L’inferno di Gaza: ora Israele fa i conti con la verità
Con una buona dose di coraggio, lentamente, il tribunale militare israeliano sta esaminando i fatti e i crimini compiuti durante l’operazione Cast Lead, Piombo Fuso, che tra dicembre 2008 e gennaio 2009 ha portato alla morte di millequattrocento palestinesi della Striscia di Gaza – in maggior parte civili – e di tredici soldati dell’esercito israeliano (Idf). La lista dei rinviati a giudizio, delle confessioni spontanee e dei destinatari di provvedimenti disciplinari è destinata ad allungarsi. Al momento sono stati aperti sette fascicoli a carico di altrettanti soldati colpevoli di aver commesso dei crimini di guerra nel corso dell’attacco sferrato nella Striscia di Gaza durato 22 giorni.
L’obiettivo dell’Idf era lo smantellamento di Hamas, fermare il lancio delle migliaia di razzi che colpivano le città israeliane confinanti. Il risultato, invece, è stato drammaticamente lontano dalle intenzioni del governo e dei vertici militari israeliani: non solo Hamas ne è uscita rafforzata, ma l’“uso sproporzionato della forza” è stato condannato dalla comunità internazionale (quasi nella sua interezza) scioccata per l’elevato numero di morti civili e una potenza di fuoco spregiudicata a trecentosessanta gradi.
L’opinione pubblica israeliana appare disorientata: se fino pochi mesi fa, il rapporto stilato dalla Commissione d’inchiesta Onu guidata dal giurista sudafricano ebreo Richard Goldstone aveva creato indignazione e rabbia per le conclusioni a cui giungeva, adesso c’è chi si chiede se in fondo non ci fosse un seme di verità tra le righe che accusavano Hamas, ma soprattutto l’esercito israeliano, di essersi macchiato ripetutamente di crimini di guerra.
Nell’ultima imputazione formulata dalla procura, un soldato israeliano è stato accusato di aver aperto deliberatamente il fuoco contro una gruppo di civili palestinesi usciti allo scoperto sventolando bandiera bianca, il segno della resa. In quell’occasione, il soldato uccise una madre e una figlia.
In altri casi che il tribunale militare sta ora valutando, i soldati avrebbero usato i civili palestinesi – bambini compresi – come scudi umani per muoversi nel centro urbano di Gaza City o, ancora, i comandanti militari nulla avrebbero fatto per evitare il bombardamento di una moschea o di abitazioni civili. Una delle inchieste più difficili da affrontare ha come oggetto il massacro della famiglia Samouni. Secondo la ricostruzione degli investigatori e dei testimoni, i soldati dell’Idf ammassarono gli oltre cento membri della famiglia in un edificio che fu successivamente bombardato. Trenta membri della famiglia Samouni rimasero uccisi in quell’episodio.
Il governo israeliano ci tiene a dire che lo svolgimento di queste indagini non sono frutto di una marcia indietro sulla critica valutazione espressa sul rapporto Goldstone, ma preferisce sottolineare la serietà delle indagini interne. Quale che siano metodo e intenzioni, i gruppi civili israeliani che hanno denunciato da subito le atrocità dell’operazione Piombo Fuso stanno gustando la propria rivincita morale. Esulta Yehuda Shaul, il fondatore di “Breaking the Silence”, un gruppo di soldati che espresse disappunto per lo svolgimento delle operazioni, che dice: «Fino a sei mesi fa, quando noi denunciavamo questi fatti, si negava che tutto ciò fosse mai accaduto. Ma adesso ci stanno dando ragione». Ed è una rivincita anche per l’organizzazione per i diritti umani “B’Tselem” che fu accusata dall’opinione pubblica di tradimento e che oggi, invece, incassa il ringraziamento dello staff militare per la collaborazione prestata.
(Nicola Sessa, “Israele, i conti con la verità”, da “PeaceReporter”, www.peacereporter.net).