Noi, vittime quotidiane della Guerra dell’11 Settembre
Giulietto Chiesa la chiamò “la guerra infinita”, titolando un bestseller italiano all’indomani dell’attacco alle Torri Gemelle. Dieci anni dopo, un giornalista del “Guardian”, Jason Burke, la ribattezza in modo analogo e ancora più esplicito: la Guerra dell’11 Settembre. Cominciata a Manhattan e proseguita nel resto del mondo: sia in teatri finiti sotto i riflettori dei media, come l’Iraq e l’Afghanistan e ora la Libia, sia in latitudini meno frequentate dai reporter e delle loro narrazioni “embedded”, dai deserti del Sudan alle montagne del Tagikistan, dal mare delle Seychelles alle foreste indonesiane. Il conto delle vittime è spaventoso, ma rivela l’identità degli sconfitti: tutti noi, regolarmente all’oscuro dei piani.
«Prima di iniziare il calcolo dei costi, in termini economici e di vite umane perse, delle guerre dell’ultimo decennio», annota Nicola Sessa su “PeaceReporter”, l’editorialista del “Guardian” si sforza di dare un nome alla serie di conflitti a catena scaturiti dall’attacco al World Trade Center dell’11 settembre 2001. «Nessuno dei combattenti della battaglia di Waterloo», argomenta Burke, «era consapevole che Waterloo sarebbe stata associata alla fine di Napoleone, né tantomeno i soldati impegnati nella battaglia di Castillon del 1453 potevano immaginare che l’ultimo colpo sferrato agli inglesi avrebbe chiuso la Guerra dei Cent’anni e spianato la strada al Rinascimento e all’epoca moderna».
Esaminando i conflitti planetari in corso, tutti collegati fra loro e responsabili di un “nuovo corso mondiale”, Burke li definisce «9/11 wars», Guerre dell’11 Settembre. Oltre che sui campi principali di Baghdad e Kabul, con l’estensione della crisi al vicino Pakistan, questa guerra si combatte in scenari come quello sudanese, sulle montagne della Turchia e nei territori asiatici dell’ex Unione Sovietica. «Altri scenari preesistenti all’11 Settembre, come in Algeria o in Libano, in Arabia Saudita, Yemen o Indonesia, hanno preso le connotazioni di quel tipo di guerra, contrapponendo gli ideali occidentali agli inesauribili eserciti di al-Qaeda». Ma chi sta vincendo? «Burke non vede un vincitore», spiega Sessa: «Al Qaeda, tutto sommato, non ha raggiunto nessuno degli obiettivi che si era preposto. Non una rivolta totale dei musulmani contro l’occidente oppressore, né la creazione di nuovi califfati. E soprattutto, il diverso approccio di Washington nei confronti del mondo islamico non è quello che speravano di ottenere gli uomini di Osama».
Ciò non vuol dire che l’Occidente abbia vinto, scrive ancora Burke, ma nemmeno che abbia perso. Forse, aggiunge “PeaceReporter”, i governi occidentali stanno pareggiando questa partita ma, di sicuro, i loro cittadini hanno già perso. «La forza del terrorismo consiste nel creare una paura eccessiva rispetto alle minacce concrete», afferma Burke; ma a voler guardare bene chi ha veramente guadagnato, sfruttando la situazione, sono i palazzi del potere e la grande industria della guerra e della sicurezza. Hanno avuto gioco facile per stringere la morsa: ben volentieri abbiamo accettato che il bisogno della “sicurezza” prevalesse sulla nostra libertà e sul diritto alla riservatezza, ridotti entrambi ai minimi termini.
«Abbiamo perso anche dal punto di vista economico: la spesa militare, in costante crescita, non conosce battute d’arresto, sottraendo risorse vitali ai meccanismi sociali del welfare», scrive ancora Nicola Sessa. «Si può pensare di tagliare sulle pensioni e sui sussidi, si può mortificare la sanità, l’istruzione, il mondo del lavoro. È assolutamente vietato, però, togliere un solo centesimo dai budget per guerre e armamenti, entrambi essenziali per “tenere lontano dalle nostre case e dalle nostre città i terroristi”, come ama ripetere il ministro La Russa». Eccolo, un esempio eclatante di come “la forza del terrorismo”, cioè la sproporzione fra paura e minaccia reale, possa essere utilizzata da chi ci governa «per portare avanti politiche spregiudicate a vantaggio di ristrette lobby d’affaristi e speculatori».
A pagare il prezzo più alto sono state le vittime e i loro famigliari. Ai 3.000 morti fra le macerie delle Torri seguono i 190 degli attentati di Madrid l’11 marzo 2004, i 52 di Londra l’anno seguente, le incalcolabili vittime di Falluja sepolte sotto le bombe al fosforo bianco e quelle di rappresaglie feroci come il massacro di Harditha, con 24 uomini, donne e bambini massacrati nella rappresaglia seguita all’uccisione di un sergente statunitense. Oltre 14.000 civili afghani sono stati sterminati da “bombe intelligenti”, droni imprecisi e ordigni rudimentali, facendo la stessa fine di tanti civili iracheni freddati dai “contractor” privati in azione a Baghdad, dove pure si registra la morte di almeno 1.500 mercenari. Sono 9.000 i morti che piange il Pakistan, 6.700 i soldati della coalizione, 12.000 i poliziotti iracheni, 3.000 i soldati afghani e ben 60.000 i ribelli, tra Iraq, Afghanistan e Pakistan.
Una lista sterminata ma necessariamente incompleta, come ammette lo stesso Burke, che spiega di aver calcolato le cifre al ribasso, approssimandole in modo prudente. Senza contare che, mentre il mondo sta letteralmente bruciando sotto l’effetto della “Guerra dell’11 Settembre”, la drammatica contabilità del genocidio non conosce tregua e andrebbe aggiornata quotidianamente, e senza neppure trascurare di mettere nel conto anche gli orrori di cui si è macchiato l’Occidente, sterminando “nemici” nei lager di Baghram e Abu Ghraib e collezionando torture medievali in carceri speciali come Guantanamo. «E infine – conclude Sessa – vanno aggiunte altre due vittime di questa guerra globale permanete: la dignità e la solidarietà umana». L’altra grande vittima, la verità, non viene neppure conteggiata: forse è stata gettata in mare, insieme al famoso cadavere invisibile di Osama Bin Laden.