Archivio del Tag ‘Abu Bakr al-Baghdadi’
-
Perché ho scritto “La Bibbia Nuda”, con Mauro Biglino
La grande sala congressi ammutolì quando Benazir Bhutto osò denunciare il generale Pervez Musharraf, allora presidente-dittatore del Pakistan. L’accusa: gli uomini dell’Isi, il servizio segreto di Islamabad (agli ordini della Cia), avevano “allevato” i Talebani e protetto Bin Laden, come richiesto dal “terrorista” Bush. Lei, Benazir, di lì a poco si sarebbe candidata per liberare il Pakistan dalla menzogna. Saltò in aria qualche anno dopo, nelle ultime tappe di una campagna elettorale che l’avrebbe incoronata trionfalmente alla guida del suo paese. Ricordo bene quel fugace incontro, a Torino, a margine dell’assise promossa da Gorbaciov insieme ad altri ex leader mondiali, che avevano messo fine alla guerra fredda. In un palazzo del centro, l’indomani, Benazir Bhutto ripeté a beneficio delle telecamere le sue accuse pericolosamente terribili, ma sempre con quel suo sorriso disarmante: quello di chi sa di avere ragione, e ha deciso che bisogna pur metterla in gioco, la vita, se il nemico è così insidioso da saper pervertire integralmente la verità. Pensieri che oggi, tra coprifuochi e pass vaccinali, suonano stranamente familiari.
-
L’Egitto ’schiera’ i suoi faraoni contro i signori del Covid
Attenti all’Egitto: ora riesuma i suoi antichi faraoni, per far rinascere lo spirito nazionale. E lo fa con una gigantesca kermesse, che rivela due intenti: scrollarsi di dosso un certo globalismo-canaglia, quello che ha imposto il “panico Covid” nella sua agenda, e al tempo stesso “resuscitare” l’antico culto egizio, quello della civiltà delle piramidi ereditata dai Figli delle Stelle, per avvertire quella élite che ancora oggi, segretamente e in modo inconfessabile, sembra devota alle divinità mesopotamiche (Moloch) declinate in modo pericolosamente anti-umano. E’ la lettura che Matt Martini fornisce della grandiosa “Pharaohs’ Golden Parade” andata in scena il 3 aprile al Cairo, per il trasferimento di 22 salme regali, trasportate dal museo egizio della capitale al museo nazionale della civiltà egizia a Giza, proprio all’ombra della Sfinge. Senza nascondere i tratti «anche un po’ kitsch» della “Parata d’oro dei faraoni”, Martini – esperto di orientalistica e co-autore del saggio “Operazione Corona”, edito da Aurora Boreale – avverte: siamo in presenza della volontà (esibita) di far “risorgere” l’Egitto, interpretato come erede di divinità venute dal cielo, “richiamate in servizio” per soccorrere la Terra, caduta in preda agli eccessi del mondialismo più criminale.Una lettura visionaria? Per capire che così non è, basta osservare l’espressione dell’attuale “faraone” in carica, il generale Al-Sisi, appena colpito dall’oscuro, minaccioso blocco del Canale del Suez con l’anomalo incagliamento del cargo Ever Given, riconducibile (nella compagine azionaria degli armatori) al club di Bill Gates e Hillary Clinton. Nelle immagini televisive della “Pharaohs’ Golden Parade”, Al-Sisi ostenta un’espressione inequivocabile: ai suoi occhi, quelle mummie in viaggio sono una sorta di totem nazionale, il cuore sacro dell’Egitto. Attenzione: è un classico, il ricorso alla simbologia (esoterica) da parte del grande potere. Sul suo canale YouTube, Giorgio Di Salvo ha sottolineato le stranezze della cerimonia di insediamento dello stesso Joe Biden: «E’ stata la rappresentazione di un vero e proprio rito di iniziazione, incentrato sulla figura dell’eccentrica Lady Gaga, abbigliata in modo da riprodurre il vestiario e il corredo della Statua della Libertà: non quella famosa, al porto di New York, ma quella che per i massoni americani è la vera Statua della Libertà. Si tratta della statua che sormonta la cupola del Campidoglio, a Washington: la “libertà armata”, che richiama la dea greca Athena».Come se non bastasse, Di Salvo rievoca un’altra cerimonia di insediamento, quella di Emmanuel Macron a Parigi: «Per un attimo (in modo però attentamente studiato) le braccia levate del neo-eletto, sullo sfondo della piramide del Louvre, disegnano alla perfezione la combinazione simbolica costituita da squadra e compasso». Da Napoleone in poi, l’Egitto si è conquistato un posto d’onore, sulle rive della Senna. «Ma mentre i riti massonici di ispirazione egizia sono di origine moderna, nelle terre che vanno dal Nilo all’Eufrate sopravvivono in modo clandestino le ritualità cultuali antiche», precisa lo storico Nicola Bizzi, presente con Matt Martini e Tom Bosco nella trasmissione “L’Orizzonte degli Eventi”, sul canale YouTube di “Border Nights”. Lo stesso Martini cita la religione egizia tuttora praticata da «importanti sceicchi del Cairo», sotto la vernice ufficiale dell’Islam. Dal canto suo, Bizzi conferma che in Iraq «si praticano culti di origine sumerica, al riparo dei circoli Sufi (in teoria, islamici) che ospitavano personalità vicinissime al potere già all’epoca del regime di Saddam Hussein».Curioso che poi lo stesso Saddam sia stato abbattuto dai Bush – padre e figlio – che Gioele Magaldi presenta come fondatori della nefasta superloggia “Hathor Pentalpha”, dedita anche al terrorismo internazionale, avendo arruolato tra le sue fila prima Osama Bin Laden e poi Abu Bakr Al-Baghdadi, leader dell’Isis. C’è chi fa notare il collegamento tra l’acronimo Isis (Islamic State of Iraq and Sirya) e il nome della dea egizia Iside, chiamata anche Hathor. Iside-Hathor è la vedova di Osiride, nonché la madre di Horus: il trio incarna la “sacra famiglia” dell’antico Egitto faraonico, la “trimurti” fondativa del Nilo. Padre, madre e figlio, a sottolineare una tripartizione “energetica” successivamente reinterpretata in modo difforme dalla Trinità cristiana, rimodellando teologicamente la Tetractis triangolare di Pitagora: figura ricomparsa – in modo clamoroso – nella coreografia della grande Parata dei Faraoni appena proposta al Cairo, nel segno del recupero dell’antica sapienza “pagana”.«La grande kermesse egiziana è stata anche un atto di magia cerimoniale», sostiene Matt Martini a “L’Orizzonte degli Eventi”. «Obiettivo: risvegliare “l’eggregore” nazionale, il genio egizio: una vera e propria evocazione, tramite il ruolo delle mummie solennemente traslate da un museo all’altro, in mezzo ad ali di folla». Le mummie regali egizie, dice Martini, vanno considerate – nelle intenzioni degli organizzatori – come «veri e propri talismani umani: quelle salme sono state preparate ritualmente e trattate come oggetti di culto: per migliaia di anni, hanno ricevuto offerte votive». Dunque, per Martini, «sul piano magico sono strumenti perfetti, per fare da ponte con altre dimensioni». Spiega il saggista: «Si crede che la mummia, se conservata, contenga ancora il Ka del defunto: un’impronta dell’anima. A sua volta, il Ka viene visitato dal Ba, cioè l’anima che sale e scende. Infine, il Ba comunica con l’Akh, lo spirito trasfigurato dell’iniziato (il faraone), che secondo l’antica religione egizia resta in contatto con la dimensione degli Aku, i principi divini, gli Splendenti». In altre parole: un ascensore per il cielo, nel nome dell’Egitto delle piramidi.Martini invita a far caso ai numeri: sono state trasferite 22 salme, precisamente quelle di 18 faraoni e di 4 regine. Tutti regnanti compresi tra la 17esima e la 20esima dinastia. «La 17esima dinastima fu l’ultima del Secondo Periodo Intermedio, quello dominato dal caos, quando l’Egitto fu invaso dagli Hyksos. La dinastia successiva, quella Ramesside, segnò invece la restaurazione del potere faraonico egizio: l’inizio del Nuovo Regno». Anche al Cairo, assicura Martini, il potere gioca con i simboli: è come se il generale Al-Sisi paragonasse se stesso ai faraoni di nome Ramses, rifondatori dell’Egitto dopo le tempeste della storia. L’ultima, in questo caso, si chiama Covid: «Si noti: la mascherina non viene indossata né dai figuranti, spesso assiepati, né dalle migliaia di spettatori che assistono al corteo, stretti l’uno all’altro». Sembra un messaggio diretto ai “signori del coronavirus” e agli stessi vicini israeliani, che hanno trasformato il loro paese in area-test per la vaccinazione di massa. Per inciso: in concomitanza con lo strano incidente di Suez, Al-Sisi ha fatto riaprire (dopo anni) il valico di Rafah, a Gaza: l’unico non controllato da Israele.Oggi l’Egitto è un paese islamico e anche cristiano, ricorda Martini, alludendo all’importante confessione copta. Ma Al-Sisi – aggiunge – come militare impegnato in politica è pur sempre erede del nazionalismo laico, incarnaato dall’ex partito Baath, socialista e panarabo, cresciuto nel mito del grande leader terzomondista Abdel Gamal Nasser, che sfidò Francia, Gran Bretagna e Israele per rivendicare la piena sovranità del suo paese. Non si scherza, con l’Egitto: nel 1956 – quando inglesi e francesi sbarcarono a Porto Said per rovesciare Nasser, che aveva bloccato il Canale di Suez perché la Banca Mondiale non voleva concedere agli egiziani il prestito per erigere la diga di Assuan – l’Unione Sovietica (con il tacito consenso degli Usa) arrivò a minacciare gli invasori anglo-francesi di ricorrere alla bomba atomica, se non avessero lasciato l’Egitto. Finì nell’ignominia – e con il trionfo politico di Nasser – l’ultimo colpo di coda del colonialismo europeo nel Mediterraneo. Poi gli uomini del pararabismo Baath sono stati perseguitati: ucciso Saddam, invasa la Siria di Assad.Abdel Fattah Al-Sisi, in qualche modo erede di Mubarak (già allievo della scuola ufficiali di Mosca) si è imposto nel 2014 incarcerando i Fratelli Musulmani, inizialmente votati dagli egiziani dopo la turbolenta “primavera araba” innescata al Cairo dallo storico discorso incendiario del massone Obama, con l’obiettivo di “resettare” le oligarchie nordafricane non-allineate al potere di Washington (preservando invece le brutali petro-monarchie del Golfo, in primis quella saudita, devotissime al superpotere statunitense). Siamo tuttora in pieno caos: Giulio Regeni, reclutato (a sua insaputa) dall’intelligence britannica tramite una Ong universitaria, è stato barbamente assassinato per ostacolare i nascenti rapporti strategici tra Italia ed Egitto, dopo la scoperta da parte dell’Eni di un immenso giacimento marittimo di gas e petrolio al largo delle coste egiziane. Regeni – scrisse il “Giornale”, citando servizi segreti italiani – fu ucciso da manovalanza del Cairo, ma su ordine inglese, proprio per mettere in imbarazzo Al-Sisi, proprio mentre l’Italia stava chiedendo la protezione militare dell’Egitto, allora influente in Cirenaica, nell’ipotesi di inviare un contingente italiano in Libia.Oggi, Bengasi è passata sotto il controllo della Russia: è avvenuto dopo che, in modo simmetrico, Tripoli è caduta nelle mani della Turchia. Altro volto del caos di oggi è l’insidioso neo-ottomanesimo di Erdogan, supermassone reazionario e illustre membro della spietata “Hathor Pentalpha”, secondo Magaldi. Con un gesto inaudito, che riporta l’Italia al centro della scena in politica estera, Mario Draghi ha definito “un dittatore” il sultano di Ankara. Si tratta di un messaggio in codice – spiega Dario Fabbri, di “Limes” – rivolto agli Usa: Draghi li invita a non sacrificare gli interessi italiani in Libia, dopo che Ergodan ha promesso di aprire il Mar Nero alle portaerei americane (in funzione anti-russa) se lo Zio Sam chiuderà un occhio, anzi due, sulle ambizioni imperiali dei turchi nel Mediterraneo. Dalla parte dell’Italia c’è sicuramente l’Egitto, nuovo Eldorado per l’Eni dopo i problemi sopraggiunti in Libia. Nonostante le proteste per il doloroso caso Regeni, infatti, l’Italia ha appena ceduto al Cairo due fregate Fremm, gioiello della marina militare che l’Egitto immagina di dover impiegare, come arma di dissuasione, anche e soprattutto contro la Turchia di Erdogan.Modernissime fregate lanciamissili, ma non solo: la vera arma di Al-Sisi, a quanto pare, potrebbero essere proprio i venerati faraoni della 18esima dinastia, omaggiati come il Graal dell’Egitto. «Nella “Pharaohs’ Golden Parade” – insiste Matt Martini – si può leggere il ritorno alle origini ancestrali della nazione». Martini è attentissimo ai dettagli: le salme traslate con tutti gli onori sono 22, «come le lettere dell’alfabeto ebraico, che potrebbe derivare dall’alfabeto geroglifico egizio». Il trait d’union, dice l’analista, potrebbe essere stato l’alfabeto proto-sinaitico, una forma linguistica di transizione tra l’egizio geroglifico e gli alfabeti semitici (fenicio e aramaico, fino poi al più recente ebraico biblico). Sempre 22 – aggiunge Martini – erano anche i Nòmoi (i distretti amministrativi) dell’Alto Egitto, che aveva per capitale Tebe, la città della dinastia Ramesside. «Sono numeri non casuali: esprimono un preciso linguaggio, simbolico e operativo: quello di un’operazione di magia cerimoniale, a scopi politici e meta-politici».Indicazioni che Martini trae dall’analisi della grande parata del Cairo. «Allì’inizio, la soprano al centro della scena canta un inno a Iside. Poi, i militari sfilano in un viale illuminato di rosso, che è il colore di Seth e anche degli Hyksos: quindi, è come se i militari egiziani stessero calpestando gli Hyksos, nemici dell’Egitto». Quindi, il cambio di scenografia: «A un certo punto, il viale diventa blu: ed entra in scena una figurante (blu, anch’essa) che incarna Nuit, o Nut, la dea egizia del cielo stellato». Si vede una moltitudine di ancelle agitare un contenitore luminoso: «Qui punti di luce simboleggiano proprio le stelle, con un’allusione precisa: i nostri antenati ancestrali – di cui i faraoni erano i rappresentanti terreni – venivano dal cielo: erano Figli delle Stelle».Al Cairo, la grande parata è conclusa dal corteo dalle mummie, racchiuse nei loro sarcofagi trasportati su carri scenografati in modo un po’ hollywoodiano, per ricordare i mezzi di trasporto di migliaia di anni fa. «Per la religione tradizionale egizia – precisa Martini – le mummie vengono dal Duat, dalla dimensione stellare degli Aku. Questi faraoni non sono comuni mortali: sono tecnicamente delle divinità, non vengono dall’oltretomba infero ma dalla dimensione stellare». Significati sottolineati dalla stessa data scelta per la grandiosa cerimonia: «Il 3 aprile è il 23esimo giorno del mese di Ermuti, dedicato a Iside. Ed è l’ultimo giorno di un ciclo di festività dedicate a Horus, che è il vendicatore di suo padre, e dunque il vendicatore dell’Egitto». Messaggio: «Il potere che ha allestito la parata ha voluto celebrare un atto magico, per il risveglio nazionale dell’Egitto». Si tratta di un’élite che «lavora anche sul piano “sottile” e pratica ancora la teurgia, cioè l’arte di comunicare con le divinità». Non pensiate – assicura Martini – che la cosa sia sfuggita, ai “signori del Covid”: «Queste sono operazioni molto temute, da chi vuole nascondere certe cose». L’oligarchia ostile è avvisata: contro i nemici, ora l’Egitto schiera i suoi faraoni.Attenti all’Egitto: ora riesuma i suoi antichi faraoni, per far rinascere lo spirito nazionale. E lo fa con una gigantesca kermesse, che rivela due intenti: scrollarsi di dosso un certo globalismo-canaglia, quello che ha imposto il “panico Covid” nella sua agenda, e al tempo stesso “resuscitare” l’antico culto egizio, quello della civiltà delle piramidi ereditata dai Figli delle Stelle, per avvertire quella élite che ancora oggi, segretamente e in modo inconfessabile, sembra devota alle divinità mesopotamiche (Moloch) declinate in modo pericolosamente anti-umano. E’ la lettura che Matt Martini fornisce della grandiosa “Pharaohs’ Golden Parade” andata in scena il 3 aprile al Cairo, per il trasferimento di 22 salme regali, trasportate dal museo egizio della capitale al museo nazionale della civiltà egizia a Giza, proprio all’ombra della Sfinge. Senza nascondere i tratti «anche un po’ kitsch» della “Parata d’oro dei faraoni”, Martini – esperto di orientalistica e co-autore del saggio “Operazione Corona”, edito da Aurora Boreale – avverte: siamo in presenza della volontà (esibita) di far “risorgere” l’Egitto, interpretato come erede di divinità venute dal cielo, “richiamate in servizio” per soccorrere la Terra, caduta in preda agli eccessi del mondialismo più criminale.
-
Lockdown, medioevo nel 2021: i terrapiattisti del Covid
Uscire dal medioevo: lo chiedeva (in modo “gridato”) un giornalista come Paolo Barnard, co-fondatore di “Report”, almeno dieci anni fa. Nel saggio “Il più grande crimine”, denunciava il carattere neo-feudale dell’élite eurocratica ordoliberista, capace di coniugare neoliberismo economico e autoritarismo politico-sociale nell’adesione fanatica al dogma mercantilista dell’economia “neoclassica”, tra i fantasmi settecenteschi di David Ricardo (prima produco, poi risparmio: senza possibilità di investire a monte, scommettendo sull’economia), come se il denaro fosse ancora un bene materiale e limitato, paragonabile alle materie prime e ai prodotti agricoli come il grano. Al centro della polemica innescata da Barnard campeggiava la grande menzogna sulla “scarsità di moneta”, utilizzata (ormai in tempi di valuta “fiat”, virtualmente illimitata e a costo zero) da un oligopolio privatistico, pronto a imporre l’austerity per ottenere la più grande retrocessione sociale di massa della storia moderna: il debito pubblico come colpa e come handicap, non più interpretato in modo keynesiano come leva strategica destinata a produrre benessere diffuso attraverso investimenti lungimiranti.
-
La fine del mondo, per Severgnini: se Trump viene rieletto
«Se Donald Trump viene rieletto, significa che l’America ha perso la sua speciale innocenza, quella che in tanti ammiravamo, e ha fatto la sua fortuna. Quella che sbuca nei discorsi di Barack Obama e nelle canzoni di Bruce Springsteen, ma era presente anche nell’intuizione di Ronald Reagan o nel decoro coraggioso di John McCain». Parole che Beppe Severgnini, giornalista famosissimo per acuminati bestseller come “Interismi”, ovvero “Il piacere di essere neroazzurri”, ha pubblicato il 1° novembre 2020 sul “Corriere della Sera”, giornale di cui era vicedirettore un certo Federico Fubini, che lo scorso anno ha ammesso di aver nascosto la strage dei bambini in Grecia, provocata dall’austerity, per non compromettere il prestigio dell’Unione Europea. Dalla Luna, o dal pianeta remoto dal quale Severgnini scrive, la Terra è così semplicisticamente infantile da apparire bianca o nera, senza gradazioni cromatiche: i buoni di qua, i cattivi di là. O meglio, il cattivo è uno solo: l’Uomo Nero. Un mostro orribile, che «ha dimostrato la sua inadeguatezza – politica, economica, culturale, morale, psicologica – a ricoprire un ruolo tanto importante».Dalla galassia da cui scrive Severgnini, però, a colpire davvero sono i buoni, presentati come i testimonial di una virtù teoricamente incompatibile con la politica: l’innocenza. Il primo è Barack Obama, Premio Nobel alle Buone Intenzioni: l’uomo che il lunedì firmava ordini di morte, esecuzioni remote affidate ai missili montati sui droni. Obama, il “primo presidente nero” che in otto anni non ha fatto niente per riformare la polizia americana, sradicandone i comportamenti razzisti. E’ il “commander in chief” che nel 2011 ha rivendicato l’uccisione di un anziano, in Pakistan, sostenendo – di fronte al mondo – che si trattasse di Osama Bin Laden: la salma crivellata di colpi, trasportata su una portaerei e poi inabissata in mare, lontano dagli occhi e dai fotografi, dopo un (inesistente) “rito islamico”. L’innocente Obama, il buono: quello che ha scatenato focolai di guerra in mezzo mondo, assediato la Russia e gestito il golpe colorato in Ucraina, innescato le ambigue primavere arabe, promosso l’assassinio di Gheddafi. Sempre lui, Obama, è l’uomo che ha spedito in Siria l’altro grande innocente citato da Severgnini, quel John McCain il cui «decoro coraggioso» evidentemente traspare dalle foto che lo ritraggono in compagnia dei futuri tagliagole dell’Isis, incluso il tristemente famoso Al-Baghdadi, rilasciato poco prima dal centro di detenzione americano per jihadisti.Ai tempi del turbo-neoliberista Ronald Reagan – altro innocente, avvistato dal pianeta di Severgnini – i dissidenti dell’Unione Sovietica guardavano ancora all’America come porto sicuro; all’epoca dell’innocente Obama, invece, un ragazzo di nome Edward Snowden ha dovuto scappare in Russia, dopo aver rivelato lo spionaggio orwelliano di massa eseguito dalla più vasta agenzia statunitense di intelligence, la Nsa. Strana innocenza, quella che si nasconde nella caccia all’uomo. Ma dev’essere proprio difettosa, la visuale, dal pianeta di Severgnini, se è vero che – parlando di America e di musica pop – si vede benissimo la purezza di Bruce Springsteen ma non quella, ancora più lucida, del suo maestro riconosciuto, Bob Dylan, decano di tutti gli aedi contemporanei e autore del brano-monumento (”Murder Most Foul”) in cui si rappresenta precisamente la mitica “perdita dell’innocenza”, il 22 novembre 1963, con lo scioccante omicidio di John Fizgerald Kennedy, macellato a Dallas sotto il naso dell’apparato di sicurezza più efficiente del pianeta. Analogo spettacolo – l’innocenza massacrata in mondovisione, al cospetto di autorità distratte – quando vennero giù le Torri Gemelle: ma non c’è pericolo che le colonne di fumo, insieme al puzzo della menzogna, potessero essere individuate dal telescopio del nerazzurro Servergnini.Dovettero arrossire, i custodi dell’innocenza, quando Colin Powell agitò la sua fialetta di profumo alle Nazioni Unite, o quando le televisioni mostrarono i poveri cormorani inzuppati di petrolio e il pianto della falsa infermiera (in realtà, figlia dell’ambasciatore del Kuwait), in lacrime per la strage dei neonati – mai avvenuta – da parte dei brutali soldati di Saddam. Veri e propri orchi sanguinari: dipinti come untermenschen, sotto-uomini hitleriani, né più né meno come oggi viene presentato il presidente uscente degli Stati Uniti d’America, l’uomo che non si è piegato al “China-virus” e che ha trascorso quattro anni – da vero malvagio qual è – a ritirare truppe, evitare provocazioni, rinunciare a guerre, disinnescare crisi grottesche come quella con la Corea del Nord. «Se Donald Trump viene rieletto, vuol dire che gli Usa hanno scelto di voltare le spalle al pianeta», scrive l’interista astronautico, a cui è riuscita indigesta l’evidente antipatia dell’Uomo Nero per i kapò di Bruxelles, i loro mandanti e la loro sicurezza-colabrodo, in un’Europa trasformata in purgatorio eterno, dove – proprio adesso, guardacaso – si sono rifatti avanti (in Francia, in Austria) i manovali dell’orrore che, qualche anno fa, avevano strettissime relazioni con i gentiluomini siriani e iracheni coi quali si intratteneva amabilmente l’innocente McCain. Bella lezione astronomica, quella impartita ai poveri terrestri: i Trump e i Biden passano, i Severgnini invece restano.(Giorgio Cattaneo, “La fine del mondo, per Servergnini: se Trump viene rieletto”, dal blog del Movimento Roosevelt del 3 novembre 2020).«Se Donald Trump viene rieletto, significa che l’America ha perso la sua speciale innocenza, quella che in tanti ammiravamo, e ha fatto la sua fortuna. Quella che sbuca nei discorsi di Barack Obama e nelle canzoni di Bruce Springsteen, ma era presente anche nell’intuizione di Ronald Reagan o nel decoro coraggioso di John McCain». Parole che Beppe Severgnini, giornalista famosissimo per acuminati bestseller come “Interismi”, ovvero “Il piacere di essere neroazzurri”, ha pubblicato il 1° novembre 2020 sul “Corriere della Sera”, giornale di cui era vicedirettore un certo Federico Fubini, che lo scorso anno ha ammesso di aver nascosto la strage dei bambini in Grecia, provocata dall’austerity, per non compromettere il prestigio dell’Unione Europea. Dalla Luna, o dal pianeta remoto dal quale Severgnini scrive, la Terra è così semplicisticamente infantile da apparire bianca o nera, senza gradazioni cromatiche: i buoni di qua, i cattivi di là. O meglio, il cattivo è uno solo: l’Uomo Nero. Un mostro orribile, che «ha dimostrato la sua inadeguatezza – politica, economica, culturale, morale, psicologica – a ricoprire un ruolo tanto importante».
-
Bizzi: Conte cede sui segreti-Covid dopo la strage a Beirut
Svolta clamorosa nel caso del segreto di Stato posto dal governo sulle relazioni del Comitato Tecnico-Scientifico sull’epidemia da coronavirus: Palazzo Chigi ha infatti appena comunicato alla Fondazione Einaudi, che si era fatta carico della battaglia legale per rendere pubblico il contenuto della documentazione, la desecretazione dei dossier. Dopo il gravissimo e criminale attacco con droni e missile con testata termobarica su Beirut, scrive Nicola Bizzi sulla sua pagina Facebook il 5 agosto, ecco «un’interessante “svolta” nella giunta golpista italiota: questa mattina Conte afferma “Mai più lockdown”, Speranza nega la volontà del governo di imporre l’obbligo vaccinale e, ciliegina sulla torta, domani verranno desecretati i famigerati verbali del sedicente Comitato Tecnico-Scientifico. E, dalla Germania, un sospetto silenzio: nessuna nuova sentenza della Corte Costituzionale, che oggi doveva esprimersi su una decisione storica sulla sopravvivenza dell’euro. Si stanno rimescolando le carte sul tavolo molto velocemente». Quanto all’attentato in Libano, Bizzi – storico e editore di Aurora Boreale – ha le idee chiare: «L’attacco era stato annunciato cinque giorni fa dal ministro della difesa israeliano ed è stato ufficialmente rivendicato oggi per ben due volte da Netanyahu». Sincronicità: Israele, la Germania, Conte e il Covid. Tutto si tiene?Il Tar, ricorda il “Tempo”, aveva ordinato al governo di pubblicare tutti i dossier segreti, in base ai quali era stato deciso il lockdown all”italiana (severissimo, ma scattato in ritardo e deciso sulla base di dati controversi). La presidenza del Consiglio, però, aveva fatto ricorso al Consiglio di Stato per bloccare tutto, adducendo motivi di ordine pubblico. Il 5 agosto, poi, si è appreso che il Copasir aveva chiesto al governo di visionare le carte, mentre al Senato era andato in scena un pesantissimo intervento del capogruppo della Lega, Massimiliano Romeo, che ha chiesto a muso duro cosa avesse da nascondere il governo. A dare l’annuncio della svolta è stata, attraverso Twitter, la stessa Fondazione Einaudi: «Pochi minuti fa – ha cinguettato alle 21.45 – i nostri avvocati Rocco Todero, Andrea Pruitic ed Enzo Palumbo hanno hanno ricevuto la comunicazione da parte del governo della desecretazione dei verbali del Cts. Ringraziamo per la sensibilità dimostrata dalla presidenza del Consiglio». Ora, naturalmente, aumenta la curiosità per il contenuto delle carte. Curiosità che, scrive sempre il “Tempo”, dovrebbe essere soddisfatta nelle prossime ore, quando – a quanto si apprende – proprio la Fondazione Einaudi dovrebbe pubblicare tutti gli incartamenti.«Non credo che possano desecretare documenti falsi o parzialmente falsificati», scrive Bizzi, su Facebook. «Se Conte ha ceduto, significa che i documenti sono già nelle mani dei servizi. Bisogna però vedere se li renderanno noti tutti». Cosa sta succedendo? «A Bruxelles, nel covo delle vipere, iniziano a rivoltarsi contro la sceneggiata “pandemica”», sostiene Bizzi. «Per quanto l’Unione Europea sia marcia e in mano a una cricca di criminali, non è stata l’artefice di questo tentativo di golpe mondiale: anzi, ne è rimasta decisamente spiazzata, anche se nei primi mesi ha sostenuto la cosa». Adesso, aggiunge Bizzi, i burocrati della Commissione Europea (dietro i quali agiscono «organizzazioni sovranazionali molto potenti, ma che perseguono fini diversi da quelli che hanno scatenato e inscenato la “pandemia”») temono il collasso dell’Unione e la fine dell’euro. «Stanno quindi facendo pressione sugli Stati membri per l’uscita da ogni “emergenza”: hanno infatti impedito il tentativo di un nuovo lockdown in Catalogna e stanno facendo emergere (seppur gradualmente e con cautela) le prove dell’inganno».Per Bizzi, si tratta di una guerra nelle alte sfere: «L’Italia era stata scelta come nazione-pilota per questo golpe mondiale, ed è per questo che la sceneggiata, qui, fino ad oggi ha retto molto più che in altri paesi. Mi auguro che adesso gli cada tutto addosso», conclude lo storico, secondo cui «tutto è talmente evidente, che chi non ci arriva ha gli occhi foderati di prosciutto». Il riferimento alla Suprema Corte tedesca è evidente: l’élite ordoliberista della Germania aveva ispirato la sentenza in cui, mesi fa, i giudici chiedevano al Parlamento di Berlino di opporsi alla Bce, impedendo a Christine Lagarde di assistere finanziariamente i paesi più in difficoltà dopo il lockdown (uno su tutti, l’Italia). Ora la stessa Germania, letteralmente travolta dalle proteste – un milione di manifestanti, a Berlino, contro un eventuale nuovo lockdown – frena anche sulle sanzioni all’Italia? E’ singolare, annota Bizzi, che sul segreto di Stato il governo Conte faccia retromarcia nel giro di poche ore, dopo lo spaventoso attentato di Beirut, in apparenza lontano: come se si cominciasse a prendere le distanze dai metodi della “regia occulta” dei grandi eventi, nel caso esistesse un collegamento tra i sovragestori del virus e quelli del terrorismo stragista.Non va dimenticato che proprio Israele – che a gennaio festeggiò l’omicidio a Baghdad del generale iraniano Qasem Soleimani, eroe della lotta contro l’Isis in Siria – è stato accusato da più parti di aver segretamente sostenuto le armate di tagliagole capeggiate da Abu Bakr Al-Baghdadi, poi bombardate da Putin con il consenso di Trump. Cessata l’emergenza Isis, è scattato l’allarme coronavirus, che ha letteralmente travolto l’Italia, prona ai diktat dell’Oms esercitati dagli alti burocrati inseriti nel governo Conte. La Casa Bianca ha reagito prima negando il proprio contributo economico all’Organizzazione Mondiale della Sanità, dominata dalla Cina e largamente finanziata da Bill Gates, e poi addirittura ritirando gli Stati Uniti dall’organizzazione sanitaria delle Nazioni Unite. Due gli scenari sotto osservazione: l’Italia beffata dal Recovery Fund e costretta a un autunno di crisi senza precedenti, a causa del perdurante rigore Ue, e dall’altra parte dell’Atlantico la corsa per le presidenziali americane, con Trump avverso al “partito del rigore sotto forma di coronavirus”. La lettura di Bizzi – l’Europa ora evita di dare il colpo di grazia all’Italia, dopo l’attentato a Beirut (e Conte ne trae le conseguenze, smentendo la sua linea di intransigenza sul segreto di Stato) – suggerisce che tutti questi eventi siano collegati tra loro, e che sia in atto una guerra tra due schieramenti: quello democratico starebbe “rimontando” su quello dittatoriale, che finora ha imbrigliato l’Italia sprofondandola nella paura e nel disastro economico.Svolta clamorosa nel caso del segreto di Stato posto dal governo sulle relazioni del Comitato Tecnico-Scientifico sull’epidemia da coronavirus: Palazzo Chigi ha infatti appena comunicato alla Fondazione Einaudi, che si era fatta carico della battaglia legale per rendere pubblico il contenuto della documentazione, la desecretazione dei dossier. Dopo il gravissimo e criminale attacco con droni e missile con testata termobarica su Beirut, scrive Nicola Bizzi sulla sua pagina Facebook il 5 agosto, ecco «un’interessante “svolta” nella giunta golpista italiota: questa mattina Conte afferma “Mai più lockdown”, Speranza nega la volontà del governo di imporre l’obbligo vaccinale e, ciliegina sulla torta, domani verranno desecretati i famigerati verbali del sedicente Comitato Tecnico-Scientifico. E, dalla Germania, un sospetto silenzio: nessuna nuova sentenza della Corte Costituzionale, che oggi doveva esprimersi su una decisione storica sulla sopravvivenza dell’euro. Si stanno rimescolando le carte sul tavolo molto velocemente». Quanto all’attentato in Libano, Bizzi – storico e editore di Aurora Boreale – ha le idee chiare: «L’attacco era stato annunciato cinque giorni fa dal ministro della difesa israeliano ed è stato ufficialmente rivendicato oggi per ben due volte da Netanyahu». Sincronicità: Israele, la Germania, Conte e il Covid. Tutto si tiene?
-
Uomini e topi: il potere mondiale fondato sulla paura
Troppo bella, la pace nel mondo. Era il sogno di Gorbaciov: la fine universale delle ostilità, e l’avvento di una nuova era per il genere umano. Lo sistemarono velocemente, con un golpe. A seguire: lo sfacelo dell’Urss e la svendita della Russia, la guerra in Cecenia, il martirio della Jugoslavia. Archiviata la narrazione gorbacioviana, riecco il film dell’orrore: 11 Settembre, e dunque guerra. Afghanistan, Iraq, Libia, Yemen, Siria. L’agenda del mondo ridotta a pura emergenza: il terrorismo, il clima, e ora il virus. Via Gorbaciov, in prima pagina sono finiti Bin Laden e Al-Baghdadi, Greta Thunberg, Bill Gates. Dall’universale al particulare italico: la paura dei migranti, la paura di Salvini, la paura del Covid. Tutti accessori dell’unico sostantivo permanente, la paura, ormai imposta come regola e dovere civile per gli ex cittadini, virtualmente trasformati in topi dal primo ministro venuto dal nulla e dalla sua oscura coorte di plenipotenziari tuttologi. Se il grande Mikhail Sergeevič vagheggiava per tutti noi un’alleanza internazionale di intelligenza cooperativa, spalancata su un futuro da abbracciare, nel giro di trent’anni siamo arrivati alla più grottesca zootecnia di massa che la letteratura distopica potesse immaginare, e proprio nei termini disegnati da scrittori come Huxley e Orwell: il topo è felicissimo di stare chiuso in gabbia, e squittisce indispettito verso chi cerca di evadere.Fatti non foste a viver come bruti, dice Ulisse, che oggi finirebbe per parlare a moltitudini spettrali, rintronate dal post-giornalismo fattosi propaganda armata, minacciosa associazione di stampo omertoso. Reticenza e menzogne, per anni, hanno deprivato l’opinione pubblica dei mezzi elementari per esercitare il raziocinio critico della conoscenza adulta, scientifica, fondata sul dubbio. Dilaga la superstizione, nell’orgia dei sentito dire che i grandi media diffondono a reti unificate, sapendo di mentire, in mezzo al cimitero di quello che una volta si sarebbe chiamato giornalismo. Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia: è il Grande Bugiardo a incaricarsi del fact-checking, decretando vita e morte di ogni aspirante narratore di notizie. Sicché, nel piccolo mondo sottostante – quello delle elezioni – i sedicenti politici si regolano di conseguenza: si adattano, tutti, ai 140 caratteri di Twitter, agli slogan destinati a durare solo fino all’indomani, proprio come gli esilaranti programmi elettorali ricamati dagli storyteller all’unico scopo di rastrellare gonzi, di destra o di sinistra non importa, europeisti o sovranisti, filogovernativi ottusi o alternativi di belle speranze che si candidano a scarabocchiare la stessa lavagna che poi tornerà nera come prima, con un bel colpo di spugna.Liberatori e carcerieri: la mole di Gorbaciov si staglia ancora all’orizzonte, proiettando la sua ombra sul governo mondiale dei mascalzoni che si sono impadroniti del terzo millennio. Cialtroni generici e pericolosi apprendisti stregoni, subdoli allevatori di terroristi, spietati strozzini tecno-finanziari, famosi medici dalla siringa facile e buffoni di corte travestiti da scienziati. Stanno scavando una voragine planetaria brulicante, nella quale la zoologia umana sta lentamente sprofondando, di paura in paura, senz’altro paesaggio immaginario che quello di una smisurata catastrofe incombente, quella disegnata mezzo secolo fa dalle grandi famiglie demiurgiche e dai loro impenetrabili club ammantati di prestigio internazionale. Vaticinavano sciagure epocali già negli Settanta, dopo la fine dei Kennedy, prima ancora che i killer si dedicassero a Moro e Olof Palme, a Yitzhak Rabin, a Thomas Sankara. Poi finirono gli omicidi selettivi e si passò a sparare nel mucchio, dalle Torri Gemelle alle stragi firmate Isis. Unico, identico obiettivo: noi, il popolo oggi obbligato a indossare la mascherina. Uomini e topi: chissà che titolo avrebbe inventato, Steinbeck, per descrivere la condizione dell’umanità di oggi, terrorizzata senza tregua, benché viva nel pianeta più ricco e prospero che la storia ricordi.(Giorgio Cattaneo, “Uomini e topi”, dal blog del Movimento Roosevelt del 4 agosto 2020).Troppo bella, la pace nel mondo. Era il sogno di Gorbaciov: la fine universale delle ostilità, e l’avvento di una nuova era per il genere umano. Lo sistemarono velocemente, con un golpe. A seguire: lo sfacelo dell’Urss e la svendita della Russia, la guerra in Cecenia, il martirio della Jugoslavia. Archiviata la narrazione gorbacioviana, riecco il film dell’orrore: 11 Settembre, e dunque guerra. Afghanistan, Iraq, Libia, Yemen, Siria. L’agenda del mondo ridotta a pura emergenza: il terrorismo, il clima, e ora il virus. Via Gorbaciov, in prima pagina sono finiti Bin Laden e Al-Baghdadi, Greta Thunberg, Bill Gates. Dall’universale al particulare italico: la paura dei migranti, la paura di Salvini, la paura del Covid. Tutti accessori dell’unico sostantivo permanente, la paura, ormai imposta come regola e dovere civile per gli ex cittadini, virtualmente trasformati in topi dal primo ministro venuto dal nulla e dalla sua oscura coorte di plenipotenziari tuttologi. Se il grande Mikhail Sergeevič vagheggiava per tutti noi un’alleanza internazionale di intelligenza cooperativa, spalancata su un futuro da abbracciare, nel giro di trent’anni siamo arrivati alla più grottesca zootecnia di massa che la letteratura distopica potesse immaginare, e proprio nei termini disegnati da scrittori come Huxley e Orwell: il topo è felicissimo di stare chiuso in gabbia, e squittisce indispettito verso chi cerca di evadere.
-
Magaldi: avviso a Conte, in autunno la Rivoluzione Italiana
E bravo “Giuseppi”: non lo sa che gli Stati Generali portano male a chi li convoca, specie se non è esattamente in buona fede? Nel 1789, in Francia, condussero velocemente alla Presa della Bastiglia: oggi il piccolo capo di questo Governo della Paura vuol proprio fare, il prossimo settembre, la stessa fine di Luigi XVI? «Anche noi lo aspetteremo al varco: ma anziché il 14 luglio, anniversario dell’inizio della Rivoluzione Francese, gli daremo tempo per meditare sull’ultimatum che riceverà entro una decina di giorni. Gliene chiederemo conto il 20 settembre, ricorrenza della Breccia di Porta Pia. E se non saremo stati ascoltati, scenderemo in piazza il 5 ottobre: data che ricorda la Marcia delle Donne, quando anche le cittadine francesi nel fatidico 1789 fecero rotta sulla reggia di Versailles per reclamare i loro diritti». Gioca con le date, Gioele Magaldi: ma il titolo del gioco è inequivocabile, si chiama rivoluzione. «Grandi cose accadranno, in questi mesi, dietro le quinte del potere: ci saranno botte da orbi, grazie alle manovre intraprese dalla massoneria progressista». Ma la notizia è un’altra: «Nessuna rivoluzione ha mai avuto successo, senza il determinante contributo del popolo».«E’ vero, le élite le progettano: ma poi le rivoluzioni le fa la gente, se capisce che deve scendere in strada al momento giusto. Che nel nostro caso si sta rapidamente avvicinando», assicura Magaldi. «Parlo di un riscatto nazionale, civile ed economico: in palio c’è l’Italia, esattamente come nel Risorgimento, di cui il 20 settembre 1870 rappresenta l’epilogo, con la conquista di Roma». Premessa: il presidente del Movimento Roosevelt, entità metapartitica nata nel 2015 per tentare di rimettere insieme i cocci della politica italiana, di massoneria se ne intende. «Il mondo in cui viviamo è stato interamente progettato da massoni: lo Stato diritto, le istituzioni laiche, il suffragio universale. La democrazia non ce l’ha portata la cicogna: è stata un’idea dei massoni che nel ‘700 rovesciarono l’Ancien Régime, in Francia e in America, dando inizio alla modernità politica». Queste cose, Magaldi le ha ricordate nel saggio “Massoni”, edito nel 2014 da Chiarelettere. Un bestseller italiano, trasformatosi in long-seller e – dice l’autore – costato il trono a Giorgio Napolitano, nientemeno, indicato come appartenente alla superloggia “Three Eyes”.Grande regista, Napolitano, dell’imbarazzante operazione (interamente massonica) che portò il “fratello” Mario Monti a Palazzo Chigi con l’incarico di inguaiare il paese, tagliando la spesa sociale e quindi determinando deliberatamente una crisi terribile, tale da far crollare il gettito fiscale fino a far esplodere il debito pubblico. Obiettivo: rendere l’Italia sempre più debole, facile preda dei suoi avidi “becchini”. Francia e Germania? «Non esattamente: si tratta di gruppi apolidi, supermassonici, che usano in modo cinico le istituzioni – Ue, singoli paesi – per i loro scopi inconfessabili, speculativi e privatistici. E’ un’élite sovranazionale, economicamente neoliberista e politicamente reazionaria, post-democratica». Di fronte a questo, avverte Magaldi, le antiche distinzioni ideali (destra-sinistra) non contano più niente, da quando – archiviate le ideologie – i politici della sinistra si sono rassegnati, proprio come quelli della destra, ad eseguire ordini impartiti dall’alto: dalla stessa élite senza patria che, dagli anni Settanta in poi, ha cominciato a “smontare” la democrazia sociale dei diritti in tutto l’Occidente, attraverso entità paramassoniche come la Trilaterale, fino ad arrivare, oggi, a guardare alla Cina come modello.Una società autoritaria, quella cinese, basata sulla sorveglianza orwelliana del cittadino-suddito. «Non a caso – fa osservare Magaldi – il disastro Covid è esploso a Wuhan all’indomani della cocente umiliazione inflitta a Xi Jinping dall’unico politico capace di opporsi al dilagare dell’egemonia di Pechino: Donald Trump, oggi infatti assediato dai manifestanti antirazzisti alla vigilia delle elezioni, e alle prese con la drammatica crisi economica indotta dal lockdown, che ha cancellato gli ottimi risultati ottenuti dalla Casa Bianca nel far volare l’economia americana». Beninteso: «Trump farebbe meglio ad ascoltare i manifestanti genuinamente indignati per lo scandalo del razzismo che serpeggia tra i poliziotti stratunitensi: una piaga rispetto alla quale, peraltro, lo stesso Barack Obama, primo presidente “nero”, in otto anni non ha fatto assolutamente niente». Ma attenzione: «I manifestanti violenti sono manipolati: imputano assurdamente a Trump l’omicidio di George Floyd».Ecco perché, aggiunge Magaldi, sarebbe da ciechi non scorgere i manovratori: a loro, del razzismo non importa nulla. «Vogliono solo impedire che Trump venga rieletto, perché ha osato sfidare la loro “creatura”, la Cina, e anche l’opaca Oms foraggiata da Pechino, braccio operativo del “terrorismo sanitario” che ha usato il Covid come un’arma», con obiettivi plurimi: mettere ko l’economia per indebolire i politici, e confiscare – in modo inaudito, in Occidente – le libertà democratiche nelle quali siamo cresciuti. E’ una specie di inferno, quello che si sta spalancando: qualcuno sta cercando di far apparire “normale” il coprifuoco, il distanziamento, la chiusura irreparabile di aziende e negozi. Scenario che in Italia si sta traducendo nella morte civile di interi settori strategici, come il turismo. «E se domani qualcuno si inventa un altro virus, fabbricandolo in laboratorio? Che facciamo: richiudiamo tutto?». Il primo a sentire puzza di bruciato è stato Bob Dylan: con la canzone “Murder Most Foul”, il grande cantautore (Premio Nobel per la Letteratura) a fine marzo ha messo in relazione la pandemia – e i “falsi profeti” del vaccino universale – con la cupola di potere che nel 1963 assassinò John Kennedy a Dallas. Addirittura?Ebbene sì. «Un’unica filiera – dice Magaldi – collega la fine dei Kennedy al manifesto “La crisi della democrazia”, promosso dalla Trilaterale di Kissinger: il primo a sdoganare il regime cinese con l’idea di farne un’alternativa, mostruosa, per un Occidente non più libero, e oggi infatti ricattato dalla paura grazie a un virus “cinese” che, in questo, è ancora più efficace del terrorismo “islamico”, anch’esso coltivato da menti massoniche». Magaldi sa di cosa parla: già “venerabile” della prestigiosa loggia romana Monte Sion del Grande Oriente d’Italia, oggi è il “gran maestro” del Grande Oriente Democratico, circuito massonico progressista collegato con le superlogge sovranazionali più avanzate, sul piano dell’impegno sociale democratico, come la “Thomas Paine”. Altra notizia: a quel circuito appartiene lo stresso Dylan, «massone ultra-progressista, oggi sceso in campo in prima persona perché il pericolo che stiamo correndo è veramente grande: il mondo rischia di non essere più lo stesso, se gli oligarchi avranno mano libera nel gestire l’emergenza Covid a modo loro».La sensazione è che l’attacco sferrato – l’imposizione del lockdown “cinese”, l’avvento della nuova polizia sanitaria – sia un riflesso di autodifesa, da parte di un’élite che teme di perdere il potere. Parlano da sole le clamorose diserzioni in atto, ai piani alti, tutte annunciate con largo anticipo proprio da Magaldi: Mario Draghi e Christine Lagarde hanno abbandonato il fronte reazionario (dominio finanziario, privatizzazioni) e oggi parlano un’altra lingua, insieme alla stessa dirigenza del Fmi, fino a ieri schierata dalla parte del rigore. «Fine dell’austerity», raccomandò Draghi, a marzo, sul “Financial Times”: se non si inonda l’economia di miliardi a costo zero, che non si trasformino in debito, il nostro sistema produttivo crollerà. «Oggi, gli unici soldi veri che l’Italia sta ricevendo sono quelli della Bce assicurati dalla “sorella” Lagarde», sfidando i falchi tedeschi. E’ così l’importante, l’Italia? Eccome: «Ci crediate o meno, è il luogo in cui si combattono e si combatteranno alcune battaglie decisive per la democrazia e la libertà, per il futuro della globalizzazione», assicura Magaldi.Spiegazione: fuggita la Gran Bretagna, in Ue – a parte il Belpaese – restano solo due grandi player, Germania e Francia: ma i rigidi assetti politici di Berlino e Parigi non consentono margini di manovra. Che l’Italia fosse l’unico laboratorio possibile, per riformare la governance continentale, lo si era già visto nel 2018, col Parlamento nel caos dopo il voto: il boom dell’incognita 5 Stelle, il Pd umiliato tra le macerie del renzismo (riformatore solo a chiacchiere) e l’impennata della Lega, ad archiviare l’obsoleto centrodestra. Come sarebbe andata a finire lo si capì da subito: «Saranno i mercati a insegnare agli italiani come votare», proclamò l’eurocommissario tedesco Günther Oettinger, «massone reazionario», mentre lo spread saliva prontamente. Poteri forti: «Fu Bankitalia – dice Magaldi – a convincere Mattarella a negare il ministero dell’econonia a Paolo Savona, che era lì apposta per provare a cambiare le regole che ci penalizzano da decenni». Il resto è cronaca: lo stesso Salvini la buttò in caciara enfatizzando il problema-migranti, per nascondere il fallimento gialloverde. «Lui e Di Maio dovettero ingoiare il rospo: a loro, Bruxelles non concesse neppure un irrisorio incremento del deficit».Unico accenno di riforma, l’alleggerimento fiscale vagheggiato dal leghista Armando Siri, messo però fuori gioco da un semplice avviso di garanzia. «Salvini si arrese, staccando la spina». Elezioni? Macché: i 5 Stelle – pur di non perdere la poltrona – si aggrapparono al «partito di Bibbiano», abbracciando uno Zingaretti che, fino a tre giorni prima, giurava: «Mai, con quei populisti». Cambiarono i suonatori, ma non lo spartito: ancora e sempre rigore, vigilato dall’emissario di turno dei soliti poteri (Roberto Gualteri, Pd, forgiato dall’eterna tecnocrazia di Bruxelles). Obiettivo: tirare a campare, in un’Italia sempre più precaria e impoverita, senza nessuna speranza nell’unica svolta politico-economica ormai drammaticamente indispensabile: la rottamazione della grande bugia neoliberista, del debito pubblico come colpa nazionale. «Il “fratello” Draghi si è ricordato delle sue origini, citando il New Deal di Roosevelt: senza un massiccio intervento statale, l’economia frana nella spirale della crisi». E’ la lezione di Keynes, oggi rispolverata dal fronte massonico progressista che si oppone alle restrizioni catastrofiche imposte con l’alibi del Covid, tra le mille opacità della gestione italiana della pandemia più strana e più sospetta della storia. Un disastro, per gli italiani. Ma per “Giuseppi”, una grande occasione.Il piccolo, oscuro “avvocato del popolo” – mai sentito nominare da nessuno, prima del 2018 – si è trasformato di colpo in mini-dittatore, miracolato dal coronavirus proprio quando il suo governicchio incolore stava per cadere. «Conte ha sbagliato tutto quello che poteva: ha agito in ritardo nel creare zone rosse e ha permesso la grande “fuga” dalla Lombardia contaminata, poi ha chiuso gli italiani in casa facendo crollare l’economia e in più li ha lasciati senza aiuti: c’è ancora chi aspetta la cassa integrazione». Su che pianeta vive, il Conte che l’11 giugno si è stupito di essere accolto in piazza al grido di “buffone”? Ci tiene proprio, a replicare le gesta delle varie Maria Antonietta della storia? Non si era accorto, che l’esaperazione popolare sta per esplodere? Cattive notizie, per “Giuseppi”: un sondaggio di inizio giugno svela che è Mario Draghi l’italiano che oggi riscuote più fiducia. «Credo che a volte la storia sia sarcastica, ironica, beffarda», commenta Magaldi. «Il Conte che convoca gli Stati Generali, richiamando la Francia del ‘700, non sa che quell’assemblea portò direttamente alla rivoluzione contro chi l’aveva convocata?».«La storia dell’appello agli Stati Generali non andrà a finire bene nemmeno stavolta», dice Magaldi in web-streaming su YouTube. Una pessima suggestione storica: «Chi li aveva convocati nel 1789 credeva di poter manipolare il popolo, fingendo di concedere una consultazione vasta per il bene collettivo: in realtà si volevano propinare le solite ricette, che non concedevano significative riforme – economiche, politiche e sociali». La storia si ripete? «A un sempre più stralunato Giuseppe Conte (e ai suoi consigliori ancor più stralunati, tanto per le questioni comunicative che per quelle economiche e legislative), quella storia avrebbe dovuto consigliare di scegliersi un altro titolo, per questa convocazione», aggiunge Magaldi. «Ma credo ci sia una sorta di “cupio dissolvi”: ognuno persegue il proprio destino – e questo vale anche per Giuseppe Conte e i suoi, che avranno un destino di disfatta. Dunque, se ci sono gli Stati Generali, andranno a finire come nel caso della Rivoluzione Francese. E’ davvero uno scivolone clamoroso: significa quasi attribuirsi in partenza un esito catastrofico, come quello degli Stati Generali parigini».Magaldi annuncia un ultimatim che il Movimento Roosevelt presenterà a Conte entro una decina di giorni: «Faremo una proposta precisa, facile da attuare in tempi brevissimi, per ognuno degli attuali ministeri: c’è bisogno di sostenere gli italiani, subito, con azioni chiare e immediate». Precisa Magaldi: «Noi siamo laici, non “tribali”: non ci interessa chi fa le cose che servono, l’importante è che le faccia». Conte? «Deve liberarsi – testualmente – di tutte le pervicaci e rapaci cazzate che vengono anche dal piano Colao». Privatizzare quel che ancora ci resta: «Tutte storie già viste, stroncate molto bene da Giulio Sapelli, ottimo economista italiano che tiene alta la fiaccola keynesiana: Sapelli ha ricordato che le proposte di Colao assomigliano alle cose che si insegnano nelle scuole per manager, mal digerite e certamente poco adatte alla realtà concreta». Se il governo si libererà «dalle elaborazioni irrisorie che verranno da questi Stati Generali», tanto meglio: «Non ci sarà bisogno, il 5 ottobre, di scendere in piazza». Il problema è anche come affrontarla, la piazza: Magaldi sta creando la Milizia Rooseveltiana, qualcosa che in Italia non sè ancora visto.«Sarà un teatro nonviolento ma fermo, scomodo e inflessibile nel denunciare quello che non va e nel proporre soluzioni ragionevoli». Milzia? Ovvio il riferimento, autoironico, al fascismo delle origini, specularmente capovolto a partire dallo slogan: “Dubitare, disobbedire, osare”, anziché “Credere, obbedire e combattere”. «Mobilitare il popolo è un’operazione complicata, difficile: la maggior parte dei manifestanti sono irrisori, nelle loro dimostrazioni di piazza». Magaldi pensa ai Gilet Arancioni di Pappalardo: «I media li sfottono, come se ormai fosse una follia il solo fatto di protestare civilmente. Ma gli obiettivi che indicano – riforme costituzionali, uscita dall’Ue e dalla Nato – richiedono decenni, a prescindere da come li si giudichi». Sul fronte opposto, c’è l’increscioso modello-Sardine: «Molto rumore per nulla: proposte irrisorie se non pericolose per la democrazia, come la pretesa della censura sui social per i ministri». Magaldi ha le idee chiare: «Non è più tempo di analisi, ma neppure di manifestazioni inutili: si sfila e si intonano cori, ma non si porta a casa niente. Vedrete: finiranno nel nulla anche le manifestazioni contro Trump».Da dove deriva, Magaldi, le sue sicurezze? Ovvio, dalle informazioni riservate di cui dispone: il back-office del grande potere, che oggi è spaccato in due. Da una parte il “partito del lockdown” e della polizia sanitaria, dall’altra i partigiani della democrazia. Gli uni hanno usato il sistema-Cina per forzare la mano e deformare l’Occidente, mentre i loro avversari hanno investito sul più impensabile degli alleati – l’orco Donald Trump – per sfrattare dai piani alti i supermassoni “golpisti”, travestiti da democratici. Esempi? I Clinton: Bill ha relagato i pieni poteri a Wall Street, stracciando il Glass-Steagall Act (voluto da Roosevelt mezzo secolo prima) che impediva alla finanza speculativa di mettere in pericolo in risparmio privato. Quanto a Hillary, ha orchestrato le bolle di sapone dei vari Russiagate, obbedendo al “partito della guerra”. Di mezzo c’è stata la strategia della tensione planetaria gestita, secondo Magaldi, dalla superloggia “Hathor Pentalpha” creata dai Bush: roba loro, l’11 Settembre. Bottino: il saccheggio del Medio Oriente, grazie all’alibi del terrosismo islamico.«Osama Bin Laden – ricorda Magaldi – fu reclutato da Zbigniew Brezisinski in funzione antisovietica ai tempi dell’invasione dell’Afghanistan. Quello che pochi sanno – aggiunge l’autore di “Massoni” – è che Bin Laden fu iniziato alla superloggia “Three Eyes”, la stessa di Brzesinki e Kissinger». Poi i Bush lo dirottarono nella “Hathor”, «che più tardi affiliò anche Abu-Bakr Al Baghdadi, a cui venne dato il compito di mettere in piedi l’Isis, le stragi in Iraq e in Siria, i sanguinosi attentati in Europa». Fu lì, dice sempre Magaldi, che la piramide del potere occulto iniziò a incrinarsi: allo stesso saggio “Massoni”, forte di 6.000 pagine di documenti riservatissimi, hanno contribuito “grandi pentiti” del fronte oligharchico. Massonicamente, Magaldi li comprende: «Se sei consapevole del fatto che è stata la tua organizzazione, a fondare la modernità a colpi di rivoluzioni, un bel giorno puoi anche pensare di farne quello che vuoi, del mondo che hai fabbricato». Grave errore: «Noi progressisti li chiamiamo contro-iniziati: hanno tradito l’impegno massonico, che è per il bene di tutti, non di pochi. La loro è una filosofia: si sentono appartenenti a una sorta di “aristocrazia dello spirito”, si credono gli unici autorizzati a decidere i destini dell’umanità».Per questo, Magaldi li definisce neoaristocratici: «Vorrebbero ereditare il potere assoluto dell’aristocrazia di un tempo, che proprio i massoni abbatterono – in Francia, peraltro, anche con il contributo di elementi della stessa aristocrazia, e persino del clero: le logge del ‘700 erano davvero interclassiste». Discorsi che potrebbero sembrare lunari, non avessimo di fronte un tizio come “Giuseppi”, che qualcuno continua a scambiare per un politico dotato di un qualche spessore, e che ora s’è messo in testa di convocare a settembre gli Stati Generali, come quelli che nel 1789 scavarono la fossa alla corte di Parigi. Magaldi è drasticamente esplicito: «C’è un lavoro possente, condotto ai piani alti: aspettatevi di tutto, nelle prossime settimane». Qualcosa, a dire il vero, s’è già visto: in tempo di pace, non sarebbero mai circolate intercettazioni come quelle che imbarazzano Renzi (i servizi italiani utilizzati per fabbricare prove false contro Trump per il Russiagate) e che travolgono il capo dell’Anm, Palamara, impegnato a trescare col Pd per tagliare le gambe a «quella merda di Salvini», in una palude maleodorante di favori. Ma il bello deve ancora arrivare, assicura Magaldi: crolleranno pezzi interi di establishment.La partita italiana ha rilievo mondiale, insiste Magaldi: solo da qui si può pensare di scardinare l’attuale euro-sistema, che lascia Conte in mutande e gli italiani in bolletta persino di fronte al Covid. «Il governo va incalzato con proposte che non potrà rifiutare: soluzioni ragionevoli, da attuare subito». Giorno per giorno, gli italiani vedono la reale dimensione del dramma: il Mes è un piccolo imbroglio, il Recovery Fund resta un miraggio. Serve qualcuno che, finalmente, prenda il toro per le corna e pretenda quello che ci spetta: miliardi, per uscire dal coma. E non solo: va sfidato, una volta per tutte, il regime bugiardo dell’austerity. Nessuna legge economica vita di metter mano a una super-spesa pubblica, in tempi di crisi. Occorre agire. Se non ora, quando? «Il 5 ottobre, se Conte non ci avrà ascoltato, scenderà in campo la Milizia Rooseveltiana», annuncia Magaldi. «Le nostre idee devono camminare sulle baionette (nonviolente) della nostra capacità rivoluzionaria, pacifica e gandhiana, che però si esercita in piazza».«Occorre mobilitare sempre più persone, in modo costante e veemente, che gridino il loro “basta”. Persone accigliate, severe. Persone che non hanno più voglia di ridere, perché c’è poco da ridere. Questo è un momento gravissimo, per le sorti dell’umanità e del popolo italiano». Non è più tempo di blog e video su YouTube, di manifestazioni innocue e velleitarie, di analisi acute e controcorrente. «Il punto vero è che poi, queste cose, devono diventano azione (nonviolenta), perché solo nell’azione ci si unisce, e si diventa popolo sovrano». L’azione vera – scandisce Magaldi – è quella di chi dice, «di fronte al potere, al popolo e a quei giornalisti che hanno ancora la schiena diritta», quali sono le cose che si potrebbero fare in uno, due o tre mesi. «La soluzione, oggi, non è nell’infinita analisi e nell’infinito racconto: arriva un momento, che è quello dell’azione». Per inciso: mezzo mondo sta osservando l’Italia, che finora a subito ogni imposizione ma sta cominciando ad agitarsi. Gli Stati Generali a settembre? Brutta storia: per Conte e Colao finirà malissimo, profetizza Magaldi. A una condizione: che a scendere in campo, finalmente, siano gli italiani. Non bastano, le élite democratiche: serve il popolo, per rivoluzionare la governance. Per chi non l’avesse ancora capito: la sgangherata Italia è l’epicentro di questo terremoto mondiale.E bravo “Giuseppi”: non lo sa che gli Stati Generali portano male a chi li convoca, specie se non è esattamente in buona fede? Nel 1789, in Francia, condussero velocemente alla Presa della Bastiglia: oggi il piccolo capo di questo Governo della Paura vuol proprio fare, il prossimo settembre, la stessa fine di Luigi XVI? «Anche noi lo aspetteremo al varco: ma anziché il 14 luglio, anniversario dell’inizio della Rivoluzione Francese, gli daremo tempo per meditare sull’ultimatum che riceverà entro una decina di giorni. Gliene chiederemo conto il 20 settembre, ricorrenza della Breccia di Porta Pia. E se non saremo stati ascoltati, scenderemo in piazza il 5 ottobre: data che ricorda la Marcia delle Donne, quando anche le cittadine francesi nel fatidico 1789 fecero rotta sulla reggia di Versailles per reclamare i loro diritti». Gioca con le date, Gioele Magaldi: ma il titolo del gioco è inequivocabile, si chiama rivoluzione. «Grandi cose accadranno, in questi mesi, dietro le quinte del potere: ci saranno botte da orbi, grazie alle manovre intraprese dalla massoneria progressista». Ma la notizia è un’altra: «Nessuna rivoluzione ha mai avuto successo, senza il determinante contributo del popolo».
-
Idlib, catastrofe profughi: terroristi Nato, l’ultima vergogna
La parola vergogna probabilmente non basta, per descrivere il martirio della popolazione siriana aggredita dalle milizie terroristiche jihadiste, protette sottobanco dalle forze Nato con l’appoggio di Israele. L’ultimo atto – l’invasione dei profughi, spinti da Erdogan verso l’Ue attraverso la frontiera greca – qualifica anche l’epilogo della crisi, cominciata nel 2011 con un unico obiettivo: far cadere il governo sovrano di Bashar Assad, alleato della Russia e schierato dalla parte dei palestinesi, contro l’apartheid inflitto ai non-ebrei dal regime di Tel Aviv. Se all’inizio dei disordini le manifestazioni antigovernative in Siria avevano assunto la ben nota fisionomia delle rivoluzioni colorate (abbondanti manipolazioni anche violente, alle spalle di frange genuine di protesta spontanea), in breve tempo i manovratori hanno gettato la maschera: i “ribelli siriani” altro non erano che la galassia mercenaria del terrorismo sunnita (Al Qaeda, Isis), alimentata invariabilmente dall’intelligence di paesi come gli Usa, la Francia e la Gran Bretagna, insieme a potenze locali come la Turchia, l’Arabia Saudita e Israele.Culmine della falsificazione: i ripetuti tentativi di addossare al governo siriano la responsabilità delle stragi condotte con gas nervini (responsabilità regolarmente smentita dall’Onu, nel silenzio imbarazzato dei media occidentali che si erano affrettati a incolpare Assad). Il tentativo di far crollare Damasco e smembrare la Siria (a nord, la Turchia avrebbe invaso l’odiato Kurdistan, mentre Israele nel frattempo s’è appropriato del Golan) è stato sventato soltanto dal risoluto intervento militare della Russia, a partire dalla fine del 2015. In pochi mesi, le forze russe – insieme alle milizie libanesi di Hezbollah e ai Pasdaran iraniani guidati da Qasem Soleimani – hanno permesso all’esercito di Damasco di liberare gran parte del paese, scacciando l’incubo del terrore jihadista. Il successo russo (militare, diplomatico e geopolitico) ha messo a nudo le responsabilità dell’Occidente nella spaventosa campagna terroristica organizzata in Siria. Una vittoria imperdonabile, costata probabilmente la vita allo stesso Soleimani, assassinato a tradimento da Trump all’inizio del 2020.Ultimo atto: la sanguinosa farsa messa in scena da Erdogan, che finge di tutelare il confine turco al solo scopo – schierando l’esercito attorno a Idlib – di impedire il consolidarsi della presenza curda. Vari osservatori indipendenti calcolano che a Idlib siano asserragliati non meno di 30.000 terroristi, che fronteggiano l’esercito siriano sotto la protezione diretta delle forze di Ankara, formalmente inquadrate nella Nato. Altro dettaglio: i terroristi protetti dalla Nato hanno tenuto sequestrata la popolazione di Idlib, facendosene scudo. E ora, di fronte all’avanzata siriana supportata dall’aviazione di Mosca, la Turchia non trova di meglio che dare il massimo risalto all’esodo dei profughi, rovesciandoli sulla Grecia, mentre – ancora una volta – il mainstream occidentale tenta di incolpare la Siria, che invece sta cercando di riappropriarsi del proprio territorio e sfrattare i terroristi. Improbabile che la verità emerga, sui grandi media: impossibile accusare gli Stati Uniti, che solo qualche anno fa mandavano in Siria il senatore John McCain a coordinare i tagliagole del “califfo” Al-Baghdadi.La parola vergogna probabilmente non basta, per descrivere il martirio della popolazione siriana aggredita dalle milizie terroristiche jihadiste, protette sottobanco dalle forze Nato con l’appoggio di Israele. L’ultimo atto – l’invasione dei profughi, spinti da Erdogan verso l’Ue attraverso la frontiera greca – qualifica anche l’epilogo della crisi, cominciata nel 2011 con un unico obiettivo: far cadere il governo sovrano di Bashar Assad, alleato della Russia e schierato dalla parte dei palestinesi, contro l’apartheid inflitto ai non-ebrei dal regime di Tel Aviv. Se all’inizio dei disordini le manifestazioni antigovernative in Siria avevano assunto la ben nota fisionomia delle rivoluzioni colorate (abbondanti manipolazioni anche violente, alle spalle di frange genuine di protesta spontanea), in breve tempo i manovratori hanno gettato la maschera: i “ribelli siriani” altro non erano che la galassia mercenaria del terrorismo sunnita (Al Qaeda, Isis), alimentata invariabilmente dall’intelligence di paesi come gli Usa, la Francia e la Gran Bretagna, insieme a potenze regionali: Turchia, Arabia Saudita e Israele.
-
Perché l’Occidente terrorista non sa tollerare l’Iran sovrano
Notte del 3 gennaio, Baghdad. Nei pressi dell’aeroporto si trova un convoglio di veicoli che trasporta soldati delle guardie della rivoluzione iraniana e del comitato di mobilitazione popolare iracheno. Stanno discutendo della situazione pericolosa in cui si ritrova il paese, caduto in un vortice di instabilità pilotata che rischia di esplodere in una guerra civile. Il 2019 era iniziato con l’apparire di tensioni fra sunniti e sciiti, e fra gli stessi sciiti, divisi nell’atteggiamento da tenere nei confronti dell’Iran, ritenuto, sì, il salvatore della patria, per il ruolo fondamentale nella sconfitta dello Stato Islamico del defunto califfo Abu Bakr al-Baghdadi, ma al tempo stesso considerato una potenziale fonte di pericolo per via delle sue mire egemoniche regionali. La plurisecolare tensione sunnita-sciita è stata sfruttata magistralmente dagli Stati Uniti per incrementare il livello di violenza delle proteste, che gradualmente hanno condotto ad un vero e proprio arresto civile che ha fatto ripiombare l’incubo della guerra civile sul paese. I piani dell’amministrazione Trump si incontrano e scontrano con quelli di Benjamin Netanyahu, che è intenzionato ad estendere la lotta all’Iran fino ai suoi confini.Arriva l’estate ed iniziano le operazioni chirurgiche in Iraq da parte dell’aviazione israeliana: è la prima volta che Tel Aviv estende il raggio d’azione al di fuori di Libano e Siria, una mossa altamente rischiosa. Gli aerei e i droni colpiscono basi militari, depositi di armi, neutralizzano figure chiave della resistenza irachena o del ramo locale di Hezbollah. L’intervento israeliano agisce in senso contrario a quello statunitense: la divisione interconfessionale cala di intensità, si compatta il fronte antiamericano, aumentano gli attacchi contro obiettivi statunitensi. Poi, il 31 dicembre, la svolta: un gruppo agguerrito di manifestanti circonda l’ambasciata statunitense di Baghdad, viene appiccato il fuoco. È una ritorsione per i raid statunitensi ed israeliani, sempre più frequenti e violenti, che nel periodo natalizio hanno lasciato a terra più di 30 uomini, per la maggior parte appartenenti all’Hezbollah locale e ai comitati di resistenza popolare. Il presidente Donald Trump accusa l’Iran di essere dietro l’assalto all’ambasciata e promette vendetta: il 2 gennaio firma il mandato d’uccisione di Qasem Soleimani, il più capace ed influente stratega militare al servizio di Teheran.La notte del 3 gennaio, in quel convoglio, si trova proprio Soleimani. Vengono lanciati dei missili, esplodono i veicoli, muoiono sette persone: il generale, il leader del comitato di mobilitazione popolare ed altri militari iraniani ed iracheni. Per anni si è vociferato che Soleimani fosse un “intoccabile”, protetto da un patto sottobanco siglato fra Russia e Iran. Indiscrezioni che sembrano trovare conferma in un fatto: le frequenti visite di Netanyahu e di esponenti della difesa israeliana a Mosca durante l’anno scorso. Sembra che il primo ministro israeliano volesse semaforo verde, perché ha fatto della guerra all’Iran il punto focale della sua intera agenda estera, ma che gli fosse stato negato. In questo contesto si inquadrebbero anche le schermaglie che da mesi dividono Israele e Russia: l’arresto di cittadini israeliani in Russia, condannati a pene detentive pesantissime rispetto ai reati commessi, i raid israeliani in Siria nonostante i moniti del Cremlino, la decisione russa di supportare l’economia iraniana attraverso l’Unione Economica Eurasiatica, la collaborazione nel nucleare civile e la recentissima esercitazione navale con la Cina.La linea rossa, però, alla fine è stata oltrepassata: protetto o meno da un “lodo Moro” in salsa asiatica, Soleimani è stato ucciso. La campagna di propaganda da parte della rete sovranista, a cui si è unito anche Matteo Salvini, è già iniziata: era un terrorista, una minaccia per la pace mondiale, un pericolo comparabile a Osama bin Laden e Al-Baghdadi, una ritorsione dovuta. Ciò che sfugge a giornalisti, politici ed analisti, veri o presunti tali, è che la neutralizzazione di Soleimani potrebbe essere benissimo, e giustamente, considerata come una dichiarazione di guerra. Non è stato ucciso un terrorista od un paramilitare, ma un soldato, un esponente di primo piano di forze armate regolari. È il diritto internazionale a parlare: se l’Iran volesse, potrebbe dichiarare guerra agli Stati Uniti perché vittima di un’aggressione ed esposto continuamente ad ingerenze nei propri affari interni. Ma il mondo è dominato dalla realpolitik: l’Iran non ha i mezzi per sostenere una guerra contro gli Stati Uniti, e neanche ha un’alleanza o dei partner su cui fare affidamento. Il casus belli c’è, ma l’Iran è consapevole che, alla luce della situazione economica interna e della presenza capillare di quinte colonne entro i propri confini, andrebbe incontro alla capitolazione o, comunque, ad uno scenario Afghanistan: guerra permanente, paese distrutto.Ciò che accadrà, con molta probabilità, è che la guerra a distanza fra l’asse Washington-Tel Aviv-Riyad e Teheran salga di livello: maggiore insurgenza a Gaza, maggiore ricorso ad Hezbollah in Libano, attentati contro obiettivi americani o israeliani all’estero – riportando lo scontro ai livelli degli anni ’90, quando Buenos Aires fu insanguinata da due attentati contro la comunità ebraica – maggiori pressioni su casa Sa’ud dallo Yemen e schermaglie nel Golfo Persico. Ciascuna di queste mosse, però, sarà al tempo stesso controbilanciata da reazioni sempre più sproporzionate, perché l’obiettivo degli Stati Uniti – non di Trump – è di spingere l’Iran al passo falso che potrebbe legittimare un intervento stile Iraq. Non ci sarà tregua finché il regime rivoluzionario khomeinista continuerà a guidare il paese, perché l’Iran è una di quelle nazioni che sono vittime della cosiddetta “maledizione della geografia” e perciò destinate ad un “contenimento infinito”.È strategicamente incardinato fra Medio Oriente, Asia centrale e meridionale, un punto di connessione fra le civiltà turcica, indiana, cinese ed islamica, è ricco di risorse naturali strategiche, come gas e petrolio, perciò non può essere consentito ad alcuna forza politica ideologicamente anti-imperialista ed anti-occidentale di monopolizzare il potere. Non è un caso che la storia contemporanea iraniana, dall’arrivo dei britannici ad oggi, sia intrisa di ingerenze straniere, rivoluzioni false e colpi di Stato. Ma l’approfondimento sarebbe incompleto senza una descrizione di Soleimani, che da ieri è dipinto come un terrorista e che perciò merita di essere difeso dalla campagna propagandistica in corso. Proveniente da una famiglia di umili origini, aveva scalato i gradi dell’esercito mostrando le proprie abilità sul campo, durante la guerra con l’Iraq, giungendo a ricoprire la prestigiosa carica di comandante della brigata Gerusalemme delle guardie della rivoluzione.Gli fu data l’importante responsabilità di guidare l’offensiva dell’Iran contro lo Stato Islamico in Iraq, all’apice della sua espansione, una missione che portò con successo a compimento, diventando un’icona popolare non solo in Iran, ma in tutto il mondo islamico. Soleimani, infatti, era apprezzatissimo anche fra gli oppositori anti-khomeinisti. Con la sua morte, l’Iran perde il suo stratega più abile e carismatico e l’asse della resistenza, con annesso il sogno di un corridoio sciita da Teheran a Beirut, si ritira bruscamente. La sua morte servirà a due scopi: spingere l’Iran a commettere un gesto eclatante, che possa giustificare un intervento militare, o a portarlo sul tavolo delle trattative per riscrivere l’accordo sul nucleare. Una cosa è certa: il Nuovo grande gioco per l’egemonia sull’Eurasia è entrato in una nuova fase e questa morte spettacolare, emblematicamente avvenuta ad inizio anno, simboleggia la direzione che prenderanno le relazioni internazionali nella nuova decade in cui siamo appena entrati.(Emanuel Pierobon, “Soleimani è morto, viva Soleimani”, da “L’Intellettuale Dissidente” del 4 gennaio 2020).Notte del 3 gennaio, Baghdad. Nei pressi dell’aeroporto si trova un convoglio di veicoli che trasporta soldati delle guardie della rivoluzione iraniana e del comitato di mobilitazione popolare iracheno. Stanno discutendo della situazione pericolosa in cui si ritrova il paese, caduto in un vortice di instabilità pilotata che rischia di esplodere in una guerra civile. Il 2019 era iniziato con l’apparire di tensioni fra sunniti e sciiti, e fra gli stessi sciiti, divisi nell’atteggiamento da tenere nei confronti dell’Iran, ritenuto, sì, il salvatore della patria, per il ruolo fondamentale nella sconfitta dello Stato Islamico del defunto califfo Abu Bakr al-Baghdadi, ma al tempo stesso considerato una potenziale fonte di pericolo per via delle sue mire egemoniche regionali. La plurisecolare tensione sunnita-sciita è stata sfruttata magistralmente dagli Stati Uniti per incrementare il livello di violenza delle proteste, che gradualmente hanno condotto ad un vero e proprio arresto civile che ha fatto ripiombare l’incubo della guerra civile sul paese. I piani dell’amministrazione Trump si incontrano e scontrano con quelli di Benjamin Netanyahu, che è intenzionato ad estendere la lotta all’Iran fino ai suoi confini.
-
Capodanno, sventata strage in Russia. Putin: grazie, Trump
In un comunicato stampa ufficiale, Vladimir Putin ha ringraziato Donald Trump e l’agenzia di sicurezza federale degli Usa per una soffiata che ha permesso di sventare una serie di attentati terroristici. «Gli attacchi, che si sarebbero dovuti compiere nella città baltica di San Pietroburgo, avrebbero dovuto interessare più punti della città», scrive Andrea Massardo su “InsideOver”, l’inserto geopolitico del “Giornale”. La notizia: «L’intervento dell’unità investigativa americana ha permesso alle forze dell’ordine russe di intervenire in tempo per evitare il compiersi degli attentati». Nell’azione, aggiunge Massardo, sarebbero stati coinvolti due cittadini russi con l’intenzione di colpire l’antica capitale degli Zar durante le celebrazioni del capodanno, col rischio di coinvolgere un numero molto alto di persone. «Nonostante il clima teso che interessa le due nazioni per le questioni riguardanti il gasdotto del Mar Baltico e la difficile situazione di guerra civile che interessa l’Ucraina – sottolinea Massardo – i due leader sono stati in grado di tenere in piedi le comunicazioni necessarie per gestire al meglio la crisi». Fattore, questo, molto importante «nell’evidenziare come, in situazioni esterne alle logiche economiche e politiche internazionali, i due paesi siano in grado di cooperare nonostante le difficoltà nella gestione della politica estera e nonostante le due linee di pensiero spesso agli antipodi».La notizia potrebbe rivelare retroscena anche più clamorosi, a proposito della “sovragestione” occulta del cosiddetto neoterrorismo, di marca Isis, sostanzialmente pilotato da settori deviati dell’intelligence. Lo sostiene il simbologo Gianfranco Carpeoro, massone e avvocato di lungo corso (vero nome, Pecoraro), nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, che denuncia la regia “supermassonica” di spezzoni dei servizi segreti che avrebbero orchestrato i più sanguinosi attentati europei degli ultimi anni, a cominciare da quelli messi a segno in Francia (Charlie Hebdo, Bataclan, Nizza). «Vedo un ritorno di quel tipo di terrorismo», aveva detto Carpeoro un mese fa nella sua video-chat su YouTube, con Fabio Frabetti di “Border Nights”, dopo il riaffiorare dei nuovi segnali di violenza, per iniziativa di “kamizake” in apparenza isolati. «Temo siano il preludio di una escalation, verso un attentato stragistico di grandi proporzioni», era stata la previsione dell’avvocato. Quello appena sventato in Russia – per capodanno, addirittura – sarebbe dunque potuto essere il maxi-attentato così precisamente paventato da Carpeoro, anche sulla base di informazioni provenienti dal network massonico internazionale? E in questo caso: che significato rivestirebbe la tempestiva collaborazione tra il massone Trump e il massone Putin? E’ noto infatti che entrambi i presidenti militano in superlogge sovranazionali, in costante contatto tra loro al di là dei protocolli della politica estera.«Non è la prima volta che, grazie alla collaborazione americana viene sventato un attentato in Russia», ricorda comunque Massardo sul quotidiano diretto da Sallusti: «Due anni fa la stessa città di San Pietroburgo sarebbe stata il bersaglio di un altro attacco, questa volta alla cattedrale di Kazan». Anche in quel caso, spiega il reporter, l’intervento di Washington aveva permesso di anticipare i dinamitardi, permettendone la cattura prima che il gesto fosse stato portato a compimento. E anche in quella situazione, «i ringraziamenti di Putin per il presidente americano Trump e per i servizi investigativi d’oltreoceano non erano mancati, evidenziando come la collaborazione internazionale sia pietra fondante della lotta ai terrorismi internazionali». Attenzione: com’è gli Usa sono stati in grado di sventare attentati, dimostrando di conoscere le intenzioni degli attentatori? La risposta è nella domanda: come ha ricordato il presidente siriano Bahar Assad nell’intervista concessa a Monica Maggioni (e poi non trasmessa dalla Rai), le milizie terroristiche attive per anni in Siria erano state reclutate, finanziate, armate e addestrate da apparati militari Nato. Una celebre foto immortala il senatore John McCain, inviato speciale di Obama in Medio Oriente, a colloquio in Siria con Abu Bakr Al-Baghdadi, il capo dell’Isis che ora gli Usa hanno dichiarato di aver ucciso (senza mostrarne le prove, come già per Osama Bin Laden).La Russia è naturalmente nel mirino dei gestori del terrorismo, dopo l’intervento militare in Siria che ha salvato il governo di Assad e liberato il paese, invaso dalle milizie jihadiste. Evidente che gli sponsor clandestini dell’Isis – Turchia in testa, ma anche Francia e Gran Bretagna – hanno cambiato politica, cessando di garantire il proprio appoggio ai terroristi, peraltro (secondo molti osservatori) “assistiti” in modo discreto anche da paesi come Israele e Arabia Saudita, tutti alleati degli Usa. Con Trump, la musica è cambiata: il presidente succeduto a Obama ha sostanzialmente smilitarizzato l’area, lasciando campo libero al Cremlino. Potrebbe quindi essere una semplice conseguenza, dunque, la collaborazione con Mosca anche sul piano della lotta al terrorismo: con Trump, la Casa Bianca avrebbe “staccato la spina” a quei settori del cosidetto Deep State (Cia, Pentagono) sospettati di condurre sottobanco una sorta di strategia della tensione, con l’utilizzo spregiudicato di cellule terroristiche che agiscono dietro il paravento del fanatismo islamista. Che la Russia resti comunque un obiettivo dell’eversione lo dimostrerebbe anche il recente attentato-kamikaze compiuto da uno sparatore solitario, che ha aperto il fuoco nel palazzo dei servizi segreti a Mosca: l’antipasto dell’escalation sventata a San Pietroburgo?Come già sottolineato due anni fa, scrive ancora Massardo sul “Giornale”, anche stavolta Putin ha tenuto a precisare come il legame che unisce le unità investigative russe e americane nelle questioni di sicurezza internazionale e lotta al terrorismo sia rodata ed efficiente, per il merito di entrambe le fazioni. L’avvicinamento dimostrato dall’ennesimo scampato pericolo, secondo il giornalista, potrebbe persino riaprire il dialogo tra i due colossi mondiali, attualmente ai ferri corti non solo riguardo all’Ucraina, ma anche al Medio Oriente, con differenti alleati e tentativi di inserirsi nelle aree sotto influenza rivale. «Nonostante al momento tali contatti si siano limitati alle unità investigative dei due paesi e ai rapporti tra i due presidenti – aggiunge Massardo – non è escluso che nuovi canali di comunicazione vengano aperti nel prossimo futuro». Ragione in più per concludere che il neoterrorismo sia uno strumento squisitamente politico, anche se inconfessabile: a seminare strage si può anche inviare uno squilibrato, alterato da droghe o da tecniche di condizionamento mentale, ma alle sue spalle agisce una sapiente regia, che ne protegge le mosse. Non è un caso che tutti i terroristi in azione sul suolo europeo in questi anni siano stati immediatamente uccisi, prima che i magistrati potessero interrogarli. L’aiuto americano a San Pietroburgo vuol forse dire, dunque, che il vertice del massimo potere ha finalmente messo fuori gioco gli insospettabili impresari, altolocati, del più efferato e cinico stragismo “false flag”, compiuto sotto falsa bandiera?In un comunicato stampa ufficiale, Vladimir Putin ha ringraziato Donald Trump e l’agenzia di sicurezza federale degli Usa per una soffiata che ha permesso di sventare una serie di attentati terroristici. «Gli attacchi, che si sarebbero dovuti compiere nella città baltica di San Pietroburgo, avrebbero dovuto interessare più punti della città», scrive Andrea Massardo su “InsideOver“, l’inserto geopolitico del “Giornale”. La notizia: «L’intervento dell’unità investigativa americana ha permesso alle forze dell’ordine russe di intervenire in tempo per evitare il compiersi degli attentati». Nell’azione, aggiunge Massardo, sarebbero stati coinvolti due cittadini russi con l’intenzione di colpire l’antica capitale degli Zar durante le celebrazioni del capodanno, col rischio di coinvolgere un numero molto alto di persone. «Nonostante il clima teso che interessa le due nazioni per le questioni riguardanti il gasdotto del Mar Baltico e la difficile situazione di guerra civile che interessa l’Ucraina – sottolinea Massardo – i due leader sono stati in grado di tenere in piedi le comunicazioni necessarie per gestire al meglio la crisi». Fattore, questo, molto importante «nell’evidenziare come, in situazioni esterne alle logiche economiche e politiche internazionali, i due paesi siano in grado di cooperare nonostante le difficoltà nella gestione della politica estera e nonostante le due linee di pensiero spesso agli antipodi».
-
ControTv, in diretta: Chiesa e Mazzucco aggirano YouTube
Attenti a quei due: da anni sfidano il mainstream, smontando le sue leggende, e non hanno ancora smesso di impensierire il Grande Fratello. Tant’è vero che, non appena la nuova iniziativa è finita su una pagina Facebook con oltre 40.000 contatti, la segnalazione è stata trasmessa in automatico solo a 9.000 follower. Già si annusano guai in vista, ipotizza Massimo Mazzucco, titolare della pagina stranamente “filtrata”: il mitico algoritmo di Zuckerberg sospetta che il suo nome, unito a quello di Giulietto Chiesa, possa essere sinonimo di grane? Del resto, quello è il sistema che dispensa sonni tranquilli al cittadino, magari invitandolo a rifugiarsi nel politically correct come nel caso del polverone attorno alla commissione Liliana Segre. Sacrosanto condannare chi insulta i reduci della Shoah, beninteso: purché questo poi non venga usato per silenziare chiunque la pensi diversamente, sui temi più disparati. «Vale anche per il revisionismo: un conto è oltraggiare i reduci, un altro è avere idee differenti sulla storia. Proibirle non è forse contrario alla libertà di parola tutelata dalla Costituzione?». E poi: «Perché la versione ufficiale dovrebbe essere obbligatoria solo per la Shoah, di cui si stabilisce il numero di vittime senza mai interrogarsi sulle vere cause del nazismo e sui sostenitori occulti di Hitler?». A quel punto, dice Mazzucco, si emani una verità ufficiale su ogni altro tema, e buonanotte a tutti.
-
La Russia: curiosa, “l’ennesima” uccisione di Al-Baghdadi
Sicuri che fosse proprio Abu Bakr Al-Baghdadi, il “cane” terrorista morto in Siria nella notte tra il 26 e il 27 ottobre sotto i colpi del raid statunitense? Se lo domanda su “Asia Times” un reporter come Pepe Escobar, che sospetta si tratti dell’ennesimo spettacolo teatrale offerto dagli Usa, come l’ipotetica eliminazione di Osama Bin Laden, “giustiziato” il 2 maggio 2011 ad Abbottabad in Paskistan senza che al pubblico sia stata mostrato uno straccio di prova dell’accaduto. Idem in questo caso: come per Bin Laden, i resti del capo dell’Isis sarebbero stati prontamente “dispersi in mare”. Secondo fonti siriane – scrive Escobar, in un articolo tradotto da “Come Don Chisciotte” – una voce diffusa a Idlib riferisce che il terrorista ucciso a Barisha «potrebbe essere Abu Mohammad Salama, il leader di Haras al-Din», un sottogruppo minore di “Al-Nusra”, cioè “Al-Qaeda in Siria”. L’isis (Daesh) ha comunque già nominato un successore: Abdullah Qardash, alias Hajji Abdullah al-Afari, anch’egli iracheno ed ex ufficiale dell’esercito di Saddam Hussein. A non convincere Escobar è la spettacolarizzazione della pretesa fine del capo dello Stato Islamico: «È morto come un cane», si è affrettato a proclamare Trump, brandendone lo scalpo come «l’ultimo, vittorioso trofeo della sua politica estera, prima della rielezione del 2020».Secondo Escobar, la “sceneggiatura” è già stata scritta: il terrorista super-codardo intrappolato in un tunnel senza uscita, otto elicotteri che gli volteggiano sopra la testa, cani che abbaiano nell’oscurità, tre bambini terrorizzati presi come ostaggi. Poi il “codardo” fa esplodere il suo giubbotto imbottito di tritolo, il tunnel crolla e seppellisce anche i bambini. A seguire: una squadra forense preleva i campioni di Dna del Califfo e svolge il suo lavoro a tempo di record. I resti umani, poi sigillati in sacchetti di plastica, confermano: è Al-Baghdadi. Missione compiuta: partono i titoli di coda. «Tutto ciò – scrive Escobar – è accaduto in un complesso a 300 metri dal villaggio di Barisha, a Idlib, nel nord-ovest della Siria, a soli 5 chilometri dal confine tra Siria e Turchia». Il complesso «non esiste più: è stato completamente distrutto, per non farlo diventare un santuario (siriano) di un iracheno rinnegato». Secondo la ricostruzione, il Califfo era già in fuga. A quanto riferisce l’intelligence turca, era arrivato in quella remota contrada solo 48 ore prima del raid. Domanda: cosa ci faceva, l’ipotetico fuggiasco, in una sacca che l’esercito siriano e le forze aeree russe stanno solo aspettando il momento giusto per estinguere?A Idlib, sottolinea Escobar, non c’è praticamente traccia di jihadisti dell’Isis. L’area invece pullula di appartenenti alla formazione Hayat Tahrir al-Sham, precedentemente nota come Jabhat al-Nusra, cioè “Al-Qaeda in Siria”. Tagliagole presentati in Occidente «come “i ribelli moderati”, tra cui le irriducibili brigate turkmene, precedentemente armate dall’intelligence turca». L’unica spiegazione razionale, continua Escobar, è che il Califfo abbia considerato questa zona retrostante Idlib (nei pressi di Barisha e lontana dalla zona di guerra) una via di fuga ideale e poco conosciuta per filarsela in Turchia. E i russi? Sapevano quanto stava accadendo? «La trama si infittisce – annota Escobar – quando esaminiamo la lunga lista dei “ringraziamenti” di Trump per il successo del raid. La Russia è nominata per prima, seguita dalla Siria (presumibilmente i curdi siriani, non Damasco), poi Turchia e Iraq». Il comandante dei curdi siriani, Mazloum Abdi, ha preferito definire il raid «un’operazione storica», resa possibile da un indispensabile input dell’intelligence curdo-siriana. Nella conferenza stampa di Trump, nel corso dei ringraziamenti, la Russia è ritornata al primo posto: con Mosca «grande collaborazione». Davvero? E allora perché il Cremlino ha parlato della “ennesima” uccisione di Al-Baghdadi?Tramite il generale Igor Konashenkov, scrive Escobar, il ministero della difesa russo ha infatti dichiarato di non disporre di «informazioni affidabili su truppe statunitensi che abbiano condotto un’operazione per – testualmente – “l’ennesima” eliminazione dell’ex leader del Daesh, Abu Bakr al-Baghdadi, nella parte controllata dalla Turchia della zona di de-escalation di Idlib». Di più: «Non sappiamo nulla – aggiunge Mosca – di assistenza al volo a velivoli statunitensi nello spazio aereo della zona di de-escalation di Idlib nel corso di questa operazione». Come dire: può essere accaduto di tutto, a nostra insaputa (anche un’esecuzione solo immaginaria, destinata ai media). Secondo gli 007 iracheni, l’ipotetica soffiata sulla presenza del Califfo era arrivata «da un siriano che aveva portato le mogli di due dei fratelli di Baghdadi, Ahmad e Jumah, a Idlib attraverso la Turchia».In nessun modo, sottolinea Escobar, le forze speciali statunitensi avrebbero potuto fare una cosa del genere «senza complesse e coordinate informazioni di parte curda, turca, irachena e siriana», quindi anche con la supervisione o almeno il permesso di Mosca, padrona dei cieli siriani dalla fine del 2016. In ogni caso, aggiunge il reporter, con la notizia della fine del Califfo «il presidente Erdogan realizza un altro capolavoro tattico, facendo la parte del rispettoso, importante alleato della Nato, mentre permette ai resti di Al-Qaeda di rimanere al sicuro a Idlib, sotto lo sguardo attento dell’esercito turco». Sempre secondo Escobar, «esiste una forte possibilità che Isis-Daesh e una miriade di sottogruppi e di varianti di “Al-Qaeda in Siria” possano ora ricongiungersi, dopo la loro separazione nel 2014». Aggiunge il giornalista: «Non vi è alcuna spiegazione plausibile su come Abu Bakr al-Baghdadi abbia per anni potuto godere della libertà di spostarsi avanti e indietro tra Siria e Iraq, eludendo sempre le formidabili capacità di sorveglianza del governo degli Stati Uniti».Una possibile spiegazione la suggerisce Gioele Magaldi, autore del saggio “Massoni” (Chiarelettere, 2014): come già lo stesso Bin Laden, Al-Baghdadi (massone) è stato affiliato alla superloggia terrorista “Hathor Pentalpha”, guidata dai Bush. Missione: terremotare il pianeta (stragi, attentati, guerre) per imporre un’agenda sicuritaria (leggi speciali, Patriot Act) e intanto lucrare su armamenti e ricostruzioni post-belliche. Il capo di Al-Qaeda e quello dell’Isis? Due supermassoni occulti, incaricati di scatenare il terrore. Difficile che poi vengano lasciati morire “come cani”, una volta completato il “lavoro”. Ma, al di là delle ricostruzioni contraddittorie e solo in parte attendibili della loro fine, molto mediatica, secondo Magaldi la sostanza è politica: se prima Obama e poi Trump ne annunciano la morte, significa che non ne sentiremo parlare più. Traduzione: l’opzione politica del terrore (Al-Qaeda, Isis) finisce in archivio. Fino a quando? E’ vero che con l’Isis “resuscitò” Al-Qaeda dopo la presunta morte di Bin Laden. Ma ora, scommette Magaldi, è davvero improbabile che un terzo mostro terrorista pilotato dall’Occidente si affacci sulla scena. Motivo? La struttura di potere che partorì i primi due non sarebbe più in grado di replicare lo spettacolo.Sicuri che fosse proprio Abu Bakr Al-Baghdadi, il “cane” terrorista morto in Siria nella notte tra il 26 e il 27 ottobre sotto i colpi del raid statunitense? Se lo domanda su “Asia Times” un reporter come Pepe Escobar, che sospetta si tratti dell’ennesimo spettacolo teatrale offerto dagli Usa, come l’ipotetica eliminazione di Osama Bin Laden, “giustiziato” il 2 maggio 2011 ad Abbottabad in Paskistan senza che al pubblico sia stata mostrato uno straccio di prova dell’accaduto. Idem in questo caso: come per Bin Laden, i resti del capo dell’Isis sarebbero stati prontamente “dispersi in mare”. Secondo fonti siriane – scrive Escobar, in un articolo tradotto da “Come Don Chisciotte” – una voce diffusa a Idlib riferisce che il terrorista ucciso a Barisha «potrebbe essere Abu Mohammad Salama, il leader di Haras al-Din», un sottogruppo minore di “Al-Nusra”, cioè “Al-Qaeda in Siria”. L’isis (Daesh) ha comunque già nominato un successore: Abdullah Qardash, alias Hajji Abdullah al-Afari, anch’egli iracheno ed ex ufficiale dell’esercito di Saddam Hussein. A non convincere Escobar è la spettacolarizzazione della pretesa fine del capo dello Stato Islamico: «È morto come un cane», si è affrettato a proclamare Trump, brandendone lo scalpo come «l’ultimo, vittorioso trofeo della sua politica estera, prima della rielezione del 2020».