crollata e la bomba atomica inglese non serve più in funzione antisovietica». La storia riprende il suo corso, «nonostante la gabbia artificiale e drammaticamente catastrofica della politica istituzionale e della politica economica europea».Si avvicina una recessione di lungo periodo. Viene da lontano, certamente: in primis dalla Cina, che rimane solo una bomba demografica anziché produttiva. Ma viene anche da vicino: dall’Europa, che si sta dilacerando politicamente in una disgregazione sociale inedita per via della deflazione secolare che la mancanza di investimenti ha prodotto proprio a partire dalla Germania e dalle nazioni del Nord, dalla Lega Anseatica e dalla marca svedese, con i venti freddi di una gelata che sembra non aprirsi mai alla primavera. Lo scrive, sul “Sussidiario”, lo storico dell’economia Giulio Sapelli, attento osservatore dell’attualità. «Occorre alzare le dighe degli investimenti produttivi con l’azione delle imprese pubbliche e private», sostiene. «Occorre cambiare profondamente la politica economica europea». Bruxelles invece – impegnata nello scontro con Londra dopo la Brexit – non coglie l’urgenza di questo cambiamento di rotta. «Per comprendere la gravità di questa regressione culturale dobbiamo ritornare con la mente a un contesto non solo economico ma anche internazionale che un tempo era profondamente diverso da quello odierno, perché non aveva irrigidito i sistemi di cambio tra le monete e le regole commerciali e del debito pubblico, in quella gabbia d’acciaio che è oggi l’Eurozona».