Governare senza crescita: l’Europa non ha più soluzioni
Come si governa una società senza più crescita? Una società che verosimilmente non avrà più crescita nel senso e nella misura in cui gli economisti e i politici l’hanno intesa sino a ieri? La classe politica dirigente europea non sembra essere in grado di rispondere a questa domanda cruciale. Non lo è neppure la classe politica tedesca verso la quale in questi giorni si rivolgono tante aspettative. La cancelliera Angela Merkel è oggi il politico più in vista e più citato in Europa e in Occidente. Ma temo che sia sopravvalutata. Innanzitutto ha un ristretto spazio di manovra politica interna, dovendo fare i conti con un elettorato inquieto, ripiegato su se stesso, e con un partito che la guarda con crescente preoccupazione.
Ma la Merkel rischia di essere sopravvalutata anche a motivo della limitatezza del suo orizzonte e della sua visione politica che rimane schiettamente conservatrice, sia pure nel senso nobile della tradizionale democrazia cristiana tedesca. Come può innovare il suo orizzonte davanti al radicale mutamento del contesto economico in cui è nata, si è pensata e si è sviluppata la democrazia tedesca? Neppure il progetto originario dell’Europa tiene più, ma né la Merkel né la classe politica tedesca osano pensarne esplicitamente uno nuovo, nel quale potrebbero di fatto avere un ruolo (informale) di responsabilità maggiore che nel passato.
La cancelliera procede a piccoli passi, senza avere un grande progetto innovativo. Ragiona e agisce in modo incrementale: va avanti e poi si ritira se trova resistenza, si ostina e poi di colpo allenta la presa. Non sembra avere sposato alcuna ideologia, anche se indulge a qualche tono populista. Raccoglie sicuro consenso soltanto quando fa la voce grossa contro i partner europei troppo indebitati e inaffidabili. E’ tutta qui la sua filosofia politica? La Germania è il pilastro portante dell’Europa, senza voler sminuire il ruolo cruciale della Francia senza la quale Berlino non oserebbe muovere un dito. (Trascuriamo qui la natura singolare del rapporto storico franco-tedesco che meriterebbe una riflessione a parte, soprattutto dopo il progressivo inesorabile declassamento dell’Italia).
Ma non è chiaro se le «proposte» restrittive, fatte l’altro ieri dalla Merkel insieme con il presidente francese Sarkozy (no agli eurobond e sospensione dei fondi Ue per i Paesi che non si mettono in regola), siano da considerare misure per superare la difficile congiuntura attuale, o non siano la premessa per una innovazione politica più incisiva. L’idea di un “governo dell’economia”, affidato ad un ennesimo organismo europeo che va a complicare il già complicato labirinto istituzionale europeo, è tutt’altro che innocua. E’ un tipico gesto di decisionismo incrementale da parte degli Stati (dei due Stati più autorevoli) che spiazza di colpo l’intera costruzione istituzionale comunitaria esistente.
E’ stupefacente come l’opinione pubblica europea – dopo tanta retorica sull’Europa comune dei cittadini in occasione del Trattato dell’Unione europea di qualche anno fa – accetti con rassegnazione la nuova situazione. La dice lunga sulla disillusione europea. L’attenzione verso l’asse Parigi-Berlino (sino a ieri volentieri ironizzato come «cosiddetto asse») è carica di volta in volta di apprensione, di speranza, di diffidenza, di rassegnazione. Ma è il segno che la guida effettiva dell’Europa passa di lì, non altrove. Ma c’è anche un rovescio della medaglia che potrebbe/dovrebbe rimettere in gioco di nuovo l’intera classe politica europea. L’affanno con cui la politica dei governi cerca di tenere testa alla peggiore crisi che investe l’Occidente dal lontano ‘29 riconferma la deprimente verità che chi è arrivato al governo oggi ragiona con la testa di vent’anni fa.
Può darsi (ce lo auguriamo tutti) che la politica dei governi arresti il processo regressivo in corso. Ma non avrà la capacità di rimettere in moto una dinamica che ricrei quella “crescita”, che come una parola magica ritorna in tutte le dichiarazioni e in tutti i commenti. Ma non è sorprendente che oggi si chieda a gran voce alla politica di “produrre crescita” quando sino a ieri era invitata a non interferire nei meccanismi economici? Evidentemente l’atteso circuito virtuoso tra economia liberata e politica benevolmente assistente e socialmente compensativa è saltato. Secondo la vulgata la colpa è di un terzo intruso (mercati speculativi, finanza selvaggia). Ma non c’è bisogno di essere esperti per diffidare di questa spiegazione troppo semplice: in ogni caso dove erano negli scorsi anni la politica e i grandi istituti finanziari e bancari che avrebbero dovuto vigilare?
La crisi di oggi segnala un punto di svolta nella gestione dell’economia globale e, per quanto riguarda i sistemi socio-economici europei, apre la prospettiva di un governo di società senza più crescita misurata sui vecchi criteri. Per questo non bastano “direttorî” più o meno autorevoli, ma sono necessarie convergenze di tutti gli Stati membri con la rivisitazione di organismi e di procedure decisionali che sono create in tempi e in situazioni incomparabili con le attuali. Ma quale anello dovrà cedere per primo per rompere il circolo vizioso che impedisce il nuovo inizio?
(Gian Enrico Rusconi, “Governare senza crescita”, da “La Stampa” del 19 agosto 2011).