Archivio del Tag ‘Bengasi’
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L’Egitto ’schiera’ i suoi faraoni contro i signori del Covid
Attenti all’Egitto: ora riesuma i suoi antichi faraoni, per far rinascere lo spirito nazionale. E lo fa con una gigantesca kermesse, che rivela due intenti: scrollarsi di dosso un certo globalismo-canaglia, quello che ha imposto il “panico Covid” nella sua agenda, e al tempo stesso “resuscitare” l’antico culto egizio, quello della civiltà delle piramidi ereditata dai Figli delle Stelle, per avvertire quella élite che ancora oggi, segretamente e in modo inconfessabile, sembra devota alle divinità mesopotamiche (Moloch) declinate in modo pericolosamente anti-umano. E’ la lettura che Matt Martini fornisce della grandiosa “Pharaohs’ Golden Parade” andata in scena il 3 aprile al Cairo, per il trasferimento di 22 salme regali, trasportate dal museo egizio della capitale al museo nazionale della civiltà egizia a Giza, proprio all’ombra della Sfinge. Senza nascondere i tratti «anche un po’ kitsch» della “Parata d’oro dei faraoni”, Martini – esperto di orientalistica e co-autore del saggio “Operazione Corona”, edito da Aurora Boreale – avverte: siamo in presenza della volontà (esibita) di far “risorgere” l’Egitto, interpretato come erede di divinità venute dal cielo, “richiamate in servizio” per soccorrere la Terra, caduta in preda agli eccessi del mondialismo più criminale.Una lettura visionaria? Per capire che così non è, basta osservare l’espressione dell’attuale “faraone” in carica, il generale Al-Sisi, appena colpito dall’oscuro, minaccioso blocco del Canale del Suez con l’anomalo incagliamento del cargo Ever Given, riconducibile (nella compagine azionaria degli armatori) al club di Bill Gates e Hillary Clinton. Nelle immagini televisive della “Pharaohs’ Golden Parade”, Al-Sisi ostenta un’espressione inequivocabile: ai suoi occhi, quelle mummie in viaggio sono una sorta di totem nazionale, il cuore sacro dell’Egitto. Attenzione: è un classico, il ricorso alla simbologia (esoterica) da parte del grande potere. Sul suo canale YouTube, Giorgio Di Salvo ha sottolineato le stranezze della cerimonia di insediamento dello stesso Joe Biden: «E’ stata la rappresentazione di un vero e proprio rito di iniziazione, incentrato sulla figura dell’eccentrica Lady Gaga, abbigliata in modo da riprodurre il vestiario e il corredo della Statua della Libertà: non quella famosa, al porto di New York, ma quella che per i massoni americani è la vera Statua della Libertà. Si tratta della statua che sormonta la cupola del Campidoglio, a Washington: la “libertà armata”, che richiama la dea greca Athena».Come se non bastasse, Di Salvo rievoca un’altra cerimonia di insediamento, quella di Emmanuel Macron a Parigi: «Per un attimo (in modo però attentamente studiato) le braccia levate del neo-eletto, sullo sfondo della piramide del Louvre, disegnano alla perfezione la combinazione simbolica costituita da squadra e compasso». Da Napoleone in poi, l’Egitto si è conquistato un posto d’onore, sulle rive della Senna. «Ma mentre i riti massonici di ispirazione egizia sono di origine moderna, nelle terre che vanno dal Nilo all’Eufrate sopravvivono in modo clandestino le ritualità cultuali antiche», precisa lo storico Nicola Bizzi, presente con Matt Martini e Tom Bosco nella trasmissione “L’Orizzonte degli Eventi”, sul canale YouTube di “Border Nights”. Lo stesso Martini cita la religione egizia tuttora praticata da «importanti sceicchi del Cairo», sotto la vernice ufficiale dell’Islam. Dal canto suo, Bizzi conferma che in Iraq «si praticano culti di origine sumerica, al riparo dei circoli Sufi (in teoria, islamici) che ospitavano personalità vicinissime al potere già all’epoca del regime di Saddam Hussein».Curioso che poi lo stesso Saddam sia stato abbattuto dai Bush – padre e figlio – che Gioele Magaldi presenta come fondatori della nefasta superloggia “Hathor Pentalpha”, dedita anche al terrorismo internazionale, avendo arruolato tra le sue fila prima Osama Bin Laden e poi Abu Bakr Al-Baghdadi, leader dell’Isis. C’è chi fa notare il collegamento tra l’acronimo Isis (Islamic State of Iraq and Sirya) e il nome della dea egizia Iside, chiamata anche Hathor. Iside-Hathor è la vedova di Osiride, nonché la madre di Horus: il trio incarna la “sacra famiglia” dell’antico Egitto faraonico, la “trimurti” fondativa del Nilo. Padre, madre e figlio, a sottolineare una tripartizione “energetica” successivamente reinterpretata in modo difforme dalla Trinità cristiana, rimodellando teologicamente la Tetractis triangolare di Pitagora: figura ricomparsa – in modo clamoroso – nella coreografia della grande Parata dei Faraoni appena proposta al Cairo, nel segno del recupero dell’antica sapienza “pagana”.«La grande kermesse egiziana è stata anche un atto di magia cerimoniale», sostiene Matt Martini a “L’Orizzonte degli Eventi”. «Obiettivo: risvegliare “l’eggregore” nazionale, il genio egizio: una vera e propria evocazione, tramite il ruolo delle mummie solennemente traslate da un museo all’altro, in mezzo ad ali di folla». Le mummie regali egizie, dice Martini, vanno considerate – nelle intenzioni degli organizzatori – come «veri e propri talismani umani: quelle salme sono state preparate ritualmente e trattate come oggetti di culto: per migliaia di anni, hanno ricevuto offerte votive». Dunque, per Martini, «sul piano magico sono strumenti perfetti, per fare da ponte con altre dimensioni». Spiega il saggista: «Si crede che la mummia, se conservata, contenga ancora il Ka del defunto: un’impronta dell’anima. A sua volta, il Ka viene visitato dal Ba, cioè l’anima che sale e scende. Infine, il Ba comunica con l’Akh, lo spirito trasfigurato dell’iniziato (il faraone), che secondo l’antica religione egizia resta in contatto con la dimensione degli Aku, i principi divini, gli Splendenti». In altre parole: un ascensore per il cielo, nel nome dell’Egitto delle piramidi.Martini invita a far caso ai numeri: sono state trasferite 22 salme, precisamente quelle di 18 faraoni e di 4 regine. Tutti regnanti compresi tra la 17esima e la 20esima dinastia. «La 17esima dinastima fu l’ultima del Secondo Periodo Intermedio, quello dominato dal caos, quando l’Egitto fu invaso dagli Hyksos. La dinastia successiva, quella Ramesside, segnò invece la restaurazione del potere faraonico egizio: l’inizio del Nuovo Regno». Anche al Cairo, assicura Martini, il potere gioca con i simboli: è come se il generale Al-Sisi paragonasse se stesso ai faraoni di nome Ramses, rifondatori dell’Egitto dopo le tempeste della storia. L’ultima, in questo caso, si chiama Covid: «Si noti: la mascherina non viene indossata né dai figuranti, spesso assiepati, né dalle migliaia di spettatori che assistono al corteo, stretti l’uno all’altro». Sembra un messaggio diretto ai “signori del coronavirus” e agli stessi vicini israeliani, che hanno trasformato il loro paese in area-test per la vaccinazione di massa. Per inciso: in concomitanza con lo strano incidente di Suez, Al-Sisi ha fatto riaprire (dopo anni) il valico di Rafah, a Gaza: l’unico non controllato da Israele.Oggi l’Egitto è un paese islamico e anche cristiano, ricorda Martini, alludendo all’importante confessione copta. Ma Al-Sisi – aggiunge – come militare impegnato in politica è pur sempre erede del nazionalismo laico, incarnaato dall’ex partito Baath, socialista e panarabo, cresciuto nel mito del grande leader terzomondista Abdel Gamal Nasser, che sfidò Francia, Gran Bretagna e Israele per rivendicare la piena sovranità del suo paese. Non si scherza, con l’Egitto: nel 1956 – quando inglesi e francesi sbarcarono a Porto Said per rovesciare Nasser, che aveva bloccato il Canale di Suez perché la Banca Mondiale non voleva concedere agli egiziani il prestito per erigere la diga di Assuan – l’Unione Sovietica (con il tacito consenso degli Usa) arrivò a minacciare gli invasori anglo-francesi di ricorrere alla bomba atomica, se non avessero lasciato l’Egitto. Finì nell’ignominia – e con il trionfo politico di Nasser – l’ultimo colpo di coda del colonialismo europeo nel Mediterraneo. Poi gli uomini del pararabismo Baath sono stati perseguitati: ucciso Saddam, invasa la Siria di Assad.Abdel Fattah Al-Sisi, in qualche modo erede di Mubarak (già allievo della scuola ufficiali di Mosca) si è imposto nel 2014 incarcerando i Fratelli Musulmani, inizialmente votati dagli egiziani dopo la turbolenta “primavera araba” innescata al Cairo dallo storico discorso incendiario del massone Obama, con l’obiettivo di “resettare” le oligarchie nordafricane non-allineate al potere di Washington (preservando invece le brutali petro-monarchie del Golfo, in primis quella saudita, devotissime al superpotere statunitense). Siamo tuttora in pieno caos: Giulio Regeni, reclutato (a sua insaputa) dall’intelligence britannica tramite una Ong universitaria, è stato barbamente assassinato per ostacolare i nascenti rapporti strategici tra Italia ed Egitto, dopo la scoperta da parte dell’Eni di un immenso giacimento marittimo di gas e petrolio al largo delle coste egiziane. Regeni – scrisse il “Giornale”, citando servizi segreti italiani – fu ucciso da manovalanza del Cairo, ma su ordine inglese, proprio per mettere in imbarazzo Al-Sisi, proprio mentre l’Italia stava chiedendo la protezione militare dell’Egitto, allora influente in Cirenaica, nell’ipotesi di inviare un contingente italiano in Libia.Oggi, Bengasi è passata sotto il controllo della Russia: è avvenuto dopo che, in modo simmetrico, Tripoli è caduta nelle mani della Turchia. Altro volto del caos di oggi è l’insidioso neo-ottomanesimo di Erdogan, supermassone reazionario e illustre membro della spietata “Hathor Pentalpha”, secondo Magaldi. Con un gesto inaudito, che riporta l’Italia al centro della scena in politica estera, Mario Draghi ha definito “un dittatore” il sultano di Ankara. Si tratta di un messaggio in codice – spiega Dario Fabbri, di “Limes” – rivolto agli Usa: Draghi li invita a non sacrificare gli interessi italiani in Libia, dopo che Ergodan ha promesso di aprire il Mar Nero alle portaerei americane (in funzione anti-russa) se lo Zio Sam chiuderà un occhio, anzi due, sulle ambizioni imperiali dei turchi nel Mediterraneo. Dalla parte dell’Italia c’è sicuramente l’Egitto, nuovo Eldorado per l’Eni dopo i problemi sopraggiunti in Libia. Nonostante le proteste per il doloroso caso Regeni, infatti, l’Italia ha appena ceduto al Cairo due fregate Fremm, gioiello della marina militare che l’Egitto immagina di dover impiegare, come arma di dissuasione, anche e soprattutto contro la Turchia di Erdogan.Modernissime fregate lanciamissili, ma non solo: la vera arma di Al-Sisi, a quanto pare, potrebbero essere proprio i venerati faraoni della 18esima dinastia, omaggiati come il Graal dell’Egitto. «Nella “Pharaohs’ Golden Parade” – insiste Matt Martini – si può leggere il ritorno alle origini ancestrali della nazione». Martini è attentissimo ai dettagli: le salme traslate con tutti gli onori sono 22, «come le lettere dell’alfabeto ebraico, che potrebbe derivare dall’alfabeto geroglifico egizio». Il trait d’union, dice l’analista, potrebbe essere stato l’alfabeto proto-sinaitico, una forma linguistica di transizione tra l’egizio geroglifico e gli alfabeti semitici (fenicio e aramaico, fino poi al più recente ebraico biblico). Sempre 22 – aggiunge Martini – erano anche i Nòmoi (i distretti amministrativi) dell’Alto Egitto, che aveva per capitale Tebe, la città della dinastia Ramesside. «Sono numeri non casuali: esprimono un preciso linguaggio, simbolico e operativo: quello di un’operazione di magia cerimoniale, a scopi politici e meta-politici».Indicazioni che Martini trae dall’analisi della grande parata del Cairo. «Allì’inizio, la soprano al centro della scena canta un inno a Iside. Poi, i militari sfilano in un viale illuminato di rosso, che è il colore di Seth e anche degli Hyksos: quindi, è come se i militari egiziani stessero calpestando gli Hyksos, nemici dell’Egitto». Quindi, il cambio di scenografia: «A un certo punto, il viale diventa blu: ed entra in scena una figurante (blu, anch’essa) che incarna Nuit, o Nut, la dea egizia del cielo stellato». Si vede una moltitudine di ancelle agitare un contenitore luminoso: «Qui punti di luce simboleggiano proprio le stelle, con un’allusione precisa: i nostri antenati ancestrali – di cui i faraoni erano i rappresentanti terreni – venivano dal cielo: erano Figli delle Stelle».Al Cairo, la grande parata è conclusa dal corteo dalle mummie, racchiuse nei loro sarcofagi trasportati su carri scenografati in modo un po’ hollywoodiano, per ricordare i mezzi di trasporto di migliaia di anni fa. «Per la religione tradizionale egizia – precisa Martini – le mummie vengono dal Duat, dalla dimensione stellare degli Aku. Questi faraoni non sono comuni mortali: sono tecnicamente delle divinità, non vengono dall’oltretomba infero ma dalla dimensione stellare». Significati sottolineati dalla stessa data scelta per la grandiosa cerimonia: «Il 3 aprile è il 23esimo giorno del mese di Ermuti, dedicato a Iside. Ed è l’ultimo giorno di un ciclo di festività dedicate a Horus, che è il vendicatore di suo padre, e dunque il vendicatore dell’Egitto». Messaggio: «Il potere che ha allestito la parata ha voluto celebrare un atto magico, per il risveglio nazionale dell’Egitto». Si tratta di un’élite che «lavora anche sul piano “sottile” e pratica ancora la teurgia, cioè l’arte di comunicare con le divinità». Non pensiate – assicura Martini – che la cosa sia sfuggita, ai “signori del Covid”: «Queste sono operazioni molto temute, da chi vuole nascondere certe cose». L’oligarchia ostile è avvisata: contro i nemici, ora l’Egitto schiera i suoi faraoni.Attenti all’Egitto: ora riesuma i suoi antichi faraoni, per far rinascere lo spirito nazionale. E lo fa con una gigantesca kermesse, che rivela due intenti: scrollarsi di dosso un certo globalismo-canaglia, quello che ha imposto il “panico Covid” nella sua agenda, e al tempo stesso “resuscitare” l’antico culto egizio, quello della civiltà delle piramidi ereditata dai Figli delle Stelle, per avvertire quella élite che ancora oggi, segretamente e in modo inconfessabile, sembra devota alle divinità mesopotamiche (Moloch) declinate in modo pericolosamente anti-umano. E’ la lettura che Matt Martini fornisce della grandiosa “Pharaohs’ Golden Parade” andata in scena il 3 aprile al Cairo, per il trasferimento di 22 salme regali, trasportate dal museo egizio della capitale al museo nazionale della civiltà egizia a Giza, proprio all’ombra della Sfinge. Senza nascondere i tratti «anche un po’ kitsch» della “Parata d’oro dei faraoni”, Martini – esperto di orientalistica e co-autore del saggio “Operazione Corona”, edito da Aurora Boreale – avverte: siamo in presenza della volontà (esibita) di far “risorgere” l’Egitto, interpretato come erede di divinità venute dal cielo, “richiamate in servizio” per soccorrere la Terra, caduta in preda agli eccessi del mondialismo più criminale.
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Al-Baghdadi, Us Navy, baby-schiavi liberati e guerre stellari
Non sono ancora notizie vere e proprie, ma sono teoricamente enormi: difficili persino da commentare. «Vere? Non saprei. Ma, se lo fossero, potremmo assistere – addirittura nei prossimi giorni – a fatti clamorosi e inattesi, a livello geopolitico, per una volta di segno positivo anziché negativo». La “profezia” di Tom Bosco, redattore dell’edizione italiana della rivista australiana “Nexus”, è datata 22 ottobre. Appena cinque giorni dopo, nel mondo è rimbalzata la notizia delle notizie: l’uccisione del capo dell’Isis, Abu Bakr Al-Baghdadi, nei dintorni di Idlib, in una Siria ampiamente liberata dalla poderosa operazione militare avviata a fine 2016 dalla Russia di Putin. Autori dell’accerchiamento finale di Al-Baghdadi: gli Usa, sotto la regia di Trump. E le “notizie enormi” evocate da Bosco appena cinque giorni prima, a “Border Nights”? Devastanti: una raccapricciante, l’altra fantascientifica. La prima: forze della Us Navy – la stessa arma che ha appena ammesso l’esistenza degli Ufo – circa venti giorni fa avrebbero «liberato 2.1000 bambini detenuti in stato di schiavitù in bunker sotterranei, in California». La seconda “notizia”, di fonte tedesca: nei giorni seguenti, precisamente tra il 19 e il 21 ottobre, si sarebbe svolta nei nostri cieli una decisiva battaglia aerospaziale, con astronavi gigantesche. Esito: i “buoni” avrebbero sconfitto i “cattivi”. Di qui la deduzione di Bosco: se queste voci fossero veritiere, potremmo assistere a eventi geopolitici sbalorditivi in senso positivo.
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Scandalosi Clinton: 50 testimoni morti, Epstein è l’ultimo
Sabato scorso, il miliardario Jeffrey Epstein, il detenuto di più alto profilo in custodia negli Stati Uniti, è stato trovato morto nella sua cella di Manhattan. Questo è avvenuto il giorno dopo che erano state rese pubbliche duemila pagine di documenti giudiziari, precedentemente secretati, riguardanti il procedimento contro Jeffrey Epstein per atti di violenza sessuale su minori. I documenti descrivevano come Bill Clinton avesse partecipato a feste private sull’isola del pedofilo Jeffrey Epstein. Clinton aveva volato almeno 27 volte sull’aereo privato di Jeffrey Epstein. Nella maggior parte di quei voli era stato accompagnato da ragazze minorenni. Nonostante un precedente tentativo, appena tre settimane fa, di togliersi la vita, le guardie carcerarie, la notte di venerdì, avevano saltato i controlli previsti ogni 30 minuti alla cella di Epstein. Nelle prime ore del mattino lo avevano trovato morto. Jeffrey Epstein è l’ultimo di un lungo elenco di collaboratori e frequentatori della famiglia Clinton che sono morti misteriosamente o si sono suicidati prima della loro testimonianza pubblica. Nel 2016 la “Cbs” di Las Vegas aveva pubblicato un elenco degli associati Bill e Hillary Clinton che sarebbero morti in circostanze misteriose. Ecco quella lista.1. James McDougal – Il socio dei Clinton condannato per il caso Whitewater era morto per un apparente attacco cardiaco mentre si trovava in isolamento. Era un testimone chiave nelle indagini di Ken Starr. 2. Mary Mahoney – Una ex stagista della Casa Bianca, era stata assassinata nel luglio 1997 in una caffetteria Starbucks a Georgetown. L’omicidio era avvenuto subito prima che rendesse di pubblico dominio il fatto di avere subito molestie sessuali alla Casa Bianca. 3. Vince Foster – Ex consigliere della Casa Bianca e collega di Hillary Clinton presso lo studio legale Rose di Little Rock. Era morto per una ferita da arma da fuoco alla testa, risolta come suicidio. 4. Ron Brown – Segretario al Commercio ed ex presidente del Dnc [Comitato Nazionale Democratico]. La causa ufficiale della morte era stata impatto da incidente aereo. Un patologo che aveva partecipato alle indagini aveva riferito che c’era un buco nella parte superiore del cranio di Brown molto simile ad un ferita da arma da fuoco. Al momento della sua morte, Brown era sotto indagine e non aveva fatto segreto della sua volontà di concludere un accordo con gli inquirenti. Erano morti anche tutti gli altri passeggeri dell’aereo. Pochi giorni dopo, il controllore del traffico aereo si era suicidato.5. C. Victor Raiser, II – Raiser, uno dei principali responsabili dell’organizzazione per la raccolta fondi dei Clinton, era morto nella caduta di un aereo privato, nel luglio 1992. 6. Paul Tulley – Direttore politico del Comitato Nazionale Democratico era stato trovato morto in una stanza d’albergo a Little Rock, nel settembre 1992. Descritto dai Clinton come “caro amico e consigliere fidato”. 7. Ed Willey – Responsabile della raccolta fondi per i Clinton, era stato trovato morto nel novembre 1993 in un bosco della Virginia, con una ferita da arma da fuoco alla testa. Risolto come suicidio. Ed Willey era morto lo stesso giorno in cui sua moglie, Kathleen Willey, aveva affermato che Bill Clinton l’aveva palpeggiata nello Studio Ovale della Casa Bianca. Ed Willey era stato coinvolto in numerosi eventi di raccolta fondi per i Clinton. 8. Jerry Parks – Capo della squadra di sicurezza governativa di Clinton a Little Rock. Ucciso con un’arma da fuoco mentre era in macchina in un incrocio deserto fuori Little Rock. Il figlio di Parks aveva riferito che il padre stava allestendo un dossier su Clinton. Aveva presumibilmente minacciato di rendere pubbliche queste informazioni. Dopo la sua morte, i documenti erano misteriosamente spariti dalla sua abitazione.9. James Bunch – Deceduto per suicidio da arma da fuoco. Sembra possedesse un “libro nero” contenente i nomi di persone influenti che frequentavano prostitute in Texas ed Arkansas. 10. James Wilson – Era stato trovato morto nel maggio 1993, apparentemente si era suicidato impiccandosi. Sembra avesse legami con il caso Whitewater. 11. Kathy Ferguson – Ex moglie del poliziotto dell’Arkansas Danny Ferguson, era stata trovata morta nel maggio 1994 nel salotto di casa sua, uccisa con un colpo di pistola alla testa. Era stato considerato un suicidio, anche se c’erano diverse valigie piene, come se la donna fosse stata in procinto di recarsi altrove. Danny Ferguson era un co-imputato, insieme a Bill Clinton, nella causa intentata da Paula Jones. Kathy Ferguson era una possibile testimone a favore di Paula Jones. 12. Bill Shelton – Agente della polizia di Stato dell’Arkansas e fidanzato di Kathy Ferguson. Scettico sul suicidio della sua fidanzata, era stato trovato morto nel giugno 1994 per una ferita da arma da fuoco e si era stabilito che si era suicidato sulla tomba della sua fidanzata. 13. Gandy Baugh – Avvocato dell’amico di Clinton, Dan Lassater, era morto nel gennaio 1994 lanciandosi da una finestra di un alto edificio. Il suo cliente era un distributore di droga già condannato.14. Florence Martin – Ragioniera e subappaltatrice per la Cia, era legata al caso Barry Seal, Mena, Arkansas, un caso di traffico di droga all’aeroporto. Era morta per tre ferite da arma da fuoco. 15. Suzanne Coleman – Secondo quanto riferito, aveva avuto una relazione con Clinton quando quest’ultimo era procuratore generale dell’Arkansas. Era morta per una ferita da arma da fuoco alla nuca, risolta come suicidio. Al momento della morte era incinta. 16. Paula Grober – Traduttrice simultanea di Clinton per i non udenti, dal 1978 fino alla sua morte, il 9 dicembre 1992. Era morta in un incidente automobilistico. 17. Danny Casolaro – giornalista investigativo, indagava sull’aeroporto di Mena e sull’organo per il finanziamento dello sviluppo dell’Arkansas. Si era tagliato i polsi, apparentemente nel bel mezzo della sua indagine. 18. Paul Wilcher – L’avvocato che indagava sulla corruzione all’aeroporto di Mena con Casolaro e sula “sorpresa di ottobre” del 1980, era stato trovato morto in bagno, il 22 giugno 1993, nel suo appartamento di Washington Dc. Aveva consegnato un rapporto a Janet Reno tre settimane prima della sua morte.19. Jon Parnell Walker – Investigatore del caso Whitewater per la Resolution Trust Corporation. Era morto gettandosi dal balcone del suo appartamento di Arlington, in Virginia, il 15 agosto 1993. Stava indagando sullo scandalo Morgan Guaranty. 20. Barbara Wise – Collaboratrice del Dipartimento del Commercio. Aveva lavorato a stretto contatto con Ron Brown e John Huang. Causa del decesso: sconosciuta. Era morta il 29 novembre 1996. Il suo corpo nudo e pieno di lividi era stato trovato chiuso a chiave nel suo ufficio, presso il Dipartimento del Commercio. 21. Charles Meissner – Sottosegretario al Commercio, che aveva concesso a John Huang il nulla osta di sicurezza, era morto poco dopo in un incidente aereo. 22. Dr. Stanley Heard – Presidente del Comitato Consultivo Nazionale per la Terapia Chiropratica era morto con il suo avvocato, Steve Dickson, in un incidente aereo. Il dottor Heard, oltre a prestare servizio nel consiglio consultivo dei Clinton, aveva curato personalmente la madre, il patrigno e il fratello di Clinton. 23. Barry Seal – Un pilota della Twa che contrabbandava droga dall’aereoporto di Mena, Arkansas, la sua morte non è stata casuale [assassinato il 19 febbraio 1986].24. Johnny Lawhorn, Jr. – Meccanico, aveva trovato un assegno intestato a Bill Clinton nel bagagliaio di un’auto lasciata nella sua officina. Era stato trovato morto dopo che la sua macchina aveva colpito un palo della luce. 25. Stanley Huggins – Indagava sulla Madison Guaranty Savings and Loan Association. La sua morte era stata dichiarata un presunto suicidio e il suo rapporto non era mai stato pubblicato. 26. Hershell Friday – Avvocatessa e responsabile della raccolta fondi per Clinton, era morta il 1° marzo 1994, quando il suo aereo era esploso. 27. Kevin Ives e Don Henry – Noto come il caso dei “ragazzi che avevano trovato una pista”. I rapporti dicono che due i ragazzi potrebbero essersi imbattuti nel traffico di droga dell’aeroporto di Mena, Arkansas. Un caso controverso, secondo il rapporto iniziale della morte, i due ragazzi si sarebbero addormentati sui binari della ferrovia. Rapporti successivi avevano stabilito che i due giovani erano stati uccisi prima di essere messi sulle rotaie. Molte persone legate al caso erano morte prima che la loro testimonianze potessero arrivare davanti al Gran Giurì.Queste persone avevano informazioni sul caso Ives/Henry: 28 – Keith Coney: era morto quando, con la sua moto, aveva tamponato un camion, luglio 1988. 29 – Keith McMaskle: deceduto, pugnalato 113 volte, novembre 1988. 30 – Gregory Collins: morto per una ferita da arma da fuoco nel gennaio 1989. 31 – Jeff Rhodes: ucciso con un’arma da fuoco, mutilato e trovato bruciato in una discarica nell’aprile 1989. 32 – James Milan: trovato decapitato. Tuttavia, il medico legale aveva stabilito che la sua morte era dovuta a “cause naturali”. 34 – Richard Winters: uno dei sospettati nelle morti di Ives/Henry. Ucciso in una rapina organizzata nel luglio 1989. Anche queste guardie del corpo di Clinton sono morte: 35 – Maggiore William S. Barkley, Jr. 36 – Capitano Scott J. Reynolds. 37 – Sergente Brian Hanley. 38 – Sergente Tim Sabel. 39 – Maggiore Generale William Robertson. 40 – Colonnello William Densberger. 41 – Colonnello Robert Kelly. 42 – Specialista Gary Rhodes. 43 – Steve Willis. 44 – Robert Williams. 45 – Conway LeBleu. 46 – Todd McKeehan. E il più recente, Seth Rich, il collaboratore del Comitato Democratico, assassinato e “derubato” (di niente) il 10 luglio 2016. Il fondatore di Wikileaks, Assange, afferma che Rich era in possesso di informazioni sullo scandalo della posta elettronica del Dnc. In questa lista non sono inclusi i 4 eroi uccisi a Bengasi. Ed ora potete aggiungere all’elenco il multimilionario Jeffrey Epstein…(Jim Hoft, “L’elenco completo delle persone collegate ai Clinton morte in circostanze misteriose o ‘suicidatesi’ prima di testimoniare”, da “Gateway Pundit” dell’11 agosto 2019, post tradotto da Markus per “Come Don Chisciotte”).Sabato scorso, il miliardario Jeffrey Epstein, il detenuto di più alto profilo in custodia negli Stati Uniti, è stato trovato morto nella sua cella di Manhattan. Questo è avvenuto il giorno dopo che erano state rese pubbliche duemila pagine di documenti giudiziari, precedentemente secretati, riguardanti il procedimento contro Jeffrey Epstein per atti di violenza sessuale su minori. I documenti descrivevano come Bill Clinton avesse partecipato a feste private sull’isola del pedofilo Jeffrey Epstein. Clinton aveva volato almeno 27 volte sull’aereo privato di Jeffrey Epstein. Nella maggior parte di quei voli era stato accompagnato da ragazze minorenni. Nonostante un precedente tentativo, appena tre settimane fa, di togliersi la vita, le guardie carcerarie, la notte di venerdì, avevano saltato i controlli previsti ogni 30 minuti alla cella di Epstein. Nelle prime ore del mattino lo avevano trovato morto. Jeffrey Epstein è l’ultimo di un lungo elenco di collaboratori e frequentatori della famiglia Clinton che sono morti misteriosamente o si sono suicidati prima della loro testimonianza pubblica. Nel 2016 la “Cbs” di Las Vegas aveva pubblicato un elenco degli associati Bill e Hillary Clinton che sarebbero morti in circostanze misteriose. Ecco quella lista.
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Piano Usa: Libia divisa in tre (regia della Banca Mondiale)
Tripoli ha rotto le relazioni con la Francia “perché sostiene Haftar”. Una decisione che semplifica il quadro ma nello stesso tempo lo complica, perché allontana la possibilità di un accordo che fermi lo scontro tra Tripoli e Tobruk. Agli Stati Uniti appartiene la chiave della soluzione: sembrano distanti, ma in realtà la prospettiva di una spaccatura della Libia (in due o tre parti) sarebbe coerente con il progetto che Washington persegue da decenni. Lo afferma Ibrahim Magdud, intellettuale e arabista libico, intervistato da Federico Ferraù per il “Sussidiario”. «Ci sono due volontà in conflitto», premette Magdud: «Una è quella del governo di Tripoli, riconosciuto dalla comunità internazionale, l’altra è quella espressa dal Parlamento di Tobruk, eletto regolarmente dal popolo libico». Tutto comincia dall’applicazione degli accordi di Skhirat (Marocco) del 2015. Il Consiglio presidenziale avrebbe dovuto essere di nove membri, ma vi aderirono tre persone soltanto. Attualmente, la comunità internazionale riconosce come unico rappresentante della Libia Fayez al-Serraj e come legittima la Camera di Tobruk, ma non il governo nato da quel Parlamento. Serraj e la Camera di Tobruk sono entrambi legittimati, ma il governo di Tripoli non è espressione del Parlamento eletto. E così, l’appoggio di alcuni paesi esteri all’uno o all’altro dei contendenti ha ulteriormente inasprito la conflittualità fra le parti.Haftar vuole risolvere il problema della Libia a modo suo: «Sostiene di voler entrare a Tripoli e liberarla dalle milizie che la tengono in ostaggio». Non si pensi a semplici bande armate, avverte Magdud: «Sono gruppi organizzati che comandano a tutti i livelli dell’istituzione pubblica». Gli avversari di Haftar, invece, sostengono che intenda varare lo stato d’emergenza e mantenerlo per 2-3 anni, così da stabilire una dittatura militare su tutto il paese. «È verosimile», conferma il professore. Il generale della Cirenaica, sostenuto dalla Francia, «formerebbe un consiglio militare e probabilmente indirebbe le elezioni, col rischio che queste possano essere manovrate se svolte in un simile contesto di forte pressione», tenendo contro che in Libia c’è neppure una Costituzione. Per contro, Serraj «gode formalmente dell’appoggio dell’Onu e di tutta la comunità internazionale, in particolar modo di Qatar, Turchia, Italia e Regno Unito». Ma quel sostegno si sta indebolendo, avverte Magdud. Poi c’è la Russia: «Mosca vuole conquistare spazio strategico nel Mediterraneo. L’eventuale sostegno ad Haftar è funzionale a questo progetto. La stessa situazione in Siria ne è parte integrante». La Francia? «A Parigi interessa la Libia perché a sud confina con il Ciad e il Niger. E laggiù c’è l’uranio. Non sono dunque interessi limitati al petrolio libico».Cosa dovrebbe fare il nostro governo? «Essere più attivo all’interno dell’Ue, lavorando per portare quanti più paesi è possibile sulle posizioni italiane», sostiene Magdud. «Senza questo allineamento non otterrà molto di più rispetto a quello che sta facendo». Il nostro alleato più importante è l’America, osserva Ferraù, e Washington sembra addirittura volersi ritirare dal Mediterraneo. Ovviamente, però, nessuno lo crede. «Il filo del burattinaio c’è sempre, anche se non si vede», conferma Magdud. «Da Washington arriva fino al Qatar e muove in molti modi, non solo con le armi, ma anche con il lasciar fare al momento opportuno». Secondo il professore «c’è un progetto americano, risalente ai primi anni ‘80, che prevedeva una messa in sicurezza del Medio Oriente attraverso lo smembramento dei paesi arabi». Quel progetto, aggiunge Magdud, «è stato ideato dall’orientalista Bernard Lewis e adottato dall’establishment americano», ormai da diverse decadi. «L’ultima ad averlo sostenuto è stata Robin Wright sul “New York Times” nel 2013». E il piano prevede una Libia divisa in tre: Tripolitania, Cirenaica e Fezzan.La frantumazione degli Stati arabi disegnata da Washington preconizza inoltre una bipartizione dell’Iraq, la divisione della Siria in tre parti e la frammentazione della stessa Arabia Saudita addirittura in 5 regioni, quelle precedenti l’epoca contemporanea, più un allargamento del territorio israeliano. «Molto di questa “previsione” si sta avverando, o ci va molto vicino». Oggi, ovviamente, a far notizia è soprattutto Tripoli: e rimane il fatto che il caos libico «può essere risolto solo dagli americani», afferma Magdud. «Oltre ad avere il diritto di veto in Consiglio di Sicurezza, hanno ottimi rapporti bilaterali con i paesi che ne fanno parte». Sempre sul “Sussidiario”, Ferraù fa notare che nessuno, in questa crisi, sembra occuparsi della Noc, la compagnia petrolifera di Stato libica. Perché? La Noc, risponde Magdud, è saldamente in mano ad al-Serraj, il presidente di Tripoli. «Lo è anche la banca centrale libica, garantita a sua volta dalla Banca Mondiale». Chiosa Magdud, rivolto a Ferraù: «Adesso sono io che le chiedo: chi comanda in quest’ultima?».Tripoli ha rotto le relazioni con la Francia “perché sostiene Haftar”. Una decisione che semplifica il quadro ma nello stesso tempo lo complica, perché allontana la possibilità di un accordo che fermi lo scontro tra Tripoli e Tobruk. Agli Stati Uniti appartiene la chiave della soluzione: sembrano distanti, ma in realtà la prospettiva di una spaccatura della Libia (in due o tre parti) sarebbe coerente con il progetto che Washington persegue da decenni. Lo afferma Ibrahim Magdud, intellettuale e arabista libico, intervistato da Federico Ferraù per il “Sussidiario”. «Ci sono due volontà in conflitto», premette Magdud: «Una è quella del governo di Tripoli, riconosciuto dalla comunità internazionale, l’altra è quella espressa dal Parlamento di Tobruk, eletto regolarmente dal popolo libico». Tutto comincia dall’applicazione degli accordi di Skhirat (Marocco) del 2015. Il Consiglio presidenziale avrebbe dovuto essere di nove membri, ma vi aderirono tre persone soltanto. Attualmente, la comunità internazionale riconosce come unico rappresentante della Libia Fayez al-Serraj e come legittima la Camera di Tobruk, ma non il governo nato da quel Parlamento. Serraj e la Camera di Tobruk sono entrambi legittimati, ma il governo di Tripoli non è espressione del Parlamento eletto. E così, l’appoggio di alcuni paesi esteri all’uno o all’altro dei contendenti ha ulteriormente inasprito la conflittualità fra le parti.
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L’Eni gonfia di gas l’Egitto, che ora vuole annettersi la Libia
Non è da scartare l’idea che l’Italia possa inviare il suo esercito in Libia, prima che la situazione esploda davvero. Lo sostiene Aldo Giannuli, ricostruendo le tappe dell’ultima, convulsa crisi. Il vero motore del caos nordafricano? Non è neppure la Libia, ma l’Egitto. Tutto “merito” dell’Eni, che al largo delle coste egiziane ha scoperto il giacimento di Zhor: è il maggiore deposito di gas del Mediterraneo, esteso su 100 chilometri quadrati. Un mare di gas, che proietta l’Egitto – di cui la Cirenaica di Haftar è una “dépendance” – verso un ruolo leader, nella regione. L’altro problema è che Haftar ha bisogno di Tripoli, per poter esportare il petrolio cirenaico. Da qui il tentativo di abbattere con una guerra-lampo il fragile regime di Serraj. In altre parole: è il controllo energetico la chiave della crisi geopolitica. Tutto il resto – il solito risiko delle potenze, dal Golfo all’Europa, dagli Usa alla Russia – è un gioco di rimbalzi e contromosse. Il vero nodo, sostiene Giannuli, è rappresentato proprio dal gas egiziano, che dovrebbe rendere l’Egitto autosufficiente dal punto di vista energetico e trasformarlo in paese esportatore. Subito dopo le rilevazioni di Zohr sono iniziate trivellazioni al largo delle coste di Israele, Libano, Cipro e Turchia, con buone probabilità di altre scoperte. In ogni caso, il solo giacimento di Zhor «cambia lo scenario geopolitico mediorientale, facendo dell’Egitto un attore ben più potente del passato».Peraltro, aggiunge Giannuli, la guerra del 2011 ha declassato la Cirenaica al rango di satellite egiziano, incarnato dal regime di Haftar. «Come è noto, la parte più rilevante dei giacimenti petroliferi libici si trova in Cirenaica, tuttavia questo non significa che Haftar ne abbia il controllo pieno e possa disporne come gli pare: per un complesso gioco di ragioni (non ultima l’accesso al gasdotto algerino che collega l’Africa settentrionale all’Europa) il generale filo-egiziano non è in grado di commercializzare il suo greggio sin quando c’è Serraj a Tripoli, e questo spiega il suo costante tentativo di abbattere il rivale e unificare tutta la Libia sotto il suo dominio». Dunque, osserva Giannuli, «una Libia unificata sotto l’egida del Cairo diventerebbe un formidabile polo di attrazione per i paesi confinanti: dal Nord Sudan, che soffre ancora delle ferite della secessione delle province meridionali, all’Algeria in piena crisi del sistema politico, alla Tunisia sempre insidiata dal radicalismo islamico, sino alla Turchia dove il regime di Erdogan è il declino e con il quale si litiga per il ruolo dei Fratelli Musulmani». Insomma, un effetto domino che potrebbe trasformare del tutto il Medio Oriente: e data la posta in gioco, si capisce l’interesse di molti a metterci il dito.Russia, Francia e Arabia Saudita sono schierate con Haftar, mentre l’Europa (tranne la Francia) sta dalla parte di Serraj, insieme agli Usa e al Qatar. «Sin qui la guerra di Libia non è stata molto sanguinosa, sia perché la popolazione è piuttosto scarsa, sia perché, in particolare dalla comparsa di Haftar in poi, è stata un curioso misto di colpi di mano, di acquisto di tribù e zone desertiche a suon di dollari e di propaganda». Dopo la conquista di Bengasi, il generale amico del Cairo «non ha affrontato grandi combattimenti campali, ma ha effettuato veloci incursioni impadronendosi di varie zone versando più dollari che sangue». E forse anche per questo, spiega Giannuli, l’Europa non si è preoccupata più di tanto dell’offensiva su Tripoli, «nella convinzione che si tratta solo di un espediente propagandistico di Haftar per tornare a sedersi al tavolo delle trattative con più forza contrattuale». Ma questo calcolo potrebbe dimostrarsi sbagliato: «Le cose si sono spinte troppo oltre, questa volta si combatte sul serio (comincia ad esserci il primo centinaio di morti) e ai cirenaici potrebbe costare caro fermarsi o tornare indietro». Il fatto sarebbe vissuto come una sconfitta: non solo tornerebbero al tavolo delle trattative indeboliti, ma per l’effetto psicologico della sconfitta «correrebbero il rischio di perdere quelle zone di Fezzan appena conquistate».A sua volta, Haftar ha fatto male i suoi conti: «Una vera e propria guerra prolungata non è quello che cerca e non è nei suoi interessi», per cui «ha pensato che il regime di Serraj si sarebbe facilmente sfaldato sotto la pressione della sua colonna di blindati». In effetti le forze di Tripoli sono inferiori, «e c’è sempre da contare sulle defezioni prezzolate». Da qui l’illusione di una guerra-lampo che mettesse la comunità internazionale davanti al fatto compiuto. Ma i cirenaici avevano sottovalutato «il nucleo delle forze di Medina, leali a Tripoli, determinate a combattere e molto ben addestrate dal Quatar». La marcia trionfale s’è già fermata, lasciando spazio alla diplomazia: gli americani, che avevano ritirato il loro contingente (forse dando per scontata la vittoria dei cirenaici) hanno deciso di tornare, mentre la Francia «inizia ad essere in serio imbarazzo», e infatti «non ha dato il via libera all’assalto finale». Con Haftar restano i finanziatori sauditi, gli egiziani «che continuano a fornire armi» e soprattutto i russi, «che potrebbero essere seriamente tentati di inviare tecnici e contractors vari». Solo che, a quel punto, «anche gli indecisi americani e i pavidissimi europei potrebbero decidere di intervenire». Scenario: «La guerra potrebbe diventare molto più lunga e sanguinosa delle previsioni», avverte Giannuli: «Rischieremmo una nuova Siria, per di più ad un braccio di mare dalle coste italiane». Sicuri che sia così sbagliata l’idea che l’Italia sbarchi in Libia con i carri armati?Non è da scartare l’idea che l’Italia possa inviare il suo esercito in Libia, prima che la situazione esploda davvero. Lo sostiene Aldo Giannuli, ricostruendo le tappe dell’ultima, convulsa crisi. Il vero motore del caos nordafricano? Non è neppure la Libia, ma l’Egitto. Tutto “merito” dell’Eni, che al largo delle coste egiziane ha scoperto il giacimento di Zhor: è il maggiore deposito di gas del Mediterraneo, esteso su 100 chilometri quadrati. Un mare di gas, che proietta l’Egitto – di cui la Cirenaica di Haftar è una “dépendance” – verso un ruolo leader, nella regione. L’altro problema è che Haftar ha bisogno di Tripoli, per poter esportare il petrolio cirenaico. Da qui il tentativo di abbattere con una guerra-lampo il fragile regime di Serraj. In altre parole: è il controllo energetico la chiave della crisi geopolitica. Tutto il resto – il solito risiko delle potenze, dal Golfo all’Europa, dagli Usa alla Russia – è un gioco di rimbalzi e contromosse. Il vero nodo, sostiene Giannuli, è rappresentato proprio dal gas egiziano, che dovrebbe rendere l’Egitto autosufficiente dal punto di vista energetico e trasformarlo in paese esportatore. Subito dopo le rilevazioni di Zohr sono iniziate trivellazioni al largo delle coste di Israele, Libano, Cipro e Turchia, con buone probabilità di altre scoperte. In ogni caso, il solo giacimento di Zhor «cambia lo scenario geopolitico mediorientale», facendo dell’Egitto un attore ben più potente che in passato.
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Con Haftar, la Francia riprova a sfrattare l’Italia dalla Libia
La Francia ci sta riprovando: vorrebbe sfrattare l’Italia dalla Libia, come già tentato da Sarkozy all’epoca dell’omicidio di Gheddafi. La nuova pedina francese si chiama Khalifa Aftar, uomo forte della Cirenaica: l’ordine di marciare su Tripoli è partito dall’Eliseo, dove ora a comandare è Macron. Ma la “guerra lampo” per conquistare la Tripolitania è già fallita. Rischi enormi di guerra civile, ovviamente, ed esplosione del caos. Vie d’uscita? Una sola: pazienti pressioni diplomatiche, per rimettere insieme i cocci di una Libia plausibile, che oggi è il vero campo di battaglia di tutte le potenze che si stanno contendendo l’egemonia sul Mediterraneo. L’analisi è firmata da Renato Farina sul “Sussidiario”. Premessa: bisogna «uscire da una meschina restrizione d’animo (e anima) per cui quelli che conterebbero sarebbero solo gli immediati interessi italiani». Più che mai, in questo caso, le chance dell’Italia «coincidono con il bene di questa parte di mondo, il Mediterraneo, ormai terreno di scontro tra le superpotenze, e il retroterra umano: l’Africa e le sue genti». Sconsigliabile limitarsi al “particulare” nazionale, avverte Farina: per servire davvero l’Italia conviene «alzare lo sguardo», oltre l’immediato orticello (petrolio e gas, Eni e migranti). Come? Fungendo da “ponte” credibile tra mondi diversissimi, oggi sul piede di guerra.«Khalifa Aftar punta ad essere il nuovo Gheddafi», spiega Farina. «Per questo ha preso la rincorsa con le sue troppe mobili per prendersi tutta la Libia». Haftar è partito da Bengasi, capitale della Cirenaica, per occupare la Tripolitania, e sconfiggere «quelli che chiama – non del tutto a torto – “i terroristi”». Sulla carta, a Tripoli siede il governo unitario di tutta la Libia, guidato da Fayez al Serraj. «Costui in effetti è un re travicello, espressione dei Fratelli Musulmani, piazzato dall’Onu e in rapporti di sudditanza con i gruppi islamisti coinvolti con il traffico di migranti, che gli tengono la pistola sulla tempia». Tuttavia, aggiunge Farina, Serraj è anche l’uomo che tutti i recenti governi italiani «hanno accettato, sostenuto, e con cui hanno trattato». Per due ragioni: «Partivano dalle coste della Tripolitania i battelli dei migranti condotti dai trafficanti d’uomini; ed è soprattutto in quel territorio che l’Eni pompa petrolio e gas, e per noi è strategico preservare le forniture d’energia». Il problema? In una Libia frantumata, abbiamo preteso di risolvere le questioni «occupandoci solo dell’ultimo miglio, e da soli». E l’abbiamo fatto «prima con una meritoria opera di salvataggio e accoglienza, poi con una chiusura senza brividi di umanità». In un caso e nell’altro, sostiene Farina, «senza visione geopolitica», ovvero senza la capacità di «mettere al servizio degli ideali la conoscenza del rapporto tra le potenze nella consapevolezza dei fattori in gioco».Certo non è facile, ammette Farina, che però ricorda che l’Italia vanta «un patrimonio storico rappresentato dal filone De Gasperi, Moro, Andreotti, Cossiga, Craxi», ovvero «gente capace di dialogo, uomini che vedevano la collocazione dell’Italia nel Mediterraneo come un’occasione di amicizia e di pace, cerniera positiva tra l’Occidente dalle radici cristiane con il mondo musulmano ed ebraico». Tutto questo è stato dimenticato, osserva Farina. Nella Libia del dopo-Gheddafi ci siamo limitati a «guadagnare legami superficiali e spesso ricattatori di convenienza, senza lungimiranza, con chi capitava e poteva garantirci un minimo di tranquillità sui confini». Secondo Farina, dal 2011 in poi il solo Marco Minniti – ministro dell’interno con Gentiloni, ha «provato a spezzare le catene di un minimalismo pragmatico», cercando di «andare con Tripoli ma oltre Tripoli, non riducendo la politica delle migrazioni al tentativo illusorio di tamponare il flusso». Anziché limitarsi alla gestione del “rubinetto”, Minniti avrebbe cercato di stabilire rapporti di fiducia «sia con le tribù che proteggevano gli schiavisti, sia con i governi che si affacciano sul Sahara». La speranza: «Impiantare sia in Italia sia in Europa la consapevolezza che, se abbandoniamo l’Africa, essa morendo ci ucciderà».Oggi, continua Farina, dinanzi all’azione improvvisa di Haftar, «che manda al diavolo tutte le strette di mano e gli accordi con Serraj», l’Italia è si è scoperta «totalmente sprovveduta e balbettante». Haftar, spiega Farina, non è solo il capo della Cirenaica, il generale legato all’Egitto, all’Arabia Saudita e alla Russia. «Haftar è la Francia», sottolinea Farina: «Non un amico della Francia, ma il suo personale Gheddafi». Tanto per capirci: «Il tentativo di Sarkozy, appoggiato dalla Clinton e da Cameron, di prendere il posto dell’Italia come riferimento economico e strategico di Tripoli, può realizzarsi con la sperata vittoria di Haftar, armato da Parigi con il tramite degli Emirati Arabi Uniti». Solo che la guerra-lampo non ha funzionato. «Haftar credeva di schiantare le milizie legate ai Fratelli Musulmani (finanziate dal Qatar e dalla Turchia) in pochi giorni. Si era comprato l’accordo con molte delle 240 milizie all’opera in Libia. Ma sono accordi beduini, scritti appunto sulla sabbia. E il trionfo non gli è riuscito». La Russia, «che in teoria dovrebbe stare con Haftar, e che ha disegni egemonici sul Mediterraneo in sostituzione degli Usa», di fatto «non ha condiviso l’azione frettolosa del generale, la cui formazione è stata nell’Armata Rossa sovietica». E dal suo l’America, com’era prevedibile, «dinanzi al colpo di mano ha alzato la voce». E così «la Francia ha dovuto adeguarsi, chiedendo ai cirenaici di fermarsi e trattare».Buona cosa, osserva Farina, che aggiunge: il ministro degli esteri del governo gialloverde, Enzo Moavero Milanesi, ha conoscenza delle procedure e credibilità internazionale. Le doti ideali, insomma, per poter essere un ottimo mediatore. «Perché la cosa peggiore di tutte, in ogni senso – scrive Farina – è l’esplodere di una guerra civile, con migliaia di morti». La conseguenza immediata sarebbe «la sua tracimazione in Italia con attentati tramite “foreign fighters”, centomila migranti caricati su canotti e mandati allo sbaraglio». Sempre secondo Farina, «è bene che non si premi l’aggressione di Haftar (e della Francia)». Alla vigilia dell’assemblea di concordia nazionale, organizzata dall’Onu a Ghadames a metà aprile (proprio nel giorno in cui il segretario generale Onu era a Tripoli) Haftar «ha fatto come Brenno, ha messo la sua spada sul piatto della bilancia». Comunque vada a finire, conclude Farina, gli equilibri in Libia sono cambiati a suo favore: e non ci possiamo fare niente. «Ma sarebbe un prezzo accettabile, purché gli si imponga ragionevolezza, si ottenga la pace e un percorso elettorale trasparente, sorvegliato con un preminente impegno dell’Italia». Niente guerra civile, insomma, o interventi armati occidentali. Molto meglio «rendere conveniente la pace», tramite «pressioni diplomatiche consapevoli di forze piccole e grandi, implicate nell’ombra dello scacchiere». Soprattutto: «Alziamo lo sguardo, non chiudiamoci nel nostro orto con il filo spinato. Marciremmo, e pure male».La Francia ci sta riprovando: vorrebbe sfrattare l’Italia dalla Libia, come già tentato da Sarkozy all’epoca dell’omicidio di Gheddafi. La nuova pedina francese si chiama Khalifa Aftar, uomo forte della Cirenaica: l’ordine di marciare su Tripoli è partito dall’Eliseo, dove ora a comandare è Macron. Ma la “guerra lampo” per conquistare la Tripolitania è già fallita. Rischi enormi di guerra civile, ovviamente, ed esplosione del caos. Vie d’uscita? Una sola: pazienti pressioni diplomatiche, per rimettere insieme i cocci di una Libia plausibile, che oggi è il vero campo di battaglia di tutte le potenze che si stanno contendendo l’egemonia sul Mediterraneo. L’analisi è firmata da Renato Farina sul “Sussidiario”. Premessa: bisogna «uscire da una meschina restrizione d’animo (e anima) per cui quelli che conterebbero sarebbero solo gli immediati interessi italiani». Più che mai, in questo caso, le chance dell’Italia «coincidono con il bene di questa parte di mondo, il Mediterraneo, ormai terreno di scontro tra le superpotenze, e il retroterra umano: l’Africa e le sue genti». Sconsigliabile limitarsi al “particulare” nazionale, avverte Farina: per servire davvero l’Italia conviene «alzare lo sguardo», oltre l’immediato orticello (petrolio e gas, Eni e migranti). Come? Fungendo da “ponte” credibile tra mondi diversissimi, oggi sul piede di guerra.
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Prove tecniche di rivoluzione, contro il racket del potere Ue
Rivoluzione o cospirazione? Come crolla, un regime autoritario? In genere a farlo implodere non è direttamente la piazza, ma il dissenso interno, pur tra mille contraddizioni e opache trame manipolatorie. Sembra un copione ricorrente, come nel caso della Libia di Gheddafi rovesciata su iniziativa degli ex alleati di Bengasi – incoraggiati dalla Francia, e comunque reduci da una lunghissima cogestione del potere insieme al Colonnello. A smontare il maggiore “impero rigido” del Novecento, l’Unione Sovietica, è stato Mikhail Gorbaciov: non un outsider, ma un alto dirigente del Kgb. Esattamente come Vladimir Putin, l’uomo che poi la Russia l’ha rimessa insieme pezzo su pezzo. Vuoi provare a “smontare” l’Unione Europea per trasformarla in qualcosa di meglio dell’attuale aborto? Non puoi fare a meno di un “insider” di altissimo livello, di un veterano come Paolo Savona (non a caso temutissimo dagli attuali gestori dell’infernale crisi che tiene in ostaggio l’intera Europa, sotto il ricatto finanziario permanente). Altro dettaglio: quando la storia cambia passo, il vecchio potere sembra improvvisamente antico, paleozoico, surreale. Lo sono le sue parole arcaiche e logore, i suoi slogan polverosi. Balbettano, i potenti, increduli di fronte al baratro che si va aprendo. E balbettano, altrettanto disorientati, i grandi media – quelli che hanno smesso di raccontare il mondo, e quindi hanno subito le sorprese della Brexit, di Trump, del referendum contro Renzi, delle ultime elezioni italiane.Finisce nella bufera, in Italia, il presidente della Repubblica, accusato di non aver saputo resistere – in nome della dignità nazionale – alle midiciali pressioni del grande potere apolide che ha in mano l’Europa. E’ un potere senza patria, industriale e finanziario, neo-aristocratico e segretamente supermassonico. Un potere globalista e ricchissimo, infinitamente più forte – per il momento – delle piccole, residue sovranità nazionali ridotte a elemosinare decimali di deficit e briciole di flessibilità. Un sistema che, per primo, Paolo Barnard ha definito neo-feudale: svuotata la democrazia, piegata o “comprata” l’ex sinistra sindacale dei diritti, i signori del neoliberismo (peggiorato ulteriormente, in Europa, dalla versione ordoliberista teutonica, stolidamente ottocentesca e ottusamente mercantile, sleale e imbrogliona) hanno compiuto una restaurazione storica e drammaticamente spettacolare. Il potere, semplicemente, è tornato nelle mani di un’élite pre-democratica e pre-moderna, di tipo medievale. Gli ordini non si discutono: se il vero potere decreta che uno Stato non può più ricorrere al deficit, la discussione è finita. Pena, lo scatenarsi dei “mercati”. Una logica intimidatoria e brutalmente esplicita, di stampo mafioso. Una sorta di racket, al quale gli Stati ex-sovrani devono sottoporsi, senza che i cittadini-elettori siano mai stati interpellati. Fin qui, il copione di ieri. Quello che oggi sta letteralmente franando.Nelle parole che Sergio Mattarella ha rivolto alla nazione immediatamente dopo il “gran rifiuto” opposto alla nomina di Savona, risuona la visione macro-economica del sistema che il neoliberismo – vera e propria teologia dogmatica – ci ha fatto credere l’unica possibile. Per questo, Mattarella la presenta come ovvia: nel suo pensiero c’è posto per un solo modo di risolvere le crisi, e cioè tagliando il deficit pubblico. Una sola fede, una sola religione: quella che il neoliberismo ha imposto a mano armata, con formidabile efficacia, colonizzando l’immaginario universale – scuole, media, governi, editoria, università. Lo Stato deve dimagrire: non ci sono alternative, diceva Margaret Thatcher nel 1980. Peccato che la cura dimagrante imposta dal vero potere e inaugurata da Mario Monti abbia depresso l’economia al punto da far esplodere quel debito che si pretendeva di abbattere. Sono state colpite famiglie e aziende: meno lavoro, risparmi erosi, meno entrate fiscali. Risultato scontato: si è allargata la forbice tra debito e Pil. Come uscirne? Nell’unico modo possibile: facendo esattamente l’opposto. Investimenti a deficit, quindi più lavoro e più Pil, più entrate fiscali e, alla fine, riduzione proporzionale del debito. E’ semplice, in teoria. Ma sembra impossibile.I peggiori politici che un paese come l’Italia abbia mai avuto – gli eroi della Seconda Repubblica – hanno potuto sgranare impunemente il rosario dei falsi dogmi del neoliberismo. L’hanno fatto sempre, a reti unificate, mai contraddetti né interrogati dalla stampa. Un quarto di secolo si è giocato interamente solo all’interno di una soltanto delle narrazioni possibili, quella del neoliberismo, ulteriormente limitato dai vincoli dell’ordoliberismo europeo. Nessuno s’è mai chiesto come abbia fatto, il Giappone, a vivere benissimo con un debito pubblico al 200% del Pil, senza l’ombra di attacchi speculativi – impossibili, con moneta sovrana e una banca centrale che fa il suo mestiere di prestatore di ultima istanza. Nessuno in fondo si è mai chiesto niente di fondamentale, nell’Italia ipnotizzata per vent’anni dal finto duello tra Prodi e Berlusconi, entrambi al servizio (Prodi più di Berlusconi) del sommo potere neoliberista e privatizzatore. Ora, improvvisamente, il Re si scopre nudo: arriva a bloccare la nomina di un ministro, solo perché sgradita ai boss della finanza che occupano militarmente i palazzi europei. Gli italiani, a loro volta, scoprono che il loro voto è stato perfettamente inutile, e ormai diffidano delle istituzioni: temono che siano state colonizzate da poteri stranieri. C’è gente che queste cose le ha dette e scritte per vent’anni. La novità è che ora sono entrate clamorosamente a far parte dell’agenda politica, grazie a due movimenti eterodossi: uno ex-secessionista, l’altro creato dal nulla sul web.Rivoluzione o cospirazione? Come crolla, un regime autoritario? In genere a farlo implodere non è direttamente la piazza, ma il dissenso interno, pur tra mille contraddizioni e opache trame manipolatorie. Sembra un copione ricorrente, come nel caso della Libia di Gheddafi rovesciata su iniziativa degli ex alleati di Bengasi – incoraggiati dalla Francia, e comunque reduci da una lunghissima cogestione del potere insieme al Colonnello. A smontare il maggiore “impero rigido” del Novecento, l’Unione Sovietica, è stato Mikhail Gorbaciov: non un outsider, ma un alto dirigente del Kgb. Esattamente come Vladimir Putin, l’uomo che poi la Russia l’ha rimessa insieme pezzo su pezzo. Vuoi provare a “smontare” l’Unione Europea per trasformarla in qualcosa di meglio dell’attuale aborto? Non puoi fare a meno di un “insider” di altissimo livello, di un veterano come Paolo Savona (non a caso temutissimo dagli attuali gestori dell’infernale crisi che tiene in ostaggio l’intera Europa, sotto il ricatto finanziario permanente). Altro dettaglio: quando la storia cambia passo, il vecchio potere sembra improvvisamente antico, paleozoico, surreale. Lo sono le sue parole arcaiche e logore, i suoi slogan polverosi. Balbettano, i potenti, increduli di fronte al baratro che si va aprendo. E balbettano, altrettanto disorientati, i grandi media – quelli che hanno smesso di raccontare il mondo, e quindi hanno subito le sorprese della Brexit, di Trump, del referendum contro Renzi, delle ultime elezioni italiane.
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Esultanza immortale: gran bel video, il palestinese colpito
«Figlio di puttana, che clip leggendaria!». Parole immortali, come il proiettile che ha abbattuto in mondovisione l’ennesimo palestinese, oltre il reticolato dello zoo di Gaza. Domande: chi si premura sempre di difendere Israele da qualsiasi accusa non rischia forse di incoraggiare all’infinito il bowling dell’orrore, il tiro a segno contro gli inermi mandati allo sbaraglio? Sconforta, l’esercito israeliano che si sente schiamazzare – come allo stadio – al di qua della telecamera dello smartphone, esultando come per un goal. Beninteso: l’eroico cecchino è umanitario, responsabile, armato dall’Unica Democrazia Del Medio Oriente, quindi aspetta lodevolmente che dallo scarafaggio di Hamas si allontani il bambino che gli ronza attorno. Poi finalmente spara (alle gambe dell’insetto adulto) scatenando l’ordalia del tifo. A strillare come per un goal sono ragazzi in armi, che sanno di essere impuniti. Militari di leva, non serial killer sociopatici. Eppure impazziscono di gioia, di fronte allo strike – gran bel colpo, figlio di puttana! – e soprattutto: gran bel video, accidenti a te. Sulla base di questa antropologia da videogame, c’è qualcuno al mondo che sia disposto a scommettere un bottone su uno straccio di pace, tra i Neanderthal di Tel Aviv e i Negri di Gaza, gli untermenschen arabi, gli scarafaggi palestinesi?Odio, macelleria e menzogne. L’industria delle fake news. «Assad è un animale», proclama l’autorevole zoologo Donald Trump, rifiutando però un’indagine dell’Onu che chiarisca chi ha usato davvero le armi chimiche, nella zona siriana della Ghouta, la stessa in cui – come appurato proprio dalle Nazioni Unite – furono i “ribelli” a gasare civili siriani, sperando di innescare la vendetta del giustiziere Obama. Stesso copione nel replay di qualche tempo fa, nel nord della Siria: sono i “ribelli” a detenere quegli arsenali tossici, basta una cannonata finita su un deposito per fare una strage. Da dove vengono molti di quei gas? Dalla Libia del dopo-Gheddafi, hanno svelato fior di inchieste giornalistiche. Ne sapeva qualcosa l’ambasciatore americano di Bengasi, saltato in aria con la dinamite, insieme ai suoi carteggi imbarazzanti elettronici con la Clinton, che a sua volta “sbianchettò” le email, azzerando le memorie dei suoi server. Qualcuno vuole che sia l’Onu a fare luce sull’ultimo massacro? Ingenui: la verità è ormai una barzelletta, dosata a rate dal telegiornale in modo smart, in mezzo alla pubblicità. E la strage impunita è figlia di quella precedente, la macelleria non raccontata. L’omissione è menzogna. Per noi è solo un’opinione, per altri è la strada che porta al cimitero.L’ultimo grande voto, in Medio Oriente, fu quello che volò con la pallottola diretta al cranio di Yitzhak Rabin. Dopo di allora fu archiviata la pratica palestinese, la storiella umoristica dei due Stati gemelli. Un imponente smottamento: le false primavere, la grandine di fosforo su Gaza. E i tagliagole in costume medievale sceneggiati a Hollywood, pagati e armati fino ai denti, protetti da droni onniveggenti. Putin e l’Iran, l’abominevole Erdogan socio dell’Isis, spalleggiato da una Nato clandestinamente a zonzo sulle alture della Siria, bombardate dai caccia israeliani in violazione di qualsiasi legge. La verità non interessa più, è insopportabile: come l’antico marinaio cui dà voce Coleridge, che tenta di convincere gli increduli gettando loro in faccia l’immane ferocia del naufragio. E se qualcuno poi dovesse sopravvivere, in ogni caso non sarà mai creduto: era il cinismo sfrontato dei nazisti, a tormentare Primo Levi. La verità è una pattuglia di scolari in gita, sorpresi a festeggiare mentre sparano su gente disarmata, filmando le balistiche prodezze in un’allegra gara di barbarie. Un video come quello può valere tonnellate d’odio, sangue futuro sparso a orologeria. Jeremy Corbyn, da Londra, è l’unico a suonare le dolenti note del poeta: peggio per tutti, se nessuno ascolterà la verità. Bombe e menzogne a oltranza, mentre un Senato alieno – dall’altra parte dell’oceano – ascolta il mesto pigolio di Zuckerberg.«Figlio di puttana, che clip leggendaria!». Parole immortali, come il proiettile che ha abbattuto in mondovisione l’ennesimo palestinese, oltre il reticolato dello zoo di Gaza. Domande: chi si premura sempre di difendere Israele da qualsiasi accusa non rischia forse di incoraggiare all’infinito il bowling dell’orrore, il tiro a segno contro gli inermi mandati allo sbaraglio? Sconforta, l’esercito israeliano che si sente schiamazzare – come allo stadio – al di qua della telecamera dello smartphone, esultando come per un goal. Beninteso: l’eroico cecchino è umanitario, responsabile, armato dall’Unica Democrazia Del Medio Oriente, quindi aspetta lodevolmente che dallo scarafaggio di Hamas si allontani il bambino che gli ronza attorno. Poi finalmente spara (alle gambe dell’insetto adulto) scatenando l’ordalia del tifo. A strillare come fossero in tribuna sono ragazzi in armi, che sanno di essere impuniti. Militari di leva, non serial killer sociopatici. Eppure impazziscono di gioia, di fronte allo strike – gran bel colpo, figlio di puttana! – e soprattutto: gran bel video, accidenti a te. Sulla base di questa antropologia da videogame, c’è qualcuno al mondo che sia disposto a scommettere un bottone su uno straccio di pace, tra i Neanderthal di Tel Aviv e i Negri di Gaza, gli untermenschen arabi, gli scarafaggi palestinesi?
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Grimaldi: golpe Cia in corso in Iran, via rivoluzione colorata
«Si è scatenato quello che promette essere un rinnovato tentativo USraeliano, con il conforto saudita e il beneplacito dell’Ue, al cambio violento di regime in Iran, stavolta mettendoci tutto l’impegno dei due terroristi di Stato della cosiddetta “comunità internazionale (leggi Nato), Trump (con lo Stato Profondo Usa) e Netanyahu (sostenuto dalla lobby) e arrivando fino all’aggressione armata, con conseguenze apocalittiche non solo per il Medioriente». Fulvio Grimaldi, per lunghi anni giornalista Rai e autore del documentario “Target Iran”, che racconta la nuova realtà dell’ex Persia affrancatasi dall’Occidente, teme che la guerriglia scatenatasi a Teheran sia l’antipasto dell’ennesima, sanguinosa “rivoluzione colorata” per rovesciare il governo iraniano, che insieme a quello russo si è opposto con successo, in Siria, alla guerra contro Assad organizzata dalla Cia utilizzando i miliziani dell’Isis. «L’anticipazione di questa strategia, lubrificata dallo tsunami di falsità e diffamazioni di cui si incaricano i media mainstream, con particolare efficacia quelli di “sinistra” e la loro clientela di utili idioti e amici del giaguaro imperialista – scrive Grimaldi – la si è avuta nel 2009, al tempo delle elezioni che hanno rinnovato il mandato al migliore, più laico, antimperialista (si ricordi la sua amicizia con Hugo Chavez) e socialmente sensibile presidente iraniano, Mahmud Ahamdinejad».All’epoca, scrive Grimaldi sul suo blog, venne scatenata la sedicente “rivoluzione verde”, dove «settori della borghesia ricca, nostalgica della sanguinaria dittatura del fantoccio occidentale Reza Pahlevi e famelica di neoliberismo per poter sottrarre beni e diritti ai ceti popolari valorizzati da Ahmadinejad, vennero mandati, da agenti infiltrati del terrorismo internazionale, allo scontro con lo Stato». Il pretesto era il solito: «Brogli nella vittoria di Ahamedinejad, riscatto delle donne oppresse da burka e bigottismo patriarcale». Allora, continua Grimaldi, si trattava di ridurre la crescente influenza di Teheran sul cosiddetto “arco scita”, «espressione depistante utilizzata per descrivere governi e popolazioni resistenti all’imperialismo Usa e israeliano, neutralizzare il suo ruolo di prezioso fornitore di gas e petrolio a paesi su cui l’Occidente intende esercitare il dominio energetico, bloccare il modello di emancipazione sociale messo in atto da Ahmadinejad e l’impetuoso sviluppo industriale del paese». Al centro della “sceneggiata” era la presunta volontà di Teheran di dotarsi di armamento atomico, quando la stessa Aiaea, l’agenzia Onu per l’energia atomica, insisteva a dimostrare che lo sviluppo nucleare dell’Iran era dedicato esclusivamente a uso civile, sanitario ed energetico.Con l’avvento del “moderato” Hassan Rouhani, reso possibile dal fatto che il “conservatore” Ahmadinejad non poteva presentarsi per un terzo mandato e che il suo schieramento aveva fronteggiato le elezioni diviso (“moderato” e “conservatore” sono i termini «che i media ci infliggono per designare chi è gradito e chi sgradito all’Occidente»), avviene secondo Grimaldi «l’indecorosa resa, la rivincita dei “quartieri alti” di Teheran, un’offensiva privatizzatrice e, pietra angolare dell’indipendenza o meno del paese, l’accordo sul nucleare con gli Usa che ha privato l’Iran quasi interamente del suo potenziale di nucleare civile». Il che avrebbe dovuto portare alla normalizzazione dei rapporti con Usa e Occidente, alla fine di sanzioni tra le più feroci e genocide mai inflitte, alla pacificazione della regione. Invece, «è sotto gli occhi di tutti a cosa ha portato l’arrendevolezza di Rouhani». Il progetto di “regime change” mancato da Obama, Hillary Clinton e Netanyahu è fallito clamorosamente, ma i nemici dell’Iran non hanno mai mollato la presa, tra fake news e attentati terroristici contro scienziati iraniani e contro la stessa popolazione civile, «affidati a una setta di fuorusciti riparata a Parigi e a Washington e da lì foraggiata e armata: i Mek, Mujahedin del Popolo».A far saltare i nervi al blocco occidentale, aggiunge Grimaldi, è stato il sostegno dato dall’Iran «alla resistenza irachena e iraniana contro Usa, Israele, Nato e loro mercenariato jihadista», nonché «l’impetuosa crescita del suo prestigio e della sua influenza nella regione». E così «siamo ai pogrom di oggi, che annunciano una nuova “rivoluzione verde” che in Occidente si spera risolutrice». Ma che non lo sarà, sostiene sempre Grimaldi, «alla luce dell’unità del popolo iraniano, della sua coscienza politica, del suo patriottismo». Dal giorno in cui la rivoluzione khomeinista ha posto fine alle ingerenze colonialiste e poi imperialiste (si ricordi il colpo di Stato angloamericano contro il premier Mossadeq nel 1952 e la restaurazione imperiale sotto lo Shah), «l’Occidente non ha mai cessato di fornire all’opinione pubblica un quadro grottescamente distorto dell’Iran e dei suoi 80 milioni di abitanti». Oggi, prosegue Grimaldi, «si riparte con la totale falsità di una dittatura, una società oppressa dal clero, una catastrofe economico-sociale, una matrice di terrorismo e instabilità in tutta la regione». Tutto “merito” degli Stati Uniti: «La potenza che s’inventa interferenze russe nelle proprie elezioni, ma che non ha trascurato di intervenire, con tangenti, ricatti, manipolazione di settori sociali, tsunami mediatici e colpi di Stato, in praticamente ogni processo elettorale e genericamente politico dove fosse in gioco il dominio Usa, rinnova l’operazione fallita del 2009: obiettivo, ancora una volta il “regime change” e, in mancanza, l’aggressione, o diretta, o affidata a surrogati».Secondo Grimaldi, le politiche neoliberiste di Rouhani «hanno annullato in parte il progresso delle classi popolari realizzato da Ahmadinejad». Soprattutto, le sanzioni che l’accordo nucleare avrebbe dovuto far sospendere (ma che Trump ha rafforzato) hanno peggiorato le condizioni di vita di vaste masse: aumento dei prezzi di carburanti ed energia, annullamento dei sussidi alimentari, inflazione, crisi del bazar, disoccupazione. «Ed è successo quanto s’è visto e documentato a Kiev, Bengasi in Libia, Deraa in Siria, Caracas». Un copione: «Parte una pacifica rivendicazione di piazza in varie città iraniane, nel giro di ore, secondo un programma dettagliato pubblicato in rete, in varie città spuntano gruppetti di non più di 50 soggetti che, alle richieste di aumenti salariali e altri interventi economici, sovrappongono slogan anti-sistema, contro il governo e, con particolare virulenza contro il “dittatore” Khamenei, che è dittatore quanto lo è il capo di Stato di qualsiasi paese europeo». Se “morte al dittatore” e “morte a Khamenei” ci riportano dritti agli auspici indirizzati a Maduro, Gheddafi o Assad, «l’inconfutabile marchio israeliano risuona nelle imprecazioni contro il ruolo regionale dell’Iran e contro l’impegno per la Palestina, Gaza e il Libano: “Giù le mani dal Medioriente”, “No Gaza”, “No Libano”».Non passano che poche ore e, immancabili, partono colpi di arma da fuoco, non si capisce bene da quale parte (per i media occidentali inconfutabilmente dalla polizia) e cadono le prime vittime. Poi, a tempo scaduto, «escono fuori prove, video, testimonianze e confessioni che attestano la presenza di infiltrati impegnati a sparare sulla folla: su questo aspetto, tuttavia, i mass media appaiono distratti». Intanto, aggiunge Grimaldi, «hanno lucidato le proprie trombe tutti gli squalificatissimi arnesi della cosiddetta “società civile” e dei “diritti umani”, gli scontati travestimenti dell’intelligence imperialista, da Amnesty International a Hrw e alla National Endowment for Democracy, con pesce pilota, da noi, il “Manifesto”, zelantissimo su tutte le campagne delle false sinistre e vere destre internazionali: russofobia, “dittatori”, migranti e Ong sorosiane, molestie, gender, “populisti”, “sovranisti”, “minaccia fascista” incombente (che, per carità, non riguarda mica censura, militarizzazione, securitarismo, bellicismo, colonialismo, guerra ai poveri su entrambi i lati dell’Atlantico)».Una di queste entità, «la Foundation for Defense of Democracies, del talmudista Mark Dubowitz», ha sintetizzato il programma di distruzione dell’Iran, nel plauso del direttore della Cia, Mike Pompeo e del segretario di Stato Tillerson, nei termini di un appello a Trump di lanciare «l’offensiva finale contro il regime di Teheran, indebolendone le finanze attraverso più massicce sanzioni economiche e minandone la direzione attraverso la mobilitazione delle forze pro-democrazia». E il Congresso «ha votato cospicui finanziamenti ai terroristi del Mek, la cui presidente, Maryam Rajavi, non ha perso l’occasione peri incitare “l’eroico popolo dell’Iran” all’assassinio del dittatore Khamenei e alla liberazione dei prigionieri politici». Presto, conclude Grimaldi, emergerà anche una nuova eroina-simbolo della “rivoluzione democratica”, sul modello di Neda Soltan. Ricordate la giovane manifestante di Teheran “uccisa” dagli agenti del regime «di cui, poi, un video dimostrava la finta morte allestita con finto sangue dai suoi compari e un giornale tedesco, la “Sueddeutsche Zeitung”, la “resurrezione” in Germania». Nulla di nuovo sotto il sole: «Solo che questa volta temo che, constatati i propri rovesci in Medio Oriente, grazie anche all’Iran, i veri Stati canaglia vogliano andare fino in fondo. E qui, amici, la controinformazione è vitale».«Si è scatenato quello che promette essere un rinnovato tentativo USraeliano, con il conforto saudita e il beneplacito dell’Ue, al cambio violento di regime in Iran, stavolta mettendoci tutto l’impegno dei due terroristi di Stato della cosiddetta “comunità internazionale (leggi Nato), Trump (con lo Stato Profondo Usa) e Netanyahu (sostenuto dalla lobby) e arrivando fino all’aggressione armata, con conseguenze apocalittiche non solo per il Medioriente». Fulvio Grimaldi, per lunghi anni giornalista Rai e autore del documentario “Target Iran”, che racconta la nuova realtà dell’ex Persia affrancatasi dall’Occidente, teme che la guerriglia scatenatasi a Teheran sia l’antipasto dell’ennesima, sanguinosa “rivoluzione colorata” per rovesciare il governo iraniano, che insieme a quello russo si è opposto con successo, in Siria, alla guerra contro Assad organizzata dalla Cia utilizzando i miliziani dell’Isis. «L’anticipazione di questa strategia, lubrificata dallo tsunami di falsità e diffamazioni di cui si incaricano i media mainstream, con particolare efficacia quelli di “sinistra” e la loro clientela di utili idioti e amici del giaguaro imperialista – scrive Grimaldi – la si è avuta nel 2009, al tempo delle elezioni che hanno rinnovato il mandato al migliore, più laico, antimperialista (si ricordi la sua amicizia con Hugo Chavez) e socialmente sensibile presidente iraniano, Mahmud Ahamdinejad».
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Dinaro africano: perché Hillary fece assassinare Gheddafi
Le mail appena rivelate mostrano che la Nato intervenne in Libia perché Gheddafi voleva creare una propria moneta, agganciata all’oro, per competere con l’euro e il dollaro. Lo afferma Brad Hoff su “Foreign Policy”. A capodanno sono state pubblicate oltre 3.000 nuove e-mail della Clinton quando era al Dipartimento di Stato. «La “Cnn” ovviamente si è concentrata sulle più futili», mentre gli analisti si sono soffermati «sulle conferme esplosive ivi contenute: ammissioni di crimini di guerra, infiltrati in Libia sin dall’inizio delle rivolte, la presenza di Al-Qaeda nell’opposizione appoggiata dagli Usa, paesi occidentali che si combattono per il petrolio libico e la preoccupazione per le riserve d’oro e d’argento di Gheddafi che minacciavano l’euro». Il 27 marzo scorso, una nota di Sidney Blumenthal, storico consigliere dei Clinton e raccoglitore di intelligence per Hillary, contiene evidenti testimonianze di crimini di guerra compiuti dai ribelli sostenuti dalla Nato. Citando come fonte un comandante dei ribelli, Blumenthal riferisce confidenzialmente che «sotto l’attacco delle forze aeree e navali degli alleati», le truppe libiche «hanno cominciato sempre più ad unirsi ai ribelli». Commento della fonte: «In confidenza, un comandante ribelle ha detto che le sue truppe continuano a uccidere tutti i mercenari stranieri catturati nei combattimenti».Mentre l’illegalità degli omicidi degli “squadroni della morte” di Hillary è facilmente riconoscibile, dietro al riferimento ai “mercenari stranieri” potrebbe esserci una sinistra realtà, non immediatamente evidente alla maggior parte della gente, scrive Hoff in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”. «Gheddafi era noto per avvalersi di aziende europee e internazionali per lavori di sicurezza e infrastrutture, e guarda caso nessuna di queste è stata presa di mira dai ribelli. Ci sono invece molte testimonianze che dimostrano che civili libici e lavoratori sub-sahariani, popolazione favorita da Gheddafi nelle sue politiche per l’Unione Africana, sono stati obiettivi della “pulizia razziale” dei ribelli, che vedevano i neri libici come troppo legati al regime. Questi ultimi sono stati comunemente etichettati dai ribelli come “mercenari stranieri” per la loro fedeltà assoluta al leader, sono stati soggetti a torture ed esecuzioni e hanno subìto una pulizia etnica. Ne è un esempio Tawergha, città popolata interamente da 30.000 libici “scuri”, scomparsi nell’agosto 2011 dopo la sua presa da parte delle brigate Nrc Misratan, sostenute dalla Nato».Questi attacchi erano ben noti fin dal 2012 e spesso filmati, come conferma il report del “Telegraph”: «Dopo la cattura di Gheddafi ad agosto, centinaia di lavoratori migranti provenienti dagli Stati vicini sono stati imprigionati da combattenti alleati alle nuove e provvisorie autorità. Accusano gli africani neri di essere mercenari del defunto leader». In più, «sembra che la Clinton venisse personalmente informata dei crimini dei suoi amati combattenti anti-Gheddafi ben prima che questi avvenissero». La mail di Blumenthal, aggiunge Hoff, conferma anche il sospetto che le forze speciali di addestramento avessero collegamenti con Al-Qaeda. Sempre Blumenthal ammette che unità speciali britanniche, francesi ed egiziane stavano formando militanti libici lungo il confine egiziano-libico e nelle periferie di Bengasi. «Questa è la prova definitiva che forze speciali erano sul territorio subito dopo l’inizio delle proteste scoppiate a metà febbraio 2011 a Bengasi». Dal 27 marzo di quella che si era presunto fosse una semplice “rivolta popolare”, operativi esterni stavano già «sovrintendendo al trasferimento di armi e forniture ai ribelli», tra cui «una fornitura apparentemente infinita di fucili Ak-47 e relative munizioni».Solo alcuni paragrafi dopo questa ammissione, aggiunge Hoff, si invoca invece cautela sulle milizie che queste forze speciali occidentali stavano formando. C’era infatti la preoccupazione che «gruppi radicali terroristici come il Gruppo dei combattenti islamici libici e Al-Qaida nel Maghreb islamico (Aqim) infiltrassero l’Ntc e il suo comando militare». Anche se la risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza Onu proposto dalla Francia diceva che la “no-fly zone” sulla Libia era per proteggere civili, una mail di aprile 2011 inviata ad Hillary con l’argomento “il cliente francese e l’oro di Gheddafi” svela altri fini. Indica infatti che Sarkozy «era in prima fila nell’intervento in Libia, per cinque ordini di motivi: ottenere il petrolio libico, consolidare l’influenza nella regione, aumentare la propria reputazione a livello nazionale, affermare il potere militare francese e togliere l’ascendente di Gheddafi sull’“Africa francofona”». La cosa più sorprendente, aggiunge Hoff, è la lunga sezione che descrive l’enorme minaccia posta dalle riserve d’oro e argento del leader, stimate in 143 tonnellate ciascuna, al franco francese (Cfa), che circola come prima moneta africana. Altro che “responsabilità alla protezione”, a tutela dei civili. La spiegazione “riservata” è la seguente: «Questo oro è stato accumulato prima della ribellione attuale ed era destinato a creare una moneta pan-africana basata sul dinaro».Il piano, continua l’email riservata, era di «dare agli africani francofoni un’alternativa al franco». Secondo gli esperti, questa quantità d’oro e d’argento valeva più di 7 miliardi di dollari. «L’intelligence francese ha scoperto questo progetto poco dopo l’inizio dell’attuale ribellione e questo è il motivo della decisione di Sarkozy». Da notare che il salvataggio dei civili non viene neanche menzionato, chiosa Hoff. «Invece, la grande paura era che la Libia potesse dare indipendenza al Nord Africa col dinaro. L’intelligence francese “ha scoperto” l’alternativa libica all’euro: non poteva essere concesso». All’inizio del conflitto libico, la Clinton accusò formalmente Gheddafi e il suo esercito di usare lo stupro di massa (con l’aiuto del Viagra) come strumento di guerra. «Sebbene numerose organizzazioni internazionali, tra cui Amnesty, dimostrarono subito la falsità di queste affermazioni, le accuse vennero pompate da politici e media occidentali: visto che infangava il leader libico, la cosa venne presa per buona dai network».Altra fiaba: il regime “sposta cadaveri” là dove cadono le bombe Nato. E’ lo stesso Blumenthal ad ammettere che sono semplici “rumors”, cui ha dato eco Robert Gates, allora segretario alla difesa, mentre la «narrativa degli stupri» è stata rilanciata da Susan Rice, ambasciatrice Usa all’Onu, nell’accusare pubblicamente la Libia davanti al Consiglio di Sicurezza. «Queste mail confermano che il Dipartimento di Stato non solo sapeva della natura spuria di ciò che Blumenthal chiama “voci” che avevano come fonte esclusiva il lato dei ribelli, ma anche che non ha fatto nulla per impedire che tali false notizie arrivassero ai piani alti, che ne hanno poi dato “credibilità”», conclude Hoff. «Sembra inoltre che la storia del Viagra probabilmente sia stata inventata di sana pianta da Blumenthal stesso». Interamente falso, dunque, il castello di accuse: Gheddafi, semplicemente, doveva cadere. Rappresentava una sfida all’impero euro-atlantico dell’euro e del dollaro, nonché un argine allo jihadismo, che è funzionale alla Nato: andava eliminato, per poter costruire la leggenda successiva, quella dell’Isis.Le mail appena rivelate mostrano che la Nato intervenne in Libia perché Gheddafi voleva creare una propria moneta, agganciata all’oro, per competere con l’euro e il dollaro. Lo afferma Brad Hoff su “Foreign Policy”. A capodanno sono state pubblicate oltre 3.000 nuove e-mail della Clinton quando era al Dipartimento di Stato. «La “Cnn” ovviamente si è concentrata sulle più futili», mentre gli analisti si sono soffermati «sulle conferme esplosive ivi contenute: ammissioni di crimini di guerra, infiltrati in Libia sin dall’inizio delle rivolte, la presenza di Al-Qaeda nell’opposizione appoggiata dagli Usa, paesi occidentali che si combattono per il petrolio libico e la preoccupazione per le riserve d’oro e d’argento di Gheddafi che minacciavano l’euro». Il 27 marzo scorso, una nota di Sidney Blumenthal, storico consigliere dei Clinton e raccoglitore di intelligence per Hillary, contiene evidenti testimonianze di crimini di guerra compiuti dai ribelli sostenuti dalla Nato. Citando come fonte un comandante dei ribelli, Blumenthal riferisce confidenzialmente che «sotto l’attacco delle forze aeree e navali degli alleati», le truppe libiche «hanno cominciato sempre più ad unirsi ai ribelli». Commento della fonte: «In confidenza, un comandante ribelle ha detto che le sue truppe continuano a uccidere tutti i mercenari stranieri catturati nei combattimenti».
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Terrorismo, il bugiardo copione della morte. Fino a quando?
Qualcuno crede ancora che sia stato Osama Bin Laden, cioè il socio storico della famiglia Bush, poi agente speciale della Cia in Afghanistan, a far radere al suolo le Torri Gemelle, il giorno in cui – per la prima e unica volta nella storia degli Stati Uniti – l’aviazione era stata interamente impegnata in una decina di esercitazioni concomitanti, dall’Alaska alla West Cost, lasciando solo 4 aerei a guardia del cielo di New York e Washington? E qualcuno crede ancora che lo stesso Bin Laden sia stato davvero ucciso il 2 maggio 2011 ad Abbottabad in Pakistan, su ordine di Obama, dai Navy Seals poi tragicamente a loro volta uccisi (tutti) da un razzo dei Talebani all’aeroporto di Kabul? Qualcuno, davvero, crede che il fantomatico Abu Bakr Al-Baghdadi, misteriosamente scarcerato nel 2009 dal centro di detenzione iracheno di Camp Bucca e poi fotografato in Siria in amena compagnia del senatore John McCain, non c’entri nulla con le reti di intelligence occidentale che hanno organizzato a tavolino la “guerra infinita” fabbricando, allo scopo, prima Al-Qaeda e poi lo Stato Islamico?Mentre si prolunga il silenzio assordante dei media mainstream, che ignorano deliberamente le ormai migliaia di fonti – da Wikileaks in giù – che raccontano tutta un’altra storia, come quella dell’ambasciatore americano a Bengasi saltato in aria con tutte le sue carte dopo che il network di Assange aveva scoperto il traffico di ami chimiche dalla Libia verso la Siria (da cui l’emailgate di Hillary Cinton, con 1.400 messaggi precipitosamente cancellati), ammonta a ormai molti milioni di persone la platea internazionale degli “webeti” che vogliono sapere, informarsi, scoprire perché agli europei oggi tocca morire per strada, al bar, in metropolitana, al concerto, allo stadio. Voci eminenti hanno squarciato un velo di omissioni, falsità e depistaggi. Giornalisti, premi Pulitzer, ex ministri americani, ex militari d’alto rango, massoni, analisti, specialisti dell’intelligence. Raccontano tutti la stessa storia: un’élite impazzita ha il terrore di perdere il potere assoluto conquistato negli ultimi trent’anni, da quando – afflosciatasi la minaccia sovietica – il “partito della guerra”, il business degli armamenti, aveva assoluta necessità di “inventare” un altro nemico, necessario a giustificare il boom inesauribile della spesa militare, e così ha “fabbricato” la minaccia islamista.Lo ammette l’anziano Zbigniew Brzezisnki nelle sue memorie: fu lui a reclutare Bin Laden, fu lì che tutto cominciò. Il seguito è stato solo una tragica farsa, sanguinosissima: l’11 Settembre, le “armi di distruzione di massa” di Saddam, l’esercito barbarico del Califfo, le armi chimiche di Assad e quelle di Gheddafi, l’atomica dell’Iran. Ora siamo ai kamikaze, veri o presunti, ma comunque non sopravviventi: immancabilmente “già segnalati dall’intelligence”, regolarmente “sfuggiti al controllo”, prontamente individuati e riempiti di piombo. Terrorizzare un paese come la Francia, strategico per l’oligarchia finanziaria Ue, secondo alcuni osservatori è una misura preventiva: le leggi speciali frenano la protesta per le misure di rigore sociale in arrivo, e concorrono all’elezione in carrozza di un soggetto come Macron, creatura in vitro della supermassoneria reazionaria incarnata dall’onnipresente Jacques Attali, l’uomo che derise la “plebaglia europea”, illusasi che l’euro fosse stato creato per la sua felicità. Fino a quando durerà, questa recita, che attualmente insanguina il Regno Unito colpevole di aver scelto la Brexit? Se è vero che i signori del terrore hanno paura di perdere il regno, come sostiene qualcuno, c’è ragione di temere un maxi-attentato, stile 11 Settembre. A meno che, a monte, non accada qualcosa, e l’élite “nera” sia sconfitta. Ma non c’è caso che gli “webeti” vengano a saperlo da giornali e televisioni. Siamo nel 2017, e la verità non è mai stata così incerta e rischiosa, avara e tristemente clandestina.Qualcuno crede ancora che sia stato Osama Bin Laden, cioè il socio storico della famiglia Bush, poi agente speciale della Cia in Afghanistan, a far radere al suolo le Torri Gemelle, il giorno in cui – per la prima e unica volta nella storia degli Stati Uniti – l’aviazione era stata interamente impegnata in una decina di esercitazioni concomitanti, dall’Alaska alla West Cost, lasciando solo 4 aerei a guardia del cielo di New York e Washington? E qualcuno crede ancora che lo stesso Bin Laden sia stato davvero ucciso il 2 maggio 2011 ad Abbottabad in Pakistan, su ordine di Obama, dai Navy Seals poi tragicamente a loro volta uccisi (tutti) da un razzo dei Talebani all’aeroporto di Kabul? Qualcuno, davvero, crede che il fantomatico Abu Bakr Al-Baghdadi, misteriosamente scarcerato nel 2009 dal centro di detenzione iracheno di Camp Bucca e poi fotografato in Siria in amena compagnia del senatore John McCain, non c’entri nulla con le reti di intelligence occidentale che hanno organizzato a tavolino la “guerra infinita” fabbricando, allo scopo, prima Al-Qaeda e poi lo Stato Islamico?
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Manchester Satanic e terroristi Nato, nessuno è innocente
Ora viene fuori che il papà dell’attentatore di Manchester, il signor Ramadan Abidi, era un uomo reclutato dai servizi britannici, coinvolto in un vasto piano dell’esercito libico per assassinare Gheddafi, salvato – dopo che la sua copertura era stata svelata – dai servizi che l’avevano fatto esfiltrare con la famiglia. Il “Lybia Herald” lo indica come «un federalista della Cirenaica, che lottava per l’autonomia della regione, ma non noto per affiliazione religiosa». E’ stato nella Libia orientale che fu innescata la insurrezione tribale che portò alla caduta ed uccisione di Gheddafi, nel marzo 2011. Arrivarono carichi di armi dal Qatar. Truppe speciali britanniche erano sul terreno ad aiutare i rivoltosi: la “Bbc” riportò allora che sei elementi Sas erano stati catturati dalle truppe fedeli a Gheddafi; negli stessi giorni, sei “corpi speciali olandesi” (sic) furono catturati nella Libia occidentale mentre, dissero, aiutavano l’esfiltrazione di loro connazionali. Dunque, membri della Nato stavano assistendo (comandando, guidando) il Gruppo Islamico Libico Combattente, il cui capo sul fronte orientale era Abdelhakim Belhadj, noto esponente di Al-Qaeda.Ora, secondo l’“Independent”, Salman Abedi, il figlio stragista di Manchester, si trovava nella Libia Orientale nel 2011, quando gli aerei britannici bombardavano le truppe del governo libico per portare al potere i Takfiri. Era giovanissimo. Secondo i suoi compagni di scuola, cambiò allora: «Prima era un ragazzo di compagnia, beveva, fumava erba – ma quando tornò dalla Libia nel 2011 era un’altra persona. Diventò religioso. Per qualche tempo è stata innalzata una bandiera nera con scritte in arabo sul tetto della casa degli Abedi a Elsmore Road». Spero che i lettori non abbiano dimenticato come, sotto gli auspici di Hillary Clinton allora segretaria di Stato, carichi e carichi di armamenti saccheggiati dai forniti arsenali di Gheddafi furono spediti in Siria, per armare i Takfiri mercenari arruolati per abbattere il legittimo governo. Una sporchissima faccenda in cui trovò la morte l’ambasciatore Usa Chris Stevens, sacrificato con la sua scorta di Marines per non far saltare fuori la storia. Potevano essere salvati, un commando era pronto a decollare dalla Sicilia, fu dato l’ordine di “stand-down”. Insomma la strage “islamica” di Manchester è un effetto collaterale delle sovversioni britanniche in Libia e in Oriente in obbedienza ai neocon americani. A meno che non sia un’operazione voluta dagli stessi servizi britannici – l’attentatore era ben noto agli agenti – per distrarre l’opinione pubblica da qualcos’altro (Brexit? Elezioni?).Personalmente penso che valga più la prima ipotesi. Ma, come si dice: mai sprecare un disturbato mentale utilizzabile come islamista kamikaze. Quanto alla pop-star Ariana Grande, idolo delle giovanissime: nel 2014, in una intervista a “Billboard”, ha rivelato di essere divenuta “kabbalista” (complimenti) secondo «gli insegnamenti del rabbino Philip Berg», un agente d’assicurazione di New York, fondatore di una organizzazione magica chiamata Centro della Kabbala. Ariana Grande non è la sola celebrità ad aderirivi: Naomi Campbell, Madonna, Leonardo Di Caprio, Britney Spears, Demi Moore e (poteva mancare?) Paris Hilton si dice ne facciano parte. La giovanissima Ariana Grande ne deve essere particolarmente addentro, perché in una intervista ha parlato di come talora venga “abitata” da presenze inequivocabili: «Appena ho chiuso gli occhi ho sentito questa vampata davvero forte vicino alla mia testa… quando ho chiuso gli occhi ho iniziato di nuovo con i sussurri per molto tempo… ho iniziato a vedere questa immagine veramente inquietante, come con forme rosse».Sul web naturalmente si sono affollati complottisti che hanno intuito “messaggi” kabbalisti, per esempio, nell’età dell’attentatore e nella data della strage (22 è il numero delle lettere ebraiche su cui si basa la magia della Kabbala); altri hanno indicato simboli kabbalistici nei videoclip della piccola. La cosa ci stupirebbe poco e poco ci interessa. Oltretutto un produttore cinematografico che ha passato la vita ad Hollywood, Jon Robberson, ha appena accusato l’industria cinematografica hollywoodiana di essere «un nido di pedo-criminalità di natura luciferina». Il che, naturalmente, ci stupirà ancor meno. Stupirebbe di più il fatto che nessun giudice in Usa voglia riprendere in mano la faccenda della strana morte di Seth Rich, un addetto del comitato elettorale democratico che aveva rivelato a Wikileaks migliaia di mail compromettenti sul funzionamento interno del partito: fra cui i trucchi e i giochi sporchi con cui quel partito favoriva la Clinton e sabotava l’altro candidato, Bernie Sanders. «Seth Conrad Rich, 27 anni, fu assassinato per strada l’8 luglio in Washington Dc, da una o diverse persone che non gli rubarono nulla di quello che indossava, lasciando anche la sua ventiquattrore, il suo orologio o il cellulare». Julian Assange accusò Hillary come mandante dell’omicidio (Hillary: «Ma non c’è un drone, qualcosa, per ammazzarlo?»). Il fatto è che si stanno accumulando prove, indizi e testimonianze che puntano ai colpevoli nel Partito Democratico. Ma i giudici e i politici Usa sono tutti concentrati a cercare prove sul delitto originale di Trump, quello di essere un agente di Putin.(Maurizio Blondet, “Manchester Satanic, nessuno è innocente”, dal blog di Blondet del 25 maggio 2017).Ora viene fuori che il papà dell’attentatore di Manchester, il signor Ramadan Abidi, era un uomo reclutato dai servizi britannici, coinvolto in un vasto piano dell’esercito libico per assassinare Gheddafi, salvato – dopo che la sua copertura era stata svelata – dai servizi che l’avevano fatto esfiltrare con la famiglia. Il “Lybia Herald” lo indica come «un federalista della Cirenaica, che lottava per l’autonomia della regione, ma non noto per affiliazione religiosa». E’ stato nella Libia orientale che fu innescata la insurrezione tribale che portò alla caduta ed uccisione di Gheddafi, nel marzo 2011. Arrivarono carichi di armi dal Qatar. Truppe speciali britanniche erano sul terreno ad aiutare i rivoltosi: la “Bbc” riportò allora che sei elementi Sas erano stati catturati dalle truppe fedeli a Gheddafi; negli stessi giorni, sei “corpi speciali olandesi” (sic) furono catturati nella Libia occidentale mentre, dissero, aiutavano l’esfiltrazione di loro connazionali. Dunque, membri della Nato stavano assistendo (comandando, guidando) il Gruppo Islamico Libico Combattente, il cui capo sul fronte orientale era Abdelhakim Belhadj, noto esponente di Al-Qaeda.