Archivio del Tag ‘città’
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Militari, nuovo avviso a Macron: guerra civile alle porte
Signor Presidente della Repubblica, Signore e Signori, Ministri, Membri del Parlamento, Ufficiali Generali, dei vostri gradi e qualità, Non cantiamo più la settima strofa della Marsigliese, conosciuta come la «strofa dei bambini». Eppure è ricca di lezioni. Lasciamo che sia essa a prodigarle su di noi: «Entreremo nella carriera quando i nostri anziani non saranno più lì. Là troveremo la loro ceneri e il segno delle loro virtù. Molto meno gelosi di sopravvivere a loro che di condividere la loro bara, avremo il sublime orgoglio di vendicarli o seguirli». I nostri anziani sono combattenti che meritano di essere rispettati. Questi sono ad esempio i vecchi soldati di cui avete calpestato l’onore nelle ultime settimane. Sono queste migliaia di servi della Francia, firmatari di un appello di buon senso, soldati che hanno dato i loro anni migliori per difendere la nostra libertà, obbedendo ai vostri ordini, per intraprendere le vostre guerre o per attuare le vostre restrizioni di bilancio, che avete insozzato mentre il popolo della Francia li ha sostenuti.Queste persone che hanno combattuto contro tutti i nemici della Francia, le avete trattate come faziose quando la loro unica colpa è amare il loro Paese e piangere la sua caduta visibile. In queste condizioni spetta a noi, da poco entrati in carriera, entrare nell’arena semplicemente per avere l’onore di dire la verità. Veniamo da quella che i giornali hanno chiamato «la generazione del fuoco». Uomini e donne, soldati attivi, di tutti gli eserciti e di tutti i ranghi, di tutte le sensibilità, amiamo il nostro Paese. Queste sono le nostre uniche pretese di fama. E se non possiamo, per legge, esprimerci a faccia scoperta, è altrettanto impossibile per noi tacere. Afghanistan, Mali, Repubblica Centrafricana o altrove, molti di noi hanno subito il fuoco nemico. Alcuni lì hanno lasciato dei compagni. Hanno offerto la loro pelle per distruggere l’islamismo a cui state facendo concessioni sul nostro suolo. Quasi tutti noi abbiamo conosciuto l’operazione Sentinel. Abbiamo visto con i nostri occhi le periferie abbandonate, gli alloggi con la delinquenza. Abbiamo subito i tentativi di strumentalizzare diverse comunità religiose, per le quali la Francia non significa nulla, nient’altro che un oggetto di sarcasmo, disprezzo o persino odio.Abbiamo marciato il 14 luglio. E questa folla benevola e diversificata, che ci ha acclamati perché ne siamo l’emanazione, ci è stato chiesto di guardarla per mesi, vietandoci di circolare in divisa, rendendoci potenziali vittime, su un suolo che siamo comunque capaci di difendere. Sì, i nostri anziani hanno ragione sulla sostanza del loro testo, nella sua interezza. Vediamo la violenza nelle nostre città e nei nostri villaggi. Vediamo il comunitarismo prendere piede nello spazio pubblico, nel dibattito pubblico. Vediamo l’odio per la Francia e la sua storia diventare la norma. Potrebbe non essere compito dei militari dirlo, sosterrete. Al contrario: poiché siamo apolitici nelle nostre valutazioni della situazione, è un’osservazione professionale quella che forniamo. Perché questa decadenza, la abbiamo vista in molti Paesi in crisi. Precede il crollo. Annuncia caos e violenza e, contrariamente a quanto voi affermate qua e là, questo caos e questa violenza non verranno da un «pronunciamento militare» ma da un’insurrezione civile.Per cavillare sulla forma dell’appello dei nostri anziani invece di riconoscere l’ovvietà delle loro scoperte, bisogna essere piuttosto codardi. Per invocare un dovere di riservatezza mal interpretato al fine di mettere a tacere i cittadini francesi, bisogna essere molto ingannevoli. Per incoraggiare i principali ufficiali dell’esercito a prendere posizione ed esporsi, prima di sanzionarli ferocemente non appena scrivono qualcosa di diverso dalle storie di battaglia, devi essere molto perverso. Codardia, inganno, perversione: questa non è la nostra visione della gerarchia. Al contrario, l’esercito è, per eccellenza, il luogo in cui ci parliamo sinceramente perché impegniamo la nostra vita. È questa fiducia nell’istituzione militare che chiediamo. Sì, se scoppia una guerra civile, l’esercito manterrà l’ordine sul proprio territorio, perché gli verrà chiesto di farlo. È anche la definizione di guerra civile. Nessuno può desiderare una situazione così terribile, i nostri anziani non più di noi, ma sì, ancora una volta, la guerra civile si sta preparando in Francia e lo sapete perfettamente.Il grido di allarme dei nostri Anziani si riferisce infine a echi più lontani. I nostri anziani sono i combattenti della resistenza del 1940, che persone come voi molto spesso trattavano come faziosi, e che continuarono la lotta mentre i legalisti, paralizzati dalla paura, scommettevano già sulle concessioni con il male per limitare i danni; sono i “pelosi” [soprannome dato ai soldati francesi durante la Grande Guerra, ndr] di 14 anni, morti per pochi metri di terra, mentre voi abbandonate, senza reagire, interi quartieri del nostro Paese alla legge del più forte; sono tutti i morti, celebri o anonimi, caduti al fronte o dopo una vita di servizio. Tutti i nostri anziani, coloro che hanno reso il nostro Paese quello che è, che ne hanno disegnato il territorio, ne hanno difeso la cultura, hanno dato o ricevuto ordini nella sua lingua, hanno combattuto affinché voi lasciaste che la Francia diventasse uno Stato fallito, che sostituisce la sua impotenza regale sempre più evidente con una brutale tirannia contro quelli che tra i suoi servi che vogliono ancora avvertirlo? Agite, signore e signori. Questa volta non si tratta di emozioni personalizzate, formule già pronte o copertura mediatica. Non si tratta di estendere i propri mandati o conquistarne di nuovi. Riguarda la sopravvivenza del nostro Paese, del vostro Paese.(Testo diffuso dai militari francesi e ripreso l’11 maggio 2021 da “Renovatio 21″. «Da qualche giorno correva la voce che un nuovo appello dei militari francesi sarebbe apparso sulla scena», scrive il sito. «Stavolta però, a differenza del precedente, non sarebbe stato firmato da ufficiali in pensione, ma da soldati attivi». Il testo pubblicato da “Renovatio 21″ sta circolando in rete. «In Francia la situazione è grave», sottolinea il blog. «Dopo anni di aberrazioni terroristiche, proteste popolari soffocate nella repressione (i Gilet Gialli) e lockdown draconiani che hanno piegato il paese, forse la misura e colma. Lo Stato più superbo d’Europa si appresta a collassare sotto il peso delle sue stesse scelte dementi in campo sociale, economico, migratorio? E l’Italia, che lezione vuole trarre da ciò che sta accadendo appena Oltralpe?»).Signor Presidente della Repubblica, Signore e Signori, Ministri, Membri del Parlamento, Ufficiali Generali, dei vostri gradi e qualità, Non cantiamo più la settima strofa della Marsigliese, conosciuta come la «strofa dei bambini». Eppure è ricca di lezioni. Lasciamo che sia essa a prodigarle su di noi: «Entreremo nella carriera quando i nostri anziani non saranno più lì. Là troveremo la loro ceneri e il segno delle loro virtù. Molto meno gelosi di sopravvivere a loro che di condividere la loro bara, avremo il sublime orgoglio di vendicarli o seguirli». I nostri anziani sono combattenti che meritano di essere rispettati. Questi sono ad esempio i vecchi soldati di cui avete calpestato l’onore nelle ultime settimane. Sono queste migliaia di servi della Francia, firmatari di un appello di buon senso, soldati che hanno dato i loro anni migliori per difendere la nostra libertà, obbedendo ai vostri ordini, per intraprendere le vostre guerre o per attuare le vostre restrizioni di bilancio, che avete insozzato mentre il popolo della Francia li ha sostenuti.
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Ma gli italiani hanno vissuto al di sotto delle loro possibilità
Uno dei vantaggi del mio lavoro è quello di girare spesso per le grandi città internazionali e di passarci anche diversi giorni, costretto a documentarmi e ad usare i servizi pubblici per risparmiare. Inoltre, caso vuole che alcune città ormai le abbia visitate più e più volte. E’ per questo che posso dire con assoluta serenità che il luogo comune per il quale “l’Italia è il paese più bello del mondo” è il più veritiero che ci sia. Non c’entrano un tubo i ricordi personali, gli affetti, l’istinto e il cordone ombelicale: l’Italia è oggettivamente il paese più bello del mondo, e chi sostiene il contrario è perchè ne ha una conoscenza molto superficiale. Gi stranieri non si permetterebbero mai di dirlo; la stragrande maggioranza lo sa benissimo che il loro luogo d’origine, rispetto all’Italia, è una cloaca, e per quanto nazionalisti possano essere, mai sentirete dire che l’Italia non è bella. Sono appena tornato da Napoli, città che molti italiani e molti stranieri considerano un immondezzaio invivibile. C’ero stato almeno altre 6 volte. Il turismo del Golfo è quasi tutto straniero: i media hanno detto agli italiani che Napoli è pericolosa, che ti stuprano, che ti scippano coi motorini, che ti imbrogliano di sicuro e che è piena di immondizia. Dunque, al massimo ci si va con la gita della scuola, protetti da professori e touring operator, come fosse una crociera sul Nilo.Da adulti, con i bambini piccoli al seguito, invece, ci vanno quasi esclusivamente americani, inglesi, spagnoli (e chissà come mai). La realtà è che a Napoli sembra di essere dentro un film, e che ogni cosa è di una bellezza irripetibile. La mia guida alla città sotterranea – Francesco – quasi aveva le lacrime agli occhi mentre spiegava come i napoletani di tremila anni fa avessero costruito la città scavando nel tufo fino a 40 metri di profondità e portando blocchi di quintali in superficie, morendo a centinaia, salendo e scendendo nelle viscere della terra senza alcuna sicurezza. Ai Campi Flegrei, a Pompei, al castello del Maschio Angioino, dopo i racconti delle guide, ti dispiace di non essere napoletano. Ti sembra quasi di doverli invidiare. E sono tutte guide che raccontano aneddoti personali, fanno battute, uno si è messo anche a cantare. Al British, al Louvre, al Museo di Sissy, invece, sono solo capaci (al triplo del costo) di rifilarti una fottuta, impersonale e noiosissima audioguida coi numeretti da pigiare. E ho preso Napoli ad esempio solo perchè l’ho appena visitata e perchè viene dipinta sempre malissimo; ma cosa si potrebbe dire del resto d’Italia? Non basterebbero tutti i blog del mondo.A cosa è dovuta questa bellezza? Il paesaggio naturale, senza dubbio, ma allora anche la Grecia o la Spagna o la Tunisia dovrebbero essere così. E invece non lo sono manco per niente. La Tunisia o la Francia stanno all’Italia come una busta di fave sta a Belen Rodriguez, pur avendo anch’esse paesaggi naturali di pari dignità. Non è solo una questione di paesaggio, ma è soprattutto una questione di storia, di lavoro impiegato e di tanta ricchezza prodotta in questi secoli di civiltà e di fatiche dei nostri progenitori. Ancora oggi, la Pompei degli scavi archeologici è una città dalla struttura intelligente, molto più di tante cittadine – anche nuove – realizzate in giro per il mondo e invivibili per posizione e rete viaria. Come mai gli italiani avevano ponti, acquedotti, ville mastodontiche, fontane e strutture termali migliaia di anni fa, quando nel resto del mondo non c’era un emerito cazzo? Perchè erano ricchi… Non c’è un’altra risposta. Erano mediamente molto più ricchi e più colti di tutte le altre civiltà, anche di quella greca, per il semplice fatto che quella italiana durò molto più a lungo, se consideriamo – dopo i fasti dell’Impero Romano – anche il dominio mondiale della Chiesa, il Rinascimento e Venezia.Ancora oggi, dopo essere diventati colonia americana e dopo che ci hanno affamati, gli altri Stati non riescono a raggiungere un tale grado di bellezza. Il che, se pensiamo all’evoluzione tecnologica che c’è stata, ha davvero dell’incredibile. Eppure ci raccontano, con riferimento agli ultimi 50 anni, che solo per il fatto di avere un lavoro, un mutuo per la casa e la pensione, noi italiani “siamo vissuti al di sopra delle nostre possibilità”. Ma è vero proprio l’opposto: la civiltà più ricca del mondo, con le sue bellezze naturali, agricole, produttive e monumentali, ha permesso ai suoi cittadini solo un lavoro dipendente malpagato e una pensione. Questo significa vivere al di sotto delle proprie possibilità, e non al di sopra. Oggigiorno, il paese che al mondo offre la ricchezza maggiore ai suoi cittadini è la Svizzera. Parliamoci molto chiaramente: in Svizzera ci sono 4 mucche e 3 galline, e non necessariamente in quest’ordine. Ci sono scomode montagne e le città hanno edifici e monumenti risibili, rispetto ai nostri. Il successo della Svizzera è dovuto a 3 cose: sono democratici nel senso “greco” del termine (le decisioni le prendono assieme a livello locale: nemmeno in condominio puoi entrare, se il resto dei condomini ti giudica sfavorevolmente); sono fuori dall’Unione Europea; conoscono la finanza.Sul punto 1 e 3 arrancheremo sempre, ma il punto 2 sarebbe così facile da risolvere a nostro favore. Tornando però al tema, mi rendo conto che l’esempio “turistico” può apparire limitante: vogliamo allora passare all’agricoltura italiana? L’Italia è lo 0,5% della superficie del mondo, con 14 milioni di ettari coltivati su 800 milioni. Eppure rappresenta, senza se e senza ma, l’eccellenza dell’agroalimentare nel mondo. E’ l’unico luogo al mondo dove l’incontro tra i venti del mare dal Sud e quelli delle montagne del Nord produce un microclima unico. Abbiamo 7.000 specie di flora vascolare e di vegetali mangiabili (il secondo paese al mondo ne ha solo la metà, 3.300); abbiamo 58.000 specie animali (il secondo paese al mondo ne ha 20.000); abbiamo 1.200 vitigni autoctoni (il secondo ne ha 222), abbiamo 533 cultivar di ulivi (il secondo paese al mondo ne ha 70). E si potrebbe andare avanti. Però, per lo scemo del villaggio, viviamo “al di sopra delle nostre possibilità”. Vado avanti? Vado avanti. L’Italia è la seconda manifattura d’Europa. Con una moneta, l’euro, che è unica solo per lo schifo che fa, riusciamo comunque ad essere saldamente sul podio a fronte della concorrenza di altri 27 paesi. Come dite? La Germania produce di più?Già, i tedeschi ci battono, ma c’è un particolare che solo malafede e ignoranza possono trascurare: i tedeschi sono 80 milioni, mentre gli italiani 60. Detto diversamente, se proporzionassimo la produzione al numero di abitanti, anche in questo settore (dopo aver preso merda nel turismo e nell’agricoltura) i tedeschi mangerebbero la polvere. Chiudo con parole non mie, ma di Gianluca Baldini, parole sante che non posso che sottoscrivere come fossero mie: «A dispetto della retorica pro-austerità che ha accolto la narrazione distorta della storia degli ultimi anni, noi non abbiamo affatto vissuto “al di sopra delle nostre possibilità”, né in termini individuali, né considerando le finanze dello Stato. Questo mantra, tornato in auge dopo un’intervista rilasciata da Angela Merkel nel 2012 a “Bbc news” che apostrofava i Piigs come spendaccioni, trova spesso conforto nella fallace lettura della dinamica del debito pubblico esploso negli anni ’80 e viene condita con l’aneddotica abituale che descrive l’Italia come paese dei balocchi, in cui falsi invalidi, evasori totali e dipendenti pubblici nullafacenti vivono allegramente alle spalle della collettività».«L’Italia è stata ed è ancora oggi il paese con il più elevato livello di risparmio privato, tanto in termini monetari quanto sotto forma di patrimonio immobiliare. Tra i big players europei è il paese con il più basso debito privato e anzi, se escludiamo i paesi dell’ex Urss, possiamo dire che l’Italia è in assoluto il paese col più basso debito privato d’Europa e dunque dell’Occidente industrializzato. Se consideriamo questi dati e forniamo una lettura oggettiva alla dinamica del debito degli anni ’80, che è cresciuto per la componente interessi e non già per un aumento della spesa pubblica, e a ciò aggiungiamo che siamo il paese che da ormai 25 anni circa registra le migliori performance sui conti pubblici realizzando sistematicamente avanzi primari, possiamo concludere che siamo evidentemente l’unico paese che ha davvero vissuto al di sotto delle proprie possibilità. Il nostro risparmio privato basterebbe per pagare 5 volte il debito pubblico e 2,5 volte il debito complessivo (cioè pubblico+privato). Non credo esista un altro paese al mondo così affidabile da questo punto di vista».(Massimo Bordin, “Gli italiani hanno vissuto al di sotto delle loro possibilità”, da “Micidial” del 30 giugno 2020).Uno dei vantaggi del mio lavoro è quello di girare spesso per le grandi città internazionali e di passarci anche diversi giorni, costretto a documentarmi e ad usare i servizi pubblici per risparmiare. Inoltre, caso vuole che alcune città ormai le abbia visitate più e più volte. E’ per questo che posso dire con assoluta serenità che il luogo comune per il quale “l’Italia è il paese più bello del mondo” è il più veritiero che ci sia. Non c’entrano un tubo i ricordi personali, gli affetti, l’istinto e il cordone ombelicale: l’Italia è oggettivamente il paese più bello del mondo, e chi sostiene il contrario è perché ne ha una conoscenza molto superficiale. Gi stranieri non si permetterebbero mai di dirlo; la stragrande maggioranza lo sa benissimo che il loro luogo d’origine, rispetto all’Italia, è una cloaca, e per quanto nazionalisti possano essere, mai sentirete dire che l’Italia non è bella. Sono appena tornato da Napoli, città che molti italiani e molti stranieri considerano un immondezzaio invivibile. C’ero stato almeno altre 6 volte. Il turismo del Golfo è quasi tutto straniero: i media hanno detto agli italiani che Napoli è pericolosa, che ti stuprano, che ti scippano coi motorini, che ti imbrogliano di sicuro e che è piena di immondizia. Dunque, al massimo ci si va con la gita della scuola, protetti da professori e touring operator, come fosse una crociera sul Nilo.
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Dopo le Sardine, le Zucchine: se il potere si tinge di verde
Dopo le Sardine verranno le Zucchine. La sinistra cerca un nuovo travestimento per le competizioni elettorali e si converte alla Verdura perché tira, dopo il Covid, Greta e l’amazzonico Bergoglio. Vede che in molte parti d’Europa, dalla Spagna alla Francia, dalla Germania al Nord Europa, il consenso perduto nelle competizioni coi populisti può essere arginato fabbricandosi un populismo eco-compatibile, manipolabile, suggestivo. E così il verde diventa l’ausiliario per le battaglie politico-elettorali, il vaccino populista per battere i populismi sovranisti. Lo hanno capito perfino i due Bismarck dell’alleanza grillo-sinistra: l’esimio Fico dei 5 Stelle, che come dice il suo cognome è un frutto della natura e sta appeso all’albero di Montecitorio; e l’odontotecnico che guida il Pd, Nicola Zingaretti, che per darsi un ruolo oltre quello di filo interdentale della coalizione, si è accorto che per curare gli ascessi politici funzionano bene gli impacchi di verdura cotta sulle gengive arrossate. Entrambi hanno così, in una corrispondenza di amorosi sensi che però apre anche una concorrenza di spietati sensi, esortato all’unisono a buttarsi sul Verde. Tra poco vedrete che anche Conte, in uno dei suoi travestimenti, si trasformerà nel Conte Verde, scriverà nel suo curriculum di avere un passato di verdura, indirà gli Stati Vegetali e farà spuntare dal taschino una foglia di lattuga per dimostrare la sua conversione verde. Intorno voleranno finocchi e cetrioli.I Verdi furono negli anni Settanta la risposta alla crisi energetica, al modello di sviluppo industrialista e all’inquinamento. Ci furono esperienze importanti intorno ai Grünen, sorti dal ’68, superando le ideologie storiciste. Da noi un verde che merita di essere ricordato fu Alex Langer, morto prematuramente; interessanti furono i movimenti comunitari verdi, come quello toscano con Giannozzo Pucci. Nell’ambientalismo diventato giardino pubblico della sinistra radicale e nell’ecologismo che è invece la ruota di scorta e la copertura verde del capitalismo global-progressista (magari in funzione antiTrump), la parola Natura scompare: natura evoca madre natura, il diritto naturale, l’ordine naturale, la gravidanza, la vita secondo natura. Meglio usare un’espressione neutra, paradossalmente asettica, plastificata, come Ambiente, che può funzionare in tutti i campi e in tutti i sensi. Così l’ecologia diventa un ramo fiorito dell’ideologia e la parola ambiente indica tutto, persino l’ambiente di lavoro, le fabbriche e ambienti in cui di natura non c’è neanche l’ombra. La forza dei movimenti verdi è invece nella loro autonomia dalle categorie politiche del Novecento, dalla storia ideologica e dallo schema progressista.Curioso osservare che il fenomeno dei Verdi attecchisce in modo particolare in Germania, dove il primo ministro ecologista fu durante il nazismo, si chiamava Walter Darrè (Hitler era un ecologista rispetto a Lenin, Stalin e Roosevelt…). In realtà l’ecologia è nata conservatrice, patriottica e rurale, mentre le sinistre erano per definizione industrialiste, urbane, internazionaliste e operaiste. Solo con i figli dei fiori si aprì una breccia naturalistica che germogliò poi tra i contestatori innamorati di società preindustriali (la Cina, il Vietnam, il Terzo Mondo). I primi ecologisti della modernità furono i nazionalconservatori noti come Wandervogel, Uccelli migratori. E in Italia le prime leggi a tutela dell’ambiente le fece il fascismo con Giuseppe Bottai. Alla fine degli anni Settanta sorsero movimenti ecologisti anche a destra, soprattutto in ambiente rautiano. Alcune tematiche dell’ambiente degradato incontrano naturaliter la sensibilità di un conservatore, di un patriota, di un cattolico e di un tradizionalista: il rispetto per il creato e per la natura, l’evocazione del mondo incontaminato e genuino di una volta, l’amore per le cose sane e antiche, i borghi d’origine e le tracce del passato, la predilezione per l’agricoltura, per i prodotti chilometro zero e per le attività legate alla natura, il legame con la terra e con le radici, il senso del limite e il realismo. E in negativo la critica alle metropoli invivibili, al progresso senza freni; il rifiuto di cibi manipolati o geneticamente manipolati, il rifiuto dell’inquinamento acustico, l’aria inquinata, il mare sporco, la terra desertificata.Si sa poi che i cittadini a maggior contatto con la natura (dagli agricoltori agli allevatori e ai cacciatori) hanno tradizionalmente espresso preferenze politiche non certo progressiste. Perché regalare la sensibilità verde al grillo-sinistrismo che la usa come foglia di fico e tisana per far digerire bocconi inquinanti della società euro-global? In passato si sono già rubati le querce, gli ulivi, i cespugli e le margherite; perché regalare loro l’intera natura? In difesa della natura, del paesaggio e dell’ambiente hanno scritto diversi autori tra la nuova destra e il pensiero conservatore, da Alain de Benoist a Roger Scruton. Un giovane editore, Francesco Giubilei, ha pubblicato ora un libro, “Conservare la natura”, cercando di riscoprire il legame tra pensiero conservatore e difesa della natura. Trent’anni fa scrissi sui «verdi sentieri dell’ecologia» in “Processo all’Occidente” (1990), sostenendo la necessità di un’alleanza trasversale e comunitaria alternativa alla società global che si profilava. Insomma, il tema verde è molto più serio e profondo di un travestimento elettorale o di una battaglia anti-Trump; e non appartiene certo a una cultura progressista e mao-capitalista. Ma va praticato con realismo, con amore della natura e delle sue leggi, in armonia e non in conflitto con la civiltà e con l’umanesimo. E ricordate: l’amore per la natura è incompatibile con chi vuole modificare geneticamente la natura umana.(Marcello Veneziani, “Per non fermarsi col rosso passano col verde”, da “La Verità” del 1° luglio 2020).Dopo le Sardine verranno le Zucchine. La sinistra cerca un nuovo travestimento per le competizioni elettorali e si converte alla Verdura perché tira, dopo il Covid, Greta e l’amazzonico Bergoglio. Vede che in molte parti d’Europa, dalla Spagna alla Francia, dalla Germania al Nord Europa, il consenso perduto nelle competizioni coi populisti può essere arginato fabbricandosi un populismo eco-compatibile, manipolabile, suggestivo. E così il verde diventa l’ausiliario per le battaglie politico-elettorali, il vaccino populista per battere i populismi sovranisti. Lo hanno capito perfino i due Bismarck dell’alleanza grillo-sinistra: l’esimio Fico dei 5 Stelle, che come dice il suo cognome è un frutto della natura e sta appeso all’albero di Montecitorio; e l’odontotecnico che guida il Pd, Nicola Zingaretti, che per darsi un ruolo oltre quello di filo interdentale della coalizione, si è accorto che per curare gli ascessi politici funzionano bene gli impacchi di verdura cotta sulle gengive arrossate. Entrambi hanno così, in una corrispondenza di amorosi sensi che però apre anche una concorrenza di spietati sensi, esortato all’unisono a buttarsi sul Verde. Tra poco vedrete che anche Conte, in uno dei suoi travestimenti, si trasformerà nel Conte Verde, scriverà nel suo curriculum di avere un passato di verdura, indirà gli Stati Vegetali e farà spuntare dal taschino una foglia di lattuga per dimostrare la sua conversione verde. Intorno voleranno finocchi e cetrioli.
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Coprifuoco: siamo in guerra, anche se non si sentono spari
(Siamo in guerra, ma non si sentono spari. C’è solo un ronzio quotidiano, che lascia indovinare un colossale imbroglio. Nessuno sa più quello che sta succedendo, ma tutti credono ancora di saperlo e vivono come in tempo di pace, limitandosi a scavalcare macerie). Treni speciali. Spiegarono che le razioni sarebbero finite e bisognava ripensare la propria strategia familiare. Così dissero. Immaginavano che ciascuno fosse già pronto, da tempo, a contare sulle proprie risorse: indumenti, cibo, utensili. Un profugo si fece avanti con una valigia di euro. Dissero che poteva tenerseli: questione di giorni, e il loro valore sarebbe crollato al di sotto di un chilo di manzo, di un litro di benzina. Uno dei portavoce parlò chiaro: fortunato chi ha un campo, un orto, un pezzo di terra. Avevano compreso? Eccome. Tant’è vero che i montanari e quelli delle colline giravano già armati. E noi? Noi che facciamo, adesso? Quando prese la parola il delegato della circoscrizione metropolitana, la riunione si sciolse. Per voi ci saranno treni speciali per portavi al sicuro, disse in modo evasivo quello che sembrava il capo, sistemandosi il cinturone della tuta mimetica.
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Airbnb fa male: il turismo low cost sfratta i meno abbienti
Si presenta come la principale “success story” del capitalismo delle piattaforme digitali: oggi, Airbnb è un impero mondiale. Nata nell’ottobre 2007 a San Francisco con l’intuizione di creare un portale online che coniugasse domanda e offerta del turismo low cost, è diventata un colosso da 30 miliardi di dollari: solo nel secondo trimestre del 2019 ha realizzato oltre un miliardo. In costante espansione, si appresta ad acquisire nuove società con l’obiettivo di avere il monopolio del settore a livello globale. «I numeri del boom sono impressionanti, se pensiamo che il portale ha visto crescere gli annunci pubblicati dagli 8.126 del 2011 ai 400mila attuali», scrivono Vincenzo Carbone e Giacomo Russo Spena su “Micromega”. «Utilizzato soprattutto tra i più giovani e gli squattrinati, da un lato è uno strumento comodo che permette di viaggiare a basso costo, dall’altro è diventato per qualcuno un’attività semi-professionale dando la possibilità a chi ha una camera libera nella propria abitazione di affittarla per brevi periodi». Su ogni transazione effettuata, la piattaforma trattiene una percentuale: il 3% dall’host, una percentuale variabile (fino al 20%) dal turista. La tesi: il turismo low cost promosso da Airbnb è contro i poveri.«Nel suo frame narrativo – continuano Carbone e Russo Spena – Airbnb parla di “città condivisa” rivendicandosi il ruolo di competitor per le catene alberghiere e per il turismo di lusso. Si autorappresenta come l’opzione politicamente corretta: la rivincita del ceto medio e dei meno abbienti e un nuovo modo di viaggiare tramite lo home-sharing». In effetti, il boom delle stanze in affitto porterebbe benefici diffusi anche per i territori, dal ripopolamento dei centri abbandonati alla riqualificazione di intere aree. Ma è tutto oro quel che luccica? Qual è idea di città che si nasconde veramente dietro il business di Airbnb? Dopo anni di studio, Sarah Gainsforth, ricercatrice e giornalista, ha prodotto il libro “Airbnb città merce” (DeriveApprodi), nel quale effettua un’attenta disamina di questa florida società-prodigio della Silicon Valley, focalizzandosi sulle conseguenze urbane del turismo low cost. Il testo, secondo la recensione di “Micromega”, non risulta né ideologico né manicheo. «La retorica fasulla di Airbnb va combattuta con dati reali e storie vere di origine e resistenza», si legge nella prefazione. Dietro il comodo strumento di Airbnb, si celerebbe un modello di città escludente e diseguale.Innanzitutto, il suo business avalla il fenomeno della “gentrification”, ovvero la riqualificazione estetica dei quartieri impoveriti (ma, nello stesso momento, l’aumento dei prezzi e dei valori immobiliari: il che che provoca un ricambio di popolazione e l’espulsione, diretta o indiretta, degli abitanti meno facoltosi). Airbnb contribuisce a questa trasformazione urbana perché gli affitti temporanei di alloggi contraggono l’offerta di case in affitto, favorendo il rialzo dei valori immobiliari e dei canoni di locazione. Secondo la Gainsforth, Airbnb non è altro che «uno strumento di concentrazione della ricchezza proveniente dalla rendita immobiliare: fa profitti imponendo un modello di città sbagliato dove persiste un centro turistico e vetrina e la contemporanea espulsione degli abitanti verso le periferie», che poi diventano contenitori dell’emarginazione sociale. «Che Airbnb favorisca la classe media è una favola», spiega l’autrice in una recente intervista su “Left”: «Se lo fa è soltanto nel mascherare gli effetti delle politiche neoliberiste che sono alla base del suo stesso successo». Peraltro, «il ceto medio è vittima principale delle prassi urbane attivate dall’azienda, in quanto soggetto principale che subisce gli effetti della “gentrification”».Molte città in Europa – da Barcellona a Lisbona – secondo “Micromega” stanno correndo ai ripari per arginare quel turismo di massa che sta devastando il volto dei propri centri, palesandosi come il principale strumento di “gentrification” e di marketing delle città, diventate al tempo stesso “imprenditrici” e merce di consumo. Se il mantra dei nostri tempi è “il turismo genera ricchezza”, la domanda è: per chi? «Questo modello di marketing turistico concentra i profitti nelle mani di pochi operatori privati, principalmente le compagnie aeree, i tour operator e i proprietari immobiliari», sostiene il ricercatore Augustin Cocola-Gant, intervistato nel libro: «Tutti gli altri ne sono esclusi, quella che inizialmente poteva sembrare un’opportunità per la città si sta rivelando una dimensione drammatica». In Italia, città come Firenze, Napoli e Venezia stanno cambiando volto per l’invasione del turismo di massa: «Nel capoluogo toscano, oltre 8.200 annunci per case-vacanze su 11.200 sono nel centro storico, e ciò sta portando all’abbandono dal centro di molti residenti».La “monocultura turistica”, poi, sfrutta (come “merce esperienziale”) ogni valore territoriale, ogni aspetto delle culture materiali: dal patrimonio enogastronomico, alle relazioni sociali nei contesti di vita, dalle sagre ai mercatini tipici, dalle rievocazioni storiche alle più arcaiche pratiche delle culture tradizionali, scrivono Carbone e Russo Spena. Persino nelle forme «polverizzate non governate (immediatamente) dai grandi tour operator», la massificazione dell’industria turistica «ha reso “merce” le esperienze urbane e dei territori», trasfigurando i quartieri. Siti d’interesse turistico «hanno visto progressivamente mutare funzioni e significati», e intere aree urbane «subiscono trasformazioni nella composizione degli abitanti, nelle attività economiche e commerciali, nei tempi di vita, esclusivamente scanditi su quelli del consumo». Un nuovo deserto: «I panorami sociali di queste aree sono spopolati, pochissimi i residenti stabili, mentre le classi meno agiate e le famiglie di ceto medio vengono espulsi», visto che mancano “servizi di prossimità” e i costi crescono.Poi ci sono appartamenti di rappresentanza, usati solo per pochi giorni l’anno: «Case senza abitanti e abitanti senza casa rappresentano un altro stridente paradosso dei territori turistificati, nei quali si generano conflitti sull’uso dello spazio e sui significati attribuiti ai luoghi tra chi li vive quotidianamente e chi, invece, semplicemente, li consuma». Secondo Sarah Gainsforth, una nuova “trappola” dell’economia delle piattaforme digitali si è costituita nell’incontro tra dispositivi tecnologici e meccanismi di autoimpresa: accogliere turisti è rappresentato come un’attività facile (smart) e persino divertente, mentre le tecnologie digitali consentono di intercettare agevolmente la domanda di ospitalità, mentre la condivisione dello spazio domestico costituisce «una modalità creativa per l’integrazione del reddito». L’idea di abitare, scrive “Micromega”, è mutata dalla molecolarizzazione dell’impresa turistica contemporanea: fare soldi con il turismo significa sempre più spesso “vendere” i turisti, «una preziosa merce da mobilitare per carpirne l’attenzione e per estrarne capacità di spesa».La città e il territorio? «Costituiscono un mezzo di produzione, una risorsa estrattiva per questa forma di produzione: i luoghi sono rendite da cui trarre profitto». Di fatto, la finanza «ha ridisegnato le città non più soltanto facilitando l’acquisto delle case attraverso i mutui ipotecari, ma attraverso l’ascesa delle grandi corporazioni immobiliari sostenute dai mercati di capitale internazionale e del capitalismo delle piattaforme come Airbnb». In altre parole, va a farsi benedire la pianificazione urbanistica, insieme con l’idea di città come spazio essenzialmente pubblico. «Già esistono, in Europa, modelli per regolamentare la sharing economy», concludono Carbone e Russo Spena. «Il turismo è un fenomeno complesso che modifica il senso della città ed è necessario governarlo. Non si può più relegare all’economia predatoria delle piattaforme digitali come Airbnb. Ci vogliono scelte politiche innovative, radicali e coraggiose. In Italia quando?».(Il libro: Sarah Gainsforth, “Airbnb città merce. Storie di resistenza alla gentrificazione digitale”, DeriveApprodi, 190 pagine, 18 euro).Si presenta come la principale “success story” del capitalismo delle piattaforme digitali: oggi, Airbnb è un impero mondiale. Nata nell’ottobre 2007 a San Francisco con l’intuizione di creare un portale online che coniugasse domanda e offerta del turismo low cost, è diventata un colosso da 30 miliardi di dollari: solo nel secondo trimestre del 2019 ha realizzato oltre un miliardo. In costante espansione, si appresta ad acquisire nuove società con l’obiettivo di avere il monopolio del settore a livello globale. «I numeri del boom sono impressionanti, se pensiamo che il portale ha visto crescere gli annunci pubblicati dagli 8.126 del 2011 ai 400mila attuali», scrivono Vincenzo Carbone e Giacomo Russo Spena su “Micromega“. «Utilizzato soprattutto tra i più giovani e gli squattrinati, da un lato è uno strumento comodo che permette di viaggiare a basso costo, dall’altro è diventato per qualcuno un’attività semi-professionale dando la possibilità a chi ha una camera libera nella propria abitazione di affittarla per brevi periodi». Su ogni transazione effettuata, la piattaforma trattiene una percentuale: il 3% dall’host, una percentuale variabile (fino al 20%) dal turista. La tesi: il turismo low cost promosso da Airbnb è contro i poveri.
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Autopsia degli italiani: il nostro sistema-paese sta sparendo
Cos’hanno in comune le coppie che non vogliono avere figli, i ragazzi che se ne vanno all’estero, i pensionati che prendono la cittadinanza in paesi dove il costo della vita e delle tasse è più basso; oppure quanti rigettano i simboli viventi della vita italiana, dal crocifisso al presepe, quelli che chiedono di abbattere le frontiere e di lasciar entrare chiunque decida di vivere da noi e i censori che condannano chiunque voglia tutelare la nostra identità nazionale? Concorrono tutti, spesso a loro insaputa, al suicidio degli italiani o se preferite alla loro eutanasia. Corale, anche se spesso individuale. Molti di loro hanno buone ragioni personali, concrete e contingenti per le loro scelte e le loro rinunce. Non fanno figli perché si sentono precari, non hanno lavoro stabile né casa adeguata né sostegni di alcun tipo per metterli al mondo. Oppure vanno via dall’Italia perché qui non trovano lavoro, non vedono riconosciuti i loro studi, i loro meriti, la loro capacità. O ancora, abbandonano il paese perché sono tartassati e qui non ce la fanno a mantenere uno standard di vita adeguato, non si sentono garantiti come pensionati, temono la criminalità e sono disamorati del loro paese.Altri considerano l’Italia un corridoio umanitario, un luogo di transito e di approdo per chiunque voglia; reputano sacrosanto accogliere tutti, anche se sbarcati clandestinamente, perché sono umanitari, si mettono nei panni di chi parte, di chi arriva e sempre meno nei panni di chi fu, è o sarà italiano. O ancora: vogliono aprirsi al mondo e dar posto ad altri modi e modelli di vita, sono xenofili, desiderano le storie d’altri, sono stanchi delle proprie. Ragioni diverse tra loro, assolutamente non accorpabili e diseguali anche sul piano etico, diversamente rispettabili, ma il risultato è uno solo: si pongono mentalmente o fisicamente fuori dal loro paese, contribuiscono alla fine degli italiani, a cominciare da se stessi. Ciascuno a suo modo, spesso in buona fede e con le migliori intenzioni, stacca la spina all’Italia, concorre alla scomparsa degli italiani, si dimette da italiani o non ne garantisce la prosecuzione; accelera la cessazione della nazione e dell’identità collettiva. Per non dire dell’autodenigrazione nazionale e del diffuso vizio di rappresentare il mondo sempre a rovescio: i buoni sono quelli che vengono da fuori, i cattivi sono quelli di dentro.E tralascio la cornice di un paese in via di dismissione, marchi distintivi che vanno all’estero, aziende che chiudono, l’Italia che perde l’auto, il burro e l’acciaio, l’auto. Si cambia paese come si cambia gestore telefonico perché è più vantaggioso. Il dispatrio diventa solo una voltura. Sopravvivono come individui, come cittadini del mondo, come nomadi, utenti e consumatori, come esuli o profughi dal nostro paese, ma si cancellano come italiani, come famiglie, come abitati di una terra, di una città, scelgono l’evacuazione, la desertificazione, alimentano la sostituzione di popolo. Non riusciamo più a vedere le cose dal punto di vista sociale, comunitario, nazionale e tantomeno con lo sguardo storico e connesso al rapporto tra le generazioni; le vediamo solo dal punto di vista individuale, soggettivo, utilitario e contingente. O peggio, ideologico. Non riusciamo più a capire il senso storico di quel che stiamo vivendo e facendo, ci occupiamo solo dell’occasione del momento, siamo interamente immersi nella situazione, non siamo in grado di proiettare le scelte immediate nel futuro, di capirne gli effetti e di rapportarli al mondo circostante.Eppure sta avvenendo un processo storico importante e letale. È l’eutanasia di un popolo, di una nazione, di una civiltà. Ma se lo dici rischi pure di essere perseguitato a norma di legge come se la preoccupazione per la vita del tuo paese e del tuo popolo, fosse una forma di odio, di razzismo e di disprezzo nei confronti degli altri. È chiaro che l’italianità non si misura dal colore della pelle, e nemmeno da altri indicatori superficiali. Anzi, chi si affida solo a quelli già è estraneo allo spirito di una nazione, non capisce l’importanza di un’identità, di una cultura, di una tradizione nazionale. Ci sono bianchissimi e purissimi italiani che sono meno italiani nella testa e nel cuore di tanti altri, oriundi o sopraggiunti. Come si fronteggia il suicidio degli italiani? Innanzitutto assumendone coscienza, diventando consapevoli di quel che sta accadendo; poi cercando con realismo, senza velleità, possibili rimedi e possibili alternative ai percorsi ritenuti obbligati della deitalianizzazione in automatico; infine studiando, sollecitando e promuovendo iniziative, programmi, politiche, per rispondere al fenomeno e incoraggiarne la ripresa, a ogni livello.Invece non vedo niente di tutto questo, se non qualche scaramuccia di basso livello su qualche minchiata secondaria, come il caso Balotelli o poco altro. In particolare trovo sconfortante un’area politica che pure è maggioritaria nel paese ma si lascia dettare l’agenda dalla dittatura del politically correct e si limita a saltare o a non saltare al comando dei circensi. L’ultimo è stato il caso Segre, con la relativa commissione anti-odio, così prefabbricato. Prendete voi iniziative in senso inverso piuttosto che limitarvi a discutere se acconsentire, astenervi o respingere le iniziative altrui, nate al puro scopo di mettervi in difficoltà, spaccarvi e mantenere il bastone del comando, imponendo il loro canone. Anche perché nel caso in questione, non è in gioco una parte politica o una spicciola convenienza elettorale. È in gioco un popolo, una storia, una patria; il loro passato e il loro futuro.(Marcello Veneziani, “Il suicidio degli italiani”, da “La Verità” del 7 novembre 2019; articolo ripreso dal blog di Veneziani).Cos’hanno in comune le coppie che non vogliono avere figli, i ragazzi che se ne vanno all’estero, i pensionati che prendono la cittadinanza in paesi dove il costo della vita e delle tasse è più basso; oppure quanti rigettano i simboli viventi della vita italiana, dal crocifisso al presepe, quelli che chiedono di abbattere le frontiere e di lasciar entrare chiunque decida di vivere da noi e i censori che condannano chiunque voglia tutelare la nostra identità nazionale? Concorrono tutti, spesso a loro insaputa, al suicidio degli italiani o se preferite alla loro eutanasia. Corale, anche se spesso individuale. Molti di loro hanno buone ragioni personali, concrete e contingenti per le loro scelte e le loro rinunce. Non fanno figli perché si sentono precari, non hanno lavoro stabile né casa adeguata né sostegni di alcun tipo per metterli al mondo. Oppure vanno via dall’Italia perché qui non trovano lavoro, non vedono riconosciuti i loro studi, i loro meriti, la loro capacità. O ancora, abbandonano il paese perché sono tartassati e qui non ce la fanno a mantenere uno standard di vita adeguato, non si sentono garantiti come pensionati, temono la criminalità e sono disamorati del loro paese.
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Mazzucco: lo Stato si riprenda acciaio, energia e medicina
La drammatica vicenda dell’Ilva dimostra come non sia possibile, semplicemente, lasciare nelle mani dei privati le risorse strategiche di un paese: non perché l’operatore privato sia da demonizzare, ma perché è ovvio (nonché legittimo) che l’azienda intenda ricavarne un vantaggio economico per sé, anche a scapito del servizio destinato ai cittadini. Questo vale per una “materia prima semilavorata” come l’acciaio, che supporta l’intero sistema industriale nazionale, e vale a maggior ragione per il settore dell’energia. Lo afferma Massimo Mazzucco, esaminando mestamente il caso di Taranto, classico esempio di coperta troppo corta: o tuteli l’ambiente della città e la salute dei lavoratori, oppure – se invece pensi al profitto, cioè alla tua sopravvivenza come impresa – finisci per trascurare sia la sicurezza degli operai che quella degli sfortunati abitanti dei quartieri che sorgono a ridosso dello stabilimento inquinante. Discorso che Mazzucco estende all’immenso settore della sanità e della farmaceutica: come sperare che non si esca dalla logica del business, a scapito della salute, se l’intero, smisurato comparto medico-farmaceutico è completamente nelle mani delle multinazionali?In modo decisamente inconsueto, tra i servizi “di costume” che corredano i telegiornali a margine delle news principali, persino il Tg1 si è appena occupato dell’emblematica situazione di isolamento dei tanti villaggi disseminati sull’Appennino. Spopolamento vertiginoso, bambini costretti a percorrere decine di chilometri per raggiungere la scuola, intere borgate completamente isolate anche telefonicamente (circostanza per nulla rassicurante sul piano della sicurezza, nel caso di emergenze sanitarie o di calamità naturali). Un sindaco del Piacentino indica un palo telefonico divelto, in mezzo al bosco: questo stato di degrado, accusa, è letteralmente esploso da quando le compagnie telefoniche sono state privatizzate, cessando di garantire il servizio a tutti e penalizzando le aree dove vivono pochi utenti, cittadini trasformati in semplici clienti (assisterli, a quel punto, è diventato poco conveniente). C’è una sorta di deriva, di cui non si vede la fine: è caduta nel vuoto, in Parlamento, la mozione presentata dall’ex grillina Sara Cunial per chiedere una moratoria sull’installazione della rete wireless 5G. La richiesta: sospendere le operazioni per tre anni, periodo indicato da scienziati e sanitari per consentire di valutare le analisi in corso, circa l’impatto del 5G sul corpo umano. Tutto inutile: a nulla serve invocare il sacrosanto “prinicipio di precauzione”.Era stato lo stesso Mazzucco, mesi fa, a “scoprire” che aveva dimensione nazionale lo strano fenomeno dell’abbattimento dei grandi alberi nei centri abitati. Operazione condotta in modo quasi clandestino, spesso senza spiegazioni o con vaghi pretesti. «Succede anche nella vostra città?». All’appello di Mazzucco, via web, hanno risposto decine di persone, fornendo immagini e video: una vera e propria “strage” silenziosa, condotta all’insaputa degli italiani. Dai grandi media, silenzio di tomba – così come dalla politica. E’ stato Mazzucco, ancora lui, a scovare un inidizio: documenti governativi della Gran Bretagna raccomandano l’abbattimento degli alberi frondosi, nei centri abitati, perché la loro chioma ostacola la propagazione del segnale wireless di quinta generazione. Il mutismo della politica si fa addirittura assordante nel caso dell’obbligo vaccinale, anche se 130.000 bambini italiani (non vaccinati) nel 2019 sono stati esclusi dall’asilo, per la prima volta nella storia. La Regione Puglia, unico caso italiano, ha monitorato le “reazioni avverse”: 4 bambini su 10 hanno avuto problemi di salute, anche seri, dopo la somministrazione delle vaccinazioni polivalenti. Di questo, naturalmente, non si parla. La politica – tutta – recita il suo atto di dolore sull’Ilva. Ma il sistema-Italia è senza governo, a monte del rito sempre più inutile delle elezioni. Comanda il “pilota automatico”, a cui nessuno osa opporsi.(Massimo Mazzucco anima con Giulietto Chiesa ogni sera alle ore 21 le trasmissioni di “Contro Tv”, neonata voce indipendente dell’informazione italiana. Il pensiero di Mazzucco, reporter e documentarista, è rintracciabile sul blog “Luogo Comune”. Ogni sabato, infine, l’autore dà vita con Fabio Frabetti di “Border Nights” alla diretta web-streaming su YouTube “Mazzucco Live”).La drammatica vicenda dell’Ilva dimostra come non sia possibile, semplicemente, lasciare nelle mani dei privati le risorse strategiche di un paese: non perché l’operatore privato sia da demonizzare, ma perché è ovvio (nonché legittimo) che l’azienda intenda ricavarne un vantaggio economico per sé, anche a scapito del servizio destinato ai cittadini. Questo vale per una “materia prima semilavorata” come l’acciaio, che supporta l’intero sistema industriale nazionale, e vale a maggior ragione per il settore dell’energia. Lo afferma Massimo Mazzucco, esaminando mestamente il caso di Taranto, classico esempio di coperta troppo corta: o tuteli l’ambiente della città e la salute dei lavoratori, oppure – se invece pensi al profitto, cioè alla tua sopravvivenza come impresa – finisci per trascurare sia la sicurezza degli operai che quella degli sfortunati abitanti dei quartieri che sorgono a ridosso dello stabilimento inquinante. Discorso che Mazzucco estende all’immenso settore della sanità e della farmaceutica: come sperare che non si esca dalla logica del business, a scapito della salute, se l’intero, smisurato comparto medico-farmaceutico è completamente nelle mani delle multinazionali?
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Uber, non solo taxi: lavoratori sottopagati, come nell’800
Ci sono professioni che da tempo sono divenute obsolete e che rimangono in auge solo perché godono di una forte protezione legale. L’attività notarile è una di queste attività. La tecnologia però non minaccia mai davvero questo tipo di professioni, anche se sulla carta sembrerebbe proprio così. Il sistema dei blocchi algoritmici promossa dalla tecnologia blockchain, ad esempio, consentirebbe già a partire da domani mattina di sostituire i notai. Detto diversamente, non abbiamo più bisogno che qualcuno ci dica che l’immobile che abbiamo appena acquistato è di nostra proprietà… (e forse non ce n’è mai stato davvero bisogno). Eppure, questi retaggi ottocenteschi rimangono attuali grazie alla forte pressione politica che le notarili corporazioni riescono ad esercitare. Chi si deve davvero preoccupare delle nuove tecnologie sono invece i lavoratori comuni, i piccoli artigiani, gli autisti, ma se ciò avviene non è solo colpa dello sviluppo delle applicazioni informatiche.
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Gli scienziati: 5G e cancro. Il voto alla Camera: fermiamolo
Cancro, danni al Dna, riduzione della fertilità. «Fermate il 5G, potenzialmente pericoloso per la salute, in attesa che la scienza ne chiarisca il reale impatto sul nostro corpo». In vista del voto alla Camera il 7 ottobre, lo chiedono Sara Cunial del gruppo misto e quattro colleghi, le grilline Gloria Vizzini e Veronica Giannone più Silvia Benedetti (gruppo misto) e Manfred Schullian (minoranze linguistiche). Per la prima volta, annuncia Sara Cunial, ai parlamentari sarà sottoposto «un testo importantissimo», con cui si chiede di impegnare il governo a «sospendere qualsiasi forma di sperimentazione tecnologica del 5G nelle città italiane, in attesa della produzione di sufficienti evidenze scientifiche per giudicarne l’innocuità». Il governo viene anche invitato a «mantenere gli attuali valori-limite previsti dalla legge», riguardo alla soglia d’irradiazione elettromagnetica (che il 5G farebbe salire alle stelle). All’esecutivo “ecologista” di Giuseppe Conte, che annuncia un “green new deal”, si chiedono «iniziative per minimizzare il rischio» e anche l’introduzione di clausole di risarcimento, nei contratti delle aziende incaricate di predisporre la potentissima rete wireless di quinta generazione. Si chiede inoltre uno studio sugli effetti biologici delle radiofrequenze presso un ente indipendente che non sia l’Icnirp, accusato di conflitto d’interessi.Forti di una petizione sottoscritta da 11.000 cittadini, grazie all’alleanza italiana “Stop 5G” che ha coinvolto parlamentari e consiglieri regionali, sindaci, avvocati, scienziati e medici, nonché tecnici, giornalisti, movimenti e partiti, associazioni di malati e comitati civici, Sara Cunial e colleghi pretendono anche «una commissione di vigilanza permanente, per un monitoraggio finalmente serio e attendibile degli effetti che i campi elettromagnetici possono avere sulla salute umana». E’ allarme: con il 5G la nostra esposizione aumenterebbe in modo abnorme, grazie ad antenne collocate ovunque, a poche centinaia di metri l’una dall’altra. Più di 200 scienziati di tutto il mondo hanno rivolto un appello all’Ue per chiedere il blocco della tecnologia 5G a causa delle crescenti preoccupazioni per l’aumento delle radiazioni da radiofrequenza e dei relativi rischi per la salute. Un altro appello, sottoscritto da 54.000 cittadini, ha raccolto le adesioni di ricercatori e organizzazioni di 168 paesi al mondo e mette a disposizione una bibliografia ricchissima che attesta numerosi rischi biologici da elettrosmog. In Italia è stata avviata una prima sperimentazione nelle città di Prato, L’Aquila, Matera, Bari e Milano, a cui si sono aggiunte Roma, Torino e in ultimo Genova e Cagliari. Sono poi stati individuati 120 piccoli Comuni italiani in cui è prevista l’estensione della fase sperimentale del 5G.A insospettire decine di cittadini è stato il taglio improvviso dei grandi alberi nei parchi cittadini, in tutta la penisola: strano fenomeno, segnalato nei mesi scorsi al video-reporter Massimo Mazzucco. Due documenti ufficiali del governo inglese, conferma Mazzucco, certificano che «alberi e arbusti con un denso fogliame provocano un disturbo nella propagazione del segnale». Il 5 G è una rete veloce, capillare ed efficiente: può consentire di gestire ogni sorta di dispositivo. Il suo uso non sarà limitato alla navigazione ultra-veloce su Internet via smartphone e tablet, ma consentirà di creare una rete istantanea a cui ogni singolo dispositivo elettronico, anche domestico, sarà collegato. Le “smart city” del futuro saranno tutte collegate con il 5G: la nuova rete permetterà di gestire tutti i servizi e i dispositivi urbani. Viabilità e gestione del traffico, servizi per il cittadino, sensori di sicurezza e videosorveglianza: tutto sarà connesso e gestibile da remoto attraverso questa rete veloce e “a bassa latenza”, cioè onnipresente. Come si può immaginare, ci troviamo davanti ad un enorme giro d’affari: introiti che nel 2026 si aggireranno sui 1.307 miliardi di dollari.Saranno letteralmente rivoluzionati settori-chiave come l’agricoltura e la sanità, ma anche i trasporti e i media, l’intrattenimento, l’automotive e il commercio, i servizi finanziari e l’industria manifatturiera. Le infrastrutture del 5G vedono protagonisti colossi come Nokia, Ericsson, Cisco e Zte, ma anche Huawei. «Ben si comprende perché proprio quest’ultimo colosso cinese possa trovarsi al centro di un braccio di ferro con gli Usa, fortemente contrari alla presenza di Huawei all’interno del mercato delle infrastrutture “mobile” a causa di un possibile spionaggio internazionale da parte della Cina», scive il blog giuridico dello studio Cataldi. Secondo alcuni analisti politici, tra i motivi alla base della rottura del governo gialloverde ci sarebbe proprio il ruolo di Huawei in Italia: alla Lega di Salvini, anche convocando Giorgetti a Washington, gli Usa avrebbero inutilmente chiesto di far annullare gli impegni presi con il gigante cinese per la gestione della rete 5G. «In Italia – aggiunge lo studio Cataldi – la sfida per la copertura 5G è stata vinta da Tim e Vodafone, seguite da Wind-Tre e Iliad: le prime sperimentazioni sono attese per metà 2019, ma il debutto ufficiale è previsto nel il 2020. I primi telefonini dovrebbero essere sul mercato già dall’estate».Sara Cunial e colleghi ora chiedono al Conte-bis di «promuovere la ricerca di tecnologie più sicure, meno pericolose e alternative al wireless, come il cablaggio». Il governo italiano è invitato a farsi promotore, in sede Ue, di una revisione complessiva di tutta la normativa europea in materia. Quella ispirata dalle raccomandazioni dell’Icnirp, la “Commissione internazionale per la protezione dalle radiazioni non ionizzanti”, contiene disposizioni inattendibili perché «in evidente conflitto di interessi, causa riconosciuti legami con le lobby delle telecomunicazioni». Quella sottoposta alla Camera è una mozione supportata da evidenze scientifiche di peso internazionale. Da quest’anno, le radiofrequenze del wireless di quinta generazione sono considerate pericolose dallo Scheer, il Comitato scientifico sui rischi sanitari e ambientali dell’Ue, fino a ieri “negazionista” sugli effetti biologici dei campi elettromagnetici. Lo Scheer afferma che il «5G lascia aperta la possibilità di conseguenze biologiche». I campi elettromagnetici a radiofrequenza (Cem-Rf) promuovono lo stress ossidativo, una condizione implicata nello sviluppo del cancro, in diverse malattie acute e croniche e nell’omeostasi vascolare. Recenti studi – si legge nel testo integrale della mozione parlamentare – hanno anche suggerito effetti sulla riproduzione, metabolici e neurologici in grado di alterare la resistenza batterica agli antibiotici.Quest’anno, l’Alleanza contro il cancro (fondata nel 2002 dal ministero della salute e di cui fa parte l’Istituto superiore di sanità) ha ufficializzato un progetto di studio sul glioblastoma, tumore maligno del cervello, per il quale sono ipotizzate correlazioni con le onde elettromagnetiche. La legge 36 del 2001, in teoria, protegge gli italiani “dalle esposizioni a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici” anche mediante la promozione dalla ricerca scientifica. Obiettivo: valutare gli effetti e sviluppare l’innovazione tecnologica finalizzata a minimizzare l’intensità dell’esposizione. Lo stesso articolo 168 del Trattato di Lisbona impegna gli Stati a «proteggere la popolazione dai potenziali effetti nocivi dei campi elettromagnetici». Sebbene alcune evidenze scientifiche siano tuttora controverse, scrive la relazione sottoposta alla Camera, già nel 2011 l’Oms ha classificato i Cem-Rf come «possibile cancerogeno per l’uomo». Proprio in questi giorni, lo Iarc ha ufficializzato una rivalutazione della classificazione generale sulla cancerogenesi, che potrebbe comportare l’innalzamento delle radiofrequenze come «probabile agente cancerogeno». Problema: l’esito finale della riclassificazione è previsto entro i prossimi cinque anni. Inoltre, un ampio studio del 2018 a cura del programma nazionale di tossicologia degli Usa (National toxicology program), ha dimostrato un aumento significativo dell’incidenza del cancro cerebrale e del tumore al cuore negli animali esposti a campi elettromagnetici anche a livelli inferiori a quelli fissati nelle attuali linee-guida dell’Icnirp.«Peraltro, le linee-guida del monitoraggio si limitano per ora ad analizzare i soli “effetti termici a breve termine” simulati su manichini riempiti di gel», affermano Sara Cunial e gli altri parlamentari in allarme per il 5G. Impossibile fidarsi dell’Icnirp, «organismo privato con sede in Germania, già al centro di numerose polemiche e attacchi da parte di scienziati, medici e ricercatori di mezzo mondo». L’icnirp è stato spesso accusato di «conflitti d’interesse, contiguità con la lobby delle telecomunicazioni e scarsa trasparenza nell’operato». Inoltre, sempre secondo i firmatari della mozione italiana, l’Icnirp è «fermo su parametri obsoleti e superati dalla letteratura biomedica più recente», nonché «sostenitore di una tesi negazionista sui cosiddetti effetti non termici a medio-lungo termine dei Cem-Rf». Nel 2017, il medico svedese Lennart Hardell (il ricercatore più eminente al mondo sui rischi di tumore del cervello connessi all’uso a lungo termine dei telefoni cellulari) ha pubblicato sulla rivista scientifica “International Journal of Oncology” una dura critica all’Icnirp, avallata da alcuni esponenti politici del Consiglio d’Europa: non ci sono prove, sostiene Hardell, che l’Icnirp sia un’associazione di scienziati indipendenti e che sia l’interlocutore giusto per valutare gli effetti delle radiofrequenze.Martin Pali, professore emerito di biochimica e scienze mediche di base della Washington State University, nel 2018 ha denunciato «il pericolo per la salute umana derivabile dalle radiofrequenze e dal 5G», puntando il dito su «storture, falle metodologiche e grossolani limiti di contenuto evidenziati nel controverso documento diffuso dell’Icnirp». Secondo Pali, le raziazioni del 5G ci espongono ad almeno otto pericoli dimostrati: danni cellulari al Dna con rottura dei filamenti e ossidazione delle basi, diminuzione della fertilità maschile e femminile, aumento di aborti spontanei, abbassamento di ormoni come estrogeni, progesterone e testosterone, abbassamento della libido. E ancora: danni neurologici e neuropsichiatrici, apoptosi e morte cellulare; stress ossidativo e aumento dei radicali liberi (responsabili della maggior parte delle patologie croniche), nonché effetti ormonali, aumento del calcio intracellulare e infine “effetto cancerogeno” sul cervello, sulle ghiandole salivari e sul nervo acustico. Olle Johansson, neuroscienziato del Karolinska Institute (che assegna il Premio Nobel per la fisiologia e la medicina) ha affermato che la prova del danno causato dai campi elettromagnetici a radiofrequenza «è schiacciante».Un altro scienziato, Ronald Powell, fisico laureato ad Harvard e che ha lavorato presso la National Science Foundation e l’Istituto nazionale degli standard e della tecnologia, condivide preoccupazioni simili riguardo al potenziale danno diffuso dalle radiazioni a radiofrequenza. Recenti studi pubblicati nel 2018, realizzati dal Centro per ricerca sul cancro dell’Istituto Ramazzini, evidenziano poi «un aumentato rischio, sia per i tumori alla testa sia per gli schwannomi, il più pericoloso dei quali è il tumore cardiaco». Sono risultati «basati sulla sperimentazione animale su cavie uomo-equivalenti», che si sommano agli ultimi studi epidemiologici sugli utilizzatori di cellulari condotti dall’oncologo Lennart Hardell. Tutte ricerche che «fanno concludere agli studiosi che è tempo di aggiornare la classificazione Iarc». La stessa Ue ammette che i campi elettromagnetici «sono altamente focalizzati dai raggi, variano rapidamente con il tempo e il movimento», e proprio per questo «sono imprevedibili». Il problema, aggiunge Bruxelles, è che al momento «non è possibile simulare o misurare accuratamente le emissioni di 5G al di fuori del laboratorio, nel mondo reale».Altro rischio per la salute, l’elettrosensibilità accentuata dal 5G: già nel 2004 l’Oms denunciato a Praga questa «sindrome altamente invalidante e fortemente in crescita nei paesi occidentali e industrializzati». Una malattia definita come «un fenomeno in cui gli individui avvertono gli effetti avversi sulla salute quando sono in prossimità di dispositivi che emanano campi elettrici, magnetici o elettromagnetici». I ricercatori stimano che circa il 3% della popolazione mondiale ha gravi sintomi associati alla elettrosensibilità, mentre un altro 35% della popolazione ha sintomi moderati come «deficit del sistema immunitario o malattie croniche». In Italia, dal 2013, la sindrome è stata riconosciuta dalla Regione Basilicata e inclusa nell’elenco delle malattie rare. «In questo scenario in evoluzione, sebbene gli effetti biologici dei sistemi di comunicazione 5G siano scarsamente studiati (mancando uno studio preliminare degli effetti sulla salute), è iniziato un piano d’azione internazionale per lo sviluppo di reti 5G con un prossimo incremento nel numero di dispositivi e nella densità di piccole celle e con l’uso di onde millimetriche», avvertono Cunial, Vizzini, Giannone, Benedetti e Schullian.Non c’è da stare tranquilli: «Osservazioni preliminari hanno mostrato che le onde millimetriche aumentano la temperatura della pelle, alterano l’espressione genica, promuovono la proliferazione cellulare e la sintesi di proteine legate allo stress ossidativo». Le microonde del 5G, inoltre, causano «processi infiammatori e metabolici, possono generare danni oculari e influenzare le dinamiche neuromuscolari». Per questo «sono necessari ulteriori studi per esplorare meglio e in modo indipendente gli effetti sulla salute dei Cem-Rf in generale e delle onde millimetriche in particolare», insistono i cinque parlamentari. Secondo diversi scienziati, sono necessari ulteriori studi per esplorare in modo migliore e indipendente gli effetti sulla salute (dei campi elettromagnetici a radiofrequenza in generale, e delle microonde millimetriche del 5G in particolare). «Tuttavia, i risultati disponibili appaiono sufficienti per dimostrare l’esistenza di effetti biomedici, per invocare il principio di precauzione, per definire i soggetti esposti come potenzialmente vulnerabili e per rivedere i limiti esistenti». I promotori si augurano che la mozione alla Camera metta fine «alla svendita dei nostri diritti sanitari e ambientali, ceduti per soddisfare interessi economici». Chiosa Sara Cunial: «Confidiamo che il voto in aula sia unanime e che riacquistino priorità il principio di precauzione, i diritti dei cittadini e la nostra stessa Costituzione, che prescrive la tutela della salute pubblica».Cancro, danni al Dna, riduzione della fertilità. «Fermate il 5G, potenzialmente pericoloso per la salute, in attesa che la scienza ne chiarisca il reale impatto sul nostro corpo». In vista del voto alla Camera il 7 ottobre, lo chiedono Sara Cunial del gruppo misto e quattro colleghi, le grilline Gloria Vizzini e Veronica Giannone più Silvia Benedetti (gruppo misto) e Manfred Schullian (minoranze linguistiche). Per la prima volta, annuncia Sara Cunial, ai parlamentari sarà sottoposto «un testo importantissimo», con cui si chiede di impegnare il governo a «sospendere qualsiasi forma di sperimentazione tecnologica del 5G nelle città italiane, in attesa della produzione di sufficienti evidenze scientifiche per giudicarne l’innocuità». Il governo viene anche invitato a «mantenere gli attuali valori-limite previsti dalla legge», riguardo alla soglia d’irradiazione elettromagnetica (che il 5G farebbe salire alle stelle). All’esecutivo “ecologista” di Giuseppe Conte, che annuncia un “green new deal”, si chiedono «iniziative per minimizzare il rischio» e anche l’introduzione di clausole di risarcimento, nei contratti delle aziende incaricate di predisporre la potentissima rete wireless di quinta generazione. Si chiede inoltre uno studio sugli effetti biologici delle radiofrequenze presso un ente indipendente che non sia l’Icnirp, accusato di conflitto d’interessi.
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Atlantide, la scienza convalida Platone: cataclisma nel 9500
Aveva ragione Platone: Atlantide esisteva davvero e fu sommersa dall’oceano attorno al 9.600 avanti Cristo. La causa? L’impatto di una “pioggia cometaria” catastrofica. A confermarlo non è l’archeologia, ma la geologia: grazie a Richard Firestone e James Kennett, ora sappiamo che il pianeta fu sconvolto da una sequenza impressionante di cataclismi di origine cosmica, come dimostrano i sedimenti di nano-diamanti “extraterrestri” rinvenuti nelle aree degli impatti. Nel “Crizia” e nel “Timeo” il sommo filosofo greco aveva parlato di una civiltà superiore, preesistente alla nostra, spazzata via da una specie di diluvio universale? E’ andata proprio così, dicono i geologi dal 2014 a questa parte. O meglio: gli scienziati spiegano che proprio 12.000 anni fa – nel periodo indicato da Platone – ci fu un azzeramento planetario. E questo spiazza gli archeologi, che ancora si ostinano a far risalire le nostre origini a un’epoca assai più recente, benché vengano smentiti, di giorno in giorno, dalle scoperte della “rivoluzione archeologica” ormai in atto, difficilmente arrestabile. Lo sostiene Graham Hancock, massimo divulgatore mondiale in materia. E lo sottolinea Nicola Bizzi, autore dell’originalissimo saggio “Da Eleusi a Firenze”.Il lavoro di Bizzi, edito da Aurora Boreale, conferma in modo impressionante come le ultime rivelazioni scientifiche non siano mai state un segreto per gli iniziati ai “misteri eleusini”, comunità di cui lo stesso Bizzi fa parte, per via familiare, essendo stata ben radicata – sottotraccia – nella fiorentissima Firenze dei Medici. Il cosiddetto “mito” eleusino nasce alle porte di Atene, quando la dea Demetra – ultima discendente dei Titani, sconfitti dagli dei olimpici – mette a parte i seguaci del “segreto” dell’origine umana: saremmo stati “fabbricati” dalle divinità titaniche come Poseidone. Da allora (1300 avanti Cristo), il santuario di Eleusi diventa il presidio di questa “verità misterica”, custodita dai sacerdoti di Demetra, eredi di quell’antica rivelazione. Suggestioni vertiginose: per volere di Augusto, il poeta Virgilio celebra la nascita di Roma ad opera di Enea, ultimo eroe di Troia. La guerra omerica dell’“Iliade” sarebbe la traccia letteraria della resa dei conti finale tra i Titani e Zeus, di cui parla anche Esiodo nella sua “Teogonia”.Attenti ai simboli: per la tradizione misterica, la stessa Demetra arrivò a Eleusi partendo da Enna, in Sicilia. In queste tre fonti (Omero, l’“Eneide” e il culto eleusino) ricorre la radice “En’n” (inizio). Non casuale, quindi, il nome di Enea: il troiano fondatore di Roma sarebbe stato l’erede della civiltà “atlantidea”, estesasi nel Mediterraneo prima del grande cataclisma “cometario” che stravolse la Terra. Ma in realtà, anziché “atlantidea”, quella civiltà-madre (nord-atlantica e poi anche minoica, basata a Creta e poi in tutto l’Egeo fino all’Asia Minore) era chiamata “ennosigea”, dal nome di una delle principali di quelle sette macro-isole, chiamata appunto En’n. Questa possibile verità parallela – tranquillamente esposta da Platone – fu tollerata per quasi duemila anni, fino allo sciagurato Editto di Tessalonica del 380 dopo Cristo, quando l’imperatore Teodosio trasformò il neonato Cristianesimo in religione di Stato, l’unica autorizzata, mettendo fuorilegge tutte le altre e dando il via alla feroce persecuzione del paganesimo.A partire da quell’anno, scrive Bizzi nel suo affascinante saggio, tutti i templi eleusini fuorno distrutti – tranne quello di Eleusi, che venne semplicemente abbandonato. Da allora, la “comunità eleusina” si rassegnò a sopravvivere in clandestinità, con esiti spesso clamorosi come il Rinascimento italiano, promosso da principi illuminati del calibro di Lorenzo il Magnifico, espressione della tradizione eleusino-pitagorica. Stando a Bizzi, in possesso di documenti inediti e gelosamente conservati per secoli, erano “eleusini” anche i grandi architetti della Roma rinascimentale, ingaggiati dai Papi medicei. E sempre a Firenze, alla fine del Trecento, si svolse il più incredibile dei summit: alla corte dei Medici si sarebbero confrontati i rappresentati vaticani e persino gli emissari del Celeste Impero cinese, per decidere se e come diffondere la notizia della spedizione navale dello scozzese Henry Sinclair, conte delle Orcadi, sbarcato in America (cent’anni di prima di Colombo) con 40 navi templari sulle coste del Rhode Island.Siamo alla vigilia di scoperte sensazionali sulla vera storia della nostra civiltà? Certo non ci è d’aiuto l’archeologia ufficiale, scrive Bizzi in un’accurata ricostruzione su Facebook, in cui spiega le ragioni dell’assurda reticenza della disciplina archeologica accademica, oggi quotidianamente scavalcata dai nuovi ricercatori, archeologi e non, disposti a procedere incrociando i loro dati con quelli dei geofisici, dei climatologi, dei paleontologi, degli astrofisici. «Considerata in passato come scienza ausiliaria della storia, adatta a fornire documenti materiali per quei periodi non sufficientemente illuminati dalle fonti scritte – ragiona Bizzi – l’archeologia è stata sempre considerata come una delle quattro branche dell’antropologia (insieme all’etnologia, la linguistica e l’antropologia fisica)». I suoi difetti? «Ottusità, malafede, e soprattutto anti-scientificità». Dice Bizzi: «È doloroso doverlo affermare, ma l’archeologia è oggi una delle poche discipline scientifiche (o con pretesa di scientificità) che non procedono secondo un metodo “scientifico”».Una disciplina, l’archeologia, «corrosa e inquinata da pesanti rivalità professionali, da miopia e da ristrettezza di vedute», nonché «minata da una cronica mancanza di fondi per gli scavi e per la preservazione del patrimonio finora scoperto». Soprattutto, «anziché comportarsi da vera disciplina “complementare”, come dovrebbe essere», l’archeologia «si rifiuta di accettare i dati di supporto della geologia, della chimica, della biologia, dell’astronomia e di altre discipline, e resta chiusa in sé stessa e nel suo immobilismo». Risultato: «Tutte le scoperte “scomode”, che rischiano di alterare o stravolgere il “paradigma” comunemente accettato, vengono sistematicamente nascoste, occultare: ne viene negata la pubblicazione e la conoscenza da parte dell’opinione pubblica». Così, a forza di “questo non si può dire”, il sapere «si riduce a dogma di fede». Nel testo “La struttura delle rivoluzioni scientifiche”, lo storico della scienza Thomas Kuhn definisce il paradigma scientifico «un risultato universalmente riconosciuto che, per un determinato periodo di tempo, fornisce un modello e soluzioni per una data comunità di scienziati».Solo le discipline più mature, non a caso, possiedono un paradigma stabile, osserva Bizzi. «E il paradigma prevalente rappresenta spesso una forma specifica di vedere la realtà o le limitazioni di proposte per l’investigazione futura». In altre parole, «un freno e un limite talvolta inaccettabile». Lo stesso Hancock, parlando di “paradigma archeologico”, sostiene che l’archeologia ortodossa si basa su «presupposti aprioristici riguardo a ciò che accadde in passato», e li usa come pretesto «per non effettuare indagini ad ampio raggio su ciò che effettivamente accadde». Scarsa cultura, stupidità o malafede? E’ Kuhn il primo a sostenere che, in modo complementare, «una rivoluzione scientifica sia necessariamente caratterizzata da un cambiamento di paradigma». E questa “rivoluzione”, archeologica e non solo, secondo Bizzi è ormai in corso da vent’anni. Cambio di paradigma, appunto: «Benché persistano all’interno degli ambienti accademici una grande miopia e una malcelata ottusità, stiamo assistendo fortunatamente ad un ricambio generazionale, alla crescita professionale e all’avvento di una nuova generazione di giovani storici e archeologi con uno spettro di vedute un po’ più ampio della precedente, e soprattutto con più determinazione e con una maggiore apertura verso la multidisciplinarietà».Certo, «sono ancora pochi quelli disposti a rischiare, magari a compromettere le loro carriere pur di portare avanti teorie innovative». Ma comunque «quei pochi ci sono, e sono sempre di più». Aggiunge Bizzi: «Questa rivoluzione è ormai partita e ritengo che niente possa più fermarla». Un dato sicuramente a favore dei pochi coraggiosi “pionieri” di questo nascente revisionismo storico-archeologico – spiega Nicola Bizzi – è sicuramente il rinnovato interesse da parte dell’opinione pubblica, indubbiamente favorito dall’avvento e dalla diffusione di Internet, che ha potenzialmente ampliato in maniera esponenziale l’accesso ai dati e alle notizie. «Inoltre, grazie alla pubblicazione e alla diffusione a livello mondiale di libri rivoluzionari di studiosi come Robert Bouval, Graham Hancock, John Antony West, Alan Alford, e alla nascita di importanti testate giornalistiche e riviste specializzate a larga diffusione, come l’italiana “Archeomisteri”, sta sempre più crescendo nell’opinione pubblica l’interesse per l’archeologia, e soprattutto la voglia di sapere, di conoscere, di non limitarsi alle apparenze e alle verità ufficiali e di comodo».Bizzi cita il ricercatore italiano Mauro Quagliati, secondo cui «la rivoluzione archeologica parte dall’Egitto». È infatti proprio grazie a tutta una serie di nuove scoperte inerenti alla Sfinge e alle piramidi, che questa “rivoluzione” ha potuto finalmente aprirsi un varco nell’immobilità degli accademici. Nonostante le negazioni a oltranza di certe “autorità”, proprio dall’Egitto sono emersi dei dati estremamente importanti. Recenti scoperte hanno dimostrato ad esempio, con il supporto della geologia, che la Sfinge è stata scolpita non meno di 12.000 anni fa. Il suo corpo è stato infatti eroso da millenni di piogge tropicali, quando l’Egitto aveva un clima ben diverso dall’attuale. Molte altre nuove scoperte tenderebbero a datare alla stessa epoca le tre piramidi di Giza, il Tempio della Valle e molti altri monumenti egizi. «A chi mi chiede se la mitica Atlantide descritta da Platone sia realmente esistita o se si tratti solo di una leggenda – scrive Bizzi – solitamente ribadisco che prima di rispondere dobbiamo partire dalla constatazione di quella che è una realtà oggettiva: la storia della civiltà umana sulla Terra si spinge molto più indietro nel passato di quanto ci venga oggi insegnato sui banchi di scuola».Fino a pochi anni fa, il passato dell’uomo sembrava non avere misteri: sulla base di alcuni rinvenimenti gli scienziati credevano di poter stabilire, a grandi linee, la storia della nostra evoluzione, di essere in grado cioè di seguire lo sviluppo della civiltà attraverso le Età della Pietra, del Bronzo e del Ferro. Ma lo schema fissato da questi studiosi era troppo semplicistico per rispecchiare la realtà. Lo dimostrarono migliaia di successive scoperte che, lungi dal completare il mosaico, lo ampliarono, estendendone le tracce in ogni direzione e rendendolo più incomprensibile che mai. «Oggi ci troviamo di fronte a tracce di grandi culture fiorite in epoche che avrebbero dovuto essere caratterizzate da un’assoluta primitività, almeno secondo le teorie canoniche della “scienza ufficiale”. Segni evidenti ci attestano l’esistenza di importanti baluardi di civiltà là dove non li avremmo mai sospettati». In sostanza, «oggi gli storici e gli scienziati avrebbero in mano dati, nozioni e prove ormai certe tali da poter retrodatare di migliaia di anni la storia della civiltà umana», come dimostra la rivoluzionaria scoperta di Göbekli Tepe, nella Turchia orientale: un sito archeologico imponente e straordinario, fino ad oggi solo in minima parte portato alla luce, la cui datazione ufficiale si attesta oltre il 9.500 avanti Cristo.Per non parlare di altri siti come quello bosniaco di Visoko, le cui impressionanti piramidi sono state datate addirittura al 29.000 avanti Cristo. «Penso sinceramente che, se non assisteremo a una “manipolazione” di questa rivoluzione archeologica – sostiene Bizzi – il castello di carte degli storici accademici sia destinato inesorabilmente a crollare». Sarà allora, aggiunge lo storico, che il “paradigma” sarà finalmente rovesciato. Quel giorno, «la verità inizierà a venire alla luce in tutto il suo splendore». Per ora, resta “pericoloso” mettere in discussione, dal punto di vista storico, persino alcuni eventi della Seconda Guerra Mondiale, «quindi possiamo immaginarci quanto pericoloso possa essere mettere in discussione l’intera cronologia ufficiale della storia dell’uomo». Per Bizzi, «esistono dei “poteri forti”, delle vere e proprie “lobby” che pretendono di decidere sulle teste dei cittadini di questo mondo in tutti campi, non soltanto nella politica e nell’economia, ma anche nella storia: lobby di potere che hanno sempre attuato una sistematica e deliberata soppressione delle informazioni relative alle scoperte archeologiche più “scomode”, operando simultaneamente, oltre al taglio dei fondi e delle risorse, al discredito professionale degli archeologi impegnati in determinate ricerche e in determinati scavi».Francamente, ammettere l’esistenza di una civiltà avanzata prima dell’inizio della nostra era «comporterebbe una vera rivoluzione dei parametri storici: tutto sarebbe da riscrivere e molti ostinati negatori di certe realtà perderebbero la faccia». Per gli studiosi “ortodossi” è molto più facile attenersi al vecchio “paradigma” e ignorare le nuove scoperte, piuttosto che «intraprendere ricerche archeologiche e subacquee che si rivelerebbero costosissime ed estremamente difficoltose». Ma alla fine, «anche i più miopi e ostinati non potranno farlo ancora a lungo». Queste nuove scoperte “scomode” infatti si susseguono, sempre più numerose, con un ritmo ormai impressionante. «E gli argini della diga del “paradigma” mostrano crepe e spaccature ogni giorno più grandi». Come evidenzia Graham Hancock nel suo libro “Il ritorno degli Dei”, una casa costruita sulla sabbia rischia sempre di crollare. «E le prove dimostrano con sempre maggiore evidenza che l’edificio del nostro passato eretto dagli storici e dagli archeologi poggia su fondamenta difettose e pericolosamente instabili». Tra il 10.800 e il 9.600 il nostro pianeta «venne sconvolto da un cataclisma di dimensioni apocalittiche». Si trattò, come sottolinea Hancock, di «un evento che ebbe conseguenze globali e che influì molto profondamente sul genere umano», restando vivo nella memoria, nei miti e nelle tradizioni di tutti i popoli.Un evento sul quale molto è stato scritto, dibattuto e teorizzato, dal medioevo fino ad oggi. Ma soltanto fra il 2007 e il 2014 è stato pienamente confermato dalle prove e dalle testimonianze scientifiche, afferma lo storico fiorentino. Il lavoro divulgativo di Hancock, basato su rigorose ricerche scientifiche, riporta tutti i riscontri oggettivi del cataclisma che sconvolse il mondo tra 12.800 e 11.600 anni fa. «Ci fornisce le tanto attese prove che ci permettono di far uscire una volta per tutte questo evento di portata apocalittica dal calderone delle ipotesi e dalle nebbie del mito, contestualizzandolo cronologicamente e geograficamente». Come ha scritto Randall Carlson in “My Journey to Catastrophism”, «il nostro è un pianeta terribilmente dinamico, che ha subito cambiamenti profondi su una scala che supera di gran lunga qualsiasi cosa accaduta in un arco di tempo a noi prossimo». Quello che chiamiamo “la nostra storia”, dice Carlson, «è semplicemente la testimonianza di eventi umani che si sono verificati a partire dall’ultima grande catastrofe planetaria».Eppure, i popoli con i quali solitamente si vuol fai iniziare la storia “ufficiale”, ovvero i Sumeri e gli Egiziani, ci hanno lasciato documenti scritti che parlano di migliaia di anni della loro storia, precedenti a quella che conosciamo: migliaia di anni di storia precedenti al grande evento apocalittico che, in tutte le culture, fa da cerniera temporale fra il “prima” e il “dopo”. Come osserva lo stesso Hancock, alla luce delle nuove scoperte ci troviamo nel mezzo di un profondo “cambiamento di paradigma” per quanto riguarda il modo in cui guardiamo l’evoluzione della civiltà umana. Gli archeologi? Hanno la pessima abitudine di considerare gli impatti cosmici come fossero lontani milioni di anni, e in più «sostanzialmente irrilevanti nell’arco dei 200.000 anni di esistenza dell’uomo anatomicamente moderno». Finché si credeva che l’ultimo grande impatto fosse stato quello con l’asteroide che 65 milioni di anni fa si ritiene che abbia spazzato via i dinosauri, aveva ovviamente poco senso cercare di correlare gli incidenti cosmici su questa scala quasi inimmaginabile con l’arco di tempo molto più breve della storia dell’umanità. Ma a cambiare tutto, scrive Bizzi, è «lo scenario da incubo emerso dalle ricerche di quel gruppo di scienziati che ha recentemente dimostrato il devastante impatto del Dryas Recente, vale a dire quell’evento sconvolgente di dimensioni apocalittiche che ha sconvolto il nostro pianeta solo 12.800 anni fa, alle porte della nostra storia “ufficiale”».Significa «rovesciare il tavolo con tutto quello che c’è sopra», come si intuisce osservando «le tenaci e disperate resistenze dell’establishment accademico, fin dall’inizio rivolte verso gli studi rivoluzionari di Joseph Harlen Bretz prima e verso le scoperte di Jim Kennett e del suo team di scienziati poi». Resistenze paradossali, visto che ora emerge le nostra civiltà non nasce affatto nel Neolitico, ma assai prima. Ovvio: il vecchio “paradigma”, semplicemente, ignorava il cataclisma planetario. Si scatenò nel Dryas Recente (tra i 12.800 e gli 11.600 anni fa) e venne immediatamente seguito da grandi e importanti segnali di civiltà, come quella di Göbekli Tepe in Turchia. «Non si trattava di civiltà primitive appena uscite dalle caverne, bensì di popoli con strutture sociali complesse e già evolute, con alto senso artistico e religioso e con conoscenze astronomiche e architettoniche chiaramente riscontrabili negli imponenti edifici e monumenti che ci hanno lasciato». Oggi, ormai costretti dall’evidenza e dalle datazioni, gli archeologi definiscono i resti di Göbekli Tepe «primi esperimenti di vita civilizzata», che ebbero luogo subito dopo il “punto di interruzione” rappresentato dal Dryas Recente. «Ma non tengono conto del trauma immane e della distruzione globale messi in moto dagli impatti cosmici che causarono il Dryas Recente». E questo, per Bizzi, «rappresenta una vera e propria carenza nei metodi di ricerca e di valutazione».Peggio ancora: «Non si è pensato di considerare anche solo per un momento la possibilità che capitoli cruciali della storia umana, forse persino una grande civiltà della remota preistoria, possano essere stati cancellati (anche se ciò non è avvenuto nella memoria storica e nei miti di tutti i popoli antichi) da questi impatti e dalle inondazioni, dalle piogge nere bituminose, dall’oscurità e dal freddo indescrivibile che ne seguirono». Fino a non molti anni fa gli studiosi e i ricercatori indagavano su questo cataclisma apocalittico, di cui esitevano molteplici evidenze, ma non ancora le prove scientifiche delle sue cause. Ipotizzavano l’impatto di un meteorite di considerevoli dimensioni, sul modello di quello che si ritiene abbia provocato la scomparsa dei dinosauri. Con l’inizio del nuovo millennio, invece, si è fatta strada un’ipotesi «assai più inquietante, corroborata dalla massa crescente di indizi attestanti che 12.800 anni una cometa gigante, in viaggio su un’orbita che la portò a intersecare il Sistema Solare interno, si frantumò in una miriade di frammenti». Molti dei quali, con un diametro anche superiore ai 2 chilometri, colpirono la Terra.Epicentro del disastro: il Nord America. Luogo dell’impatto: la calotta glaciale nord-americana. Conseguenze: «Lo scioglimento di colossali masse di ghiaccio causò spaventose alluvioni e maremoti, proiettando grandi nuvole di polvere nell’alta atmosfera, avvolgendo l’intero pianeta e impedendo per lungo tempo ai raggi del Sole di raggiungere la superficie». Era stata finalmente individuata la vera causa, che negli anni successivi sarebbe stata corroborata da solide prove scientifiche, del misterioso e repentino periodo di congelamento globale che i geologi chiamano Dryas Recente. «In sostanza, stava emergendo una verità a lungo solo ipotizzata e da molti, in ambito scientifico ed accademico, temuta e rifiutata». L’ultima conferma viene da “The Journal of Geology”, che riporta «la scoperta di un grandissimo quantitativo di nanodiamanti, rilevati in una vasta aerea ritenuta quella dei principali impatti». Si tratta di «diamanti microscopici che si formano in condizioni estremamente rare di pressione e calore di livelli altissimi, e sono ritenuti le impronte caratteristiche – proxy, o indicatori diretti, nel linguaggio scientifico – di potenti impatti di comete o asteroidi».E il team di scienziati guidato da Richard Firestone e da James Kennett, nel 2014, dopo sette anni di accese discussioni e dibattiti, spiegò che i campioni di sedimento sui quali si fondavano le prove contenevano, oltre ai nanodiamanti, diversi altri tipi di detriti che potevano avere unicamente un’origine extraterrestre, riconducibili a una cometa o a un asteroide. Tra i detriti, «minuscole sferule di carbonio che si formano quando goccioline di materiale organico fuso si raffreddano rapidamente a contatto con l’aria e molecole di carbonio contenenti il raro isotopo Elio-3, molto abbondante nel cosmo, ma non sulla Terra». Il team arrivò poi alla conclusione che la causa della devastazione fosse da imputare a una cometa, e non a un asteroide, dal momento che nello strato principale dei sedimenti esaminati erano del tutto assenti gli alti livelli di Nichel e Iridio che caratterizzano gli impatti degli asteroidi. «Si delineavano così con chiarezza le cause scatenanti del Dryas Recente: l’impatto dei frammenti di una super-cometa che avrebbero colpito la calotta glaciale nord-americana in più punti e una vasta aerea dell’emisfero settentrionale, arrivando a toccare il Mediterraneo, la Turchia e la Siria».Riassumendo: gli autori dello studio immaginano «un’onda d’urto devastante e di altissima temperatura che provocò un picco di sovrapressione, seguito da un’onda di pressione negativa, che diede luogo a venti intensi che spazzarono il Nord America viaggiando a centinaia di chilometri orari, accompagnati da potenti vortici generati dagli impatti». Non solo: «Una sfera di fuoco rovente avrebbe saturato la regione vicina agli impatti». E a distanze maggiori, il rientro in atmosfera ad altissima velocità del materiale surriscaldato (espulso al momento delle collisioni) avrebbe provocato «enormi incendi che avrebbero decimato foreste e praterie, distruggendo le riserve di cibo degli erbivori e producendo carbone, fuliggine, fumi tossici e cenere». E in che modo tutto ciò avrebbe potuto causare il drammatico congelamento del Dryas Recente? Gli autori dello studio propongono varie concause: la più rilevante sarebbe stata «l’enorme pennacchio di vapore acqueo proveniente dallo scioglimento della calotta glaciale». Sarebbe stato scagliato nell’atmosfera, combinato a immense quantità di polvere e detriti composti da frammenti dei corpi impattanti, dalla calotta glaciale e dalla crosta terrestre sottostante, oltre al fumo e alla fuliggine prodotta dagli incendi che devastarono l’intero continente.Nel complesso, come rileva Hancock, risulta abbastanza facile capire in che modo una tale quantità di detriti proiettata nell’atmosfera potesse aver portato ad un rapido raffreddamento, bloccando il passaggio della luce solare. L’insieme di vapore acqueo, fumo, fuliggine e ghiaccio – continua Bizzi – avrebbe generato una cortina persistente di nubi “nottilucenti”, con conseguente diminuzione della luce solare e raffreddamento della superficie, riducendo in tal modo l’insolazione alle alte latitudini, aumentando l’accumulo nevoso e causando un ulteriore abbassamento delle temperature in un ciclo continuo di retroazione. Per quanto devastanti, questi fattori diventano quasi insignificanti se paragonati alle conseguenze che gli impatti possono aver avuto sulla calotta glaciale: «Il maggiore effetto potenziale sarebbe stata la destabilizzazione e quindi lo scioglimento parziale della calotta glaciale in seguito all’impatto. Nel breve periodo ciò avrebbe liberato repentinamente acqua di disgelo e enormi blocchi di ghiaccio negli oceani del Nord Atlantico e dell’Artico, abbassando la salinità con conseguente raffreddamento superficiale».«Gli effetti di congelamento a lungo termine – aggiungono gli studiosi – sarebbero derivati in gran parte dal successivo indebolimento della circolazione termoalina nell’Atlantico Settentrionale, mantenendo un clima freddo nel Dryas Recente per più di 1.000 anni, fino a quando i meccanismi ciclici ripristinarono la circolazione oceanica». I risultati pubblicati su “Proceedings of the National Academy of Science” il 4 giugno 2013 beneficiarono inoltre dei più recenti progressi nella tecnologia del radiocarbonio per raffinare la datazione dell’impatto cosmico da 12.900 a 12.800 anni fa e resero possibile una mappatura molto più particolareggiata dell’area di dispersine del materiale da impatto, che incluse quasi 50 milioni di chilometri quadrati del Nord, Centro e Sud America, una grande sezione dell’Oceano Atlantico e gran parte dell’Europa, del Nord Africa e del Medio Oriente. E il fatto che i calcoli, presenti negli studi del 2013, indicassero il deposito di oltre dieci milioni di tonnellate di sferule all’interno di questo vasto campo di caduta, uniti agli studi presentati l’anno successivo sulla presenza nell’area interessata di enormi quantità di nanodiamanti, fece sì da togliere dalla mente dei ricercatori ogni dubbio sul fatto che al centro di tutto questo vi fosse un impatto cosmico, e nello specifico l’impatto di una supercometa.Sono stati, infine, individuati con chiarezza anche diversi punti d’impatto: la depressione di Charity Shoal nel Lago Ontario, la conca di Bloody Creek nella Nuova Scozia, il cratere di Corossol nel Golfo di San Lorenzo in Canada e l’area di Quebacia Terrain, sempre in Canada, ad Ovest di Corossol. E questi elencati, aggiunge Bizzi, sono i punti d’impatto che è stato possibile individuare grazie alle evidenze geologiche, mentre si ritiene che quelli maggiori e più devastanti, dovuti a frammenti della cometa di dimensioni nell’ordine di due chilometri e mezzo di diametro, abbiano riguardato la calotta di ghiaccio in punti più a Nord e più a Ovest. Ciò che colpisce in special modo, nel risultato di queste scoperte, secondo Hancock è il fatto che i cambiamenti climatici (avvenuti sia all’inizio che alla fine del Dryas Recente) abbiano avuto estensione planetaria e si compirono entrambi nell’arco di una generazione umana: 12.800 anni fa, una forza esplosiva combinata (10 milioni di megatoni) avrebbe sollevato nell’atmosfera sufficiente materiale da far piombare la Terra in una lunga, prolungata oscurità simile ad un inverno nucleare, cioè quel “periodo di oscurità” di cui parlano tanti antichi miti.Poi, il repentino riscaldamento verificatosi 11.600 anni fa, che pose fine al Dryas Recente, sarebbe sì in parte spiegabile con la dispersione finale della nuvola di materiale espulso. Ma vi sarebbe, a completare il quadro, anche un’altra spiegazione complementare: secondo gli scienziati, molti frammenti della cometa (anche enormi) sarebbero rimasti in orbita, fino a impattare nuovamente con il nostro pianeta nel 9.600 avanti Cristo. «La Terra, quindi, avrebbe nuovamente interagito 11.600 anni fa con la scia di detriti della medesima cometa frammentata che aveva causato l’inizio del Dryas Recente, determinandone una repentina fine». Stavolta, anziché nell’Artico, l’impatto di sarebbe verificato nell’Atlantico Settentrionale: cosa che avrebbe provocato «l’innalzamento di enormi pennacchi di vapore acqueo» capaci di creare un effetto serra, «dando il via ad una rapida fase di riscaldamento globale». Gli scienziati, aggiunge Bizzi, stimano che questa seconda ondata di impatti abbia determinato – nel giro di appena cinquant’anni – un aumento delle temperature medie di oltre 7 gradi centigradi, con il conseguente scioglimento di enormi masse di ghiacci e il repentino aumento, in tutto il mondo, del livello dei mari e degli oceani di decine e decine di metri. Era il grande diluvio, o diluvio universale?Sicuramente, scrive Bizzi, le aree del secondo impatto «erano abitate e popolate dall’uomo». Su di esse, «probabilmente fiorivano diverse civiltà». Gli archeologi “ortodossi” si sono sforzati per anni nel sostenere che Platone si fosse inventato tutto. Nei suoi dialoghi “Timeo” e “Crizia”, è datata 9.000 anni prima di Solone la scomparsa di Atlantide per via di un terribile cataclisma di fuoco. Da Platone, per l’ufficialità, ci è giunta solo «un’opera di fantasia o di mera speculazione metaforica e filosofica». Ma gli “ortodossi” hanno sempre ignoranto deliberatamente «l’esistenza di centinaia di miti e antiche tradizioni che, in tutto il mondo, dalle Americhe al Mediterraneo, dall’Africa all’Asia, confermano, direttamente o indirettamente, la narrazione platonica», ora corroborata dalla scienza. «Narrazione che, peraltro, è pienamente avvalorata dal corpo dei testi della Disciplina Arcaico Erudita tramandati dalle scuole misteriche eleusine, i quali – rivela Bizzi – ci raccontano la storia di una civiltà evolutasi su quelle che vengono menzionate come “le Sette Grandi Isole del Mar d’Occidente”».Cos’erano? Testualmente: «Un insieme di vaste terre che sorgevano nell’Atlantico Settentrionale e che si sarebbero inabissate esattamente nel 9.600 avantio Cristo». Quei testi, spiega lo storico fiorentino, «ci descrivono una società avanzata, con grandi conoscenze scientifiche». Evolutasi nell’arco di circa 10.000 anni, quella civiltà «sarebbe arrivata, all’apice del suo splendore, a conquistare e colonizzare l’America Centrale e Meridionale, il bacino mediterraneo, l’Europa Meridionale, il Medio Oriente e parte dell’Asia e dell’Africa, portandovi la propria cultura e le proprie tradizioni». Una civiltà che non chiamava se stessa “atlantidea”, bensì “ennosigea”, dal nome di una delle principali di queste sette terre, chiamata appunto En’n. Proprio la terra di En’n, situata ad Ovest dello stretto di Gibilterra (le mitiche Colonne d’Ercole dell’antichità) era grande quanto Francia e Spagna messe insieme. E stando sempre ai testi eleusini, a En’n «esisteva una regione, collocata in posizione nord-orientale, denominata Hathlanthivjea», un tempo «fiorente Stato indipendente, prima della conquista ennosigea avvenuta attorno al 12.000 avanti Cristo».Hathlanthivjea, cioè Atlantide? «Il suo nome, composto da quattro diversi geroglifici, significherebbe “la Grande Madre venuta dal Mare”», spiega Bizzi, che premette: «I testi delle scuole misteriche eleusine non costituiscono una “prova”»; anche se attribuiti ad autori dell’antichità, «sono stati oggetto di più trascrizioni attraverso il medioevo e i secoli successivi, e non se ne possiedono più gli originali». Tuttavia, «non si può escludere che Platone, nelle sue narrazioni, faccia proprio riferimento alla regione di Hathlanthivjea». Tornando a Hancock, l’autore scozzese ha ragione quando sostiene che le riserve su Platone alludono al fatto che il filosofo abbia forse basato il suo racconto su un cataclisma molto più recente avvenuto nel Mediterraneo, come ad esempio l’eruzione di Thera (Santorini) attorno al 1500 avanto Cristo. «Ma si tratta di una visione miope e di convenienza, del resto ormai superata e surclassata dal pieno riconoscimento scientifico dell’impatto cometario del Dryas Recente», taglia corto Bizzi.Il concetto di un disastro globale verificatosi più di 11.000 anni fa, e in particolare l’idea eretica che esso abbia potuto spazzare via una grande civiltà evoluta esistente in quell’epoca, è sempre stato strenuamente respinto e ridicolizzato dall’archeologia “ufficiale”. Chiaro il motivo, dice Hancock: «Ovviamente gli archeologi dichiarano di “sapere” che non vi fu, e non avrebbe mai potuto esistere in nessuna circostanza, una civiltà altamente sviluppata in quel periodo. Lo “sanno” non grazie a prove inconfutabili che permettano di escludere l’esistenza di una civiltà tipo Atlantide nel Paleolitico Superiore, ma piuttosto basandosi sul principio generale che il risultato di meno di duecento anni di archeologia “scientifica” rappresenti una linea temporale accettata per il progresso della civiltà, che vede i nostri antenati uscire lentamente dal Paleolitico Superiore per entrare nel Neolitico intorno al 9.600 e da lì in poi evolvere attraverso lo sviluppo e il perfezionamento dell’agricoltura nei millenni successivi».Tirando le somme, a Bizzi sembra evidente che stiamo ormai assistendo alla fine dell’attuale “paradigma” e che la rivoluzione archeologica in atto sia ormai incontenibile e irreversibile. «È stato geologicamente provato, grazie alle ricerche condotte da numerose spedizioni oceanografiche, che vaste aree di quello che è oggi l’Atlantico Settentrionale si trovavano in stato di emersione, fino a circa 12.000 anni fa». E non solo: «Il fondale atlantico, proprio in quelle aree – che vanno dai Carabi fino alle Azzorre e a Gibilterra – è cosparso di rovine, di mura, di strutture piramidali e di veri e propri resti di città, estese anche numerosi ettari, con strade che si intersecano perfettamente ad angolo retto». Attenzione: «Stiamo parlando di strutture la cui origine non può essere assolutamente attribuita alla natura. Si tratta di opere dell’uomo realizzate in un’epoca ovviamente precedente alla sommersione di questi tratti di fondale. Sommersione che, grazie a campioni di tectiti, di fossili e di lava vulcanica prelevati dai fondali e opportunamente analizzati, è databile grosso modo al 9.600 avanti Cristo: guarda caso, si tratta della stessa data fornitaci da Platone in merito all’affondamento della “sua” Atlantide».Senza insistere necessariamente su Atlantide, conclude Bizzi, occorre prendere atto che di “Atlantidi” ne sono esistite numerose, in ogni angolo del globo. Quantomeno, sono esistite diverse “civiltà madri” precedenti alla nostra: «E ci hanno lasciato le loro testimonianze inconfutabili, dal Perù ai fondali dell’Atlantico, dal Medio Oriente alla Siberia, dall’Amazzonia all’Indonesia, dal Pacifico all’Antartide». Mentre la gran parte dell’archeologia universitaria continua a tacere, rifiutando di accettare le logiche conclusioni delle ultime rivoluzionarie scoperte, «le prove scientifiche dell’impatto cometario del Dryas Recente», che decretò la scomparsa di quelle antiche civiltà, «costituiscono quello che in gergo poliziesco si chiama “pistola fumante”». Chiosa Nicola Bizzi: «La Storia è ormai da riscrivere, da riscrivere completamente, e non ci sarà “paradigma” che possa impedire di farlo».(Il libro: Nicola Bizzi, “Da Eleusi a Firenze. La trasmissione di una conoscenza segreta”, vol. 1, Aurola Boreale, 800 pagine, 35 euro).Aveva ragione Platone: Atlantide esisteva davvero e fu sommersa dall’oceano attorno al 9.600 avanti Cristo. La causa? L’impatto di una “pioggia cometaria” catastrofica. A confermarlo non è l’archeologia, ma la geologia: grazie a Richard Firestone e James Kennett, ora sappiamo che il pianeta fu sconvolto da una sequenza impressionante di cataclismi di origine cosmica, come dimostrano i sedimenti di nano-diamanti “extraterrestri” rinvenuti nelle aree degli impatti. Nel “Crizia” e nel “Timeo” il sommo filosofo greco aveva parlato di una civiltà superiore, preesistente alla nostra, spazzata via da una specie di diluvio universale? E’ andata proprio così, dicono i geologi dal 2014 a questa parte. O meglio: gli scienziati spiegano che proprio 12.000 anni fa – nel periodo indicato da Platone – ci fu un azzeramento planetario. E questo spiazza gli archeologi, che ancora si ostinano a far risalire le nostre origini a un’epoca assai più recente, benché vengano smentiti, di giorno in giorno, dalle scoperte della “rivoluzione archeologica” ormai in atto, difficilmente arrestabile. Lo sostiene Graham Hancock, massimo divulgatore mondiale in materia. E lo sottolinea Nicola Bizzi, autore dell’originalissimo saggio “Da Eleusi a Firenze”.
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Ashkenaz, il super-sapiens, ci schiavizza col debito eterno
Menti raffinatissime, le chiamava Giovanni Falcone. Nel suo caso, avevano piazzato una bomba davanti alla sua villetta sul mare, tre anni prima del fatale attentato di Capaci. Sono speciali, quelle menti – e altrettanto criminali – anche per Giovanni Angelo Cianti, che non è un giudice antimafia ma a suo modo si occupa lui pure di criminologia, per così dire, se si volesse leggere come un’epocale, sterminata stagione criminogena quella aperta dalla stessa misteriosa comparsa sulla Terra dell’homo sapiens, tuttora non spiegata (men che meno dall’evoluzionismo darwininano). L’ultima fatica letteraria di Cianti – che esordì addirittura come autore del fumetto-cult “Ken Parker”, creato nel ‘74 da Giancarlo Berardi e Ivo Milazzo – si intitola “Benvenuti all’inferno”, in questo richiamando l’ombra del manicheismo, tra risonanze gnostiche e poi catare. Una “creazione dannata”, la nostra, opera di divinità infere esiliate nel mondo della materia? Premessa pragmatica: siamo quasi 8 miliardi e stiamo devastando il pianeta, come cavallette inarrestabili. Un formicaio di insetti onnivori e famelici, e al tempo stesso docili e malleabili, senza più coscienza né memoria della propria origine. Solo colpa nostra? No, risponde Cianti: la grande attenuante è incarnata da chi lo dirige più o meno segretamente, il “formicaio”.La solita, bieca massoneria mondiale? Gli uomini invisibili del famigerato “complotto giudaico-massonico” caro ai cospirazionisti? Nemmeno, scrive Cianti, mettendo a fuoco un altro gruppo, che definisce “super-sapiens”. «Si chiamano Ashkenazi, e si sono mimetizzati tra gli ebrei, a insaputa degli ebrei stessi. Ma attenzione: gli “Ahskenazim” non sono ebrei, e nemmeno semiti. Sono i veri manipolatori dell’umanità, fin dai primordi, attraverso il denaro e il credito usuraio». Sarebbero stati loro a danneggiare in primo luogo gli ebrei, provocando la catastrofe dell’antisemitismo. Da dove spuntano? Ne parla la Bibbia, probabilmente, quando – nella Genesi – racconta la “fabbricazione” degli adamiti: strani ibridi, praticamente degli Ogm ante litteram, clonati mescolando i geni del sapiens con quelli dei Figli delle Stelle, che l’Antico Testamento chiama Elohim (come Yahvè e colleghi) mentre per i Sumeri si chiamavano Anunna o Anunnaki. Stessa schiatta di dominatori – venuti dal cielo, secondo il sumerologo Zecharia Sitchin, affascinante e controverso teorico della paleo-astronautica. La missione: trasformare la Terra, fino a quel momento popolata solo da tribù nomadi, in un immenso campo di lavoro.Per produrre cibo, energia e poi anche tecnologia occorrevano “servi” intelligenti e obbedienti, i sapiens, che ancora non c’erano. E per dirigere i sapiens ci voleva una super-razza, in grado di dominarli per conto terzi. Impressionante la consonanza con le rivelazioni che l’avvocato Paolo Rumor affida al saggio “L’altra europa”, edito da Panda, con prefazione dell’eminente politologo Giorgio Galli. La tesi: un’élite immutabile, sempre la stessa, reggerebbe il mondo da quasi 12.000 anni. Origine: Golfo Persico, poi Mesopotamia, Egitto, Mediterraneo fenicio e poi minoico e greco-romano. Pietra miliare: l’antico insediamento nella città caldea di Ur, alla foce del Tigri. E’ la stessa geografia che ripercorre Cianti, inseguendo il fantasma dei progenitori di quelli che (erroneamente, sostiene) verranno poi chiamati “ebrei askhenaziti”, diffusisi nell’Est europeo. La comparsa dell’Adàm biblico, «non ancora ebraico, verosimilmente sumero», risalirebbe a un’epoca collocabile tra il 15.000 e il 20.000 avanti Cristo. Seguono 9 discendenti quasi millenari, i patriarchi pre-diluviani, fino ad arrivare a Noè, cioè intorno all’anno 5.600.Stando alla Bibbia, Noè generò Sem, Cam e Jafet. Da Sem si arriva a Giacobbe-Israele per linea retta attraverso Ever, Terach, Abramo e Isacco: in altre parole, ecco gli ebrei (quelli veri), poi suddivisi nelle famose 12 tribù, inclusa quella israelitica di Giuda e Davide. «Quindi – conclude Cianti – solo i discendenti di Abramo possono essere considerati semiti». Gli altri, cioè la super-razza di cui si occupa “Benvenuti all’inferno”, sarebbero la discendenza di Jafet: il fratello di Sem e Cam «generò tra gli altri Gomer, capostipite dei Cimmeri», il cui figlio si chiamerà Ashkenaz, «dall’assiro Askuza»: nome col quale, secondo la Tavola nelle Nazioni, «si indicavano i popoli nomadi della regione sciita del Caucaso». Insieme ai Minniti e al Regno di Ararat, continua Cianti, i nomadi caucasici Ashkenaz si opposero ai Babilonesi, almeno secondo la Bibbia (Geremia 51-27), e in seguito diedero origine ai popoli slavi. «Gli Ashkenaziti – conclude Cianti, citando sempre l’Antico Testamento – sono dunque “jafeti”, cimmeri o sciiti – ma non semiti, quindi non ebrei».Per l’autore si tratta di un “cluster genetico” autonomo, «una popolazione nomade di origini turcomanne che si reinventa continuamente». Prima sciiti (da “sak”, nomade), poi Kazari (dal turco “qaz”: nomade, ancora). Per Cianti erano di religione tengrista, un mix di sciamanesio, animismo e totemismo diffuso nell’Asia Centrale. «Si convertirono all’ebraismo per convenienza», e molto tardi: solo fra il 740 e il 920 dopo Cristo. «Alla dissoluzione del Canato di Kazaria, conquistato dal russo Sviatoslav I, si dispersero in tutta Europa, attribuendosi l’appellativo di “ebrei erranti”», evidentemente abusivo. Nell’alto medioevo, continua Cianti, li ritroviamo nella valle del Reno e nel Nord della Francia: «Ed è da questo momento che iniziano a usare l’yiddish, lingua germanica con elementi di ebraico e aramaico». Poi si spostano verso Est: Lituania e Polonia, Moldavia, Russia. Il ritorno in Germania comincerà nel 1200 e terminerà solo nell’Ottocento. In tutti quei secoli, scrive l’autore, gli Askuza-Ashkenaz sciameranno di terra in terra perché «perseguitati per l’attività usuraia». Sono loro gli “inventori” del sistema creditizio?Il prestito a interesse, dice Cianti, compare contemporaneamente in Mesopotamia, India e Cina. «L’invenzione stessa della scrittura nasce lì, da quella nuova necessità». A Uruk (oggi Warka, Iraq) a raccontare quella storia sono 5.000 tavolette d’argilla risalenti al quarto millennio avanti Cristo: «Si iniziò allora a parlare di prestiti, tassi d’interesse, garanzie, usura, derivati e pignoramenti». La banca dell’epoca era il Tempio; non prestava solo denaro ma anche cereali, vino e birra, metalli pregiati: «Si cominciò a prestare argento a tassi fino al 60%». Attraverso il mondo mesopotamico, poi fenicio e persiano, ellenico e romano, il network nomade del denaro si trasferisce dove gli conviene, tendenzialmente da Est a Ovest, col progredire dei nuovi fiorenti imperi. Proto-scienziati della finanza? Cianti li chiama “i nostri mandriani”. Il loro metodo non cambia: usura, per conquistare il potere. Obiettivo: «Mantenere nella sottomissione non solo le masse ma anche gli stessi governanti, che in pratica diventano i loro burattini. E se qualcuno di loro si oppone, viene destituito o ucciso, come i Kennedy».Per Cianti, gli Ahskenaz restano un gruppo ristretto e rigorosamente chiuso al suo interno, per via matrilineare, attraverso i secoli. Sono i “ruler”, gli attuali “padroni dell’universo”. Veri fenomeni: si tratta di «individui di eccezionale intelligenza». Oltre a mercanti e banchieri, nei millenni, «hanno espresso anche filosofi, scienziati, pensatori che hanno determinato le sorti dell’umanità». L’élite dell’élite: «Nomadi e apolidi, seguono lo sviluppo dei più importanti centri di potere, in una traiettoria sempre diretta verso ovest che oggi, dalla West Coast degli Stati Uniti, ha spiccato il balzo verso la Cina». Sono loro i teorici e i registi del globalismo finanziario, secondo Cianti: religioni e massonerie, Ur-Lodges e centri di potere paramassonici sarebbero solo cinghie di trasmissione del super-sapiens Ashkenaz, protagonista del club più inaccessibile del vero potere.Lungo le sue 400 pagine, “Benvenuti all’inferno” esamina con estrema cura le più recenti asserzioni scientifiche, dall’astrofisica alla paleontologia fino alla climatologia, demolendo Darwin: «La Terra è passata attraverso eventi catastrofici che hanno provocato ripetute estinzioni di massa. E ogni volta il pianeta è stato ripopolato con specie nuove, che non avevano niente a che fare con le precedenti». Fino al sapiens, ultimissimo prodotto di queste “introduzioni”: «Una specie bio-ingegnerizzata, nel cui corredo è stato introdotto Stamina, il gene della paura che ci rende così docili di fronte al potere». Nel saggio “Resi umani” scritto con Mauro Biglino, il prestigioso biologo molecolare Pietro Buffa (già attivo al King’s College di Londra) spiega che il “missing link” tra uomo e scimmia non è mai esistito: a quanto pare siamo stati “fabbricati” diversi, dalla nascita, ben distinti dai primati e dagli stessi ominidi – persino dal Neandearthal, a noi vicinissimo nel tempo, probabilmente sterminato dai nostri antenati.A lungo traduttore ufficiale della Bibbia per le Edizioni San Paolo, Biglino sostiene che l’Antico Testamento – alla lettera – racconti l’avvento sulla Terra dei Figli delle Stelle. Proprio loro avrebbero “costruito” il sapiens, riservandosi poi la “fabbricazione”, sempre per via genetica, di una super-specie di lavoratori particolarmente intelligenti: gli adamiti, collocati nel Gan-Eden (da cui poi furono cacciati, dopo che ebbero scoperto la possibilità di riprodursi in modo autonomo, sessualmente). Tuttora, nessun sumerologo sa spiegare esattamente l’origine della civiltà sumera, sorta improvvisamente appena a Sud del Gan-Eden (situato nel Caucaso) e immediatamente dotata di favolose competenze tecniche: scrittura e architettura, matematica, astronomia. E soprattutto: agricoltura. «Proprio la rivoluzione agricola – sostiene Cianti – ha cambiato in modo irrimediabile il pianeta, devastando i suoli e sottraendo acqua, impoverendo la nostra dieta e determinando una vera e propria mutazione antropologica: i primi sapiens erano liberi di muoversi e cacciare, noi invece siamo schiavi inurbati, costretti a lavorare e a nutrirci di cibo ormai avvelenato».La stanzialità come sciagura è il tema del saggio “Dominio”, nel quale Francesco Saba Sardi collega all’introduzione dell’agricoltura la nascita del nuovo potere, prima sconosciuto, che “inventa” la religione per trasformare gli esseri umani in servi, lavoratori della terra e soldati. Figure sociali che non esistevano, prima del neolitico: nacquero con l’agricoltura insieme alla religione e alla sua sorella gemella, la guerra, grazie alla comparsa di quell’inedito potere, configurato in forma di dominio. A questo, Giovanni Cianti aggiunge un’altra disgrazia: l’alimentazione. Giornalista e già pubblicitario, appassionato studioso di biologia, Cianti è anche e soprattutto un nutrizionista, disciplina attraverso cui ha rivoluzionato la pratica del body-building partendo proprio dalla dieta. La minaccia più grande? L’abuso di cereali. Il pane – che ha nutrito milioni di individui – viene dal grano, che è comparso sulla Terra di colpo. Discende dal farro selvatico, che però non è commestibile. Chi l’ha trasformato geneticamente in cereale dolce, da farina? I medesimi, misteriosi individui – si suppone – che allo stesso modo, all’epoca di Adamo ed Eva, “fabbricarono” la patata, insieme con la pecora.Cibo pronto uso e a basso costo, per schiere di futuri lavoratori? L’ipotesi è ora vagliata da scienziati di tutto il mondo, ormai convinti che convenga rivalutare e rileggere con occhi nuovi i testi antichi, poi trasformati arbitrariamente in “libri sacri” dalle religioni che, più tardi, se ne impossessarono, travisandoli: e se in quelle pagine ci fossero gli indizi di una storia attendibile? Se cioè il racconto – incluso quello biblico, con la comparsa degli Elohim (Figli delle Stelle) – spiegasse davvero la nostra origine genetica, altrimenti non ricostruibile solo per via evolutiva? Nel qual caso, dice Cianti, sarà meglio aggiungere una riflessione piuttosto decisiva: se qualcuno – venuto dal cielo? – impiantò sulla Terra la sua “mandria” da mungere, di sicuro non scordò di assicurarla alla custodia di servitori speciali e fidatissimi, a loro volta “bio-ingegnerizzati” alla bisogna: i nostri “mandriani”.Non manca nessuno, nella “hall of fame” dei dominatori che Cianti esibisce, dai secoli passati fino ai giorni nostri: spicca il visionario oligarca Jacques Attali, lo sconcertante mentore di Emmanuel Macron, oscuro profeta del transumanesimo post-democratico. C’è l’eterno Zbigniew Brzezinski, lo storico stratega della Casa Bianca (sodale di Kissinger) che reclutò in Afghanistan un certo Osama Bin Laden, poi protagonista della strategia della tensione globale sotto l’egida dei Bush. Riflettori su Al Gore, l’ex vice di Clinton, ormai «frontman mondiale della bufala del global warming di origine antropica», il nuovo catechismo recitato dalla piccola Greta, la ragazzina svedese spuntata (in apparenza) dal nulla. Gore ha appena vinto due Oscar con il documentario “Una scomoda verità”, «diretto dal regista “ashkenazi” Davis Guggenheim». Manipolazione? «Se è per questo, erano “ashkenazi” anche Walt Disney e Edward Bernays, l’inventore della propaganda pubblicitaria», dice Cianti, «come pure i fratelli Andy e Larry Whachowski», gli sceneggiatori di “Matrix”, film nato per metterci in guardia «sul destino della “mandria umana”, costretta a vivere come nella caverna di Platone, cioè in un mondo virtuale completamente avulso dalla realtà».Tra i protagonisti negativi, invece, dominano politici e finanzieri: si va da Madeleine Albright, che difese la necessità inevitabile del bagno di sangue nei Balcani negli anni ‘90, alla quasi-popstar George Soros, «ashkenazi di elevata esposizione mediatica, quindi verosimilmente di rango inferiore». Nulla, in confronto ai veri “dominus”, più appartati, come ad esempio i campioni delle celeberrime dinastie Rothschild, Warburg e Rockefeller, sinistramente implicati nell’ascesa di Hitler (e nel nascente sionismo), ben sapendo che il dittatore nazista avrebbe sterminato milioni di ebrei: era il mostruoso prezzo necessario per ottenere poi lo Stato di Israele? Incubi e interrogativi storici a parte, dell’immenso potere di quelle famiglie parla anche il professor Pietro Ratto nei suoi recenti saggi, che rivelano l’incredibile pervasività (purtroppo attualissima) della loro influenza, persino nell’odierna editoria scolatica validata dai ministeri attraverso commissioni, strutture e aziende di cui non parla mai nessuno. Ma quei nomi così famosi – i vituperati Rothschild, tanto per cambiare – potrebbero essere solo la vetta dell’iceberg, la parte visibile.Chi sono e cosa vogliono, quelli che Cianti chiama “i nostri mandriani”? Lo spiega lo stesso Attali, nella sua “Breve storia del futuro”, «libro che anticipa le mosse dei “mandriani” fino al 2100», fornendo «una descrizione terrificante delle loro intenzioni nonché l’evidenza di una straordinaria assenza di empatia, mista a follia e delirio di onnipotenza». L’umanità ridotta a formicaio pilotabile, prevedibile? Il genere umano eventualmente anche sterminabile, all’occorrenza, con le pratiche più insospettabili? Cianti menziona il cibo cancerogeno, i medicinali-killer e l’imposizione di vaccini pieni di alluminio e altri metalli pesanti, come quelli che scendono dal cielo, da una ventina d’anni, diffusi nella bassa atmosfera dalle strane scie bianche rilasciate dagli aerei di linea. Di fronte a questo, il mainstream grida immancabilmente al complottismo, fingendo di non sapere che le teorie più eretiche (incluse quelle bislacche e ridicole) nascono proprio dal silenzio ufficiale, dalla ostinata reticenza di chi dovrebbe fornire spiegazioni convincenti dei fenomeni che allarmano la popolazione. Peccato che sia lo stesso sistema dei media a essere strettamente detenuto da pochissime mani.Oltre a controllare Intesa SanPaolo e Unicredit, scrive Cianti, la filiera Rothschild («connessa agli Agnelli-Elkann e ai Caracciolo») è presente in Facebook, in Telecom Italia, nell’agenzia “Reuters”, nel francese “Libération”, nei britannici “Daily Telegraph” e “The Economist”. Sempre secondo Cianti, il gruppo Rcs (Rizzoli e “Corriere della Sera”) è invece appannaggio della scuderia Rockefeller, mentre il gruppo Sassoon controllerebbe “Sunday Times” e “The Observer”. Stessa musica per i grandi network televisivi internazionali. In Italia, aggiunge Cianti, «appartiene al “cluster” anche Carlo De Benedetti», fondatore del gruppo “Espresso-Repubblica”, che «ha alle spalle Lazard e Lehman Brothers». Un’unica discendenza, addirittura, collegherebbe gli attuali Master of the Universe? «La risposta definitiva – ipotizza Cianti – potrebbe venire dall’Us Trust Corporation, istituita a suo tempo da Walter Rothschild», che però è inaccessibile alla consultazione pubblica. «Secondo alcuni “insider” – aggiunge l’autore del saggio – si tratterebbe di otto-dieci linee di sangue millenarie». I nomi? Goldman Sachs, Rockefeller, Lehman e Kuhn-Loeb di New York. Poi i Rothschild di Parigi e Londra. Poi gli inglesi Windsor, già Sassonia-Coburgo-Gotha, insieme ai Warburg di Amburgo, ai Lazard di Parigi, alla dinastia Israel Moes Seif di Roma.Si tratta di «famiglie che da sole posseggono tutte le banche e le corporation del mondo, attraverso un sistema di scatole cinesi: il vertice della piramide, totalmente “ashkenazi”, resta estremamente ristretto e al di fuori di ogni forma di controllo». Gioielli della collezione, dagli Usa all’Europa fino alla Cina, le superpotenze bancarie: Hsbc Holding, Bnp Paribas, Jp Morgan, Icbc Bank of China e Agricoltural Bank of China, Wells Fargo, Bank od America, China Construction Bank. In generale, scrive Cianti, il meccanismo del big business «riguarda tutti i settori industriali strategici: cibo ed energia, farmaci, armi, informazione e intrattenimento, ma anche droga e traffico di esseri umani e di organi». Il volume mastodontico dell’attuale sistema iper-capitalista e neoliberale, interconnesso dalla globalizzazione, lo fornisce ad esempio il database Orbis 2007, che (come documenta uno studio svizzero pubblicato nel 2011 da “Plos One”) ha passato al setaccio qualcosa come 37 milioni di aziende e investitori globali. Le strutture che detengono il 97% della ricchezza del pianeta, riassume Cianti, sono soltanto 147: in cima alla classifica Barclays, Capital Group Companies, Frm Corporation, Axa Assicurazioni, State Street Corporation, Jp Morgan, Legal General Group, Vanguard Group, Ubs e Merrill Lynch.«Una rete capillare ed estesa, di soggetti che si posseggono a vicenda». Blackrock, «il più grande fondo d’investimento del pianeta, fondato da Lawrence Fink (ashkenazi) ha tra i maggiori azionisti Pnc Financial Service, Norges Bank, Vanguard, Bank of America, Wellington Management Group». A sua volta, Jp Morgan è gestita da Vanguard e Blackrock, insieme a State Street, Bank of New York e altri soci. Sempre le stesse aziende possiedono anche il colosso farmaceutico Merk. La notizia? Secondo Cianti, il vertice è costituito da consanguinei, tutti discendenti dell’ipotetica, originaria super-razza, quella che già agli albori della civiltà inventò il “debito inestinguibile”. Dalla Mesopotamia si arriverebbe tranquillamente fino ai veri campionissimi del terzo millennio, come il sudafricano Elon Musk, fondatore della Tesla, e il fenomenale Mark Zuckerberg, l’enfant prodige di Facebook. A proposito, chi c’è nell’azionariato del social network che “scheda” oltre due miliardi di esseri umani? «Sempre gli stessi: Vanguard e Blackrock, Frm-Lcc, State Street Corporation, Prince T Rowe, Capital World Investors».Globalizzazione? Termine in uso dagli anni ‘80, quando si pianificò l’abolizione dei dazi per merci e capitali. Ma, stando a Cianti, non sarebbe che l’ultimo passaggio tecnico del mondialismo ante litteram perseguito dal misterioso “cluster” del super-sapiens, fin dagli albori della nostra storia. Possibile? L’autore invita a riflettere sul vero significato dell’agenda dell’Onu, organismo – pochi lo sanno – poderosamente finanziato da donatori privati (sempre loro, i mattatori del superclan). Mondialismo mercantilista, che dichiara guerra alle identità – di genere, nazione, religione – per omologare la “mandria” che popolerà l’Iper-Impero dopo l’imminente declino della potenza Usa. Un “impero totale” esteso in ogni continente «con la sola eccezione della Russia, che per ora resiste ma finirà accerchiata da America, Europa, Cina e India». Viaggia sempre verso ovest, dunque, il super-sapiens di cui parla Cianti? Lo conferma, secondo l’autore, il matrimonio di Zuckerberg: «Sua moglie, Priscilla Chan, è nata negli Usa da genitori rifugiati Hou, un gruppo minoritario di usurai cinesi del Vietnam». Gli Hou, scrive Cianti, discendono dagli “ashkenazi d’Oriente” come la famiglia Li (o Lee), che duemila anni fa, al tempo della dinastia Zhou – introdussero la moneta cartacea.Oggi, come dire, si sono portati avanti col lavoro: «Già legati a Mao Tse-Tung, hanno espresso presidenti cinesi come Li-Peng e Li-Xinnian. Oggi, Lee Kwan Yew è il presidente di Singapore». Un altro esponente della dinastia, Li Ka-Shing, secondo “Forbes” ha un patrimonio di 4 miliardi di dollari, mentre Li Kwok-Po gestisce la Bea (Banca dell’Est Asiatico) agendo «in collegamento coi Warburg e restando in ottimi rapporti coi Rothschild, i Rockefeller e i Bush». La nuova corsa all’Ovest, assicura Cianti, vede una strana migrazione: i boss dell’impero digitale della Silicon Valley ormai puntano verso la Nuova Zelanda, che sta diventando «il santuario dei super-sapiens ashkenazi». Il passaggio dalla California all’Oceania «sarà seguito dallo spostamento degli iper-nomadi dell’Ordine Mercantile Usuraio in una sede geograficamente più vicina ai loro nuovi affari, cioè il subcontinente indocinese».La Nuova Zelanda? Un’area scarsamente abitata e pressoché intatta, dal punto di vista naturalistico. Il resto del mondo, invece – prevede Cianti, in modo apocalittico – sarà «costretto a condizioni invivibili, catastrofi climatiche, epidemie indotte, crollo dell’ordine pubblico, terrore nucleare e collasso della civiltà». Le isole dell’Oceania «saranno l’ultimo rifugio: il nuovo santuario dell’élite, sicuro e intoccabile». Scrive Cianti: «Centinaia di tecno-plutocrati e finanzieri stanno acquistando terreni in queste isole per costruire lussuose ville-bunker. Il Deep State, cioè il vero potere dell’impero americano, ha già creato il governo del “santuario”: si tratta di una oligarchia socialista, che li accoglierà garantendo loro sicurezza, anonimato e impunità». L’attuale primo ministro neozelandese, la trentanovenne Jacinda Ardern, già leader dell’Unione internazionale della gioventù socialista, «è una creatura di Hillary Clinton, che le ha fatto da mentore nella carriera politica», guidandone l’ascesa.Il recente attentato di Christchurch contro le moschee musulmane, lo scorso marzo – aggiunge Cianti – era una classica “false flag” (con morti reali) escogitata «per testare la rapidità con la quale si riesce a far sparire da Internet ogni testimonianza diretta di una strage», e ha fornito «il pretesto per disarmare immediatamente tutti i civili del paese». E’ già una specie di bunker, la Nuova Zelanda: «Per risiedervi sono necessari beni per milioni di dollari, oppure bisogna essere cooptati in quelle ristrettissime liste di personale di servizio necessario al sistema. Ogni altra forma di immigrazione è proibita e immediatamente repressa», alla faccia della politica di accoglienza (quella che oggi, per dire, viene imposta all’Italia). Allucinazioni fantapolitiche? Non proprio: nel suo ponderoso volume, ad ogni pagina, l’autore acclude note, link, riferimenti, citazioni. “Benvenuti all’inferno” si inserisce nella recente letteratura divulgativa che tenta di dare risposte ai pesanti interrogativi del presente, rileggendo la storia antica e provando a sincronizzarla con l’attualità.E’ l’ennesimo catastrofista, Angelo Cianti? In realtà si mostra ottimista rispetto alle possibilità del libero arbitrio. Non smette di credere nel sapiens, in fondo. E infatti sogna di rinaturalizzare l’Appennino con il suo Evo Village Project, presentato nel 2018 al ministro dell’agricoltura Gian Marco Centinaio. Obiettivo: ricolonizzare i versanti con una rete di ecovillaggi, verso un’economia sostenibile e slegata dalle catene del sistema-debito. La sua tesi sul ruolo dell’ipotetico super-sapiens rischia di apparire fin troppo facilmente demonizzante, col risultato di introdurre discriminazioni “etniche” e scoraggiare i lettori, posti di fronte a un avversario super-umano e quindi invincibile? Intanto, è notevolissimo lo sforzo compiuto dall’autore nel collegare realtà in apparenza lontane fra loro, nel tempo e nella geografia planetaria. Uno stimolo per farsi domande, allargare la mente e verificare connessioni, scovando strane coincidenze nel ricorrere, invariabile, delle medesime “famiglie” che – come si può vedere – in molti casi detengono da secoli (da millenni, secondo Cianti) le redini del globo. Dinastie che mostrano la straordinaria capacità di rendersi invisibili, mimetizzandosi nella società – magari anche a spese dei veri israeliti, di cui si parla spessissimo a sproposito.(Il libro: Giovanni Angelo Cianti, “Pianeta Terra, benveuti all’inferno! Passato, presente e probabile futuro della mandria umana”, Evo Editorial, 401 pagine, euro 27,78 su Amazon).Menti raffinatissime, le chiamava Giovanni Falcone. Nel suo caso, avevano piazzato una bomba davanti alla sua villetta sul mare, tre anni prima del fatale attentato di Capaci. Sono speciali, quelle menti – e altrettanto criminali – anche per Giovanni Angelo Cianti, che non è un giudice antimafia ma a suo modo si occupa lui pure di criminologia, per così dire, se si volesse leggere come un’epocale, sterminata stagione criminogena quella aperta dalla stessa misteriosa comparsa sulla Terra dell’homo sapiens, tuttora non spiegata (men che meno dall’evoluzionismo darwininano). L’ultima fatica letteraria di Cianti – che esordì addirittura come autore del fumetto-cult “Ken Parker”, creato nel ‘74 da Giancarlo Berardi e Ivo Milazzo – si intitola “Benvenuti all’inferno”, in questo richiamando l’ombra del manicheismo, tra risonanze gnostiche e poi catare. Una “creazione dannata”, la nostra, opera di divinità infere esiliate nel mondo della materia? Premessa pragmatica: siamo quasi 8 miliardi e stiamo devastando il pianeta, come cavallette inarrestabili. Un formicaio di insetti onnivori e famelici, e al tempo stesso docili e malleabili, senza più coscienza né memoria della propria origine. Solo colpa nostra? No, risponde Cianti: la grande attenuante è incarnata da chi lo dirige più o meno segretamente, il “formicaio”.
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Subdolo 5G: infame strage di alberi in tutte le città italiane
Da quando ho iniziato a interessarmi del 5G, ho scoperto che vi sono non uno, ma due aspetti preoccupanti, di questa nuova tecnologia. Il primo è quello che riguarda la salute: mentre si sta procedendo con grande fretta alla commercializzazione della nuova “Rete dei miracoli”, infatti, nessun serio studio scientifico è stato fatto sulle conseguenze che potrebbe comportare quest’irradiazione, ormai onnipresente, sugli esseri umani. Fra poco ci troveremo letteralmente sommersi da un mare di microonde, con antenne piazzate ogni 500 metri nelle grandi città, e magari solo fra dieci o vent’anni potremo sapere quali saranno state le reali conseguenze sulla nostra salute. Ma di questo argomento ci occuperemo in un altro video, che sto preparando. Nel frattempo, vorrei portare alla vostra attenzione un secondo problema, che non è da meno: riguarda la distruzione selvaggia e sistematica dei nostri alberi. A quanto pare, infatti, gli alberi – soprattutto quelli più alti – impediscono una buona irradiazione del segnale 5G. E quindi li stanno togliendo di mezzo, in tutta Italia, con delle giustificazioni decisamente ridicole. Un paio di mesi fa mi ero accorto che, dalle mie parti, avevano tagliato in modo abominevole dei bellissimi viali alberati, e ho cominciato a chiedere in giro quale fosse il motivo. Ma nessuno mi sapeva dare una risposta, al punto che ho iniziato a sospettare che ci fosse di mezzo il 5G.Allora ho chiesto agli ascoltatori di “Border Nights” di segnalarmi se anche dalle loro parti si fossero registrati degli abbattimenti ingiustificati di alberi: e mi è arrivata, letteralmente, una caterva di segnalazioni. Nel frattempo, però, i “debunker” hanno già messo le mani avanti, cercando di smentire quest’idea che gli alberi vengano tagliati per fare strada al 5G. “Butac”, uno dei siti classici di “debunking”, ha pubblicato un articolo nel quale cerca di smentire questa ipotesi. A questo giro – scrive “Butac” – si parla di alberi abbattuti perché, secondo la tesi di “TerraRealTime” (il sito che per primo ha denunciato il taglio indiscriminato degli alberi) sarebbero un problema per la diffusione del segnale. «Ma si tratta dell’ennesima sciocchezza antiscientifica sostenuta solo e unicamente per spaventarvi, e magari convincervi a comperare un cappellino contro l’elettrosmog». Ora, “Butac”: a parte che qui nessuno vende cappellini (stiamo solo cercando di proteggere la nostra ricchezza naturale, casomai), ma il fatto che gli alberi rappresentino un ostacolo praticamente insormontabile, per il 5G, ormai è un dato accertato. Lo confermano, ad esempio, due documenti ufficiali del governo inglese: li ha pubblicati l’Ordnance Survey, l’ufficio che si occupa della mappatura del territorio. Uno si intitola “Pianificazione 5G, considerazioni geo-spaziali – una guida per i pianificatori e le autorità locali”. L’altro si intitola: “L’effetto delle costruzioni e dell’ambiente naturale sulle onde radio millimetriche”, ovvero il 5G.Da questi documenti leggiamo: «Vegetazione e edifici: i risultati presentati in questo rapporto dimostrano che gli oggetti della vegetazione, ovvero alberi e arbusti con un denso fogliame, provocano un disturbo nella propagazione del segnale oltre i 6 Ghz». Ci sono delle considerazioni generali: gli alberi di oltre 3 metri sono messi nel gruppo che “andrebbe” preso in considerazione (“should do”), mentre gli alberi oltre i 5 metri sono nel gruppo del “must do”, ovvero quelli che “bisogna” prendere in considerazione. Più sotto, c’è la spiegazione: “should do” sono «oggetti che vale la pena considerare durante le rilevazioni»; “must do” significa invece che questi oggetti «avranno un impatto significativo nella propagazione del segnale delle microonde millimetriche», e che quindi «vanno assolutamente presi in considerazione durante i rilevamenti». Il documento, poi, presenta diversi esempi pratici, illustrati con fotografie. Indicando uno stadio, dice: «Questa zona ha due aspetti interessanti, che dovrebbero essere presi in considerazione come ostacoli potenziali per le trasmissioni». Il primo: «Le torri di supporto all’esterno dello stadio, che sono fatte con una complessa struttura di acciaio». Il secondo: «La passeggiata sulla sinistra, che è adornata di alberi che possono bloccare i segnali in partenza dalla struttura dello stadio».Un altro esempio, sempre in foto, dice: «Qui viene mostrata una zona a intenso traffico pedonale, vicina ad un lampione candidato all’utilizzo del 5G». Due aspetti sono la prendere in considerazione: «Gli alberi caduchi, che possono causare un degrado limitato del segnale nei mesi invernali, mentre in estate – con le foglie – potrebbero avere un effetto significativo» (il secondo ostacolo è il viadotto che sovrasta l’area pedonale). Poi il rapporto mostra invece una situazione positiva, per loro: «La vista aerea del grande centro commerciale mostra grandi spazi aperti, con pochissimi elementi in grado di bloccare il segnale 5G: c’è soltanto un piccolo numero di alberi accanto al parcheggio». Quindi, evviva le zone con pochi alberi: per noi vanno molto meglio, dice il documento. Altro esempio, viale alberato: «In questa strada residenziale c’è una grande quantità di alberi, che bloccano chiaramente il percorso per le antenne che potrebbero venir collocate sui lampioni». Quindi, cosa si fa? Si buttano giù gli alberi, semplice.Guardate ora gli articoli che mi sono stati mandati dagli ascoltatori di “Border Nights”:poi decidete voi se c’entrano qualcosa, oppure no. Vi dico solo una cosa: sono quasi tutti articoli del 2018-2019, quindi molto recenti. E quasi sempre viene data una spiegazione risibile, per il taglio degli alberi. Ovvero: risultano di colpo tutti malati; oppure ti dicono che ne pianteranno degli altri, più bassi; oppure ti dicono che sono diventati, improvvisamente, tutti pericolosi. Cioè: alberi secolari, che sono lì da più di cento anni, di colpo diventano una minaccia per la popolazione. Di fatto, mi ha scritto una persona che si occupa di installazioni 5G. E mi ha detto che, in effetti, moltissimi sindaci e amministratori locali vengono spaventati, con l’idea di poter essere ritenuti responsabili per eventuali danni causati dalla caduta degli alberi, e quindi – non appena gli si suggerisce di tagliarli – accettano subito (spesso senza il nulla-osta delle autorità che dovrebbero salvaguardare il verde pubblico).Guardate quello che sta succedendo, in Italia. Palermo: “Il Comune si prepara ad abbattere 200 alberi di pino, decisione folle”. Montesilvano, provincia di Pescara: “Taglio indiscriminato degli alberi sani”. Pescara: “La guerra degli alberi tagliati in nome della sicurezza”. Poggibonsi, provincia di Siena: “Scempi chiamati riqualificazioni”. Prato, viale Montegrappa: “Polemiche sugli alberi tagliati”, Ravenna: “Pini abbattuti in via Maggiore”. Roma: “Dal 2016 abbattuti 9.111 alberi – mille spariti in centro, è polemica”. Rovereto: “Abbattuti gli alberi fra le proteste”. Ancora Roma: “Abbattuti 450 alberi malati, ma i nuovi saranno alti solo 3 metri”. Guarda che coincidenza: ricordate il “should do” e il “must do”? Salerno, Nocera Inferiore: “Cosa si cela dietro l’abbattimento dei pini?”. Ancora Salerno: “Abbattimento degli alberi in via Rebecca Guarna”. San Terenzo, provincia di La Spezia: “Piazza Brusacà saluta i suoi pini”. Provincia di Teramo: “Nuove proteste contro l’abbattimento degli alberi della strada provinciale 259”. Terni: “Repulisti di pini, scattata l’operazione per l’abbattimento di 44 alberi”. Trapani: “Taglio alberi a Paceco, il comitato Pro-Eritrine protesta col sindaco”. Trevignano, sul Lago di Bracciano: “Abbattuti pini sani di 70 anni per rifare le strade”. Treviso: “Tagliati altri 87 alberi perché sono malati”. Certo, perché gli alberi si ammalano tutti insieme, 87 per volta.Ancora Treviso: “Non tagliate gli alberi, i residenti insorgono”. Udine: “Via Pieri, iniziato l’abbattimento degli alberi”. Verona: “Centinaia di alberi da abbattere per realizzare il nuovo filobus”. Giustamente, dice il commento: «Il trasporto pubblico e la mobilità sono essenziali, ma non a qualsiasi prezzo, e non con questi metodi». Sempre a Verona: “Nuovo taglio di alberi a Verona Sud: a chi giova?”. Ancora Verona: “Lungoadige San Giorgio, tagliati 21 alberi”. Viareggio: “Abbattimento alberi, presidio al cavalcavia”. Regione Abruzzo, Parco Sirente: “Il pasticcio degli alberi tagliati”. Agrigento: “Taglio degli alberi alla Villa Bonfiglio, la Soprintendenza vuole chiarezza”. Sempre ad Agrigento: “Alberi capitozzati, l’assessore sospetta che sia stato iniettato veleno in alcuni pini”. Anagni: “Potatura fuori stagione, inervento drastico di capitozzatura in piena germogliazione, che lascia perplessi”. Ancona: “Abbattuti gli alberi sul viale, giù i frassini fra le proteste”. Avezzano, in Abruzzo: “Taglio degli alberi a piazza Torlonia, più della metà erano pericolosi”. Ovviamente, gli alberi sono diventati – di colpo – il pericolo pubblico numero uno, in Italia.Provincia di Bari: “Scempio sugli alberi a Pane e Pomodoro”, che è la famosa spiaggia barese. Benevento: “Taglio dei pini, piante a rischio caduta estremo”. Biella: “Alberi abbattuti, Legambiente contro le amministrazioni comunali”. Sempre in provincia di Biella: “Deturpata la strada dei pellegrini, è caos dopo il taglio di 200 alberi”. Marina di Carrara, Vittorio Sgarbi difende i pini: “Barbarie, denuncio tutto”. Catania: “Proteggere l’ambiente, scatta la protesta per gli alberi capitozzati”. A me, più che capitozzati, questi sembrano segati alla base. Marina di Cerveteri: “Gli alberi ostacolano il 5G”. Chiaravalle, nelle Marche: “Abbattono i pini storici, proteste e manifestazioni in largo Oberdan”. Crema: “Il caso degli alberi tagliati in via Bacchetta”. Si veda il prima e il dopo: che squallore. Provincia di Faenza: “Brisighella, 513 alberi abbattuti”. Sempre a Faenza: “Via all’abbattimento di 520 alberi in città”. Lido Scacchi, in provincia di Ferrara: “Forza Italia chiede spiegazioni sugli alberi tagliati”. Firenze: “Proseguono gli abbattimenti, alberi tagliati in piazza Indipendenza”. Sempre a Firenze: “Strage di alberi a Porta al Prato, ma erano tutti sani. Il Comune dice: una ditta ha danneggiato le radici”. Certo, ha danneggiato le radici non di uno, ma di tutti gli alberi in un colpo solo, come no…Ancora a Firenze: “Tagliati tutti i pini in viale Guidoni, idem in viale Morgagni: de profundis per gli alberi abbattuti”. Piana Fiorentina: “Il taglio dei tigli, una decisione del Comune”. Foggia: “In via Napoli uno scempio, presentato esposto contro il taglio di 101 pini”. Provincia di Grosseto: “Tagliati 30 ettari di bosco nella Riserva del Farma, l’esperto: è un disastro”. Sempre a Grosseto: “Taglio degli alberi in città, 1.640 cittadini protestano”. Ancora a Grosseto: “Stop al taglio degli alberi, è uno scempio”. Provincia dell’Aquila: “Tagliati gli storici alberi dell’Altopiano delle 5 Miglia”. Molfetta: “Quartiere San Domenico sotto shock: tagliato l’Albero della Vita, ancora ignote le motivazioni”. Napoli, quartiere del Virgiliano: “Strage di pini, oltre 100 saranno abbattuti”. Novara: “Via libera all’abbattimento di 32 aceri”. Como: “Faggi abbattuti al liceo Giovio, sale la protesta; la Provincia dice: ragioni di sicurezza”. Certo, come no: alberi che sono lì da cento anni e, adesso che arriva il 5G, diventano di colpo pericolosi.E’ sempre la stessa scusa, fra l’altro. Guardate: “Garbagnate, Natale senza pini: verranno abbattuti; potrebbero diventare pericolosi, col passare del tempo, per la cittadinanza”. Quindi siamo addirittura al taglio preventivo, precauzionale. Campoformido, provincia di Udine: “Proteste per il taglio dei pini marittimi in piazza a Basaldella; procede la riqualificazione del centro”. Certo, perché adesso “distruggere” si dice “riqualificare” (la neolingua imperversa). Lecco: “Alberi abbattuti sul lungolago, le piante possono rigenerarsi”. Certo, magari fra vent’anni ricrescono anche; nel frattempo tu hai piazzato le tue belle antennine 5G da tutte le parti. Este, in provincia di Padova: “Alberi tagliati senza motivo, delitto contro la natura”. Piacenza: “Alberi tagliati senza motivo, uno scempio”. Ancora a Roma, al Salario: “Alberi tagliati senza motivo”. Ferrara: “Continua il massacro degli alberi lungo la statale 16”.Ragazzi, è pazzesco quello che stanno facendo. Due o tre di questi casi potrebbero anche essere situazioni in cui davvero gli alberi vanno tagliati, ma qui stanno facendo una carneficina: qui siamo di fronte a un abbattimento sistematico degli alberi in tutto il paese. E il fatto è che sono molto furbi, perché lo fanno a livello locale, senza fare rumore. Lo fanno cittadina per cittadina, contando sul fatto che una comunità non sa quello che succede in quella accanto. Se non ci fosse stato questo contributo, da parte degli ascoltatori di “Border Nights”, ciascuno avrebbe continuato a pensare che magari era solo un problema loro. E nel frattempo, questa gente sta devastando le risorse naturali dell’intero paese. Io non so cosa dirvi, ragazzi. Mi auguro però che vogliate organizzarvi, sia a livello locale che regionale, perché qui vanno presi i sindaci, uno per uno, con nomi e cognomi, e vanno messi di fronte alle loro responsabilità. Non è possibile che il nostro paese venga devastato in questo modo, senza che nessuno faccia niente. E se aspettiamo che intervengano i nostri politici da Roma stiamo freschi: quelli son troppo impegnati a conservare il proprio stipendio, la loro poltroncina, per preoccuparsi dei problemi reali. E anche tu, “Butac”, e tutti gli altri “debunker”: invece di scrivere scemenze, datevi da fare. Qui non c’entrano le questioni ideologiche: la natura è di tutti, anche vostra.(Massimo Mazzucco, “G5, la strage degli alberi”, video pubblicato su “Luogo Comune” l’8 luglio 2019. L’autore, al termine del filmato, annuncia che a questa prima indagine sul taglio degli alberi seguirà uno studio per vedere più da vicino quelli che possono essere i rischi effettivi dell’impatto della rete 5G sulla nostra salute).Da quando ho iniziato a interessarmi del 5G, ho scoperto che vi sono non uno, ma due aspetti preoccupanti, di questa nuova tecnologia. Il primo è quello che riguarda la salute: mentre si sta procedendo con grande fretta alla commercializzazione della nuova “Rete dei miracoli”, infatti, nessun serio studio scientifico è stato fatto sulle conseguenze che potrebbe comportare quest’irradiazione, ormai onnipresente, sugli esseri umani. Fra poco ci troveremo letteralmente sommersi da un mare di microonde, con antenne piazzate ogni 500 metri nelle grandi città, e magari solo fra dieci o vent’anni potremo sapere quali saranno state le reali conseguenze sulla nostra salute. Ma di questo argomento ci occuperemo in un altro video, che sto preparando. Nel frattempo, vorrei portare alla vostra attenzione un secondo problema, che non è da meno: riguarda la distruzione selvaggia e sistematica dei nostri alberi. A quanto pare, infatti, gli alberi – soprattutto quelli più alti – impediscono una buona irradiazione del segnale 5G. E quindi li stanno togliendo di mezzo, in tutta Italia, con delle giustificazioni decisamente ridicole. Un paio di mesi fa mi ero accorto che, dalle mie parti, avevano tagliato in modo abominevole dei bellissimi viali alberati, e ho cominciato a chiedere in giro quale fosse il motivo. Ma nessuno mi sapeva dare una risposta, al punto che ho iniziato a sospettare che ci fosse di mezzo il 5G.