Archivio del Tag ‘cricca’
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Davvero gli italiani accetteranno il Governo dei Prestanome?
Riesce difficile immaginare che il popolo italiano possa accettare impunemente di essere tradito, calpestato e vilipeso dai mercenari arruolati nel governo-vergogna messo insieme in modo disperato per umiliare con ogni mezzo gli elettori. E’ arduo credere che la stragrande maggioranza degli cittadini possa davvero farsi rappresentare, in Italia e nel mondo, dal professor-avvocato Giuseppe Conte, mai eletto da nessuno ma messosi prontamente a disposizione di Angela Merkel ed Emmanuel Macron. Di Luigi Di Maio c’è poco da dire: un morto che cammina, politicamente, così come l’intero Movimento 5 Stelle. Un grande abbaglio rivelatosi per quello che era fin dall’inizio: un grande imbroglio. Milioni di voti già in fuga: dei 5 Stelle, a breve, non resterà più nulla. In compenso passerà alla storia il tragico pagliaccio Beppe Grillo, come uno dei maggiori traditori della nazione. Poco da aggiungere anche su Matteo Renzi, cancellato dall’agenda politica italiana col voto democratico e rientrato nel palazzo dalla finestra, tramite sotterfugio, dopo aver spedito a Parigi il diletto Sandro Gozi, alla corte del nemico numero uno dell’Italia, il simpatico Macron. Velo pietoso su Nicola Zingaretti: ha ingoiato il rospo del Conte-bis perché non aveva alternative, se non l’avesse fatto sarebbe stato triturato (lo sarà domani, insieme alla cricca di potere che porta il nome di Partito Democratico).Il governo dello spread, caro all’oligarchia che ha fatto carne di porco del Belpaese, sarà accolto nel modo più benevolo del regime euro-italico, di cui è al servizio, contro l’interesse nazionale. Una speciale plastica facciale proteggerà i suoi ministri-camerieri e i suoi servili mandanti, presto in passerella in tutte le televisioni, a reti unificate, a spiegare che l’orrore è bellissimo, che la sottomissione è nobile, e che prendere a calci in faccia gli elettori, derubandoli, è un’arte civilissima, antifascista e antirazzista, politicamente corretta. Resta da capire come lo accoglieranno, gli italiani, il Governo dei Mascalzoni. Tutte le dittature, quando sono alla canna del gas, si comportano allo stesso modo: prima di sparare sulla folla tentano un’ultima mossa, la manovra di palazzo fondata sulla frode. Il potenziale di fuoco di cui gode l’establishment italiano al servizio del potere straniero è tuttora molto rilevate, virtualmente schiacciante. Per ora ha disarmato la popolazione, sottraendole l’arma democratica a sua disposizione: il voto. E si prepara a punire l’elettorato con una lunghissima astinenza: gli italiani potranno tornare a votare solo dopo che il Governo dei Traditori avrà consegnato in mani anti-italiane i maggiori asset rimasti al paese, dall’Eni a Leonardo, e poi la presidenza della Repubblica.Il Governo dei Ladri di Democrazia cercherà in ogni modo di indorare la pillola, con l’aiuto dei suoi padroni europei: premierà il rating della finanza pubblica italiana, abbasserà il differenziale coi Bund, concederà l’elemosina di una piccola dose di flessibilità, in termini di bilancio e di deficit. Purché il cane continui a leccare la mano del padrone, anziché azzannarla. Purché gli italiani, soprattutto, continuino a non contare niente. E purché l’Italia, come nazione, arrivi rapidamente a contare meno di zero, integralmente svenduta, sottomessa, ridotta al silenzio e all’irrilevanza assoluta anche sul piano geopolitico, mediterraneo e africano. Ma loro, gli italiani? Sette su dieci volevano tornare alle urne. Il 70% del popolo italiano non accetta il Governo dei Cialtroni, e prova disgusto davanti alla sfrontata, ignobile disonestà dei burattini manovrati dal potere straniero, i 5 Stelle e gli zombie del Pd. Il Governo dei Buffoni lo stravince, il campionato mondiale dei fischi. E ogni giorno umilierà l’Italia, ne danneggerà l’immagine, distruggerà il residuo prestigio internazionale del paese: suggerirà l’idea che gli italiani sono dei poveri scemi, che si fanno mettere nel sacco da una congrega di imbroglioni disprezzati dal popolo. Può un paese democratico farsi rappresentare, seriamente, da una simile accozzaglia di miserabili?Riesce difficile immaginare che il popolo italiano possa accettare impunemente di essere tradito, calpestato e vilipeso da mercenari arruolati in un governo-vergogna messo insieme in modo disperato per umiliare con ogni mezzo gli elettori. E’ arduo credere che la stragrande maggioranza dei cittadini possa davvero farsi rappresentare, in Italia e nel mondo, dal professor-avvocato Giuseppe Conte, mai eletto da nessuno ma messosi prontamente a disposizione di Angela Merkel ed Emmanuel Macron. Di Luigi Di Maio c’è poco da dire: un morto che cammina, politicamente, così come l’intero Movimento 5 Stelle. Un grande abbaglio rivelatosi per quello che era fin dall’inizio: un grande imbroglio. Milioni di voti già in fuga: dei 5 Stelle, a breve, potrebbe non restare più nulla. In compenso passerà alla storia il tragico giullare Beppe Grillo, come uno dei maggiori turlupinatori della nazione. Poco da aggiungere anche su Matteo Renzi, cancellato dall’agenda politica italiana col voto democratico e rientrato nel palazzo dalla finestra, tramite sotterfugio, dopo aver spedito a Parigi il diletto Sandro Gozi, alla corte del nemico numero uno dell’Italia, il simpatico Macron. Velo pietoso su Nicola Zingaretti: ha ingoiato il rospo dell’ipotesi Conte-bis perché non aveva alternative; se non l’avesse fatto sarebbe stato triturato (lo sarà domani, insieme alla congrega di potere che porta il nome di Partito Democratico).
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Lutto per l’Italia, ostaggio di Grillo. E l’Europa ci guarda
C’è qualcosa di oscuro e di atroce nel tradimento dei 5 Stelle, visibile dalla Luna. Nati come antidoto alla “casta”, pur di evitare il giudizio degli elettori ora si rifugiano tra le braccia di Matteo Renzi e soci, campioni dell’establishment nazionale asservito ai poteri marci – italiani, europei e planetari – che in trent’anni hanno ridotto la quarta potenza industriale del mondo a paese mediterraneo periferico e saccheggiato, ricattato dalla Bce, messo in ginocchio di fronte agli usurai di Bruxelles. Il ribaltone imposto al governo gialloverde, dopo aver costretto Matteo Salvini ad abbandonarlo, non è solo un colpo mortale inferto alla democrazia italiana: è un coltellata per tutti gli europei, Gilet Gialli in testa, che avevano osato guardare al caos italiano come laboratorio del possibile cambiamento, sia pure nato in modo sgangheratissimo e proseguito anche peggio, con un esecutivo subito impaurito di fronte al ricatto dello spread. E a celebrare il funerale della democrazia non è neppure un politico classico, ma un ex comico particolarmente abile, cinico e spietato, che in questi anni ha investito sull’odio e sulla rabbia per creare dal nulla un’enorme massa di manovra. E’ lui, il supremo manipolatore Beppe Grillo, a suonare le campane a morto: e non è solo italiano, il lutto per la fine del “governo del cambiamento” in cui, meno di un anno fa, credeva ancora oltre il 60% degli elettori del Belpaese.Vista da fuori, la crisi italiana è una catastrofe: a vincere sono i peggiori, che spengono sul nascere il sussulto democratico (confuso, contraddittorio) nato nel 2018 dalla rivolta dei cittadini esasperati dagli abusi dell’impero finto-europeista, mercantilista e bugiardo, squallidamente privatistico anche se ammantato di istituzionalità. E’ un complotto che viene da lontano, accusa Salvini dal Quirinale, indicando tra i mandanti le oligarchie di Parigi, Berlino e Bruxelles. Non è privo di colpe lo stesso Salvini: gli errori tattici sembrano averlo spiazzato di fronte all’incredibile disinvoltura trasformistica dei congiurati grillini e renziani, semplici manovali della cospirazione contro l’Italia. Ma il capo della Lega si è esposto a facili accuse anche infamanti, con la sua visione unilaterale della tragedia dell’immigrazione: accuse disoneste, che avrebbe potuto neutralizzare allargando l’orizzonte all’Africa, alle vere cause del malessere africano e ai suoi possibili rimedi. L’errore più grande compiuto da Salvini sta probabilmente nell’essersi rifugiato nella solitudine del cosiddetto sovranismo, falsa piattaforma di opportunismi nazionalistici che infatti hanno puntualmente isolato la Lega dopo il grande successo delle europee. Non lo si sarebbe potuto liquidare così facilmente, Salvini, se avesse combattuto, in modo dialettico e inclusivo, per reclamare una Costituzione Europea finalmente democratica.Ma gli errori ottici di Salvini, peraltro non irrimediabili, non sono nulla in confronto allo scempio di verità e di decenza di cui si sono macchiati i 5 Stelle pilotati da Grillo, pronti a voltare le spalle nel modo più spregevole ai cittadini italiani che appena 14 mesi fa li avevano eletti con un mandato chiarissimo: restituire sovranità democratica alle persone comuni. Dopo aver appaltato la politica che conta (esteri, economia) a mercenari non-eletti come Conte, Tria e Moavero, il signor Grillo ha gettato la maschera: prima silurando Salvini attraverso Angela Merkel (Ursula von der Leyen alla Commissione Europea) e ora imponendo ai parlamentari pentastellati – contro la stessa base grillina, ancora una volta costretta al silenzio – il disperato, desolante matrimonio servile con il padrone europeo tramite il suo tradizionale proconsole italiano, il detestato Pd, ancora e sempre al servizio dell’establishment che ha svenduto il paese. La scommessa di Grillo è tristemente imbarazzante: dimostra che i grillini sarebbero dei poveri idioti, raggirabili anche stavolta. In realtà, milioni di elettori stanno già abbandonando la navicella populista, che è comunque servita – al regime di cui Grillo è l’occulto, grande protagonista – a non inquadrare mai il bersaglio vero, indispensabile per cambiare realmente le regole del gioco, cioè il rapporto tra governanti e governati.E’ possibile che gli attivisti grillini aprano finalmente gli occhi di fronte a un simile spettacolo, e imparino a non fidarsi mai più dei demagoghi autoritari ed estremisti, amici del popolo solo a parole ma in realtà nemici della democrazia. Li si riconosce a distanza, da una caratteristica invariabile: ai decibel, alle urla e ai Vaffa non corrisponde mai un piano preciso, fatto di soluzioni realistiche. Di qui l’inevitabile vaghezza dei programmi, che poi si traduce regolarmente in un nulla di fatto, nella migliore delle ipotesi, dopo gli altisonanti proclami rivoluzionari. Nella peggiore delle ipotesi, invece – quella italiana, incarnata dai 5 Stelle – la finta rivoluzione (alimentata dalla passione sincera di migliaia di attivisti) – finisce nella vergogna: parlamentari ricattati dal terrore di perdere la poltrona fingono di non udire lo sdegno dei loro stessi elettori e si accasano con la cricca dei perdenti, ripetutamente bocciati dagli italiani, per tenere in piedi un esecutivo pronto a obbedire ai diktat di Bruxelles. E’ il capolavoro di Grillo: dimostrare – all’Italia, e non solo – che la politica è un sordido imbroglio, e che i maggiori imbroglioni sono proprio loro, gli ex “avvocati del popolo”.Gli europei guardano, e prendono nota: dopo la falsa partenza dell’Italia gialloverde, il terreno del possibile riscatto democratico viene ora accuratamente diserbato. L’intero Parlamento di un paese avanzato, membro del G7, è manipolato da un privato cittadino, elusivo e potentissimo: mai presentatosi alle elezioni, mai neppure sottopostosi al vaglio di un regolare congresso di partito. Ha dunque ragione, Grillo, nel mostrare che al popolo bue si può davvero far credere qualsiasi cosa? Come sempre, dal letame nascono i fiori: oggi la verità finalmente emerge, anche se in modo feroce. Se il Movimento 5 Stelle è servito essenzialmente a depistare la richiesta popolare di cambiamento, dando tempo all’establishment di prendere le sue contromisure, di fronte al declino – consenso a picco, 6 milioni di voti persi in un solo anno – il signor Grillo ha deciso di suicidare la sua creatura rendendo al potere l’ultimo servizio possibile: il governo-ignominia col Pd, fingendo di non sentire che gli italiani vorrebbero tornare alle urne, per dire la loro. Giullare di razza, l’ex comico genovese non viene mai meno al senso dello spettacolo: sul suo blog si raffigura come una specie di Mosè, di fronte alle acque del Mar Rosso che si separano per intervento divino. Peccato che nella Bibbia non ci sia nessun Mar Rosso: il popolo dell’Esodo si limitò a guadare uno Yam-Suf, un acquitrino. Una palude, come quella in cui Giuseppe Grillo, detto Beppe, ha deciso di far annegare i suoi 5 Stelle, ormai utili solo come compari provvisori dell’ex impresentabile Matteo Renzi.(Giorgio Cattaneo, “Lutto per l’Italia, ostaggio di Grillo. E l’Europa ci guarda”, dal blog del Movimento Roosevelt del 29 agosto 2019).C’è qualcosa di oscuro e di atroce nel tradimento dei 5 Stelle, visibile dalla Luna. Nati come antidoto alla “casta”, pur di evitare il giudizio degli elettori ora si rifugiano tra le braccia di Matteo Renzi e soci, campioni dell’establishment nazionale asservito ai poteri marci – italiani, europei e planetari – che in trent’anni hanno ridotto la quarta potenza industriale del mondo a paese mediterraneo periferico e saccheggiato, ricattato dalla Bce, messo in ginocchio di fronte agli usurai di Bruxelles. Il ribaltone imposto al governo gialloverde, dopo aver costretto Matteo Salvini ad abbandonarlo, non è solo un colpo mortale inferto alla democrazia italiana: è un coltellata per tutti gli europei, Gilet Gialli in testa, che avevano osato guardare al caos italiano come laboratorio del possibile cambiamento, sia pure nato in modo sgangheratissimo e proseguito anche peggio, con un esecutivo subito impaurito di fronte al ricatto dello spread. E a celebrare il funerale della democrazia non è neppure un politico classico, ma un ex comico particolarmente abile, cinico e spietato, che in questi anni ha investito sull’odio e sulla rabbia per creare dal nulla un’enorme massa di manovra. E’ lui, il supremo manipolatore Beppe Grillo, a suonare le campane a morto: e non è solo italiano, il lutto per la fine del “governo del cambiamento” in cui, meno di un anno fa, credeva ancora oltre il 60% degli elettori del Belpaese.
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Rottamati i 5 Stelle, l’Italia resta prigioniera del voto-contro
Prima spariscono dai radar i 5 Stelle, meglio è per l’Italia. Che abbaglio: nel 2013 avevano rotto il sarcofago maleodorante in cui imputridivano Berlusconi, Bersani e gli altri cadaveri eccellenti della cosiddetta Seconda Repubblica. Poi, cinque anni dopo, si sono ritrovati tra le mani un trionfo difficilissimo da maneggiare, che infatti hanno affrontato nel modo peggiore. Poteva andare diversamente? Evidentemente no, vista la caratura del fragilissimo e inesperto Di Maio, a sua volta telecomandato dalla “ditta”. Sconcerta, semmai, che i grillini – mossi da un’esasperazione condivisibile, rispetto alla palude italica – si siano lasciati regolarmente dominare dai loro persuasori, occulti e non, padroni assoluti del movimento. Dissenso silenziato, espulsioni a catena, sanzioni pecuniarie per i parlamentari che cambiassero casacca. Zero confronto interno, solo diktat – annacquati, per finta, dalla piattaforma digitale di proprietà del signor Casaleggio. Quanto al signor Grillo, proprietario del marchio 5 Stelle, per fischiare la fine dell’ultimo campionato – abbandonando al suo destino l’icona elettorale della valle di Susa e aprendo le porte all’arcinemico Renzi – non ha nemmeno più sentito il bisogno della parodia rituale della consultazione della “rete”.Se i militanti grillini, almeno all’inizio, furono coinvolti in una specie di palingenesi simil-rivoluzionaria a suo tempo coraggiosa, restando poi ipnotizzati dall’inerzia della dinamica interna fatalmente scaduta nel tifo e nel furore momentaneo per questa o quella causa contingente, milioni di elettori italiani – mai arruolatisi veramente nel circo pentastellato – erano stati indotti a votare 5 Stelle quasi per disperazione, non esistendo altro modo per contestare in modo squillante l’andazzo dei governi dimezzati, proni alla grande menzogna dell’austerity eterodiretta a scapito dell’Italia. Fu comunque un consenso freddo, vigile, pieno di riserve: chi votò per i grillini nel 2013 e nel 2018 vedeva benissimo quanto fosse ambiguo, confuso e inconsistente il programma esibito da Di Maio, che – in modo fin troppo eloquente – ometteva di citare la fonte prima del male oscuro italiano, cioè l’intollerabile sudditanza (psico-politica, finanziaria, economica) rispetto alla cricca degli avventurieri dominanti, il cartello delle industrie finanziarie private che manipolano l’Ue a loro uso e consumo, in questa fase utilizzando l’élite franco-tedesca, in combutta con l’establihment tricolore, per continuare allegramente a spolpare il Balpaese dormiente.Dove mai sarebbe potuto arrivare, il piccolo Di Maio, senza neppure gli spiccioli del mini-deficit al 2,4%, per finanziare in modo decente il più che discutibile reddito di cittadinanza, sbandierato in modo demenziale come orizzonte salvifico? Per fortuna, gli elettori hanno reagito tempestivamente, revocando in modo brutale il consenso imprudentemente concesso ai 5 Stelle. Molti peraltro si sono rifugiati nel limbo più frustrante, l’astensionismo: alle europee ha votato poco più che un elettore su due. Ora quel voto d’opinione si trova a un bivio altrettanto scomodo: provare a digerire il folkloristico Salvini, l’unico a non aver ancora rinnegato le sue promesse e la sfida lanciata all’attuale governance Ue, piuttosto che arrendersi agli zombie del partito eterno della morte civile e della svendita del paese a rate, all’infinito, ai poteri che banchettano su quella che una volta era la potenza industriale italiana. Le gazzette naturalmente propongono le loro Carola Rackete, le loro Greta, evitando accuratamente di informare il pubblico pagante su quanto sta avvenendo davvero, in Italia e nel mondo. E il pubblico, a sua volta, evita – ancora e sempre – di decidersi a fare qualcosa di concreto per avere, un giorno, la possibilità di regalarsi una proposta politica da votare con convinzione, senza turarsi il naso.Basterà, a fare pulizia, l’estinzione del super-bidone a 5 Stelle che ha coperto l’Italia di ridicolo anche in Europa, passando dal sostegno ai Gilet Gialli al voto decisivo per Ursula von der Leyen? L’impressione è che quei milioni di voti (oggi a spasso, o decisi a restare a casa) confluiranno mestamente verso altre scommesse azzardate, magari meno cialtrone ma altrettanto claudicanti, spurie, non trasparenti. Prima di suicidarsi, o di fingere di farlo, Salvini, Grillo e Conte sono riusciti a intonare insieme l’antico coretto della Torino-Lione, ancora una volta – come tutti i loro predecessori (Berlusconi e Prodi, Monti e Letta, Renzi e Gentiloni) – senza degnarsi di spiegare, con la dovuta trasparenza, a cosa mai servirebbe quell’immane spreco di denaro, in un paese che ha un drammatico bisogno di grandi opere utili. In questa Italia passa velocemente di moda anche la quasi-tragedia dell’obbligo vaccinale, imposto di colpo nello stesso modo: senza spiegazioni. Silenzio assoluto sull’unica istituzione che abbia brillato per dovere civico, la Regione Puglia presieduta da Michele Emiliano, la sola capace di approntare un servizio di farmacovigilanza attiva (che per inciso ha svelato come 4 bambini su 10 abbiano subito reazioni avverse alle vaccinazioni somministrate in batteria anche ai neonati).Non c’è una vicenda – una sola – che si concluda in modo coerente, a quanto pare. La rissa a reti unificate contro il feroce Salvini che sbarra l’accesso ai porti è tutto quello che ha da offrire, il mainstream, di fronte al dramma plurisecolare dell’Africa aggravato dal globalismo finanziario. Il cardinale nigeriano Francis Arinze, voce nel deserto, sfida il fronte buonista capitanato dal pontefice: com’è possibile non capire che l’emorragia di giovani condanna il continente nero? Riflesso immediato, casalingo: il derby tra gli hoolingan dell’Ong di turno e quelli del bieco ministro dell’interno. C’è chi si dispera: è accettabile che non si creino mai le condizioni per un discorso serio, oltre l’emergenza? Come gli storici ben sanno, i risvegli generalmente sono drastici e burrascosi, innescati da veri e propri cataclismi. Viceversa, la sovrastruttura amministra il grande sonno reggendo i fili del discorso pubblico in modo più che attento, reticente e depistante, scegliendo anche gli innocui galletti da combattimento da gettare sul ring, uno dopo l’altro.Per contro starebbe crescendo, si dice, una specie di foresta: è ancora silente, ma più estesa di quanto si pensi. Una quota di popolazione che va riaprendo gli occhi: oggi, forse, un altro Grillo non riuscirebbe più a prendere in giro nessuno. Ma non basta. Il popolo del cosiddetto risveglio non ha ancora un lessico pienamente condiviso, né solidi strumenti per comunicare quello che pensa. L’ipotetica, nuova antropologia in arrivo sembra dover passare necessariamente per fenomeni come il post-leghismo di Salvini, largamente indigesto ai più, ancora in cerca di approdi univoci e meno divisivi. Mancano appigli, per il momento, diffusamente percepiti come viatico per la costruzione collettiva di un universo meno inospitale, più umano, con meno urlatori e più ragionatori. Il 99% della scena è tuttora intasato di scontri, bocciature, insulti, testa a testa. Vince il “no”, a mani basse: il voto-contro. E’ perfetto per rinviare all’infinito il voto-per, quello di cui tutti avrebbero bisogno. Che fare, per vedere finalmente l’arrivo di quel giorno?(Giorgio Cattaneo, “L’Italia non s’è desta, ancora prigionera dell’inutile voto-contro”, dal blog del Movimento Roosevelt del 17 agosto 2019).Prima spariscono dai radar i 5 Stelle, meglio è per l’Italia. Che abbaglio: nel 2013 avevano rotto il sarcofago maleodorante in cui imputridivano Berlusconi, Bersani e gli altri cadaveri eccellenti della cosiddetta Seconda Repubblica. Poi, cinque anni dopo, si sono ritrovati tra le mani un trionfo difficilissimo da maneggiare, che infatti hanno affrontato nel modo peggiore. Poteva andare diversamente? Evidentemente no, vista la caratura del fragilissimo e inesperto Di Maio, a sua volta telecomandato dalla “ditta”. Sconcerta, semmai, che i grillini – mossi da un’esasperazione condivisibile, rispetto alla palude italica – si siano lasciati regolarmente dominare dai loro persuasori, occulti e non, padroni assoluti del movimento. Dissenso silenziato, espulsioni a catena, sanzioni pecuniarie per i parlamentari che cambiassero casacca. Zero confronto interno, solo diktat – annacquati, per finta, dalla piattaforma digitale di proprietà del signor Casaleggio. Quanto al signor Grillo, proprietario del marchio 5 Stelle, per fischiare la fine dell’ultimo campionato – abbandonando al suo destino l’icona elettorale della valle di Susa e aprendo le porte all’arcinemico Renzi – non ha nemmeno più sentito il bisogno della parodia rituale della consultazione della “rete”.
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Salvini-Diciotti, Magaldi: quando la Lega tifava per i giudici
Ma che razza di democrazia è, quella in cui si affida a un’anomima piattaforma informatica la decisione sulla sorte di un ministro, per giunta alleato di governo? Possibile che i 5 Stelle non riescano a difendere in modo netto Matteo Salvini, senza dover consultare gli iscritti? Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, prende atto della preoccupante debolezza politica dei pentastellati: la loro classe dirigente non osa assumersi la piena responsabilità di schierarsi fino in fondo con il leader della Lega, messo alla berlina dalla magistratura per aver ostacolato lo sbarco dei migranti a bordo della nave Diciotti. Sequestro di persona? Questa l’ipotesi di reato, formulata dai magistrati siciliani. Durissimo, in proposito, un altro esponente del Movimento Roosevelt, Gianfranco Carpeoro: non è possibile sanzionare un politico per un legittimo atto governativo, dice Carpeoro in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. «I migranti della Diciotti non erano affatto sequestrati: nessuno impediva loro di dirigersi altrove, Salvini ha solo frenato il loro ingresso in Italia», sostiene Carpeoro, che ipotizza un abuso extra-costituzionale. «Mi auguro – aggiunge – che altri magistrati valutino l’operato dei colleghi che hanno deciso di indagare Salvini».L’avvocato Pierluigi Winkler, altro “rooseveltiano”, fa notare che il sequestro di persona, come reato, dovrebbe avere alle spalle una finalità criminale: e di quale crimine si dovrebbe accusare il governo italiano, in questo caso? Concorda lo stesso Magaldi, a sua volta in diretta web su YouTube con Frabetti: «E’ evidente che Salvini non ha commesso alcun reato, e bene ha fatto il resto del governo – cioè i 5 Stelle e lo stesso Conte – a dichiararsi corresponsabile della decisione di Salvini. Quello che stupisce, semmai – aggiunge Magaldi – è che Di Maio e soci non abbiano trovato il coraggio di prendere la decisione di proteggere Salvini dall’azione giudiziaria, ricorrendo invece alla consultazione online degli iscritti». Democrazia diretta? «Va bene che il popolo dev’essere sovrano. Ma se proponesse una follia? Un gruppo dirigente deve sapersi assumere precise responsabilità, senza rinunciare a dire come la pensa». Pesa, sui 5 Stelle, il recentissimo passato giustizialista: tanti voti sono arrivati al movimento di Grillo proprio grazie alla retorica anti-casta, alla crociata contro i privilegi. Fino al punto da esporre un alleato di governo al rischio di farsi processare – concedendo l’autorizzazione a procedere – solo per aver tenuto fede alla sua linea politica?Gli stessi leghisti, peraltro – ricorda Magaldi – sono reduci della stessa “malattia” dei 5 Stelle: anche loro, guidati da Bossi, agitarono il cappio in Parlamento nella battaglia campale contro i politici corrotti. Invasione di campo, da parte della magistratura? «Negli anni ‘90, gli esponenti forcaioli della Lega Nord erano ben lieti che il pool di Mani Pulite facesse a pezzi i partiti della Prima Repubblica». Beninteso: i reati vanno perseguiti, e i partiti italiani scontavano un tasso elevato di corruzione, oltre all’ipocrisia sul finanziamento pubblico (tollerato, benché irregolare). Per contro, gli stessi magistrati – per decenni – non avevano mai osato mettere sotto accusa ministri e segretari di partito. Il motivo? Geopolitico: l’Italia era troppo importante, come baluardo contro l’impero sovietico. Per consentire ai pm di indagare Craxi c’è stato bisogno del crollo del Muro di Berlino. Magistrati anche valorosi e in totale buona fede, aggiunge Magaldi, sono diventati lo strumento di un gioco pericoloso, costruito per indebolire l’Italia. Un gioco avviato proprio in quegli anni dal separatismo nordista della Lega di Bossi, che – nella sua vulgata – criminalizzò l’intero processo dell’unità nazionale, rappresentando il Risorgimento come una tragica farsa.Suscita malinconia, oggi, riscontrare la singolare consonanza di vedute tra i vetero-leghisti degli anni ‘90 e i propagandisti neo-borbonici, cioè tra il Nord che si ritiene vampirizzato finanziariamente dal Meridione “scansafatiche” e il Sud che, a sua volta, si dichiara vittima dell’imperialismo coloniale nordista, garibaldino e sabaudo. Pura ignoranza della nostra storia, dice Magaldi: impossibile dimenticare che i combattenti meridionali aderirono all’esercito di Garibaldi perché non ne potevano più del regime assolutista dei Borboni, violento e autoritario, privo di Costituzione, fondato sull’arbitrio e sullo sfruttamento schiavistico di milioni di “cafoni” costretti a faticare nei latifondi. Pessima, poi, la gestione post-unitaria dopo la perdita di Cavour, col prevalere degli aspetti più reazionari della pessima monarchia torinese. Ma da qui a rimpiangere la cricca parassitaria del sovrano di Napoli, ne corre. Piuttosto: ci siamo mai domandati perché periodicamente esplodono queste polemiche fondate sulla non-conoscenza della storia?Se voglio colpire un paese, ragiona Magaldi, per prima cosa lo divido, mettendo il Nord contro il Sud. Poi magari uso la magistratura per decapitarne la classe dirigente (nel caso dell’Italia, protagonista di un notevole riscatto economico nei decenni del dopoguerra). In altre parole, la manipolazione produce una specie di harakiri: un paese indifeso, proprio quando i grandi poteri globalizzatori stanno per assalirlo e depredarlo, grazie alle regole truccate della nuova Ue. Fino a ritrovarsi poi con Mario Monti a Palazzo Chigi, spedito a commissariare l’Italia dagli stessi poteri che hanno lavorato, anche con l’aiuto della Lega Nord, per sabotare il Belpaese. Quindi è bene prestare la massima attenzione, se il potere giudiziario si mette contro il potere esecutivo. «Provo una sorta di compassione – ammette Magaldi – per come il Movimento 5 Stelle sta facendo di tutto per dissipare il consenso che aveva raccolto in questi anni. Possiamo anche relativizzare la recente débacle alle regionali abruzzesi, ma come non vedere che l’elettorato contesta ovunque il mancato rispetto delle promesse elettorali?». Pessima idea, quella di rifugiarsi nella piattaforma Rousseau sul caso Salvini-Diciotti: «Se per assurdo gli iscritti decidessero un bel giorno che dobbiamo ripristinare le leggi razziali, i dirigenti 5 Stelle si adeguerebbero?».Ma che razza di democrazia è, quella in cui si affida a un’anonima piattaforma informatica la decisione sulla sorte di un ministro, per giunta alleato di governo? Possibile che i 5 Stelle non riescano a difendere in modo netto Matteo Salvini, senza dover consultare gli iscritti? Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, prende atto della preoccupante debolezza politica dei pentastellati: la loro classe dirigente non osa assumersi la piena responsabilità di schierarsi fino in fondo con il leader della Lega, messo alla berlina dalla magistratura per aver ostacolato lo sbarco dei migranti a bordo della nave Diciotti. Sequestro di persona? Questa l’ipotesi di reato, formulata dai magistrati siciliani. Durissimo, in proposito, un altro esponente del Movimento Roosevelt, Gianfranco Carpeoro: non è possibile sanzionare un politico per un legittimo atto governativo, dice Carpeoro in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. «I migranti della Diciotti non erano affatto sequestrati: nessuno impediva loro di dirigersi altrove, Salvini ha solo frenato il loro ingresso in Italia», sostiene Carpeoro, che ipotizza un abuso extra-costituzionale. «Mi auguro – aggiunge – che altri magistrati valutino l’operato dei colleghi che hanno deciso di indagare Salvini».
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Chavez fu ucciso, ma ora è Maduro a uccidere il Venezuela
Hugo Chavez è stato assassinato: la notizia è pressoché certa. Poi ci ha pensato l’indegno Maduro, a “terminare” il Venezuela. Ma non da solo: è stato aiutato, nell’opera di devastazione del paese, dai vizi capitali del “bolivarismo” venezuelano. La giusta crociata contro il latifondo ha finito per affidare le terre a cooperative gestite da incapaci, scelti per la loro fedeltà politica. Idem le imprese, simbolo dell’odiata borghesia “coloniale” e parassitaria, alleata dagli Usa: troppe aziende sono state consegnate ai militari, che le hanno fatte fallire. Risultato: il Pil è franato, togliendo al paese la capacità di produrre beni diversi dal petrolio. E quando il prezzo del greggio è crollato, si è spalancato il baratro. La tragedia? Ad affrontarla non c’era più il popolarissimo Chavez, ma l’incolore Maduro. Che poi, di fronte alle proteste, non ha trovato di meglio che forzare la Costituzione, sospendere la democrazia e far sparare sulla folla, salvo poi accusare gli yankee di aver strangolato il Venezuela. Chi oggi si ostina a difendere Maduro – scrive Giuseppe Angiuli, su “L’Intellettuale Dissidente” – dimostra la stessa cecità del potere imperiale neoliberista che ha fatto la guerra a Chavez fin dal primo giorno, cercando anche di deporlo con il golpe del 2002, neutralizzato dal popolo venezuelano che si strinse attorno al suo leader – l’unico che in tanti anni abbia davvero lavorato, giorno e notte, per il benessere della sua gente.Rifiutarsi di leggere con lucidità la storia recente del Venezuela, scrive Angiuli nella sua accurata ricostruzione, significa innanzitutto fare un torto ai venezuelani, oggi alla fame. Un affronto alla memoria dello stesso Chavez, strenuo difensore del suo popolo. E’ stato grande, Chavez, ma inevitabilmente imperfetto: proprio i suoi errori ottici, secondo Angiuli, hanno creato le premesse di una crisi spaventosa, che oggi – senza più il carisma e l’onestà di fondo del leader – stanno mettendo in pericolo il Venezuela. Il paese perde milioni di cittadini, ridotti a profughi. Mancano cibo e medicinali, e c’è anche il rischio concreto che le sue frontiere vengano violate da un intervento militare ispirato dagli Usa e condotto da paesi come la Colombia e l’inquietante Brasile di Bolsonaro. La domanda che sfugge, nel derby delle opposte tifoserie italiane ed europee, è la seguente: com’è possibile che sia finito nella disperazione di massa uno dei paesi virtualmente più ricchi del mondo? Quella del Venezuela è considerata la prima riserva petrolifera del pianeta: e da parte degli Usa, certamente ostili al regime chiavista, non c’è però mai stato nessun embargo del greggio venezuelano. Al contrario: proprio grazie all’export dell’oro nero, a Caracas negli ultimi vent’anni sono circolati fiumi di petrodollari. Che fine hanno fatto?All’inizio, miliardi di dollari sono serviti a finanziare il grandioso welfare ideato da Chavez per allievare le storiche sofferenze dei poveri. Ma non un soldo è stato investito nell’economia non-petrolifera. In compenso, grazie al controllo centralizzato della gestione dei cambi, è fiorito il contrabbando di valuta estera. E oggi si mangia acquistando alla borsa nera i generi alimentari che i gerarchi di Maduro – che controllano i petrodollari – fanno sparire all’ingresso del paese, prima che possano raggiungere i supermercati, dove i prezzi sarebbero calmierati per legge. Ma l’attuale tragedia del Venezuela – umanitaria, sociale, politica – non può impedire di guardare col necessario distacco (e col rispetto che merita) a quello che è stato il più clamoroso fenomeno sudamericano degli ultimi decenni: la “rivoluzione bolivariana” di Chavez, per 14 anni alla guida del paese caraibico. Un quasi-capolavoro, fondato su una scommessa di tipo socialista: nazionalizzare il petrolio per finanziare grandiosi programmi di assistenza e liberare la popolazione della piaga cronica della povertà, generata dallo spietato sfruttamento delle multinazionali occidentali.Nella sua meticolosa ricostruzione sulla crisi venezuelana pubblicata da “L’Intellettuale Dissidente”, Angiuli scrive che la morte di Chavez, nel marzo 2013, è «quasi certamente avvenuta per avvelenamento radioattivo, messo in atto da non ben identificati servizi segreti di qualche paese nemico». Magari gli Usa, che a Chavez non avevano mai perdonato il coraggio e l’indipendenza politica. O qualche entità sudamericana allineata alla Dottrina Monroe, secondo cui l’America Latina deve restare sottomessa a Washington. Il Venezuela di Chavez – poi letteralmente tradito da Maduro – ha rappresentato una grande speranza per tutto il Sud del mondo. Ma sarebbe sbagliato trasformarlo in un culto, osserva Angiuli: perché Chavez ha commesso l’errore (fatale) di basare il riscatto economico nazionale solo sul petrolio, mortificando l’industria e l’agricoltura. Ancora oggi, ridotto alla fame, il Venezuela continua a dividere: da una parte le destre neoliberiste che hanno sempre criminalizzato il chavismo fin dall’inizio, e dall’altra la vecchia sinistra terzomondista, che arriva a perdonare un dittatore come Maduro pur di non ammettere i gravi errori della politica venezuelana, che hanno messo nei guai il paese ben prima che scattasse l’accerchiamento geopolitico neoliberista che ha isolato il governo di Caracas.Il pensiero unico mainstream «tende a demonizzare alla radice l’intera vicenda del socialismo venezuelano, relegandola nell’ambito del caudillismo alla sudamericana». Per contro, gli epigoni delle residuali correnti marxiste-leniniste si erano illusi di poter finalmente riscattare, in Venezuela, «la tragica sconfitta del comunismo novecentesco», seppellito dalle macerie del Muro di Berlino. All’intera vicenda del “socialismo bolivariano” inaugurato da Hugo Chavez, Angiuli ammette di essersi accostato con emozione, sperando di trovarvi «un nuovo laboratorio politico capace di ripensare l’idea stessa e la pratica del socialismo». Angiuli è stato spesso in Venezuela, a stretto contatto con la società e con gli ambienti filogovernativi. Dopo l’entusiasmo, però, è subentrata l’amara disillusione. Beninteso: a prescindere dall’orrendo regime militare di Maduro, «resta in ogni caso intangibile – precisa Angiuli, a scanso di equivoci – il diritto del popolo venezuelano di costruire il suo futuro in condizioni di libertà, sovranità e autonomia rispetto a qualsiasi intervento di destabilizzazione esterna, a cominciare dalle esplicite minacce di invasione che ultimamente provengono dai governi dell’ultradestra insediatisi al potere delle nazioni vicine, con lo scontato supporto degli Usa che da sempre considerano quella parte del mondo come il proprio cortile di casa».Detto questo, ammette Angiuli, «è triste giungere alla conclusione di dover affermare che il socialismo venezuelano ha purtroppo tradito una buona parte dei suoi propositi, e oggi non può più costituire un modello positivo di giustizia e di benessere per i popoli oppressi di tutto il mondo». Cionondimeno, il “bolivarismo” di Chavez era partito con le migliori intenzioni. Analizzarne i difetti è indispensabile: provare a capire «cosa non ha funzionato in Venezuela» è fondamentale, per tentare di spiegarsi la drammatica situazione in cui oggi versa il paese che dette i natali al “libertador” Simon Bolivar, «un personaggio passato alla storia quale nemico giurato del colonialismo ispanico». Anche Hugo Chavez ha fatto la storia: la sua presa del potere a Caracas, a cavallo tra il 1998 e il 1999, ha simboleggiato per l’intero continente di Neruda e Garcia Marquez «la più grande sfida di discontinuità storico-politica rispetto alla lunga notte neoliberista, vissuta per alcuni decenni dall’America Latina». Micidiali le dittature militari filo-Usa degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta. Per questo, è naturale che il chavismo abbia suscitato «una grande ondata di legittime speranze fra tutti i popoli».Ex ufficiale paracadutista dell’esercito venezuelano, tradizionalmente “popolare” anche nei suoi ranghi più alti, Hugo Chavez – autore di un fallito tentativo di colpo di Stato del 1992 ai danni dell’allora presidente in carica Carlos Andres Perez – era riuscito in pochi anni a far coagulare attorno a sé «i migliori sentimenti e le aspirazioni di riscatto delle fasce sociali medio-basse del suo paese, fino a quel momento escluse dal godimento dei profitti della “Venezuela Saudita”». L’ideologia di Chavez? Un mix originale e composito, «che attinge tanto al panamericanismo di Simon Bolivar quanto all’umanesimo socialista di ispirazione massonica caro a Giuseppe Garibaldi e a Salvador Allende». Innegabili le influenze esercitate dal pensiero di Antonio Gramsci e dalla prassi rivoluzionaria di Ernesto Che Guevara e Fidel Castro. «Cuba rivoluzionaria, la piccola isola che da decenni resiste ad un crudele embargo degli Usa, per Chavez costituiva un esempio di dignità e un prototipo da emulare, soprattutto sotto il profilo dell’indipendenza nazionale e della lotta all’imperialismo a stelle e strisce». E proprio a partire dagli accordi di mutua assistenza con la Cuba di Fidel – petrolio in cambio di medici – Hugo Chavez, appena insediatosi alla presidenza, iniziò a «costruire sapientemente il suo modello di integrazione politica latinoamericana attorno ai principi generali di cooperazione, equità e solidarietà».Lo stesso Che Guevara, nei suoi scritti, aveva ben individuato la “maledizione” dei paesi dell’America Latina, «storicamente condannati a programmare le loro economie non in base ai propri bisogni interni, bensì in rapporto agli appetiti famelici dei loro paesi dominanti». Fin dall’epoca del colonialismo ispano-portoghese, gli europei avevano imposto a quei territori un modello “rentista” o monoculturale, «tutto basato sull’estrazione a costo zero di materie prime»: un “prelievo forzoso” grazie a cui sarebbero state edificate le basi dell’impero industriale e capitalistico dell’Occidente. A partire dal suo esordio, ricorda Angiuli, «uno dei principali meriti politici di Hugo Chavez è stato quello di sottrarre il controllo dell’oro nero del Venezuela a quella ristretta borghesia “compradora” fortemente compromessa col capitalismo a stelle e strisce». Una borghesia che «per decenni, dopo essersi appropriata della rendita petrolifera, era stata abituata a delocalizzare sistematicamente i suoi profitti a Miami, umiliando il paese estrattore con delle infime royalties e con dei contratti-capestro». Fino a quel momento, gli immensi giacimenti petroliferi non avevano mai consentito al Venezuela di trarre risorse per investimenti sociali. A questo ha provveduto proprio Chavez, all’inizio del suo mandato, con una nossa clamorosa: nazionalizzare la compagnia petrolifera Pdvsa, per poi tenere alto il prezzo del greggio premendo sull’Opec – insieme all’Iraq di Saddam e alla Libia di Gheddafi – al fine di contenere i volumi di estrazione.Destinare la rendita petrolifera alla spesa assistenziale finalizzata ad appianare le gravi diseguaglianze sociali del suo popolo – prosegue Angiuli – ha costituito indubbiamente l’atto più rivoluzionario compiuto da Hugo Chavez. Interventi imponenti, per garantire servizi sanitari anche nei “barrios” più poveri e alfabetizzare milioni di venezuelani, compresi i gruppi indigeni. Diritti: la nuova Costituzione varata da Chavez nel 1999 «contiene sulla carta alcuni principi inediti che possono fare da insegnamento anche alle democrazie più avanzate». E’ fondata su una netta separazione fra i poteri e contempla molteplici strumenti di democrazia diretta: c’è anche l’istituto del “referendum revocatorio”, che consente perfino di far dimettere il presidente a metà mandato, mediante una consultazione popolare indetta dal basso. La nuova Carta, poi, decreta l’intangibilità di Madre Natura quale soggetto titolare di diritti. E in più tutela l’identità etnoculturale delle comunità dei nativi amerindi, «facendosi così portatrice di un generale messaggio di rinascita dell’orgoglio indigeno», dopo secoli di sottomissione ai “conquistadores” e ai “gringos”.Il primo decennio del chavismo, riconosce Giuseppe Angiuli, è stato contrassegnato «da un risveglio delle coscienze del popolo venezuelano e da una straordinaria voglia di partecipare a riscrivere la storia del proprio paese da parte di milioni di persone, fino ad allora del tutto escluse dalla scena politica e incapaci perfino di intendere lo stesso concetto di cittadinanza». Solo gli osservatori più prevenuti, sottolinea l’analista, possono avere finto di non accorgersi della reale genuinità che ha connotato i primi anni del processo politico “bolivariano”, contraddistinti da un fermento rivoluzionario autentico, addirittura emozionante. E contro l’imperialismo mercantile “yankee”, Chavez s’è mosso anche a livello geopolitico: ha dato vita all’Alba (Alianza Bolivariana para los pueblos de nuestra America), reclutando Cuba, la Bolivia del leader sindacale Evo Morales, l’Ecuador dell’economista Rafael Correa, il Nicaragua sandinista, l’Honduras di Manuel Zelaya e vari piccoli Stati insulari caraibici. Checché ne dicessero i media occidentali, sottolinea Angiuli, il governo di Chavez – fino alla sua rielezione nel 2012 – è sempre stato largamente supportato dal popolo venezuelano. Ma oggi, ribadisce, il Venezuela non sarebbe in crisi nera, se lo stesso Chavez non avesse commesso clamorose ingenuità sul piano economico.Dopo aver distribuito soldi a pioggia per «contrastare la povertà più estrema di una parte significativa della popolazione», il chavismo ha mancato l’appuntamento con lo sviluppo, nonostante la felice congiuntura petrolifera, col prezzo del barile rimasto sopra gli 80 dollari fino al novembre 2014. Nonostante il fiume di valuta forte, piovuto su Caracas per almeno un decennio, il governo «non ha mai messo in campo alcuna seria misura per provare a debellare il vero cancro comune a tutti quei paesi la cui economia, come quella del Venezuela, si basa su un modello “rentista”», ovvero: «La dipendenza dalla estrazione della materia prima quale unica risorsa del proprio modello di sviluppo». Nonostante i tanti proclami, non è mai riuscito a diversificare le attività produttive: anzi, i governi chavisti hanno attuato «una massiccia politica di disincentivo al lavoro delle piccole e medie imprese», determinando così una contrazione drammatica del Pil, in quei settori, «con la conseguenza che la classe media è progressivamente scomparsa». Paradossale: «Oggi i venezuelani conducono in media un tenore di vita clamorosamente più basso di quello che si ricordi anche negli anni più bui della notte neoliberista dell’America Latina». E scontano «una diffusa scarsità di prodotti di prima necessità che oggi forse non si riscontra nemmeno a Cuba, paese ininterrottamente sotto embargo da più di mezzo secolo».Pessimo il bilancio dall’agricoltura: buona l’idea di una riforma agraria per smantellare i latifondi improduttivi. Ma poi è subentrata «una deriva ideologica di tipo estremistico velleitario, che ha condotto ad una espropriazione generalizzata delle terre anche di media dimensione». Terre assegnate «a improvvisate cooperative di lavoratori che non si sono mai realmente dimostrate all’altezza del loro compito», e con incarichi direzionali «troppo spesso affidati obbedendo unicamente a meri criteri di fedeltà politica». Risultato: la produzione agricola è crollata, ricorda Angiuli, persino per i più tipici prodotti alla base della dieta venezuelana: riso e farina di mais, frutta e verdura, polli d’allevamento, uova e caffè. Stessa sorte ha colpito l’industria: «Una analoga degenerazione demagogica del chavismo, nel segno del collettivismo spinto – scrive Angiuli – ha condotto negli anni a una diffusa e capillare occupazione delle fabbriche», da parte di «settori disinvolti delle forze armate». I militari, «arrogandosi il diritto di agire sempre e comunque nell’interesse del “pueblo” e contro l’odiata borghesia nazionale», si sono spesso impadroniti «con modalità arbitrarie e violente» dei mezzi di produzione, «lasciandoli cadere quasi sempre e molto presto in malora e facendo così crollare la produzione anche in quei settori nei quali – prima del chavismo – il Venezuela riusciva tranquillamente a soddisfare il suo fabbisogno interno, raggiungendo perfino l’obiettivo di esportare una discreta quantità di merci all’estero: ferro, acciaio, automobili, caffè».L’aspetto più inquietante di questo fallimento economico di dimensioni catastrofiche, scrive Angiuli, non risiede neppure nella pianificazione centralistica stile Urss e Cina maoista: il paradosso sta nella pessima gestione dell’oceano di petrodollari. Fino al 2013, il petrolio rappresentava ancora il 95% dell’export. Anziché sfruttare quell’enorme massa di denaro per rendere il Venezuela più autonomo economicamente, i governi socialisti «hanno finito per accentuare oltre ogni limite il tradizionale carattere “rentista” dell’economia venezuelana, legandone le sorti in modo irreversibile alla ciclicità dell’andamento del prezzo degli idrocarburi». Gli effetti di questa politica sono esplosi a partire dal 2015, con il crollo della quotazione del greggio: di colpo, il Venezuela ha incassato meno soldi, sia per il welfare che per pagare l’enorme volume di importazioni, cresciuto negli anni col progressivo calo della produzione interna di beni primari. Risultato: «La scarsità di prodotti sugli scaffali dei supermercati si è manifestata in modo crescente e irrimediabile». Ecco perché, osserva Angiuli, sta semplicemente mentendo, Maduro, quando si sforza ogni giorno di attribuire l’odierna crisi alla guerra economica orchestrata dall’odiato imperialismo yankee. Le sanzioni americane – varate da Obama e inasprite da Trump – non bastano a spiegare la catastrofica penuria di generi di prima necessità.Le stesse sanzioni, peraltro, non hanno impedito alle grandi banche d’affari statunitensi, prima fra tutte la Goldman Sachs, di investire copiose somme nell’acquisto di buoni obbligazionari emessi dalla compagnia petrolifera Pdvsa: «Un elemento che smaschera tanto l’ipocrisia del capitalismo a stelle e strisce quanto quella della retorica antimperialista così tanto sbandierata dal governo di Caracas». Inoltre, sebbene Trump abbia proibito nel 2018 l’acquisto di titoli del colosso petrolifero venezuelano, «nessun embargo commerciale petrolifero è mai stato decretato da Washington verso Caracas». Lo confermano i numeri delle esportazioni, che ora – non a caso – Maduro ha addirittura proibito di diffondere, roprio per non compromettere il suo vittimismo retorico che attribuisce al nemico imperialista la causa di ogni male. L’altra verità che Maduro nasconde, continua Angiuli, è che il suo Venezuela ha affidato a una ristretta oligarchia – società riconducibili all’establishment militare – l’intera gestione del cambio dei dollari necessari per accedere al mercato delle importazioni di beni dall’estero. Sono questi privilegiati ad accedere ai dollari, e in modo truffaldino, cioè con un cambio alterato sopravvalutando il bolivar: se la moneta venezuelana era stimata 1.000 a 1, rispetto al dollaro, l’élite governativa monopolista ha invece intascato 10 bolivar per ogni dollaro destinato ad acquistare beni dall’estero.Una volta che gli importatori della ristretta cerchia governativa hanno acquisito i dollari ad un cambio preferenziale e privilegiato, quella valuta forte, «ufficialmente necessaria per pagare le merci che si dovrebbero importare dall’estero», ha finito in realtà per alimentare «un circuito vorticoso e perverso, con cui gli stessi importatori filogovernativi sono troppo spesso riusciti ad occultare clandestinamente sia la valuta che le stesse merci importate». Una colossale frode valutaria, insomma, «che ogni giorno sottrae ricchezza al paese caraibico», e oggi costringe i venezuelani a lasciare le loro case. Elementare: «Se la moneta venezuelana viene scambiata sui mercati ad un valore reale spesso anche di 100 volte inferiore a quello con cui viene scambiata dagli organismi governativi, tutti coloro i quali sono nelle condizioni di mettere le mani sulla rendita petrolifera, una volta ottenuti i dollari col sistema del cambio preferenziale, ne investono effettivamente solo una parte nell’attività di importazione». E al contempo, aiutandosi con sovrafatturazioni fittizie (di merci mai effettivamente acquistate) occultano facilmente grandi quantità di valuta forte, trasferendole dei paradisi fiscali, «ovvero alimentando il mercato nero del dollaro all’interno degli stessi confini del Venezuela». Lo si capisce già all’aeroporto, appena si sbarca a Caracas: si viene assaliti da “agenti del cambio in nero” che offrono disinvoltamente i bolivar in cambio di dollari (o euro) secondo un rapporto di cambio molto distante da quello ufficiale.Per questo, aggiunge Angiuli, da quando si è diffusa la pratica governativa di sopravvalutare artificiosamente il bolivar, «il traffico di valuta è diventato di gran lunga il business più redditizio per chiunque riesca a venire in possesso di una certa quota della rendita petrolifera incamerata dal Venezuela». Negli anni, il fenomeno ha acquisito dimensioni impressionanti e incontrollabili. E il suo principale effetto nefasto sull’economia del paese è il generale disincentivo verso l’avvio di qualsiasi genere di attività produttiva. L’ex ministro per la pianificazione economica Jorge Giordani, grande amico di Chavez (dimessosi nel 2014 da ogni incarico governativo in polemica con Maduro) ha pubblicamente denunciato il furto, attraverso questo meccanismo fraudolento, di qualcosa come 25 miliardi di dollari dall’organismo governativo addetto alle operazioni di cambio su larga scala. E oltre al mercato nero di valuta, c’è anche la piaga che colpisce gli approvvigionamenti: il cibo, i medicinali e i prodotti manifatturieri che dovrebbero entrare in Venezuela a prezzo calmierato vengono in gran parte intercettati e rivenduti clandestinamente. Borsa nera: «Un formidabile, gigantesco contrabbando di merci vendute al mercato nero a prezzi molto più alti di quelli che il governo si sforza inutilmente di imporre nelle catene dei supermercati popolari», nei quali ormai scarseggia di tutto, dallo shampoo al dentifricio, dal sapone alla carta igienica.Giuseppe Angiuli lo descrive come «il disastro di una economia nazionale ormai strutturalmente e capillarmente fondata sul malaffare, sulla frode valutaria e sulla speculazione parassitaria, con un sistema di complicità e protezioni che purtroppo investe anche le sfere più alte del potere centrale». A questo si aggiunge l’iper-inflazione scatenata irresponsabilmente dalla banca centrale del Venezuela, «ricorsa in questi anni in misura sempre più massiccia alla stampa di cartamoneta priva di ogni copertura e valore reale». Tra il 1999 e il 2016, la massa monetaria circolante nel paese è cresciuta di circa il 33.000%. Inflazione folle: nel 2017 si è attestata al’830%, per poi raggiungere l’anno seguente il 4.684,3 percento, vero e proprio record mondiale. Secondo il Fmi, si viaggia ormai verso il “milione per cento” su base annua. Una catastrofe: paralisi economico-produttiva, l’iper-inflazione, crollo del valore reale dei salari. Generale impossibilità di procurarsi da vivere lavorando. Collasso del sistema sanitario nazionale, scarsità di viveri e medicinali, drammatico aumento della mortalità neonatale e della denutrizione infantile. Tutto questo sta oggi facendo vivere al Venezuela «un esodo di proporzioni bibliche dei suoi cittadini verso l’estero, come non si era mai visto nella storia recente del paese».Un fallimento così apocalittico, osserva Angiuli, avrebbe dovuto obbligare da tempo il governo Maduro ad adottare misure radicali, in forte discontinuità rispetto alle politiche suicide fin qui condotte. Di fronte all’esperazione popolare, sfociata in drammatiche proteste, Maduro ha risposto violando la Costituzione, truccando le elezioni e ordinando all’esercito di sparare sulla folla. Hugo Chavez non l’avrebbe mai fatto. Anzi: il “comandante” accettò lealmente il verdetto del referendum perduto, attraverso cui i venezuelani avevano bocciato la sua proposta di riforma costituzionale in senso presidenzialista. Maduro è solo, spelleggiato esclusivamente dai militari. Diversi dirigenti chavisti storici della prima ora – come l’ex ministro dell’ambiente Ana Elisa Osorio, l’ex ministro dell’economia Jorge Giordani, lo storico presidente della Pdvsa Rafael Ramirez e l’ex procuratrice generale Luisa Ortega Diaz – sono stati delegittimati ed emarginati. Qualcuno è riparato all’estero «per sottrarsi alla furia vendicatrice della cricca di potere vicina a Maduro».Non sappiamo quale futuro attende il Venezuela, conclude Angiuli, ma dopo vent’anni di chavismo «i risultati dell’economia del paese parlano un linguaggio implacabile, che non ammette repliche». Un fallimento di dimensioni così catastrofiche dimostra «l’evidente sconfitta politica del gruppo dirigente cresciuto all’ombra di Chavez, che non si è dimostrato all’altezza dei propri compiti storici». I meriti dell’azione ispiratrice dei primi anni del chavismo «andrebbero rivalorizzati e recuperati», ripensando le radici dottrinali del socialismo “bolivariano”, «che andrebbero rinforzate e vivificate». Attenzione: a livello geopolitico, il Venezuela resta «un attore decisivo per la possibile formazione di un nuovo mondo multipolare». E infatti, sottolinea Angiuli, «attorno alla tenuta dell’indipendenza del paese da eventuali aggressioni militari esterne si gioca gran parte del suo futuro». Certo, la catastrofe sociale potrebbe sfociare in esiti terribili. E se il Venezuela «dovesse progressivamente subire delle aggressioni militari da parte degli Usa o di paesi vicini governati dall’ultradestra, come la Colombia o il Brasile», secondo Angiuli occorrerà battersi «a difesa della sacrosanta intangibilità dei suoi confini e della sua legittima sovranità». Quello che non serve, per aiutare il Venezuela a uscire dall’incubo, è continuare a «fornire un sostegno acritico e fideistico al governo di Maduro». Meglio rileggere con onestà la grande storia di Hugo Chavez e anche i suoi limiti, onde avviare al più presto «quegli interventi indifferibili e vitali che il popolo venezuelano si attende, e di cui oggi non può più fare a meno».Hugo Chavez è stato assassinato: la notizia è pressoché certa. Poi ci ha pensato l’indegno Maduro, a “terminare” il Venezuela. Ma non da solo: è stato aiutato, nell’opera di devastazione del paese, dai vizi capitali del “bolivarismo” venezuelano. La giusta crociata contro il latifondo ha finito per affidare le terre a cooperative gestite da incapaci, scelti per la loro fedeltà politica. Idem le imprese, simbolo dell’odiata borghesia “coloniale” e parassitaria, alleata dagli Usa: troppe aziende sono state consegnate ai militari, che le hanno fatte fallire. Risultato: il paese ha perso la capacità di produrre beni diversi dal petrolio. E quando il prezzo del greggio è crollato, si è spalancato il baratro. La tragedia? Ad affrontarla non c’era più il popolarissimo Chavez, ma l’incolore Maduro. Che poi, di fronte alle proteste, non ha trovato di meglio che forzare la Costituzione, sospendere la democrazia e far sparare sulla folla, salvo poi accusare gli yankee di aver strangolato il Venezuela. Chi oggi si ostina a difendere Maduro – scrive Giuseppe Angiuli, su “L’Intellettuale Dissidente” – dimostra la stessa cecità del potere imperiale neoliberista che ha fatto la guerra a Chavez fin dal primo giorno, cercando anche di deporlo con il golpe del 2002, neutralizzato dal popolo venezuelano che si strinse attorno al suo leader – l’unico che in tanti anni abbia davvero lavorato, giorno e notte, per il benessere della sua gente.
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Come il golpista Maduro ha calpestato l’eredità di Chavez
Dopo la morte di Hugo Chavez, avvenuta nel marzo del 2013, tra le fila del Suv, Partito Socialista Unido del Venezuela, si è molto presto diffusa la consapevolezza della debolezza della leadership politica di Nicolas Maduro e del quasi subitaneo calo di consensi del gruppo dirigente chavista rimasto orfano del suo capo. La bassa popolarità di Maduro si manifestava già nelle elezioni presidenziali celebrate nello stesso anno della morte di Chavez quando, nonostante la generale ondata di commozione dovuta alla recente dipartita del “comandante en jefe eterno della revolucion bolivariana”, il suo successore designato riusciva a stento a affermarsi alle urne con uno scarto di appena 224.000 voti sul suo avversario Enrique Capriles Radonski. La forte polarizzazione dell’elettorato del paese aveva contraddistinto l’intera storia recente del Venezuela ma, con l’elezione dell’Assemblea Nazionale tenutasi il 6 dicembre 2015, si verificava il primo è vero tracollo del chavismo e un ribaltamento degli umori dell’elettorato di dimensioni sorprendenti. In quella circostanza infatti le opposizioni di centrodestra riunite nella Mod, Mesa de Unitad Democratica, conquistavano la maggioranza assoluta del Parlamento di Caracas con ben 109 deputati, in luogo dei soli 55 eletti dal partito ufficialista alla guida del paese.A partire da quel momento, la compagine madurista, resasi consapevole del crollo vertiginoso di consensi nel paese, si è sempre più arroccata in una gestione autoreferenziale del potere esecutivo, rompendo il patto costituzionale col popolo venezuelano e con le opposizioni e lanciando una campagna di epurazioni di stampo staliniano nei confronti di qualsiasi voce critica si sia levata tanto nell’area di governo quanto nella stessa opinione pubblica venezuelana. Diversi dirigenti chavisti storici della prima ora, fra cui spiccano i nomi dell’ex ministro dell’ambiente Ana Elisa Osorio, dell’ex ministro per la pianificazione economica Jorge Giordani, dello storico presidente della Pdvsa Rafael Ramirez e quello della ex procuratrice generale Luisa Ortega Diaz, sono stati delegittimati dalle loro rispettive funzioni con modalità alquanto eclatanti, e in alcuni casi gli stessi dirigenti storici un tempo vicinissimi a Hugo Chavez oggi sono stati costretti a trovare riparo all’estero per sottrarsi alla furia vendicatrice della cricca di potere vicina a Maduro.L’involuzione autoritaria del madurismo si è percepita in tutta la sua nettezza nel 2016, quando il governo ha iniziato arbitrariamente a restringere molti spazi di pluralismo democratico nel paese ed ha avviato un’azione di sabotaggio sistematico di qualsiasi istituzione politica gli facesse da contrappeso, violando così in modo palese lo spirito e la lettera della Carta costituzionale approvata nel 1999, che fa della diversificazione e separazione dei poteri il suo elemento maggiormente democratico e innovativo. In particolare Nicolas Maduro ha manifestato la sua evidente paura di confrontarsi direttamente con l’elettorato quando ha sabotato con dei cavilli il referendum revocatorio sulla figura di presidente, un processo di consultazione previsto dalla Costituzione venezuelana e col quale lo stesso Chavez non aveva avuto alcun timore di misurarsi, uscendone vincitore alla grande nell’anno 2005. Inoltre, sempre nel 2016 il governo, per paura di subire una ulteriore bocciatura nelle urne, con motivi pretestuosi ha deciso di rinviare sine die l’elezione dei governatori degli Stati in cui è amministrativamente ripartito il Venezuela.Uno dei più gravi atti di rottura del patto costituzionale, in violazione del principio sulla separazione dei poteri, con cui lo stesso governo ha confermato la sua inequivocabile intenzione di non volere più avere alcun rispetto della volontà popolare, si è avuto nel marzo del 2017, quando il Tribunale Supremo di Giustizia, un organismo politicamente contiguo a Maduro, con un colpo di mano ha provato ad avocare a sé le prerogative della Assemblea Nazionale controllata dalle opposizioni, disconoscendo di fatto il carattere cogente delle leggi approvate dal Parlamento e aprendo così un conflitto politico istituzionale di difficilissima soluzione. Quest’ultimo atto, oggettivamente eversivo dell’ordine costituzionale, ha rappresentato un grave segno di debolezza del campo madurista. E ha avviato una fase di scontro durissimo per le strade e nelle piazze delle principali città del Venezuela, dove migliaia di oppositori e di cittadini comuni, accettando a loro modo la sfida del potere esecutivo, hanno fatto sentire la loro protesta assaltando palazzi pubblici e ricorrendo a forme anche estreme e violente di disobbedienza civile, come la creazione capillare di blocchi stradali e barricate in diverse zone del paese.Da quel momento in poi, la repressione degli apparati di sicurezza governativi, a partire dalla Guardia Nacional Bolivariana, è stata durissima e non ha risparmiato alcun mezzo di coercizione, ivi inclusi gli arresti arbitrari di oppositori, la violenza su semplici manifestanti inermi e il funzionamento di tribunali speciali militari per sanzionare reati a sfondo politico. Nella fase culminante delle proteste, estate 2017, per il loro carattere particolarmente aggressivo si sono fatti notare i cosiddetti “colectivos”, gruppi motorizzati di paramilitari contigui alla criminalità organizzata attiva nelle grandi concentrazioni urbane, i quali sembrano avere stipulato un patto di fiducia col governo al fine di esercitare in suo nome il controllo del territorio nelle zone più calde del paese, specie all’interno di quei “barrios” cittadini in cui è maggiore il rischio che possa montare da un momento all’altro la protesta popolare per il carovita.Sempre nel 2017 Nicolas Maduro, al fine di provare a sottrarre definitivamente il potere legislativo al Parlamento eletto nel 2015 e in cui il suo partito è in minoranza, ha fatto insediare un inconsueta Assemblea Costituente, eletta con modalità e criteri palesemente antidemocratici. E a partire da quel momento il conflitto con le opposizioni ha assunto una portata irreversibile e non più sanabile. La scelta inattesa di convocare questa Assemblea Costituente è apparsa a molti come uno sfacciato escamotage a cui è ricorso il madurismo per paralizzare le funzioni del Parlamento, sostituendolo con una nuova assemblea composta unicamente dai suoi sodali. Peraltro, nel paese, fino ad allora non si era mai avvertita alcuna esigenza di riscrivere le norme della ancora giovane Carta Costituzionale del 1999, definita dagli stessi chavisti come “la Costituzione più bella del mondo”.Dopo l’insediamento di questa contestata assemblea costituente, la cui legittimità non è stata riconosciuta dalle opposizioni, Maduro ha poi scelto di giocare d’anticipo sulla sua rielezione alla presidenza del paese. E così, ormai certo di aver assunto il totale controllo politico della nazione, ha convocato delle nuove elezioni presidenziali svoltesi il 21 maggio 2018 e celebrate addirittura con diversi mesi di anticipo rispetto alla naturale scadenza del suo mandato. E dopo che il Tribunale Supremo Elettorale ha bloccato la partecipazione alle elezioni presidenziali di alcuni fra i candidati maggiormente in grado di insidiare Maduro, la sua scontata rielezione ha assunto il sapore di una farsa, visto l’aperto sabotaggio della competizione deciso dei principali partiti di opposizione e vista la conseguente bassissima partecipazione dell’elettorato. In questo contesto di serio indebolimento dell’immagine e del prestigio internazionale del paese, il 10 gennaio 2019 Maduro ha infine prestato giuramento entrando ufficialmente nel suo secondo mandato presidenziale.(Giuseppe Angiuli, estratto da “La triste parabola del socialismo bolivariano – II”, analisi pubblicata da “L’Intellettuale Dissidente” il 26 gennaio 2019. Osservatore privilegiato dell’attualità venezuelata, Angiuli è stato un sincero estimatore della geuinità autenticamente popolare della rivoluzione di Hugo Chavez, tenacemente osteggiata dall’Occidente).Dopo la morte di Hugo Chavez, avvenuta nel marzo del 2013, tra le fila del Suv, Partito Socialista Unido del Venezuela, si è molto presto diffusa la consapevolezza della debolezza della leadership politica di Nicolas Maduro e del quasi subitaneo calo di consensi del gruppo dirigente chavista rimasto orfano del suo capo. La bassa popolarità di Maduro si manifestava già nelle elezioni presidenziali celebrate nello stesso anno della morte di Chavez quando, nonostante la generale ondata di commozione dovuta alla recente dipartita del “comandante en jefe eterno della revolucion bolivariana”, il suo successore designato riusciva a stento a affermarsi alle urne con uno scarto di appena 224.000 voti sul suo avversario Enrique Capriles Radonski. La forte polarizzazione dell’elettorato del paese aveva contraddistinto l’intera storia recente del Venezuela ma, con l’elezione dell’Assemblea Nazionale tenutasi il 6 dicembre 2015, si verificava il primo è vero tracollo del chavismo e un ribaltamento degli umori dell’elettorato di dimensioni sorprendenti. In quella circostanza infatti le opposizioni di centrodestra riunite nella Mod, Mesa de Unitad Democratica, conquistavano la maggioranza assoluta del Parlamento di Caracas con ben 109 deputati, in luogo dei soli 55 eletti dal partito ufficialista alla guida del paese.
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Patto franco-tedesco, Magaldi: minacciamoli di lasciare l’Ue
«Il governo gialloverde non fa paura a nessuno, in Europa: abbaia, ma non morde. Ecco perché l’oligarchia europea non ha alcun interesse a farlo cadere, men che meno per instaurare un esecutivo “tecnico” come quello di Monti, oggi improponibile all’elettorato italiano». Secondo Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, l’allarme lanciato da Gianfranco Carpeoro (Cottarelli al posto di Conte, in attesa di Draghi) ha un significato «sottilmente apotropaico», quello cioè di evocare un pericolo – l’ennesimo complotto – proprio allo scopo di scongiurarlo, “bruciandolo”. Per Magaldi, in fondo, la realtà è persino peggiore di quella tratteggiata da Carpeoro: perché «gli spaventapasseri Di Maio e Salvini non hanno nemmeno saputo approfittare della rivolta francese dei Gilet Gialli per pretendere, come avrebbero dovuto, il rispetto delle legittime istanze del governo italiano». Mazziati e cornuti, ma senza ammetterlo: «Bravi ad alzare la voce sui migranti e magari su Battisti, e invece zitti di fronte ai diktat della Commissione Europea», peraltro dominata da due paesi – Germania e Francia – che adesso, con lo scandaloso Trattato di Aquisgrana, «rifilano un ceffone plateale a tutti i cantori, anche italiani, della mitica Unione Europea, finora in realtà mai esistita e mai davvero nata».Chiamiamola Disunione Europea: è una cupola di oligarchi affaristi, impegnati a svuotare le nostre democrazie impoverendo i popoli. Di fronte a questo, «l’Italia dovrebbe minacciare di sospendere la vigenza dei trattati europei». Il dado è tratto, avverte Magaldi: ormai, i gruppi di potere (privatistici) che sostengono la Merkel e Macron hanno gettato la maschera. «Odiano a tal punto la democrazia, da stipulare un accordo smaccatamente egoistico, in danno degli altri paesi europei». Oltre all’incredibile “Consiglio dei ministri congiunto, franco-tedesco”, c’è anche «la barzelletta dei “due sederi” che si alternerebbero al seggio, attualmente solo francese, del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite». Parigi è disposta a cedere il 50% di quella poltrona a Berlino? «Curioso: da Francia e Germania, non una parola sul penoso stato in cui è ridotta l’Onu, ormai incapace di far rispettare i diritti umani nel mondo». Quanto alla Francia, «persino Di Maio, meglio tardi che mai, si è premurato di ricordare l’incredibile atteggiamento predatorio e neo-coloniale che i francesi impongono a 14 paesi africani, quelli da cui provengono molti dei migranti diretti in Italia, su cui poi il signor Macron si permette di fare lo spiritoso».Una denuncia che il presidente del Movimento Roosevelt anticipa in una video-chat su YouTube con Marco Moiso, ribadendola poi nel web-streaming con Fabio Frabetti di “Border Nights”: l’Italia, semplicemente, non può accettare che una cricca di faccendieri oligopolisti decida – per giunta, parlando a nome del popolo tedesco e di quello francese – di prendere a calci i partner europei per tentare di ipotecare all’infinito il loro potere, finora affidato ai burattini Merkel e Macron. La verità è un’altra: la cancelliera è al tramonto, mentre l’Eliseo è assediato dalla rivolta di strada: 8 francesi su 10 voterebbero contro l’attuale presidente. E in queste condizioni i governi di Francia e Germania pensano di poter dichiarare guerra, impunemente, al resto d’Europa? I fatti potrebbero dar loro ragione, commenta Magaldi con amarezza, solo se il governo italiano continuasse la sua indecorosa manfrina: proclami altisonanti, per poi lasciarsi regolarmente umiliare. Sembra proprio che tutto sia cominciato il 27 maggio 2018, quando Lega e 5 Stelle hanno accettato di subire il “niet” di Mattarella sull’incarico a Paolo Savona come ministro dell’economia.Da lì in poi, gli oligarchi devono aver capito che il nascituro governo gialloverde si sarebbe rassegnato a ingoiare qualsiasi rospo, rinunciando alle grandi promesse della campagna elettorale: reddito di cittadinanza, Flat Tax, rottamazione della legge Fornero sulle pensioni. Per invertire la rotta e bocciare l’Europa del rigore serviva un deficit di almeno il 4%, capace di stimolare l’economia già nel 2019. Ma l’esecutivo Conte non è andato oltre la proposta del 2,4%, restando al di sotto della soglia (artificiosa, ideologica e dannosa) sancita dal famoso 3% di Maastricht. Salvo poi perdere definitivamente la faccia, facendosi limare un altro mezzo punto di deficit, sotto la minaccia della procedura d’infrazione. Risultato: accorciata ulteriormente la coperta, tutte le promesse gialloverdi sono evaporate. L’irrisorio reddito grillino appare condizionato da intricatissimi vincoli burocratici, mentre la riforma delle pensioni (quota 100) è ridotta a puro ecloplasma. E non s’è vista nessuna vera riduzione del carico fiscale. Anche per questo, dice Magaldi, i gialloverdi alzano il volume su questioni secondarie e irrilevanti, come l’arresto di Cesare Battisti, estradato solo perché in Brasile è salito al potere l’imbarazzante Bolsonaro.Un avviso a Salvini: non basta cambiare felpa, tutti i giorni, per nascondere la bancarotta politica del “governo del cambiamento”, che si sta rivelando una colossale presa in giro. «Che bisogno c’è di farlo cadere, un governo così docile? E’ perfetto, per lasciare tutto com’è». Con in più il vantaggio di dare agli italiani, per ora, l’illusione di un’inversione di rotta. «Ma attenzione: le cose possono cambiare in tempi rapidissimi». Se n’è accorto Matteo Renzi, «altro campione di chiacchiere», passato in pochi mesi dal 40% al ruolo di profugo politico. Anche per questo, sottolinea Magaldi, è necessario dare fiato a una nuova prospettiva, quella del “partito che serve all’Italia”, i cui promotori – tra cui Ilaria Bifarini, Nino Galloni e Antonio Maria Rinaldi – torneranno a riunirsi a Roma il 10 febbraio. Orizzonte: costruire un vero Piano-B per uscire dall’autismo dell’Europa degli oligarchi. Se ne parlerà anche a Londra il 30 marzo, in un forum sull’economia europea indetto dal Movimento Roosevelt, al quale parteciperanno personalità come Guido Grossi, già supermanager Bnl.E’ il momento di parlar chiaro, ribadisce Magaldi: oggi, l’Italia ha il dovere di convocare i partner europei – Francia e Germania in testa – per obbligarli a riscrivere le regole dell’Unione. Ovvero: una Costituzione democratica e un governo continentale finalmente eletto dal Parlamento Europeo, espressione diretta degli elettori. E quindi: una politica economica unitaria, la fine dello spread, il sostegno al debito mediante gli eurobond. Addio al Trattato di Maastricht e al suo ignobile 3%. O si disegna un New Deal, come invocato dallo stesso Savona nel suo discorso al Senato, o l’Europa è morta. E se Parigi e Berlino pensano di fare da sole, a maggior ragione: l’Italia le fermi. «Dica chiaramente, il nostro governo, che se la linea è quella del Trattato di Aquisgrana, il nostro paese sospende la vigenza di tutti i trattati europei». In questo modo, aggiunge Magaldi, l’Italia parlerebbe anche a nome degli altri partner Ue, esercitando un ruolo autorevole: «Un governo italiano realmente europeista, che denunciasse come anti-europeisti i difensori di questa Europa così com’è, dovrebbe dire a tutti gli altri partner che è giunta l’ora di sciogliere il patto».E questo, peraltro, «vorrebbe dire assumersi la leadership di un processo di riconversione democratica dell’Europa». Se invece Francia e Germania rifiutassero di ascoltare l’Italia, a quel punto «l’eventuale uscita dai trattati avrebbe ben altra legittimazione, anche internazionale». Certo, aggiunge Magaldi, lo schiaffo franco-tedesco deve bruciare soprattutto sulle guance «di tutti quegli imbecilli, anche italiani», che hanno fatto del mantra “ce lo chiede l’Europa” un dogma di fede, «credendo che il sogno europeo dovesse passare per l’imposizione di una governance post-democratica». Una sonora lezione anche per i velleitari “eroi” del nuovo sovranismo, ambigua bandiera «da sventolare in campagna elettorale, per poi ammainarla una volta al governo». Prendete Salvini: la sua ipotetica alleanza tra nazionalismi contava soprattutto su Ungheria e Polonia, «cioè proprio i due paesi che, per primi, hanno bocciato la manovra del governo Conte».Per Magaldi, in sostanza, «dobbiamo essere abili, e anche leali verso gli altri popoli europei». Illusorio rifugiarsi entro i confini nazionali: chi rimpiange l’Italia della lira, che stava certamente assai meglio di quella dell’euro, «dimentica sempre di ricordare che il nostro paese beneficiava innanzitutto del supporto internazionale degli Usa». Ovvero: «Con gli “assi” fondati sugli egoismi nazionali non si va da nessuna parte: fare da soli è impossibile, in un mondo sempre più interconnesso. E qualunque idea di una nazione isolata che possa resistere all’urto dei poteri globali è pura follia». L’alternativa? Semplice, in teoria: «Per contrastare le reti sovranazionali private, cementate da interessi inconfessabili, bisogna costruire reti sovranazionali pubbliche e finalmente democratiche». L’Italia di eri – fino a Monti, Letta, Renzi e Gentiloni – era «subalterna, imbelle e servile». Quella di oggi, gialloverde, preferisce «il piagnisteo velleitario, i proclami muscolari a cui poi non seguono i fatti». Serve un’altra Italia, «sovrana e democratica, orgogliosa di sé», capace di alzarsi in piedi e proporre la democrazia come modello imprescindibile, «non solo in Europa ma anche alle Nazioni Unite».«Il governo gialloverde non fa paura a nessuno, in Europa: abbaia, ma non morde. Ecco perché l’oligarchia europea non ha alcun interesse a farlo cadere, men che meno per instaurare un esecutivo “tecnico” come quello di Monti, oggi improponibile all’elettorato italiano». Secondo Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, l’allarme lanciato da Gianfranco Carpeoro (Cottarelli al posto di Conte, in attesa di Draghi) ha un significato «sottilmente apotropaico», quello cioè di evocare un pericolo – l’ennesimo complotto – proprio allo scopo di scongiurarlo, “bruciandolo”. Per Magaldi, in fondo, la realtà è persino peggiore di quella tratteggiata da Carpeoro: perché «gli spaventapasseri Di Maio e Salvini non hanno nemmeno saputo approfittare della rivolta francese dei Gilet Gialli per pretendere, come avrebbero dovuto, il rispetto delle legittime istanze del governo italiano». Mazziati e cornuti, ma senza ammetterlo: «Bravi ad alzare la voce sui migranti e magari su Battisti, e invece zitti di fronte ai diktat della Commissione Europea», peraltro dominata da due paesi – Germania e Francia – che adesso, con lo scandaloso Trattato di Aquisgrana, «rifilano un ceffone plateale a tutti i cantori, anche italiani, della mitica Unione Europea, finora in realtà mai esistita e mai davvero nata».
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Massoni al governo e corruzione a Roma, Di Maio dov’era?
Giù la maschera, caro Di Maio: quello presieduto da Giuseppe Conte è «un governo ad alta densità massonica», sia pure «di segno progressista». Ma il “contratto” di governo non si impegnava a tener fuori i “grembiulini” dai ministeri? «Se non si sbrigano a rimuovere quella norma ipocrita e incostituzionale – avverte Gioele Magaldi, gran maestro del Grande Oriente Democratico – perderemo la pazienza e saremo noi a fare i nomi dei tanti “fratelli” presenti nel governo Conte, peraltro davvero eccellente nella qualità delle competenze che esprime, ad ogni livello: altro che populismo e dilettantismo, questo è decisamente il miglior esecutivo a disposizione del paese, da tanti anni a questa parte». E’ un fiume in piena, Magaldi, nella diretta radiofonica “Massoneria On Air” del 18 giugno su “Colors Radio”. Nel mirino, «la grande ipocrisia dei 5 Stelle», reticenti sui massoni e in evidente imbarazzo sul caso giudiziario dello stadio romano di Tor di Valle, con l’arresto del costruttore Luca Parnasi e la bufera che colpisce anche Luca Lanzalone, super-consulente piazzato proprio da Di Maio alla corte di Virginia Raggi. L’ipotesi di accusa parla di un sistema tangentizio esteso e ramificato, che coinvolgerebbe tutti i partiti. «Sembra una pena del contrappasso – dice Magaldi – per chi si è rimpito la bocca per anni con slogan come “onestà”, arrivando a impedire la candidatura di persone nemmeno condannate, ma semplicemente indiziate».Nel bestseller “Massoni”, il presidente del Movimento Roosevelt ha rivelato l’identità supermassonica del vero potere, nell’Europa di oggi dominata da figure oligarchiche. Di fede liberalsocialista, Magaldi non rinnega il suo giudizio favorevole sui 5 Stelle: pur acerbi, hanno avuto il merito di rompere la recita italiana della finta alternanza tra centrodestra e centrosinistra, coalizioni di fatto sottomesse (entrambe) ai diktat dell’élite finanziaria neoliberista. Nettamente lusinghiere anche le parole che Magaldi spende per il governo Conte: è alle prese con una missione epocale, “cambiare verso” all’Europa partendo dalla cruciale trincea italiana. Ma ad una condizione: che i pentastellati la facciano finita, una volta per tutte, con la loro narrativa – inutilmente retorica – che scambia “l’onestà” per la buona politica. Salvo, appunto, inciampare nel caso imbarazzante di Lanzalone, finito nell’inchiesta sul nuovo stadio: «Non possiamo far finta di non vedere che quel signore, che oggi tutti individuano come un capro espiatorio, è stato catalpultato dall’Acea al Comune di Roma proprio da quel Di Maio che oggi propone di riformarla, l’autorità nazionale anti-corruzione». Catapultato, fra l’altro, negli uffici dell’innocente Raggi, «innocente nel senso antico con cui si parlava dei bambini: sembra infatti una bambina che gestisce una cosa più grande di lei, a cui i “grandi” del Movimento spediscono questo e quello».Attenzione: «E’ stata legittima la vittoria di Raggi, dopo il cattivo governo di centrodestra e centrosinistra, così come è giusto oggi dare una chance alla possibilità epocale di governare il paese, da parte della Lega e dei 5 Stelle». E il super-consulente grillino? «Uno risponde politicamente, non giuridicamente (e forse nemmeno moralmente) delle proprie scelte sbagliate. E la capacità di un politico – dice Magaldi, pensando a Di Maio – è anche nello scegliere persone giuste. Ma le persone scelte per Roma sono tra le più sbagliate». Magaldi vorrebbe un dibattito serio, tra i pentastellati alla guida della capitale: hanno bocciato le Olimpiadi perché sarebbero state “sentina di corruzione”, poi hanno voluto ridimensionare lo stadio della Roma perché bisognava stare attenti alle tangenti. «Poi invece si scopre che il più pulito ha la rogna, nell’amministrazione Raggi». Un consiglio? «Di Maio si liberi delle sue ipocrisie, perché rischiano di compromettere le belle possibilità di rendere un servizio a questo paese e alle amministrazioni locali governate dai 5 Stelle». Basta, davvero, con la retorica demagogica: «La corruzione e l’onestà sono categorie che appartengono al dominio giuridico della magistratura». Fanno anche parte di un ethos privato, «mentre in politica non basta essere onesti e gridare “onestà” per saper amministrare e saper scegliere i collaboratori».Il guaio del caso Roma? L’immobilismo, per la paura di finire in mezzo a una Tangentopoli. «Non si può mettere al primo posto la falsa preservazione dalla corruzione – insiste Magaldi – perché la corruzione si introduce comunque, nelle piccole come nelle grandi cose. Forse, se avessimo fatto le Olimpiadi a Roma – aggiunge – la corruzione sarebbe stata tale e quale, ma almeno avremmo avuto un’occasione di rigenerare tante strutture sportive obsolete». Niente sconti, al Campidoglio: «A me pare che tra buche, radici che spuntano ovunque e strutture fatiscenti, Roma stia morendo, nonostante le retoriche pentastellate. E’ una città tra le più belle al mondo, e avrebbe bisogno di un altro spirito, solare e gioviale». Di Maio? «Faccia un mea culpa, anche solo davanti a uno specchio, dicendo: forse la devo smettere di fare l’ipocrita sulla massoneria, di fare l’ipocrita sul tema della corruzione, e di scaricare sugli altri responsabilità che sono anche mie. E lo invito a lavorare sempre meglio, come ministro dello sviluppo economico, dicastero dove peraltro – aggiunge Magaldi – sono arrivati sottosegretari di tutto rispetto». Per esempio Michele Geraci, che ha insegnato economia in Cina: era uno dei famosi “cervelli in fuga”, ma è tornato. «Sa meglio di altri come sviluppare rapporti con quel mondo complesso che è la Cina. E ha senpre sostenuto la piena compatibilità tra reddito di cittadinanza e Flat Tax, quasi precostituendo l’incontro politico tra Lega e 5 Stelle».Geraci, ma non solo: «Qui si prendono sottosegretari come Armando Siri, come Luciano Barra Caracciolo. Si prenderanno fior di tecnici nei gabinetti e nelle direzioni generali ministeriali, tecnici anche di area “rooseveltiana”: checché ne dica la pletora degli sconfitti (dalla storia e dal popolo italiano) il governo Conte è dotato di ottime competenze». E attenzione: molti dei suoi esponenti sono massoni progressisti, o comunque «dialogano proficuamente con i circuiti massonici progressisti». E’ un fatto, assicura Magaldi: «Questo è un governo ad alta densità massonica progressista». Di più: se c’è un esecutivo vicino alla massoneria democratica, è proprio questo. «Guardando agli ultimi governi italiani, forse nessuno ha avuto una così alta densità massonica», insiste Magaldi: «Ed è un governo di prim’ordine, che ha delle competenze straordinarie. Quindi, Di Maio e gli altri ne siano all’altezza, mettendo da parte ipocrisie e superficialità nello scegliere i collaboratori, magari in base all’appartenenza alla “famiglia” politica intesa come clan». E’ chirurgico, Magaldi, nella critica ai 5 Stelle: «Temo molto questa ipocrisia, e spero che la loro maturazione politica elimini proprio questo aspetto, che forse è il più insidioso e anche il più autodistruttivo. E’ bene che il Movimento 5 Stelle impari a essere laico. C’è la magistratura, ci sono degli indagati – e non è detto che, se uno viene arrestato, sia colpevole».Il costruttore Parnasi, accostato a Salvini? «Non ho nessuna simpatia per lui», premette Magaldi: «Ho notizia di gente che ha dovuto citarlo a giudizio perché non ha pagato professionisti che avevano lavorato per lui. Rincorso in tribunale, ha dovuto poi contrattare risarcimenti». Ma, di nuovo, è meglio evitare di essere ipocriti: «Tutti qui paiono cadere dalla Luna, ma chiunque conosca la realtà romana sa che Parnasi non se la passava benissimo», dice Magaldi. «E’ un signore che ha fatto cose dubbie, perché non pagare i collaboratori è sgradevole. Però è anche vero che questo “poveraccio”, come tanti altri imprenditori, si trova di fronte a una macchina burocratica elefantiaca». Succede spesso, in Italia: «Magari ti impegni in un progetto per anni, e prima di essere pagato dal committente pubblico devi anticipare denari, ottenere fidi, passare per le forche caudine della burocrazia – e questo è valso anche per Parnasi». Bisognerà vedere, alla fine, se quella che magari è definita corruzione poi non sia «il tentativo di ottenere, in modo privilegiato, quello che un imprenditore dovrebbe ottenere più facilmente per via ordinaria».E comunque, laicamente, Magaldi preferisce sempre attendere che qualcuno venga giudicato «non in primo, ma in terzo grado». Queste, continua Magaldi, sono vere e proprie lezioni: per i 5 Stelle, con il loro mito della “purezza”, ma anche per la Lega, «che con Salvini è cambiata, d’accordo», ma nel suo Dna e nella sua storia conserva pur sempre «il famoso cappio, agitato in Parlamento», eloquente simbolo di «atteggiamenti forcaioli tuttora presenti in alcuni segmenti della base». Lo Stato di diritto tutela tutti: «Parnasi è innocente fino a prova contraria, al di là degli arresti: spesso la gente in Italia è stata arrestata indebitamente, e nessuno l’ha risarcita in modo adeguato». Parnasi e Lanzalone, dunque, «meritano il beneficio del dubbio, come i loro stessi referenti politici». Prudenza: «Bisogna attendere, perché spesso la macchina della giustizia si muove con una sincronia strana, e il fango che si getta addosso a delle persone per presunti reati e crimini poi si scopre essere inconsistente sul piano giuridico». Magaldi confida nell’esperienza di Conte, come giurista, per arrivare a una robusta sburocratizzazione complessiva del sistema-Italia: «Abbiamo bisogno che gli imprenditori non siano mai indotti a corrompere per poter fare normalmente il proprio lavoro».Al tempo stesso – aggiunge il presidente del Movimento Roosevelt, rivolto ai 5 Stelle – abbiamo bisogno che i funzionari pubblici siano pagati adeguatamente: «Se cadessero nella rete della corruzione, a quel punto, sarebbero ancora più spregevoli. Ma è impossibile approvare il pauperismo al ribasso promosso dai pentastellati, in base al quale si vorrebbero abbassare gli emolumenti: perché mai costringere a uno stipendio da fame una persona onesta che affronti gli incerti della politica, magari dopo aver abbandonato la sua professione?». Meglio osservare con realismo la situazione italiana: «Proprio per la remunerazione irrisoria delle cariche, molte persone capaci non vanno a fare l’amministratore pubblico, con tutti i rischi che questo comporta, rispetto alle immense responsabilità dell’ufficio». Ne prenda atto un grillino come Alessandro Di Battista, oggi più moderato nei toni, dopo esser stato per anni tra i più accaniti sostenitori della moralità pubblica esibita come bandiera. Tagli degli stipendi e abolizione dei vitalizi? Errore ottico, dice Magaldi: chi ha tagliato lo Stato, mortificando la politica, l’ha fatto per costruire l’attuale sistema basato sulla privatizzazione universale.«La visione neoliberista, di cui noi tutti siamo vittime in questi decenni – spiega Magaldi – vuole che i dirigenti pubblici abbiano dei tetti sempre più al ribasso, nella remunerazione, anche se hanno responsabilità pesantissime e il rischio di essere indagati per un nonnulla, vista anche la complessità elefantiaca delle burocrazie e degli atti giuridici che devono compiere». Tutti addosso al politico che sbaglia, fingendo di non vedere cosa accade nel cosiddetto “mercato”, dove non ci sono più regole che tengano. «Ormai il settore privato è il regno della giungla», sottolinea Magadi: «Si è divaricata la forbice tra il salario dell’operaio o lo stipendio dell’impiegato e la paga del grande manager, che magari fa parte di una cricca di briganti che si spartiscono le poltrone delle grandi società transnazionali, come nel famigerato caso dei manager che hanno spolpato Telecom». L’antidoto? Evitare di cadere nella trappola retorica sapientemente costruita dalla manipolazione del massimo potere. Meglio dunque ribaltare «la teologia dogmatica neoliberista, in base alla quale nel privato tutto è possibile, mentre il pubblico dev’essere controllato, vessato, aggredito e delegittimato».Giù la maschera, caro Di Maio: quello presieduto da Giuseppe Conte è «un governo ad alta densità massonica», sia pure «di segno progressista». Ma il “contratto” di governo non si impegnava a tener fuori i “grembiulini” dai ministeri? «Se non si sbrigano a rimuovere quella norma ipocrita e incostituzionale – avverte Gioele Magaldi, gran maestro del Grande Oriente Democratico – perderemo la pazienza e saremo noi a fare i nomi dei tanti “fratelli” presenti nel governo Conte, peraltro davvero eccellente nella qualità delle competenze che esprime, ad ogni livello: altro che populismo e dilettantismo, questo è decisamente il miglior esecutivo a disposizione del paese, da tanti anni a questa parte». E’ un fiume in piena, Magaldi, nella diretta radiofonica “Massoneria On Air” del 18 giugno su “Colors Radio”. Nel mirino, «la grande ipocrisia dei 5 Stelle», reticenti sui massoni e in evidente imbarazzo sul caso giudiziario dello stadio romano di Tor di Valle, con l’arresto del costruttore Luca Parnasi e la bufera che colpisce anche Luca Lanzalone, super-consulente piazzato proprio da Di Maio alla corte di Virginia Raggi. L’ipotesi di accusa parla di un sistema tangentizio esteso e ramificato, che coinvolgerebbe tutti i partiti. «Sembra una pena del contrappasso – dice Magaldi – per chi si è riempito la bocca per anni con slogan come “onestà”, arrivando a impedire la candidatura di persone nemmeno condannate, ma semplicemente indiziate».
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Non solo calcio: Brasile, la caduta di una superpotenza
Lo so, Israele che bombarda civili a Gaza, Kiev che bombarda civili nell’Ucraina dell’Est, il Califfo fuori controllo in Medio Oriente, l’Impero del Caos che gioca a fare il prestigiatore. Ma prima vorrei parlare di qualcosa a cuore aperto. Ho conservato questa foto (vedi più sotto) per il momento più opportuno, che è arrivato. Vi presento un tipico paradiso tropicale – Santo Andre a Bahia, vicino a dove il Brasile è stato “scoperto” dai portoghesi nel 1500. Il campo di allenamento della nazionale tedesca è dietro a quegli alberi sulla sinistra. Io ero lì all’inizio della Coppa del Mondo, la mia meravigliosa ospite Anna Mariani è proprietaria di una stupenda casa sulla spiaggia proprio lì accanto. Il campo tedesco – in realtà un condominio sulla spiaggia – è stato isolato e customizzato a perfezione. I giocatori hanno potuto interagire con i villaggi vicini, visitato una scuola locale, fraternizzato con gli indiani Pataxo, fatto camminate mattutine sulla spiaggia.Si sono anche allenati davvero duramente: disciplina, impegno, etica del lavoro – mentre si godevano ogni minuto nel loro angolo di paradiso e apprendevano i rituali della cultura locale brasiliana. La nazionale brasiliana, nel frattempo, stava recitando uno psicodramma nazionale (nel senso letterale) che vede 200 milioni di persone coinvolte. Era come una spaventosa telenovela – senza alcun tipo di disciplina o duro lavoro, solo tintinnii (guarda il mio nuovo taglio di capelli!) appaiati ad un compiaciuto senso di superiorità. Alla fine avrebbero dovuto vincere perchè dopotutto, sfoderiamo il più grande mito nazionale, “Dio è brasiliano”. Passiamo ad una parabola della globalizzazione. Molto prima della Coppa, il Brasile – che una volta era una leggendaria superpotenza calcistica – è stato ridotto, a forza di cerchi concentrici di mala gestione, ad un ruolo secondario di esportatore di beni (calciatori di talento). Non c’è stata alcuna prospettiva di investimento sul futuro, tutto ciò che importava era trarre profitto dai diritti Tv assecondando il racket dei media.La Germania, d’altra parte, da quando è stata sconfitta in finale nel 2002 (dal Brasile) ha investito in una fitta rete di scuole calcio, parte di un sistema nazionale per allevare talenti, educarli e preparare allo stesso tempo anche gli allenatori. Tre ore prima dell’inizio dell’umiliazione dell’1-7 mi è stato chiesto dal mio barbiere cosa pensassi del risultato della partita. Ho risposto: «Germania 4-0». Tutti erano allibiti. Ho volato dall’Asia e poi dall’Europa per seguire la Coppa del Mondo in Brasile come se stessi facendo servizi di guerra, ciò che avevo sospettato fin dall’inizio si stava confermando come uno psicodramma in procinto di essere svelato. Tutti i segnali portavano ad una cricca di giovani milionari brasiliani psicologicamente instabili pronti ad implodere in maniera spettacolare – come avevano minacciato di fare prima contro il Cile e poi contro la Colombia. È successo nel lasso di soli 6 minuti quando la Germania ha fatto 4 gol – e al 29° i tedeschi stavano già vincendo 5-0. Sorpresa? Non proprio.Il Brasile ha smesso di giocare il jogo bonito molto tempo fa, dopo la fantastica nazionale del 1970 e poi la miglior nazionale che non abbia mai vinto nulla nel 1982. Dagli anni ’90 il Brasile come case del jogo bonito era solo un’altra leggenda – un elaborato trucco di marketing (con la complicità della Nike). I Brasiliani si sono presi in giro da soli fino in fondo, avvolti in un economico brand di nazionalismo che recitava “Noi siamo i campioni”.Finchè l’arroganza non ha prevalso. È toccato alla Germania ricordare quale fosse il vero jogo bonito, con i loro passaggi strabilianti, le conclusioni infallibili e triangoli di passaggio degni dei Chicago Bulls al loro apice. La nazionale brasiliana si è trasformata in un nervoso rottame principalmente per motivi tecnico/tattici: era una squadra senza centrocampo che giocava contro il miglior centrocampo del pianeta. Incolpate chi li guidava, la federazione calcistica brasiliana e la “commissione tecnica” che ha nominato: una modesta cricca arrogante, ignorante e senza talento, che rispecchiava perfettamente l’arroganza e l’ignoranza delle élite politico-economiche brasiliane, antiche e moderne.La polizia brasiliana, abbastanza ironicamente, ha smantellato un mercato nero di biglietti Fifa a Rio (nemmeno Scotland Yard ce l’aveva fatta), si è però persa un altro racket – uno spin-off in atto nei corridoi dei palazzi del calcio brasiliani. La commissione tecnica, nella sua conferenza stampa post-traumatica, lo stesso giorno che Argentina e Olanda hanno giocato come i bambini grandi per 120 interminabili minuti, terminati 0-0 (e poi risolti ai rigori), mi ha ricordato il Pentagono che scaricava Abu Ghraib: «Ah, è stato solo un bizzarro errore». No, non lo è stato. I brasiliani codardi al timone non hanno avuto lo stomaco di ammettere che il “blackout” è stato sistemico. Ci saranno ripercussioni politiche senza fine a questo 1-7. Va ben oltre la massa di ricchi brasiliani (bianchi) che si potevano permettere di comprare i biglietti Fifa mentre criticano le spese della presidente Rousseff per il welfare.Di sicuro va a braccetto con i mirabolanti profitti che la Fifa trae dalla sua festicciola personale (4 miliardi di dollari, esentasse), forniti della autorità locali, così come ha a che fare con il salatissimo conto finale (13,6 miliardi di dollari). Paragoniamo ai minuscoli investimenti in educazione, pubblici servizi, “mobilità urbana”, strutture fatiscenti – mentre una corruzione endemica spadroneggia. La più grande umiliazione sportiva mondiale a memoria d’uomo è direttamente connessa all’ignoranza ed arroganza delle élite brasiliane (e al loro sentirsi in diritto di fare ciò che vogliono). Al contempo, non si può aspirare a diventare una superpotenza dei Brics mentre la tua identità nazionale è basata su uno sport – il calcio – svilito da un manipolo di truffatori.Gli dei del calcio hanno misericordiosamente dichiarato superato lo psicodramma di 200 milioni di persone. Mi spiace ancora molto per gli sconfitti – la stragrande maggioranza di tifosi tra questi 200 milioni: gente onesta e lavoratrice per la quale il calcio è un sollievo dalle proprie lotte quotidiane. Sono stati presi in giro e sono state loro costantemente propinate solo menzogne. Il Brasile godrà ancora del beneficio di avere molto soft power in giro per il mondo, ma deve affrontare i problemi di corruzione ed inefficienza. Se il calcio deve rimanere l’unico collante dell’aspirante superpotenza, meglio metterci la testa sopra, capire il perchè l’umiliazione è avvenuta, liberarsi di tutti i fannulloni, mostrare un po’ di umiltà e lavorare duro. Imparare dal modello sportivo tedesco – uno che di certo non ha a che fare con l’austerità dell’Ue. Per poi tornare in paradiso.(Pepe Escobar, “La caduta di una superpotenza”, da “Asia Times” del 10 luglio 2014, ripreso da “Come Don Chisciotte”. Prestigioso giornalista internazionale, Escobar è autore di “Globalistan, how the Globalized World is dissolving into liquid war”, “Red Zone Blues, a snapshot of Baghdad during the surge” e “Obama does Globalistan”).Lo so, Israele che bombarda civili a Gaza, Kiev che bombarda civili nell’Ucraina dell’Est, il Califfo fuori controllo in Medio Oriente, l’Impero del Caos che gioca a fare il prestigiatore. Ma prima vorrei parlare di qualcosa a cuore aperto. Ho conservato questa foto (vedi più sotto) per il momento più opportuno, che è arrivato. Vi presento un tipico paradiso tropicale – Santo Andre a Bahia, vicino a dove il Brasile è stato “scoperto” dai portoghesi nel 1500. Il campo di allenamento della nazionale tedesca è dietro a quegli alberi sulla sinistra. Io ero lì all’inizio della Coppa del Mondo, la mia meravigliosa ospite Anna Mariani è proprietaria di una stupenda casa sulla spiaggia proprio lì accanto. Il campo tedesco – in realtà un condominio sulla spiaggia – è stato isolato e customizzato a perfezione. I giocatori hanno potuto interagire con i villaggi vicini, visitato una scuola locale, fraternizzato con gli indiani Pataxo, fatto camminate mattutine sulla spiaggia.